L'ultimo tramonto a Bangkok

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Collana LaRossa Serie BIG‐C Grandi Caratteri

La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (generalmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in particolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti). Assieme a questo libro e fino a esaurimento scorte, viene dato in omaggio un audiolibro su CD (anche di diverso titolo) che permette in particolare a persone non vedenti o con problemi di dislessia, di ascoltare il racconto contenuto anziché leggerlo. Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo.


La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice. Gli audiolibri forniti, offerti in omaggio a scopo promozionale e realizzati in collaborazione con l’Associazione Servizi Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole. www.jukebook.it www.labandadelbook.it www.0111edizioni.com


LUCA NOVELLO

L’ULTIMO TRAMONTO A BANGKOK

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www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it L’ULTIMO TRAMONTO A BANGKOK Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978‐88‐6307‐439‐0 In copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Giugno 2012 Stampato in Italia da Logo srl Borgoricco ‐ Padova


Dedicato ad Alessandra, che stava imparando a volare.



INTRODUZIONE Da qualche anno la mia vita vola su un equilibrio instabile. Fragile, molto fragile. Amo il mio lavoro, ma non quanto amo lei. Per nulla metterei la mia professione davanti alla donna che amo, come ho fatto in passato. Non voglio dire che è stato un errore: di sicuro è stata una scelta e oggi posso dire che non la rifarei. La mia vita ha preso una sterzata improvvisa, che non prevedevo. Non è la direzione che avrei voluto, ma non ho molte possibilità. Riesco a comprendere il significato degli eventi ed è un chiaro segnale che presto dovrò prendere una decisione riguardo la mia vita. E ancora una volta, è l’amore che mi guida in questo cammino. Sto per cadere in un precipizio e devo aggrapparmi a qualcosa per non precipitare. Qualcuno mi ha detto, anzi “si è scritto”, che niente è impossibile. È a questo che mi sto aggrappando. Alla speranza di vederla tornare. Mentre inizio questa storia, il mio secondo romanzo (il primo è ancora inedito), seduto a gambe incrociate sul mio letto, ho solo la sua immagine davanti a farmi compagnia. Vorrei averla in carne e ossa. Penso a lei quando scrivo. Vorrei darle la possibilità di pigiare qualche tasto di questa tastiera, per farla


partecipe del mio mondo. Spero di poterlo fare prima di terminare il libro che ho appena iniziato. A volte i miracoli accadono. Io ne sto chiedendo uno in questo momento. Molte volte mi trovo in giro per aeroporti, abituato a vedere razze diverse camminare, mangiare, dormire nelle poltrone delle sale d’attesa. A volte mi siedo vicino a uno sconosciuto, chiudo gli occhi, respiro gli odori e cerco di indovinare da dove provengono le persone che camminano davanti a me. Sento l’odore di pesce crudo e wasabi. Giappone. Apro gli occhi e vedo i minuscoli impiegati fatti con lo stampo con la valigia in mano. Annuso l’aria, percepisco l’odore di riso e ananas. Non posso sbagliare: Tailandia. Strizzo gli occhi per il fastidio. Un refolo d’aglio mi attanaglia la gola. Corea. Scuoto la testa, sento di nuovo aglio e peperoncino. Sotto, l’odore di un profumo di basso costo e sono sicuro di trovarmi davanti una filippina. A dire il vero, in questo caso, il suono della lingua mi aiuta parecchio. Un po’ lo parlo, il tagalog. È quando sento un miscuglio di spezie che vado in confusione. Con buona probabilità mi trovo di fronte a un indiano. Ma se ho il dubbio, e francamente ce l’ho quasi sempre, apro gli occhi e guardo le scarpe. Non so perché, ma gli indiani li riconosci anche dalle scarpe. Così anche quel giorno praticavo lo stesso gioco e non era diverso da altre volte. Avevo individuato indiani, giapponesi, americani, filippini; alcuni cinesi invece mi avevano dato qualche problema. Stavo per prendere l’aereo che da Hong


Kong mi portava a Bangkok. L’aereo delle quattordici, quello che poi prosegue verso Delhi. Era arrivato il momento dell’imbarco e, ordinato in fila per l’ingresso, vidi davanti a me un uomo, un europeo credo, con una ragazza molto bella, di chiara origine Tailandese. Nulla di strano, una scena frequente, soprattutto in Asia. L’uomo avrà avuto almeno trent’anni più di lei. Era vestito con gusto, come lo era la ragazza del resto, e di sicuro il suo portafoglio era ben nutrito. La squadrava come il padrone guarda il suo cane. Fu in quel momento che decisi di scrivere questo libro.



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PROLOGO Dicembre 2009 Non era la prima volta che pattinavo. Lo avevo fatto dieci anni prima. Mi preparai indossando le protezioni, sembrando un guerriero venuto dallo spazio. Un guerriero arrugginito sbarcato sulla terra. I bambini mi sfrecciavano di lato come schegge impazzite e, mentre superavano il gigante impedito che ero, zampettando come una scimmietta, si giravano e ridevano! Erano come la polvere che danza sul raggio di luce che penetra nella stanza. Puntini veloci che sembrano non avere direzione. Non ci ho messo molto prima di prendere confidenza e lasciarmi andare, senza troppa paura di farmi male. Dopo mezzora riuscivo a scivolare sui roller un po’ meno impacciato e i diavoletti che mi passavano a fianco non ridevano più. Mi guardavano e basta, in segno di approvazione. Non ero così impedito. Creature fantastiche, i bambini.


12 Sono caduto un paio di volte. Ecco perché lei aveva insistito affinché mi bardassi da guerra. Protezioni alle ginocchia, ai gomiti e ai polsi. Rifiutai il casco. Il sole scaldava e l’aria leggera muoveva le foglie degli alberi. Suonavano la musica della natura. Suonavano per noi. I colori erano il verde del prato e il rosso del sole. I profumi erano quelli dell’erba appena tagliata e della corteccia dei larici. «Ale, come devo fare per fermarmi?» Ai miei tempi i pattini erano su quattro ruote, con la gomma in punta per frenare. Quelli che mi aveva prestato lei erano con le ruote in linea, di quelli che vanno veloci e senza neppure un gommino per rallentare e fermarsi. «Dai, è semplice. Guarda. Porta avanti un piede, piegati un po’, metti di taglio quello dietro e avvicinalo a quello davanti». E si fermò. Il suo movimento era così naturale. «Facile! Per te, però.» «Dai Luca, il difficile lo hai fatto.» Mi guardava con gli occhi che ridevano. «Oh, ci provo.» Iniziai ad abbassarmi sulle gambe. Portai un braccio in avanti e aprii l’altro di lato, imitando la postura che le avevo visto fare poco prima. Seguii le istruzioni che mi aveva dato e frenai davvero. Senza cadere. Lei era a un passo da me e, anche in caso di caduta, mi avrebbe sostenuto. Ale si avvicinò e mi diede in premio un bacio. Lo faceva spesso quando ne combinavo una di buona. Poi si allontanò per fare il suo giro veloce. Io restavo ipnotizzato a guardarla. I pantaloni


13 neri aderentissimi erano come una seconda pelle e mi resi conto di quanto perfetto fosse il suo corpo. Lo sapevo già in realtà. Osservavo ogni centimetro della sua pelle quando facevamo l’amore. Qualche volta mi diceva “la smetti di guardarmi come un ebete” e poi rideva. Aveva le fossette e io le adoravo, anche quella del mento, che lei odiava tanto. Anch’io ne ho una, proprio nello stesso punto. A lei piaceva la mia ma odiava la sua. Mi diceva sempre “sarei più bella così” e si tirava la pelle verso le guance, in modo da farla scomparire. Poi rideva e diceva “Mah sì! Chi se ne frega” e mi baciava. Le due ore su pattini passarono veloci. Mi sedetti su una panchina per togliermi la corazza da guerriero dei roller. Ero sudato. Più che per lo sforzo, per la tensione e la paura di cadere. Un po’ anche per il caldo di agosto. Ale stava facendo l’ultimo giro e rideva. I capelli erano sciolti e volano al vento. Liberi. Io la osservavo e ascoltavo una canzone, “I don’t want to miss a thing”, attraverso il mio telefono, canticchiando sopra le parole di Steven Tyler degli Aerosmith. “I could stay lost in this moment forever. Well, every moment spent with you… Is a moment I treasure. I don’t wanna close my eyes, I don’t wanna fall asleep. ’Cause I’d miss you, babe, and I don’t wanna miss a thing”. Davvero non avrei voluto perdere nulla di noi. Nemmeno un minuto e arrivò vicino a me.


14 Mi guardò e disse: «Sono felice. Non sai quanto. Oggi hai iniziato a fare parte del mio mondo. Ti amo». Rimasi a bocca aperta. Mi aveva detto queste parole con una naturalezza disarmante. Era un essere divino. Era il mio angelo. Stare sui pattini, anche per chi ci sa andare bene, è una condizione instabile, dove la minima distrazione può farti cadere. Se qualcuno ti tiene la mano, è tutto più facile. E non hai paura di farti male. Non so perché ricordavo così bene quel giorno. Avevamo passato altri bei momenti, forse più intensi e passionali. Eppure ricordavo un giorno così normale. Era chiaro: non era un giorno normale. Ogni cosa era speciale con lei, anche zampettare sui roller come un cretino che faceva ridere i bambini. Lei invece diceva che andavo bene. Mentiva, lo so. Mi amava. E io di più.


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1 4 Dicembre 2009. Da qualche parte, in Italia Ero seduto sul letto, giusto sullo spigolo, in silenzio e la guardavo. Tolte le scarpe, incrociai le gambe sul materasso. Avevo una strana sensazione, di quelle che sembrano sgorgare fuori dallo stomaco direttamente, senza salire per la gola. Lei stava sotto le coperte. Restavano fuori solo gli occhi. E mi fissava con i bulbi gonfi di chi sta per piangere. «Non so cosa dirti adesso» mormorò portandosi la coperta fino al naso. «Non so cosa dirti.» «Nemmeno io. Se le cose stanno così hai ragione tu» risposi. Poi aggiunsi: «Vedi, ho sempre cercato di farti capire che le cose possono essere viste da un più angolazioni. Non per forza la tua opinione deve essere l’unica e corretta. Come la mia del resto». Non mi lasciò terminare la frase e disse: «Luca, io non mi sento amata. E mi pare di morire. Come fai a tornare dopo un viaggio e non essere felice di vedermi!». Aveva gli occhi che


16 stavano per esplodere. Anche senza guardarla lo avrei capito. La sua voce tradiva il suo stato d’animo. Probabilmente aveva pianto per ore prima che io arrivassi a casa sua. Era da un mese che stava così, sofferente per le mie mancanze. Non era molto che stavamo insieme. Non le avevo ancora fatto vedere chi ero. Anzi, mi ero totalmente nascosto. Riuscii a dire solo: «Dimmi che starai meglio senza di me. Ti prego, dimmelo». Invece di dirle quanto la amavo, la stavo spingendo a lasciarmi. Avrei dovuto dirle che lei era tutto ciò che volevo. Avrei voluto chiederle di restare al mio fianco, per sempre. Quanta paura avevo di ammettere che senza di lei non potevo farcela. Rimasi a fissarla per alcuni minuti, forse solo pochi secondi, ma mi sembrarono eterni. Vedere quelli occhi grandi, blu come il mare, profondi come il mare, bagnati come il mare, mi faceva sentire un naufrago che cercava un appiglio per non affogare e che sapeva bene che quelli erano gli ultimi istanti della sua vita. Aveva preso la sua decisione. Non serviva dicesse nulla. La sentenza era scritta sul suo viso. Era bella anche così, disperata e stravolta. Poi trovò la forza di dire queste poche parole. «Luca, sto già male adesso. Non mi sento amata. Non vedo il desiderio di me in te. Io vorrei fare tutto con te, ogni cosa. Meglio chiudere adesso perché tra un anno sarà anche peggio. Tu riesci a stare anche senza di me. Io no.»


17 Se solo avesse potuto sapere cosa provavo, in realtà. Non dissi nulla. Mi avvicinai. Presi il suo volto tra le mie mani e iniziai ad accarezzarle la fronte, portandole i capelli indietro, a liberarle il viso. Mentre facevo quel gesto, in un movimento quasi automatico, la fissavo. Stava piangendo. Cercai di sorriderle, con una smorfia piena di tristezza. Sentii gli occhi gonfiarsi e la gola che si seccava. Poi quel gorgoglio dalla pancia. Scossi la tessa, accentuando la smorfia che mi sentivo stampata sul viso. Le lacrime mi scendevano dal naso. Non volevo mi vedesse piangere. Non potevo farle anche questo. Le chiesi di nuovo: «Dimmi che senza di me starai meglio. Dimmelo, ti prego». Rimase in silenzio. Mi alzai, mi allacciai le scarpe lentissimo. Le rivolsi un ultimo sguardo, sperando mi bloccasse; mi infilai la giacca e corsi fuori, lasciando che la porta sbattesse per la fretta di andarmene. Appena fui in strada, iniziai a piangere, sempre con il naso, come se gli occhi fossero incapaci di liberare il dolore. Tirava un vento gelido, di quelli che preannunciano una nevicata inaspettata. Salii in macchina, accesi il motore e mi diressi verso la tangenziale per tornare a casa più in fretta che potevo. Dovetti fermarmi perché non riuscivo a vedere la strada. Mi tenevo la testa tra le mani, con i gomiti appoggiati sul volante. Cercavo di convincermi che era giusto così, che se le facevo del male non potevo legarla a me.


18 Avrei voluto sparire. Il telefono accesso mi ricordò che ero ancora collegato a questo mondo. “So che quando mi pentirò forse sarà troppo tardi ma perdonami perché la paura di non essere amata abbastanza mi faceva male da morire”. Lessi almeno cinque volte il suo ultimo messaggio. Mi stava davvero lasciando pur amandomi. Provai a immaginare lo sforzo e la forza che doveva aver avuto per farlo. Mi chiedeva perdono, quando ero io quello che avrebbe dovuto chiederle scusa per non averle dato ciò che meritava, per non averla fatta felice come le avevo promesso. Stavo male più per il bene che non le avevo fatto che per il dolore di essere stato piantato. Lasciai passare la notte in un dormiveglia assurdo, quasi fosse un’illusione di un incubo che si faceva ogni secondo più vero. La cercai il giorno dopo, convinto di rimediare. Convinto di avere una seconda possibilità. Non le avevo fatto vedere l’entusiasmo di cui aveva bisogno. Non le avevo fatto vedere come l’amavo. Disperato, la chiamai. Non volle vedermi. Fu solo la domenica, appena dopo pranzo, che decisi di andare da lei. Mi aveva detto che non voleva parlarne, almeno per qualche giorno. Le avevo scritto una lettera. Così non avrei parlato, ma mi avrebbe letto. Scrivevo meglio di come parlavo, questo era sicuro.


19 La sua macchina era nel parcheggio. Gli scuri erano chiusi. Mentre facevo quei pochi passi per arrivare al campanello il cuore mi ribalzava tra lo stomaco e la gola, veloce. Sapevo che se avessi premuto il campanello e lei non avesse risposto, il mondo mi sarebbe crollato addosso. E fu così. Suonai più volte. La chiamai al cellulare. Nulla, era spento e non rispondeva al campanello; non era a casa. Dov’era? La testa mi scoppiava. La gola era secca. Gli occhi si riempivano di lacrime che non uscivano. Non avevo immaginato di poter stare così male. Fino a ieri ero convinto che non mi avrebbe mai lasciato. Che avrebbe fatto solo del bene alla mia vita. Lo stomaco era chiuso, come se qualcuno lo avesse stretto in una morsa e ridotto al minimo. Lasciai la busta con quanto le avevo scritto nella buca delle lettere, sperando che la leggesse quanto prima. Quando tutto va bene, quando hai la piena certezza di essere amato, e nessun dubbio si annida nei meandri dei tuoi pensieri, perdi di vista piccoli dettagli, che dettagli non sono. Addirittura a volte hai il dubbio di amarla davvero. Se è lei che vuoi portare con te nel cammino dei giorni che ti restano al mondo. Era stato questo il mio errore. Speravo solo non fosse troppo tardi per rimediare. Non pensavo a dove potesse essere o con chi. Non era questo il problema. Piuttosto era il fatto che lei non era con me, stesa su un divano, sotto a una coperta calda, a guardare quei film d’amore che a lei piacevano tanto. Fu in quel momento che


20 riuscii a liberare le lacrime. E nello stesso istante in cui la faccia si faceva umida, con le lacrime che scendevano giù per il collo, promisi a me stesso che se lei fosse tornata prima che l’amore si fosse fatto rabbia, le avrei mostrato ogni giorno le farfalle che volavano, i colori che dipingevano la tela della mia vita, le parole che scrivevano le pagine dei miei giorni, le canzoni della colonna sonora del mio mondo. Semplicemente le avrei aperto totalmente le porte del cuore. Mi resi conto di non averlo fatto davvero fino a quel giorno. Sì, le avevo consegnato le chiavi, ma lei si aspettava che fossi io ad accompagnarla in casa. Il mio spazio, quello che io reclamavo come essenziale alla mia sopravvivenza, di colpo si fece vastissimo. E quello stesso spazio divenne il vuoto. Mi accorsi di quanto profondo fosse il precipizio della solitudine. Capire l’importanza di piccoli gesti e non darli per scontati è l’unica legge che vale in amore. Il resto, come le regole su chi è il più forte, sono solo inutili invenzioni di persone sole. Chiusi gli occhi, mentre il cuore continuava a battere così veloce che non pensavo fosse nemmeno possibile. A quanto può andare un cuore prima di scoppiare? Non lo so, ma credo che arrivai al limite. Nel buio della mia camera rividi al contrario le scene della nostra storia, come quando si preme il tasto re‐wind nei vecchi VHS. Dall’ultima conversazione, passando per il mio arrivo all’aeroporto, alla prima volta che


21 facemmo l’amore, al primo bacio fino a rallentare su quel giorno che alla festa la afferrai per un braccio e la fermai. Era bellissima quella sera. L’avevo vista altre volte in giro, ma quella sera era una dea. Aveva i capelli raccolti dietro, tenuti legati da un fiore. Era abbronzata. E aveva gli occhi blu. Non azzurri, ma blu chiaro. Santo cielo, mi ci persi dentro. Aveva un vestito bianco, leggero leggero. Era una tunica. Perché eravamo a una festa romana, un toga party ed erano tutti vestiti con la stessa veste. Io no. Io ero il gladiatore. La mia tunica era marrone, color iuta, come quella degli schiavi. La mia cintura era una corda, quella usata per tenere le tigri nell’arena. Le mie braccia erano forti, come quelle dei lottatori. Mi sento da sempre un guerriero, perché non ho mai mollato. Guardandomi, disse: «Gladiatore, io sono più forte di te». Sorrise. Mi piaceva davvero. La portai in un angolo meno affollato, mi inginocchiai, lasciai cadere la spada e lo scudo e le dissi: «Ale, va bene, hai vinto tu». Parlammo di molte cose. Di me soprattutto. Si mise a ridere. «Sei uno che la racconta bene, gladiatore.» «Non è vero. Domani potrei raccontarti ogni cosa con le stesse parole. E sai perché? Perché sono sincero.» Lo ero davvero. Lei rimase con il dubbio. La baciai. Quasi di forza. Almeno al principio. Poi si lasciò andare e fu dolce.


22 Le promisi di chiamarla il giorno dopo. Lei non mi credeva. Dovette ammettere di sbagliarsi. E pochi giorni più in là accettare l’idea che si stava innamorando dello schiavo guerriero. Io ne ero innamorato da subito. Da quando le presi il braccio e sentii la sua pelle sulla mia. Da quando deposi le armi e le dissi “Hai vinto tu”. Era a questo che mi riferivo. Avevo lasciato ogni difesa, perso nei suoi occhi blu come il mare. Ero innamorato da quel momento. Forse lo ero anche da prima... da sempre. Le parole, a volte, riecheggiano nei secoli come saette che incidono la roccia e restano eterne. Avrei dovuto dirglielo. No, avrei dovuto farglielo vedere. Ecco, sì, avrei dovuto dirglielo e farglielo vedere allo stesso tempo. E c’era solo un modo per farlo. Guardarla negli occhi e dirle semplicemente ti amo. Non lo avevo fatto prima, convinto che le mie azioni parlassero per me. Lei se ne era andata. E io ero un uomo solo. Ricco del mio tempo e del mio spazio, ma povero più di tutti. Essere schiavo dell’amore è la più grande libertà. Avrei voluto dirglielo ma il suo telefono era ancora spento. E pian piano la rabbia iniziava a muovere i primi passi dentro il mio cuore. Non volevo perderla, questo era ovvio. Lei era il mio primo pensiero al mattino e l’ultimo desiderio della sera. Lei era accanto a me in ogni momento, anche quando non c’era. Lei era quella che mi accompagnava all’aeroporto, che mi aspettava per quindici giorni; che veniva a riprendermi.


23 Il prossimo viaggio si avvicinava. La destinazione era sempre la stessa: Bangkok.


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2 Qualche settimana prima. Bangkok Il vecchio aeroporto era pronto ad accogliere il suo ultimo aereo. La modernità doveva vincere sulla storia. Il vetusto doveva lasciare posto al nuovo. Aveva accolto milioni di persone e presto, molto presto, sarebbe stato un ricordo. Un monumento dei tempi moderni inutile e abbandonato. Era stato uno dei simboli del colpo di stato, quando la monarchia assoluta lasciò il posto alla monarchia costituzionale. Era il 1932, quando il Siam, così si chiamava all’epoca, divenne Tailandia, che significa terra degli uomini liberi. Dal 1946 il Re Bhumibol Adulyadej Rama IX governava amato dal popolo, assicurando una certa stabilità politica e un buon sviluppo economico. Fu durante questo viaggio, l’ultimo al vecchio aeroporto, che vidi per la prima volta Naan. Passando per i corridoi che portavano all’immigrazione, chiusi gli occhi proprio come facevo quando giocavo a scoprire gli odori. Provai una sensazione strana, quasi di abbandono. Non


25 c’erano odori, ma solo emozioni che mi travolgevano. Immaginai quante storie potessero essere passate tra quei corridoi. Ragazze con le lacrime agli occhi che salutavano i propri amati che se ne andavano. Ragazze con il sorriso che aspettavano i loro amori arrivare. Come al solito, due direzioni, una opposta all’altra. Ero già stato a Bangkok molte altre volte. Spesso ero sceso a Pat Pong, a cercare una “bar‐girl”. Una puttana. Gli occidentali la chiamano così, suona meno crudo e li fa sentire meno sporchi. A Pat Pong si ritrovano tutti per lo stesso motivo: acquisti. Copie di marchi famosi o sesso. Sempre di acquisto si tratta. Non mi nascondo. Avevo pagato anch’io delle ragazze per passare la notte nella mia lussuosa camera d’albergo: 2.000 baht ed era tua, pronta a obbedire al tuo comando. Se poi diventavi un cliente abituale, te la cavavi con meno. Trattare il prezzo come al mercato del bestiame. Era questo che la gente faceva a Pat Pong, fosse stato per una sciarpa in seta o per una donna. Entravi nel locale, offrivi da bere. Sceglievi la tua donna e la portavi via. Oppure sceglievi una delle ragazze che ballavano in bikini sul bancone, quelle con il numero appuntato sul petto; ”liberavi” il bar ed era tua. Liberare significa pagare il compenso della serata alla padrona. Di solito devi consumare qualcosa prima. A questo dovevi aggiungere la quota per la prestazione. Insomma, non è così economica la faccenda.


26 Le ragazze Tailandesi sono molto belle. Quelle che lo sono meno, sono in grado di prepararsi in modo perfetto per sembrare bellissime. Alcune, magari fino al mese prima, erano bellissimi. Già, uomini diventati donne, grazie alla chirurgia. Se non hai l’occhio allenato ci puoi anche cascare. Attenzione alla gola, ai piedi e ai fianchi. Credo che qualcuno non si sia nemmeno accorto di avere fatto del sesso con uomo. Prima di spogliarsi entrano nel bagno, fanno la doccia, si riempiono di vasellina il buco, si mettono l’accappatoio, spengono le luci. Si avvicinano, si inginocchiano, iniziano a succhiarlo, perdi subito la testa e non ti poni nemmeno il dubbio su ciò che hai davanti. Poi si stendono, aprono le gambe e si lasciano riempire del tuo fluido. Prendono il compenso, se ne vanno. La recita è finita. Il giorno dopo racconti ai tuoi amici di esserti fatto una gnocca da paura. So con certezza di non essermi mai imbattuto in un lady‐boy. Perché? Il sesso orale aiuta a vedere i dettagli, oltre al fatto che penso di essere un ottimo osservatore. Non ero uno da rapporto occasionale. Cercavo dell’altro, un po’ di umanità e, devo ammettere, un po’ di dolcezza. Mi piaceva instaurare un rapporto con le ragazze che pagavo, convinto di poter dare qualcosa in più, di farle sentire meno miserabili, meno sporche. In due parole, meno usate. Per molte volte ho cercato di convincermi che fosse così, che io stavo dando qualcosa a loro. Poi mi sono guardato dentro e ho visto che


27 erano loro a dare qualcosa a me. Qualcosa di comprato. Non c’era differenza tra me e gli occidentali che le chiamavano bar‐ girls. L’azione era la stessa. La causa pure. La sentenza era una sola: colpevole. Nei primi viaggi non mi sentivo così. Pensavo che non ci fosse nulla di male e che, soprattutto, quella di prostituirsi era una scelta. Tutto questo fino al giorno in cui incontrai Naan. Naan era una Isan, cioè dell’etnia del nord‐est della Tailandia, la terra dell’altipiano di Khorat. Aveva gli occhi e i capelli scuri e il suo viso era allungato ma non lungo. Il collo esile ma proporzionato. Il seno era piccolo, anche se dava l’impressione che sarebbe cresciuto da lì a poco. Aveva solo sedici o diciassette anni. Ed era già una donna. La incontrai in un tempio, Wat Pho, simile a quelli che trovi lungo il fiume Mekong. C’era un silenzio sacrale e stava pregando davanti al Buddha d’oro. Il luogo era in penombra. Le candele accese erano l’unica illuminazione presente. La danza delle fiamme si rifletteva sulla superficie della statua d’orata. La ragazza teneva gli occhi chiusi e le mani giunte. Recitava una preghiera a bassa voce. Non lo avevo mai visto fare prima. Non si trattava di una preghiera vera e propria ma di quella che nel buddismo è un’analisi introspettiva delle proprie esperienze, un’investigazione della propria pratica e


28 non di una fede cieca. Rimasi alcuni minuti a fissarla, nascosto dietro una colonna per non farmi vedere. Ero incuriosito da quella giovane donna bellissima. Non era il suo corpo, perfetto, ad attirare la mia attenzione ma il calore che emanava e quel tatuaggio poco più in alto della caviglia. Lo avevo visto tante volte a Pat Pong, al “Pussy Cat”. Era il marchio di proprietà delle ragazze. Lo avevo avuto davanti agli occhi molte volte. Quando sei seduto al bancone e le ragazze ti ballano davanti, le caviglie sono all’altezza degli occhi. A vederlo in quel locale, non ci dai peso. È l’abitudine a non osservare le cose ovvie. Cosa ci faceva una prostituta in un tempio, in un atteggiamento di fede così forte? Cos’era quel calore che emanava? Dovevo scoprirlo. Non era semplice curiosità: la necessità di capire veniva da dentro, più o meno dallo stomaco. Mi sentivo avvolto, imprigionato. E non trovavo una via per scappare. Non conoscevo molto del buddismo. Io, cattolico non praticante e peccatore dalla nascita, trovavo assurdo che una prostituta potesse consegnarsi in quel modo alla fede, in un luogo consacrato. L’insegnamento di Siddharta identifica le cause delle sofferenze umane nell’attaccamento materiale che provoca le impurità mentali, come la rabbia, la malvagità, l’avidità, la gelosia e altri mali dei giorni nostri.


29 Appresi che questi mali restano nell’aria per un tempo e poi svaniscono. Imparai che i buddisti credono che le impurità non sono dannose solo per se stessi, ma per l’intera umanità. Era per questo che Naan si trovava nel tempio. Per la pratica, che avrebbe dissolto le impurità di cui si era macchiata. Per la sua religione, lo sforzo che stava compiendo per avvicinarsi al Buddha era necessario per la sua salvezza e per raggiungere quello che viene definito il risveglio. Naan aveva la speranza di compiere il risveglio in una sola vita, cosa molto rara in realtà. Spesso servono numerose reincarnazioni e quindi numerose vite per riuscirci. Quando vidi Naan nel tempio, ignoravo tutto questo. Soprattutto ignoravo di trovarmi di fronte a un essere eccezionale, predestinato dalla nascita, e inconsapevole della propria forza. Non conoscevo i dettagli della fede, di come questa religione fosse un’analisi, una elaborazione continua della propria vita, e non una collezione di regole e rituali. Compresi poi il percorso che porta alla liberazione definitiva, che passa attraverso la sofferenza, la causa e la sua cessazione.


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3 Come vuoi che vada Rimasi in quello stato, quello di un uomo che si lascia vivere per quasi due settimane. La notte mi svegliavo, girandomi nel letto e cercando la sua presenza, trovando solo il suo fantasma. Era una lotta. Avevo perso tante volte e mi ripetevo che non avrei perso per sempre. Il calendario segnava che mancavano nove giorni al Natale. Mi ero quasi convinto che fosse una dimensione normale il mio non vivere. Convinto che presto il dolore sarebbe passato e che avrei potuto andare avanti anche senza di lei. Non era servita la lettera che avevo lasciato nella cassetta della posta. “La prima volta che ti ho visto, in discoteca, avevi una maglietta bianca, con una stampa argentata e sopra un gilè nero. Avevi dei pantaloni grigi, dei “fuseaux”, e gli stivali. Avevi i capelli un po’ ricci e gli occhi blu. Al polso avevi un elastico nero e un braccialetto di filo rosso con le campanelle attaccate. Mi hai


31 chiesto “E a me? Non regali nulla?”. Io ti ho guardato e ti ho risposto “A una che me lo chiede così non darò mai niente”. Ti ho cercato quella sera. Mi sono fermato a guardati mentre ballavi, sopra il bancone del bar vicino all’ingresso. C’era Rossella, la tua amica, con me. Tu non mi calcolavi nemmeno. Ti ho rivisto qualche altra volta in piazza, ma per te ero solo un pirla. Fino al 25 luglio, quando ho trovato il coraggio di fermarti, prenderti, e farti capire che mi piacevi. Forse Rossella lo aveva già capito qualche mese prima… mi sono fatto conoscere e amare. Il giorno che tagliavi l’erba con le forbici, nel mio giardino, io ti osservavo di nascosto e sorridevo perché guardavo il mio regalo più grande. Tu. La notte, quando dormivi, io ti guardavo e ti ascoltavo mentre russavi. Ti davo dei baci leggeri per non svegliarti. Ti guardavo e non avevo mai visto qualcosa di così perfetto. Con te mi sentivo salvo, al sicuro. Ti abbracciavo e dormivo con te. Poi ho perso la mia strada… Quand’eri sveglia, di giorno e di sera, spesso avevo paura di farmi vedere così. Così innamorato. Avevo paura che potessi spaventarti della mia sensibilità. Avevo paura di darti tutto da subito per evitare di soffrire come mi è successo in passato. E invece eccomi qui, che soffro proprio come volevo evitare. Certe storie iniziano bene, per mesi, poi vanno male e finiscono dopo anni. Altre storie nascono e crescono piano, attraverso incomprensioni e difficoltà, poi iniziano a correre e vanno avanti una vita. Per tutta la vita. Ho sbagliato e fatto degli errori. Lo rimpiangerò per tutti i giorni che mi restano da vivere. Io non so


32 cosa sarà di noi, oggi che mi hai lasciato; so solo che se potessi tornare indietro, al primo giorno che ti ho incontrato e tu mi chiedessi “E a me? Non regali nulla?”, io ti guarderei negli occhi, ti prenderei le mani e ti direi “Tutto amore… ti regalo tutto, Ale, piccola”. Forse è tardi e non mi sarà concessa una possibilità per rimediare e mostrarti che posso farti stare ogni giorno come quando mi dicevi “Tu mi rendi felice”. Non mi nasconderei più dietro al mio spazio, perché nella tua assenza è solo vuoto. Vorrei davvero essere l’uomo che ti rende felice, ogni giorno. Ma so anche che se ti amo, e ti amo davvero, se quello che vuoi è andare, io devo lasciarti libera, nonostante vorrei stare tutta la vita con te, ogni giorno. Il mio regalo di Natale era di chiederti di venire a vivere con me, così che avresti potuto vedere come sono e che ho lo stesso bisogno che tu hai di me. A gennaio ti avrei portato in viaggio con me. Sarebbe stata la prima volta che lo facevo in vita mia. Era una maniera, pensavo la migliore, per eliminare per sempre lo spazio che qualche volta ci separava. Volevo farti capire che se dovevo scegliere tra il mio lavoro e te, io avrei scelto te. Non mi resta che chiedere scusa se ti ho fatto del male. Probabilmente è poca cosa il dolore che provo io di fronte a ciò che hai sofferto per le mie mancanze, per la mia paura. E se, oggi, la tua è la stessa paura di stare male, non fare lo stesso errore che ho commesso io e torna a prenderti il tutto che ho da dare e che ti avevo nascosto. Se invece vuoi andare, se è questo che ti rende felice, allora ti lascio libera. Perché ti amo.


33 Luca” «Come va oggi?» mi chiese Alberto. Mi chiamava spesso, anche quando le cose andavano bene. «Non va male. La gola a volte è un po’ secca e la bocca impastata, ma non va male» dissi, pensando a quel venerdì maledetto. «Dai che sei in ripresa amico mio.» «Credo di sì, mi manca tanto. Certi errori si pagano» dissi. Avrei voluto crederci davvero. «Che errori, Luca?» «Ho evitato di scoprirmi, di farmi vedere per quello che sono. Le ho nascosto tutto l’amore di cui lei aveva bisogno per paura che mi lasciasse, come hanno fatto le altre. Dovevo aprirmi e farle vedere come amo» aggiunsi, con la voce ferma. Mi stupii di come potessi parlare in quel modo senza tradire il dolore che continuavo a sentire dentro. Qualche volta, di notte, mi svegliavo ancora e avevo delle fitte allo stomaco. Mi dovevo piegare su me stesso per attenuare la sofferenza. L’amore non era ancora diventato rabbia. Avevo provato a immaginarla con un altro, cercando di capire se fosse più semplice dimenticarla. Non aveva funzionato. Avevo provato a immaginarmi con un’altra, sperando di illudermi che fosse possibile. Nemmeno questo aveva funzionato. Provai a non pensarci, a far finta che tutto fosse stato un’illusione. Come dire, che fosse solo stata una prova di come sarà. Un assaggio


34 di cosa volesse dire amare fino in fondo. Potevo ingannare la mia mente ma non il mio cuore. Non più almeno. Non più. Salutai Alberto e chiusi il telefono. Era meglio rimanere spento per un po’ e staccarmi dalla vita. Il giorno dopo, e quello dopo ancora, e ancora uno, passarono nello stesso identico modo. Mi scrisse Andrea, tanto per sapere come stavo. Mi chiamò anche Filippo, con la stessa intenzione. Avevo dei buoni amici. No, dei grandi amici. Dei fratelli. Decisi di pensare di più al mio lavoro. Lo stavo trascurando. La mia è una professione difficile. Compro pietre. Sono uno di quelli che vedete nei film, con la pinzetta e il lentino sull’occhio. Le guardo, le valuto. E le compro per poi rivenderle tramite l’azienda da cui dipendo. Qualche volta devo andare ad Anversa, per i diamanti; altre volte a Bangkok, per tutte le pietre di colore. Non è un lavoro semplice. Come si dice, ci vuole occhio. Buffo sentirlo dire da uno come me, che ha cinque gradi di miopia. Spesso ti sfruttano fino all’esaurimento e, quando non servi più o sei diventato di qualche centesimo più caro, ti liquidano. Lo avevo visto fare altre volte ed ero consapevole del rischio. Per questo già da un anno avevo iniziato a mettere da parte, in modo clandestino, quella che sarebbe stata la mia buona uscita, quella che tanti chiamano liquidazione. È facile recuperare dei carati gratuiti con le pesate quando compri grammi, tanti grammi di pietre. Era tutto lecito, accordi taciti con i fornitori.


35 Un giorno il mio magazzino segreto mi avrebbe aiutato a fare qualcosa di importante o semplicemente a mantenermi in caso di necessità. Non era un vero furto. Diciamo che era una approssimazione dei pesi per difetto. La differenza rimaneva a me. Da qualche giorno avevo ripreso a fare lo stesso sogno. Mi vedevo vecchio, in riva al mare, davanti a una tela vuota. Intorno c’erano dei bambini che ridevano e correvano. Poi mi giravo verso la pineta. Vedevo una casa. Alla finestra c’era qualcuno che sorrideva e mi guardava. E quando stavo per vedere chi fosse, mi svegliavo. Non riuscivo a dare spiegazione a questo sogno. Negli ultimi mesi mi era capitato di farlo tre o quattro volte. In passato era già successo, anche se non con la stessa frequenza. Il Natale era passato e con esso la speranza di ritrovare la donna che tanto amavo. Se ne era andata, delusa e piena di dolore per le mie paure. Spaventata di dover fare una scelta importante. Non era abituata a tornare su suoi passi. Io ero ancora più orgoglioso e non era mai successo che avessi ripreso qualcuno che mi aveva fatto soffrire. Ero però convinto che se mai questa evenienza si fosse verificata, sarebbe stata la prima volta per entrambi. Lo so, eravamo due persone forti e di sicuro potevamo cavarcela benissimo da soli nelle nostre vite. Ma io avevo visto, avevo assaggiato la nostra vita insieme e avevo scelto noi.


36

4 Pat Pong. Lo stesso giorno del pomeriggio al tempio Le mie ricerche dovevano partire da Pat Pong, questo era ovvio. Il quartiere si trova tra Silom e Surawong Road, ed è il cuore dei divertimenti notturni, leciti e illeciti. Sembra impossibile, ma l’unico quartiere che i tassisti capiscono alla prima richiesta è proprio questo. Se vuoi andare a Bang‐Na lo devi chiedere almeno quattro volte. Se hai bisogno di arrivare a Gemmopolis lo devi chiedere invece dalle tre alle cinque volte. Se chiedi di Pat Pong allora non devi nemmeno finire la frase. Ti guardano e ridono. Pat Pong prendeva vita dopo le sette di sera, quando iniziava il mercato della contraffazione e dei tarocchi. Soldi che passavano veloci da una mano all’altra, tra turisti provenienti da ogni parte del mondo e i mercanti locali. A quell’ora della sera le strade sono già buie e migliaia di luci e insegne dei sexy‐pub si accendono.


37 In mezzo alla via c’era il mercatino delle copie, affollatissimo di turisti in cerca dell’affare. Musica sparata a tutto volume dai venditori di CD mescolata agli odori di cibo provenienti dai carretti parcheggiati lungo il marciapiede. Ai fianchi della strada invece si trovano i locali a luci rosse. All’ingresso donne, o ex‐uomini, bellissime sorridono e ti invitano ad assaporare il leggendario massaggio thai e una notte d’amore indimenticabile. Chiedi e ti sarà dato. Tutto, sempre, al giusto prezzo. Tranne i baci. Tra copie degli stilisti più famosi del mondo e sesso di ogni tipo, c’è qualcuno che vende le statuette di legno del Buddha, promettendo il paradiso, incurante dell’inferno in cui si trova. Qualcuno ti avvicina e ti prende sotto al braccio e inizia a parlarti in un inglese incomprensibile. Le ragazze camminano per strada, ti sorridono proponendoti un’ora d’amore o un massaggio “speciale”. Oltre che dalle donne venivi avvicinato da qualche garzone dei locali dei piani superiori. “Din‐din” dicevano. “Din‐din” cioè sesso. Ti mostrano un foglio di carta con le posizioni del kamasutra. Mi viene da ridere se penso che qualcuno si fa convincere dai quei tipi. Mi chiedo ancora come uno con i denti d’oro possa essere un buon venditore. I venditori di “din‐din” hanno quasi sempre i denti d’oro. Devono guadagnare parecchio. Forse più delle stesse ragazze che mettono in vendita.


38 Pat Pong è il cuore della prostituzione a Bangkok, la città degli angeli. È illegale da sempre. Nel vecchio Siam le prostitute vivevano in poche città, ai margini della società, considerate un rifiuto dell’umanità. Fu con la Guerra del Vietnam e con l’arrivo degli americani che la prostituzione crebbe a dismisura, impregnandosi nella cultura dei più giovani. Le ragazze erano reclutate nei villaggi, con la promessa di ricevere una educazione scolastica migliore e di avere la possibilità di un buon lavoro. Era così che iniziavano. Erano state il passatempo delle truppe americane e quando l’esercito tornò in patria, l’offerta del sesso cambiò. Non più solo donne iniziate alla professione di prostitute da giovanissime ma anche bambini offerti in pasto alla perversione degli occidentali che arrivavano nella Città degli Angeli consumando sesso e droghe di ogni genere. Oltre che dalle campagne del Nord del paese, i bambini venivano portati a Bangkok dal Laos, dalla Birmania e dalla Cambogia. Era la disperazione e la fame delle famiglie che portava a vendere i loro figli. Questo era Pat Pong. Nonostante la legge vietasse i rapporti sessuali ai minori di diciotto anni e punisse i trasgressori con condanne fino a sei anni di carcere, qui, a Pat Pong come a Nanà, tutto era lecito. C’era un locale che mi piaceva. Si chiamava “X”. Un bar come tanti a prima vista. Musica “giusta”, quella che arriva dall’Europa, belle ragazze, vestite, non nude. Luci soffuse.


39 Abbastanza buio ma non tetro. Sembrava quasi di frequentare un posto normale. Offrire da bere liberamente. E poi il solito prezzo. Almeno così era meno schifoso. Ho “caricato” qualche tipa all’X. Qualche è probabilmente una definizione vaga e riduttiva. Diciamo un numero considerevole di tipe. Un bel po’ di tempo fa, però. L’X è solo uno dei locali. Ce ne sono a dozzine lungo la strada. Lo stile è quasi sempre lo stesso, la domanda pure, come l’offerta del resto. C’è un locale, il Tiger, che offre esclusivamente lady‐boy. Sesso a metà strada tra uomo e donna. A molti sembra impossibile ma la richiesta è altissima. I clienti sono per lo più persone sui cinquanta, benestanti, sposati, spesso con figli, in cerca di un po’ di perversione: un bel corpo, cosce lunghe e lisce, due tette, un culo e tra le gambe un pene. Non ho mai capito se piace più prenderlo o metterlo. Facile che siano entrambe le cose. Sono gli stessi uomini che quando sono a casa, tra amici, dicono che i gay fanno schifo e tutto il resto. È così che ho imparato che la Tailandia non è solo la terra degli uomini liberi ma è anche la meta turistica degli ipocriti. Da quando stavo con Ale frequentavo quel posto solo per comprare qualche copia di Luis Vuitton o di Gucci, non certo per il sesso. Quella sera mi ero spinto a Pat‐Pong in cerca di qualcos’altro. Avrei dovuto trovare il tattoo sulla caviglia. Ero sicuro di poterlo riconoscere velocemente.


40 Stavo cercando un artiglio di tigre stilizzato, il simbolo che trovi all’ingresso del Pussy Cat. Mi bastava solo entrare e iniziare a osservare, cosa cui ero abituato nel mio lavoro. Il resto era improvvisazione e astuzia. Non la vidi quella stessa sera. Feci alcune domande, ma cosa potevo chiedere? Le ragazze erano tutte belle, magre, con i capelli lisci e neri. L’aspetto fisico non poteva aiutarmi. Non avevo un nome. Per quanto riguarda la religione, erano tutte buddiste o quasi. Tutte si recano al tempio. Forse stavo sbagliando tutto. Forse non avevo sentito nessun calore al tempio. Era solo il caldo soffocante e l’umido dell’acquazzone tipico di giugno. Eppure qualcosa mi diceva che ero nel giusto. Tornai al tempio l’indomani. La ragazza non c’era. Andai al locale la sera. Era alla porta, a fare da attrazione, a fare da invito ai turisti titubanti. Era molto bella. I capelli erano neri e lisci, luminosi come la seta. Il viso allungato era della stessa forma degli occhi. Neri anche quelli, come i capelli. Vestita solo in bikini, di colore giallo in onore al Re, faceva un effetto diverso rispetto al vestito da campagnola che indossava al tempio. Non avevo dubbi che in tre secondi potesse convincere chiunque a entrare nel bar. Poi i giochi erano fatti. Un’orda di ragazze facilissime da possedere ti avvolgevano, ti toccavano, ti eccitavano. Quasi impossibile uscire senza una compagna una volta entrati. Purtroppo lei era alla porta e dovevo essere discreto. Una domanda fuori luogo, un orecchio in più


41 allungato ad ascoltare e potevo passare un guaio. È un’organizzazione a gestire il locale e le ragazze. Quasi una mafia. Far sparire un turista troppo curioso era cosa di un attimo. Dovevo attirarla all’interno e avere qualche notizia in più. Volevo capire cosa mi stava portando su questa strada, lontano da casa mia e da Ale. Era diversa dalle altre. Ne ero sicuro. In passato avevo fatto degli errori di valutazione. Una volta mi ero quasi innamorato di una di bar‐girl. Si chiamava Kung. Avevo fatto del buon sesso per i 1.500 baht che mi aveva chiesto. Economica per la bellezza e la carrozzeria di cui era dotata. Era quasi riuscita a fregarmi. Ecco come andò. ǤǤǤ


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