In uscita il 31/3/2016 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2016 (4,99 euro)
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MATTEO BARBIERI
L’AFFARISTA
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L’AFFARISTA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-970-8 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Marzo 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! DANTE, Purgatorio, VI, 76-78
Italia, Italia / Di terra bella e uguale non ce n’è. Italia, Italia / Questa canzone io la canto a te. MINO REITANO, Italia
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PROLOGO
Piazza Maggiore taceva sul far dell’alba. La facciata di San Petronio giocava con i primi raggi di sole, mescolandosi alle sfumature calde del cielo. Dalle imponenti porte fino all’estremità della guglia il sole danzava, rifrangendosi allegro sulle pietre levigate e sulle crepe d’usura, che il tempo aveva lasciato come pegno d’amore. Piazza Maggiore taceva e piano piano prendeva colore, s’illuminava, strappandosi alla cappa d’ombra della notte passata. Ormai solo la fontana del Nettuno restava coperta, ancora restia ad aprirsi al mattino. Era un’opera immensa, raffinata e potente, malinconica e grandiosa. Se non fosse stato per gli spruzzi d’acqua che ne uscivano, quel bronzo antico avrebbe potuto essere figlio della più brillante tragedia. Di un’epica maestosa. Mi avvicinai. Ai piedi della fontana, perso in un’ammirazione profonda, stava un uomo, impeccabile nel suo cappotto Ermenegildo Zegna grigio antrace. Portava con sé solo una valigetta in pelle scura, carica di fogli, e un quotidiano, appena comprato all’edicola d’angolo. Quell’uomo era l’onorevole Antonio Sarli, siciliano di Taormina, politico astuto e raffinato, all’ennesimo giro di boa nella Città Eterna. Mi avvicinai con passo studiato, fino ad affiancarlo ai piedi del tridente. Rimanemmo in silenzio per una manciata di minuti. «La trovo bene, signor Neri.» «La ringrazio.» «Immagino che si stia chiedendo perché l’ho fatta venire qui. Fino a Bologna. Non sarebbe stato più semplice per entrambi incontrarci in un caffè romano? In effetti sì. Ma vede, l’ho fatta chiamare a Bologna per raccontarle una storia. Sempre che abbia pazienza di ascoltare.» Gli feci cenno di proseguire.
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«Molto bene. Circa due secoli fa, al centro di questa piazza sorgeva un albero. Lo chiamavano l’albero delle libertà. Era un frutto della Rivoluzione Francese che le armate napoleoniche importarono in Italia a seguito di intrighi e battaglie. A Bologna sorse la Repubblica Cispadana, come forse ricorda, e il primo atto del nuovo governo fu l’autorizzazione per erigere un grande cedro del Libano, proprio sotto San Petronio. Era una sfida alla cappa oscurantista che la Chiesa aveva disteso sulla città per anni. Ed era espressione dei sommovimenti libertari e patriottici della novella Italia. All’ombra di quell’albero si riunivano i giuristi di tutta la penisola, con carta e penna in mano, per scrivere la nuova costituzione. E la parola d’ordine era una sola: libertà. I nostri notabili si accorsero presto, però, che una simile parola non poteva fare a meno di un’altra espressione, forse più sibillina, ma sorella della prima. Potere. Ci si rendeva conto di come non fosse possibile garantire libertà e uguaglianza, diritti e fratellanza senza garantire anche le misure ferree del potere. I nostri giuristi si misero dunque all’opera per definirne le forme e salvaguardare il bene comune. «Peccato che il potere fosse una forza occulta e multiforme. Si definiva una vena per poi vederne uscire allo scoperto altre cento che prima avevi incolpevolmente ignorato. Si trattava di definire, di porre freni e contrappesi, per far sì che nessuno potesse travalicare i confini del suo incarico. Fu allora che nacque la partizione burocratica e amministrativa che oggi ci stritola. Solo allora. Per la prima volta, dopo la fine di un potere assoluto, si comprendeva come il potere fosse difficile da usare senza incappare in abusi e storture. «Libertà e potere. Non esiste libertà senza qualcuno che la garantisca e la difenda. Senza che qualcuno si assuma l’onere di usare il pugno di ferro per custodirla. In definitiva la libertà non è anarchia. Questa città se ne è accorta dopo decadi di tumulti di piazza e sommosse contadine. Urlare al socialismo e all’anarchia ha spinto la regione sull’orlo del baratro. Poi tutto è cambiato. Al sommovimento generoso della terra, al grido sincero di rivolta si è sostituito il calcolo, freddo e distaccato, la conta, la simulazione. Quando la brava gente dell’Emilia ha riconosciuto l’anarchia e i suoi padri come falsi miti, validi solo per rubar tempo a chi lavora, si è aperta la strada al comunismo. La forza che redime l’anima e riempie le tasche. «Lei non ci crederà, ma il comunismo ha sempre avuto una missione. Creare un mondo diverso, più giusto. Uomini e donne di ogni età, di ogni paese hanno dato la vita per garantire il futuro che i rossi di tutto il mondo prefiguravano come già presente. È l’invasamento, la follia che turba i cuori e
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promette grandi imprese. Lei mi dirà che è tutta una bugia. E io rispondo. Vero. Sono chiacchiere. Da bar. «Il potere ci logora, ci trascina lontano dalla verità e dalla giustizia. Quei famosi primi giuristi d’Italia se ne accorsero a proprie spese, quando vennero invitati gentilmente ad andarsene, a scrivere stramberie per un’altra città. Il potere confonde. Uomini buoni diventano belve, i più miserabili, proprio loro che si credevano santi e incorruttibili, diventano diavoli, attaccati al soldo come zecche. «Cosa crede? Che io faccia eccezione? L’ho chiamata perché voglio fare il salto di qualità, perché una poltrona in Senato comincia a starmi stretta. Voglio un ministero, voglio il governo. E lei può darmelo, così, schioccando le dita. «A un prezzo, certo. Molto salato. Forse si starà chiedendo come un poveruomo di Sicilia, di famiglia misera, possa permettersi le sue percentuali con un semplice stipendio da parlamentare. Vede, signor Neri. Le nostre schiere hanno conquistato i cuori della povera gente, degli intellettuali, dei commedianti e dei preti. Ma si sono fatte strada anche nelle banche, nelle grandi e piccole industrie, nel mercato libero e in quello dipendente, nei traffici leciti e negli scambi illeciti. Controlliamo i centri di potere e il denaro ci scorre a fiume tra le mani. Il mattone si è venduto a peso d’oro. Dove crede che siano finiti tutti quei soldi?» Calò il silenzio. «Carta bianca. Qualcuno glielo ha mai detto? Non avrà limiti, solo obiettivi. Alla fine ci stringeremo la mano da vincitori.» «Mi sta incaricando di gestire la sua campagna elettorale?» «A quella posso pensare da solo. Appaio bene in pubblico, gioviale, cortese, disponibile. I voti non saranno un problema. Ma come lei sa, a Roma non contano i voti, contano gli amici. Vantare conoscenze importanti apre strade che il voto di una manica di sciocchi non avvicina neppure. Quindi io percorrerò le piazze d’Italia, lei frequenterà i salotti. Io cucirò intese e promesse, lei seminerà discordia nella concorrenza. Alla fine resteremo solo noi. I migliori.» «Mi sta affidando un incarico come non ne ho mai accettati. Ho sempre lavorato sul breve termine, con scadenze fisse e risultati certi. Mi sta chiedendo di dividere a metà i compiti, dunque anche i risultati. La vittoria non sarà tutta mia.»
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«Così come la sconfitta.» «Certo, ma non sono sicuro di potermi fidare di lei.» «Non ci perde niente. Anzi, mi stia a sentire. Abbiamo tempo per un’altra storia. «Vede questa fontana? Ha cinquecento anni. Forse si sta chiedendo quale genio mai, quale arte abbia plasmato simili forme, simile bellezze. È semplice. Un uomo, come lei, come me. Un fiammingo. Oggi lo chiamano Giambologna. Un maestro, un fenomeno. Solo una persona speciale potrebbe lavorare il bronzo con una simile bravura. E invece no. Un pezzente, un vinto. Sa come ci è finito Giambologna a fare questa fontana? Era un giovane di belle speranze e senza un quattrino, figlio di un’epoca in cui l’arte pagava bene. Ma ci volevano i contatti giusti, oggi come allora. E cosa fece il nostro Giambologna? Si presentò a un grande concorso che il duca di Firenze, Francesco I, aveva indetto per abbellire piazza della Signoria. Una fontana, ecco cosa voleva il duca. Una grande fontana, sormontata da un’enorme gruppo scultoreo raffigurante il dio del mare e la sua corte. Perché? Perché Nettuno avrebbe rappresentato Firenze e la sua supremazia marittima sull’Italia intera. Ma torniamo al nostro giovane artista. Quello, ancora un ragazzo, si presenta con un progetto. È sicuro di farcela, pieno di belle speranze come sono sempre i giovani. Risultato? Perde, miseramente. La sua opera viene superata da quella di un artista qualunque, che oggi neppure figura sui libri di storia. Giambologna perde e cosa fa? Lascia Firenze. Arriva a Bologna, senza una lira e senza un futuro. Il caso vuole però che il suo progetto finisca nelle mani giuste. Proprio in quegli anni papa Pio IV sta promuovendo un’immensa ristrutturazione della città. Interi quartieri vengono edificati dal nulla, altri rasi al suolo per fare spazio a nuove opere d’arte. Fu il caso di questa fontana. Quando il legato pontificio, Carlo Borromeo, vede il progetto, impazzisce di gioia. Da l’ordine di abbattere un intero quartiere e di ricostruirlo altrove per lasciare spazio alla fontana. Poi chiama il Giambologna e gli affida i lavori. Carta bianca. L’unico obiettivo è quello di realizzare un capolavoro, che faccia invidia all’Italia intera. E così fu. Bologna ebbe il suo simbolo, Giambologna la sua fama. Perché da quel giorno il giovane scultore divenne uno dei più richiesti sulla piazza. Divenne famoso, Neri. E il suo cammino è partito da qui, forse proprio da queste mattonelle sopra le quali stiamo parlando. Bologna gli ha permesso di diventare una leggenda, lo ha reso immortale. Lo stesso accadrà con me e con il mio progetto. Si fidi. La storia non mente.» «Ne sono più che convinto. E noto con piacere che ha una singolare abilità nel raccontare. Ma vede, dottore, mi servono certezze. In un paio di giorni
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scioglierò ogni dubbio. Il tempo di controllare ogni aspetto della sua vita, di scomporla e ricostruirla da capo. Se reggerà alla prova lavoreremo insieme, altrimenti ognuno per la sua strada.» «Non ci metta troppo, però. Il tempo corre.» «Sono il migliore sulla piazza. Quello che altri ottengono in settimane di lavoro, io lo strappo in dieci minuti. Conosco l’uomo, come si muove. Non troverà di meglio.» «Quando è così, aspetto sue notizie.» «Fra tre giorni.» Ci stringemmo la mano.
PARTE PRIMA
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CAPITOLO 1
Stavo perdendo tempo. La donna di fronte a me continuava a ciarlare, infilando una serie impressionante di battute comuni, già sentite. Laureata in giurisprudenza, con master a Princeton, pratica in uno dei più grandi e famosi studi legali della città, a cui per altro mi ero rivolto in cerca di una collaboratrice. Scartabellai tra i fogli sparsi sulla scrivania, trovando la sua lettera di presentazione al terzo tentativo. «Mi scusi, qui la si definisce una collaboratrice valente e appassionata. Discreta, affidabile, integerrima. Dalle enormi doti mnemoniche. Addirittura, mnemoniche. E per concludere dall’ottima presenza. Le chiedo, che cosa vorrebbe dire “dall’ottima presenza”?» La donna mi guardò quasi fossi un alieno. Dovevano averla messa al corrente delle mie stranezze. Sorrise. Allungò una mano dalle unghie assai ben curate fino a sfiorare il bordo della scrivania. Dita affusolate, palmo morbido. Pelle chiara. Liscia e idratata. Forse troppi dettagli. Ma io vivo di dettagli. «Vede, dottor Neri…» Dottore. Fino a che punto sarebbe arrivata per ottenere quell’incarico? Se le avessi chiesto di camminare a quattro zampe per la stanza mi avrebbe obbedito? Dottore. Ridicolo. Non ero neppure laureato. Nessun titolo, nessun campo aveva mai assorbito il mio interesse al punto da tenermi avvinghiato per più di sei mesi. Quindi niente laurea. La ragazza doveva saperlo. Sentii che continuava a ciarlare spiegando perché la presenza fosse importante nel suo lavoro. Spiegava con un’aria da scolaretta saccente, senza però offendere mai. Il sorriso serviva a questo. Pugnalare, ma con garbo. Decisi di interromperla. «Mi perdoni. Ritengo le sue motivazioni più che valide. Abbiamo quasi finito, solo mi dica. Ha famiglia?» Mi guardò sorpresa. La lettera diceva anche questo. Che non l’avessi letta? La vidi combattere tra il desiderio di rimproverare la mia inefficienza e quel-
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la di mantenersi gentile e affabile. In fin dei conti cercava un lavoro. Optò per la gentilezza. «Ho un compagno, certo. Da quattro anni. Dovrebbe conoscerlo, lavora in città. Come capirà siamo piuttosto impegnati e non troviamo il tempo per allargarci.» Tradotto, tempo da buttare. Feci mente locale. Il compagno. Paolo Altieri. Ceo di non ricordo quale impresa nel settore edilizio. Un ottimo Ceo. Non era un caso che stessi parlando con la sua donna. «Capisco. È una scelta che approvo. Si tratta di definire delle priorità.» Allungai le dita fino a congiungerle dinanzi al volto. La osservai. «Se le chiedessi di indicarmi un principio che ritiene sempre e inequivocabilmente valido, quale sceglierebbe?» «Un principio?» «Un principio, una legge, un valore. Qualcosa di cui si fida ciecamente, senza mai dubitare. Esisterà, spero.» «Certo. La legge. Io credo nella legge, nel giusto. E nella necessità di punire chi sbaglia. La legge merita la nostra fiducia.» Rimasi in silenzio a osservarla. Consideravo che le sue erano state belle parole. Sincere, convinte. Quella ragazza credeva ancora che la legge fosse sufficiente. Ed era così. Ma quale legge? Mi sistemai meglio sulla poltrona. Potevo sentire la sua ansia crescere a ogni secondo di più, sempre più distinta. Presto sarebbe esplosa in un nuovo fiume di parole. Intervenni. «Intanto mi consenta di ringraziarla per il tempo che ha voluto concedermi. So quante pratiche ha da sbrigare il vostro studio.» La vidi schermirsi. Modestia. Un’arma efficace. «La ritengo un ottimo elemento. Valido. Sicuramente preparato e con un’eccellente esperienza sul campo. Quello che le manca è però l’intuito.» Si incupì visibilmente. Contrasse i muscoli del volto come in preda a uno spasmo. Priva di intuito? Che cosa significava quella parola? «Intendo l’arte di camminare sul filo del pregiudizio. Sapersi muovere in un mondo di rovine. Anche solo rendersi conto che abitiamo un mondo di rovine. Lei questo lo sa?» «Si tratta di filosofia?» «In parte. Sì. Ma la filosofia è una trappola. Quello che voglio dire è che lei non va oltre il modello, oltre la credenza. Se le viene fornita una verità lei si accontenta. Senza valutarla da cima a fondo, senza analisi. Crede sulla parola. E questo è profondamente sbagliato. Inutile, nocivo. Per lei e per me. Quando dico di essere in cerca di una collaboratrice intendo una figura che
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sappia accompagnarmi con tatto e diligenza. Che abbia un aspetto attraente e gentile, non potrei farne a meno. Ma io esigo che questa persona sappia leggere la realtà come la vedo io. Tutto balla, nessuna certezza. L’unica verità è il dubbio.» Era confusa. «Questo per dirle che la terrò in considerazione, ma non sarà la mia prima scelta.» Mi alzai tendendo la mano. Un gesto di cortesia necessario. La strinse debolmente e si avviò all’uscita. Priva di intuito? Avrebbe continuato a interrogarsi per molto tempo sui miei motivi. Forse mi avrebbe liquidato con un cenno sprezzante della mano, magari quella sera stessa, raccontando al compagno di quel colloquio imbarazzante. Incredibile, priva di intuito! Certo, bambina mia. Non si può nascondere al mondo quanto poco si vale. E a nulla serviranno quelle pile di carte che tanti di noi oggi usano come schermo, come specchio di virtù fasulle. Mandai un messaggio alla receptionist. Una praticante rossa che lavorava solo nei giorni pari. «Mi dica, signor Neri.» «La prossima.» Fu una giornata estenuante. Incontrai almeno una dozzina di giovani donne in carriera e il risultato fu tutt’altro che positivo. Non che fossero prive di grazia, charme o belle maniere. Anzi, la maggior parte di loro aveva ricevuto un’educazione raffinata e completa. Vere e proprie dame da compagnia, con le quali trastullarsi nei momenti di pausa tra una riunione e l’altra. Forse potevano bastare per uomini d’affari, politici, finanzieri in cerca di una segretaria capace e soprattutto disponibile. Ma io non mi accontentavo. Volevo uno spirito affine al mio. Cinico, distaccato, ma soprattutto sagace. Non trovai nessuno. Al punto che presi in considerazione l’idea di chiudere una volta per tutte quella serie grottesca di colloqui. Poi, verso le cinque del pomeriggio, quando già la luce cominciava a calare, sciupata dall’arrivo della sera, Chloe introdusse una giovane candidata. Poche parole, un’aria quasi di sufficienza. Come a volermi dire di non perderci troppo tempo. Che fuori c’erano proposte migliori. Forse fu l’atteggiamento della segretaria a smuovermi, a farmi concentrare con più attenzione su quella ragazza dal fisico minuto.
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Portava i capelli raccolti in una coda, dettaglio che solitamente mi infastidisce. Denota poca cura di sé o scarso interesse per la propria bellezza. Comunque un atteggiamento a dir poco malsano per una donna. Nel suo caso però i capelli sollevati lasciavano intravedere la curva sottile e sinuosa del collo, la pelle chiara, che quasi faceva trasparire un tessuto di vene inturgidite. Ne restava un’immagine di infinita dolcezza, che gli occhi vivaci sulle guance pallide rilanciavano per tutto il viso. Proprio nel momento in cui un raggio di sole calante scendeva a infastidirla, tingendole i capelli di un biondo cinereo. Perso a cogliere ogni dettaglio della sua persona, dalle mani piccole che muoveva continuamente nell’ansia del momento, ai fianchi stretti, fino alle ginocchia, lasciate libere dall’orlo morbido della gonna, dimenticai perché ero lì, perché la ragazza era passata a trovarmi. Il silenzio infatti durava da più di quanto fosse conveniente. Me ne vergognai non poco. Presi a cincischiare con un vecchio fermacarte, che probabilmente nessuno usava da anni. Avevo bisogno di ricompormi, di assorbire la bellezza di quella donna per evitare che mi condizionasse nel giudizio. Mi servivo lucido e impeccabile. Diedi un’occhiata in giro. L’ufficio era largo e spazioso, esposto a est così che la mattina lo inondasse di luce. Peccato che adesso fosse invaso dalle ombre lunghe delle poltrone, nascosto in un’atmosfera di calma sopportazione. Mi voltai. Fuori dall’imponente vetrata potevo scorgere Piazza Duomo, la mole riottosa della cattedrale gotica che danzava nel caldo pomeriggio di primavera. Potevo contare una a una le teste degli ultimi turisti che arrivavano da Galleria Vittorio Emanuele II, carichi di aspettativa, con le fotocamere sguainate come spade. Indugiai ancora un poco, poi ripresi il mio posto al centro della scrivania. La donna che mi trovavo di fronte poteva avere vent’anni. Poco più. Certo, sarebbe bastato controllare la lettera di presentazione che mi aveva fornito. Ancora calda dopo essere state nelle sue mani. Ma avevo preferito non farlo, un po’ per indolenza, un po’ perché avrei rovinato la partita. Mi agitai sulla Chesterfield color mogano. Non riuscivo a stare comodo. «Nome?» «Elisa Cantoni.» «Età?» «Ventidue anni.» «Laureata?»
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«Non ancora.» «Cosa intende per “non ancora”?» «La mia famiglia non ha molte possibilità. Devo pagarmi da sola gli studi e questo significa adattarmi a lavorare dove trovo. A tutte le ore. E non rimane molto tempo per studiare.» Annuii con aria contrita. Riuscivo a sentire una punta di compassione e forse qualcosa di più, in fondo al cuore. «Posso chiederle da chi ha avuto il mio nome?» Arrossì brevemente «Un’amica. Una di quelle che ha maltrattato fino a poco fa.» «Capisco, ma mi lasci fare il punto della situazione. Non ha un titolo di studio, viene da una famiglia anonima, non ha un fisico da indossatrice e neppure mi appare spigliata come la tipica donna in carriera. Come crede di poter avere questo posto?» «Provare non costa nulla. È un lavoro come un altro, no?» Mi abbandonai allo schienale della poltrona con un largo sorriso dipinto sul volto. «Un lavoro come un altro? Lei mi è simpatica, Elisa. Non so come spiegarglielo. Forse è la sua innocenza. Questo suo modo di essere diversa dalle persone che conosco. Un lavoro come un altro.» Appoggiai i gomiti sulla scrivania in cristallo. Ripresi un’aria seria e ufficiale. «Inutile negare che le mancano anche i più basilari requisiti per questo incarico. Di solito non esiterei a cacciarla via in malo modo, ma come ho già detto lei mi piace. Quindi voglio darle un’occasione. Mi stupisca Elisa, dica qualcosa che non mi aspetto, mi dimostri che si può andare oltre le regole. E il posto è suo.» Rimase in silenzio. Poi sorrise con delicatezza. «Questo non è il suo studio, vero?» «Che cosa glielo fa credere?» «Un insieme di dettagli. Innanzitutto l’arredamento non si abbina al suo vestiario. Troppo moderno, visionario il primo. Di un’eleganza formale il secondo.» «Eleganza formale?» «Ho lavorato in boutique per un anno. Sono affidabile.» La invitai a proseguire.
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«Un altro aspetto è la poltrona. Molto bella, di classe. Ma non riesce a trovare una posizione comoda. Segno che non è la sua. Ho indovinato?» «Notevole. L’attenzione ai dettagli è una dote che apprezzo molto. Soprattutto in un donna.» Tacqui per un istante. «Se farà mostra più spesso del suo intuito Elisa, non credo che incontrerà ostacoli a inserirsi nel mondo che frequento. Certe persone amano i collaboratori geniali, che si inventano magie. Ma per sapere bisogna provare. Bisogna avere l’occasione di metterla alla prova. Mi dica, signorina, ha impegni per domani mattina?» «Niente che non possa essere rinviato.» Con ogni probabilità non aveva impegni. Era solo maniera. Etichetta. E io adoravo l’etichetta, soprattutto quando era falsa. «Ottimo. Lavoreremo insieme allora. Sarà il suo primo incarico.» Si accomodò meglio sulla poltrona. «Non ha ancora risposto alla mia domanda.» «Quale?» «Lo studio. È suo?» «Ovviamente no. È di un amico. Me lo presta ogni tanto per riunioni private e incontri formali. Se togliamo la vista su Piazza Duomo non è niente di speciale. Non crede?» «Non ho frequentato molti studi nella mia carriera.» «Capisco. Abita da queste parti?» «Oh no. Periferia. Mi sposto con la metro.» «Un bel problema. Soprattutto di questi tempi. Periferia est?» «Nord, Piazza Terranova. La conosce?» «Non sono di Milano. Quando arrivo in città non mi allontano dal Duomo più di duecento metri. Sa, l’abitudine.» Convocai la receptionist. «Tutto finito, Chloe. Può mandare a casa chi rimane. Non ho bisogno di insegnarle niente. Basta dire no.» «Certo, signor Neri.» «Ah, non ho finito. Fra dieci minuti si faccia trovare all’ingresso. Accompagnerà la signorina Cantoni da Jean Paul. Deve rinnovare il suo vestiario.» «Ma io…» «Niente ma, Chloe. Parlerò personalmente con il dottor Ghislieri e nel ringraziarlo per la gentile ospitalità di oggi spenderò buone parole per lei. Solo faccia quanto le dico.» Chloe ringraziò e uscì.
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«Grazie a lei, Chloe. Bene, Elisa. Avrà capito che nel mio campo il colpo d’occhio è fondamentale. I dettagli possono salvare la vita. Ma è inutile parlarne adesso. Jean Paul le spiegherà ogni cosa.» «Lo ascolterò con attenzione.» «Ne sono certo. Passerò a prenderla domattina per le otto.» «Non è necessario. Possiamo trovarci direttamente qui o…» «Insisto. Così avrò modo di vedere il famoso hinterland milanese di cui tanto si parla.» «Allora la ringrazio per la gentilezza.» «Si figuri. Sarà un piacere. Le auguro una buona giornata.» «Anche a lei.» Si alzò con studiata calma. Forse voleva darmi il tempo di ammirarla? Indubbiamente il potenziale c’era. Con un poco di lavoro l’avrei resa una professionista. Quando si richiuse la porta alle spalle, composi un numero di telefono. Rispose al terzo squillo. «Mi dica, signor Neri.» «Devi fare delle ricerca su una persona, Pablo.» «Nessun problema.» «Elisa Cantoni. Scopri tutto quello che puoi. Parenti, amici, anche semplici conoscenze. Luoghi di lavoro e domicilio. Voglio una lista completa.» «Mi dia un giorno.» Non ci fu bisogno di aggiungere altro.
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CAPITOLO 2
Elisa Cantoni abitava nell’hinterland, dove la terra subisce la presenza grave del cemento. Non doveva essere facile la vita, laggiù. Quella distesa piatta e sterile di casermoni, uguali e tutti similmente minacciosi, garantiva un effetto più che oppressivo, sconfortante. La fantasia ne era di sicuro colpita. Eppure Elisa Cantoni stava per uscirne. Se si fosse comportata bene, se avesse giocato con cura le sue carte l’avrei portata lontano. Lontano dal cemento e dalla polvere. Avevo parcheggiato la mia Maserati Spider sul ciglio di un marciapiede, pochi passi prima della fermata dell’autobus. Divieto di sosta, lo sapevo bene. Così come sapevo che l’autobus non effettuava più la fermata da parecchie settimane. Un servizio alla televisione di qualche giorno prima ne aveva chiarito il motivo. Sembrava infatti che gli autisti si rifiutassero di fare la corsa a causa di ripetuti episodi di violenza contro di loro e contro i mezzi. Veri e propri attacchi mirati. Una piccola guerriglia urbana. Segno di un mondo al passo con i tempi. Elisa Cantoni abitava nell’enorme casermone davanti ai miei occhi. Ero in anticipo, come al solito, e mi concessi una sigaretta. Lucky Strike. Ogni tiro sibilava come un attacco alla sorte. E sfidare la sorte era ormai la mia vita. Da anni. A una decina di metri da me un uomo passeggiava con un cane di piccola taglia, ridicolo se paragonato alle dimensioni esagerate del guinzaglio. L’animale zampettava sonnacchioso tra l’erba, cercando un luogo degno di accogliere la sua urina. Avevo letto su una rivista come l’urina dei cani fosse altamente nociva per le specie vegetali perché acida. Ma del verde pubblico non importava a nessuno. L’uomo però mi guardava in tralice. La sua esperienza di salariato nelle vicine industrie metalmeccaniche mi classificava come un poco di buono. Un quarantenne in abito Ermenegildo Zegna blu notte, camicia bianca Missoni, mocassini Versace in testa di moro non prometteva bene. Considerando la Maserati Spider al suo fianco non poteva che essere uno di quei delinquenti che fanno vedere alla televisione. Che parlano, parlano, che tanto quando le cose vanno male hanno sempre una via di fuga pronta. Brutta gente.
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Quell’uomo, quella sua aria disordinata e scomposta, mi disgustavano. Non vedevo un nome, una vita, un insieme di passioni e sofferenze. Vedevo un bue da macellare, una vacca da spremere. Fino all’osso. Che se ne stesse a Milano, nelle periferie, a condurre la sua vita grama. Che fumasse pure, che si divertisse ogni tanto con una tardona. Altro non gli era concesso. A Roma, nelle vie calde e profumate della capitale c’erano uomini pronti a rappresentarlo, pronti a sfruttare i suoi diritti per battere cassa. Lavoravo nel settore da anni. E la politica era quello. Campare sui poveracci, sulla loro miseria morale. Asciugare le lacrime, regalare la soddisfazione di un’ora e camparci vent’anni. «Buongiorno.» Elisa Cantoni mi guardava con occhio serio. Vestiva un tailleur scuro Yves Saint-Laurent, camicetta rosa pesco Max Mara, décolleté Prada d’un nero vivo. Portava i capelli biondi sciolti, a formare una piega sbarazzina e la pelle levigata, d’un bianco perlaceo, appariva ancora più fresca sotto un leggero strato di trucco. «Buongiorno. È splendida.» «La ringrazio. Quel suo Jean Paul mi ha trattato come una regina.» «È il suo mestiere. Non a caso è il migliore. Prego, salga pure.» L’uomo con il cane continuava a guardarmi fisso. Lo ignorai e presi posto alla guida. Sentii il rombo fluido del motore e diedi il via. Più tardi, mentre la Spider strideva nel traffico della tangenziale, decisi di impartire la prima lezione. «È mai stata a New York?» «Un volta sola. A trovare degli amici.» «Allora sa come è organizzata la città?» «Intende la forma?» «Come è suddivisa. In che quartieri, aree, sobborghi.» «A grandi linee sì. So per esempio che il cuore pulsante è la zona finanziaria, attorno a Wall Street. Si concentra in pochi chilometri quadrati gran parte dell’economia mondiale, almeno la sua componente di vertice.» «Giusto. Un uomo d’affari che non sia mai stato a New York non può dire di conoscere il suo mestiere. Vada avanti.»
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«Ricordo poi che appena fuori l’area finanziaria sorgono i sobborghi poveri, dove vivono immigrati e manodopera a basso salario. È l’area dove si concentra il maggior numero di reati e dove nascono le comunità regionali più forti. Chinatown e Little Italy sono solo l’esempio più famoso.» «E fuori da quest’area?» «La zona residenziale. Dove trovano casa i ceti medi. Lontano dal vortice inesausto del centro, dal rumore assordante delle sirene e dei clacson.» «Lei sa tutto, Elisa. Molto bene. Che cosa può dedurre dalle osservazioni che ha appena fatto?» Rimase in silenzio per un po’. «Che gli affari sono il cuore della vita di oggi. Che tutto ruota intorno al concetto di costo e di guadagno.» «Ottimo. Cos’altro?» «Che c’è una lotta in atto. Nel mondo, nel piccolo di ogni città. C’è sempre stata ed è un modello inestinguibile. Guerra tra ricchi e poveri. Rivalità, inimicizia che diventa odio. A tratti violenza.» «Nel suo disegno di città il quartiere finanziario, dove riposa la ricchezza, è circondato dai quartieri poveri e degradati. Come in trappola. Scacco al re.» La vidi annuire. «Continui ad analizzare la metafora.» «I quartieri residenziali. Pace, quiete. Chi ha denaro, potere, fama desidera un posto al sole per goderne. E quindi le zone residenziali. Ordinate, pulite, quasi frivole.» «Molto brava, Elisa. Davvero brava. Ha capito tutto. Si tratta solo di uscire dalla metafora. Immagini un mondo come la sua New York, dove la ricchezza e il potere stanno al centro, circondati da una massa di poveri e disperati, di eroi e criminali. Chi è ricco aspira alla pace, alla serenità. Vuole godere delle proprie risorse con calma e agio. Ma la massa informe, che aumenta ogni giorno di più, minaccia i ricchi. Li incalza. Che fare? Come godere della vita senza intrusioni poco piacevoli? Semplificando, lavorando sulla realtà e piegandola ai propri gusti, alla propria volontà. Dinanzi a un problema avere chi te lo risolve. Semplificare vite complicate è il mio mestiere. L’affare della mia vita.» Rimase in silenzio. Rifletteva. «Quindi con chi lavora di preciso?» «Politici, imprenditori, dealer, prelati. Non c’è differenza tra un cliente e l’altro. Sempre uomini sono, deboli e bisognosi di aiuto, con appetiti insaziabili e spropositati sensi di colpa. L’unica costante è che hanno un problema. E chiamano me per risolverlo.»
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«Un affarista, dunque.» «Precisamente. Non avrei trovato definizione migliore.» «Dove siamo diretti?» «Banco popolare di Milano. Sede centrale. Ho fissato un appuntamento con il direttore dell’ufficio prestiti.» «Ha bisogno di aiuto?» «Lui no. Non ancora, almeno. È una questione appena più complicata. Entrare nei dettagli sarebbe inutile. Le basti sapere che al momento lavoro per un importante politico della sinistra romana. Siamo vicini alle elezioni e ha bisogno di consolidare la sua posizione.» «E qui entra in gioco lei.» «Corretto. Un lavoretto facile. Pulito. Mi limito a raccogliere attorno a lui consensi trasversali, eliminando la concorrenza.» «La destra?» «Non solo. Certo, la destra punta forte sulla vittoria. Crede che si possa vincere in scioltezza. Ma l’Italia riserva sempre grandi sorprese. Se ne accorgeranno.» Guidai per una decina di minuti nel silenzio. Volevo che Elisa avesse il tempo di realizzare chi fossi. E che cosa avrei voluto da lei. Quella era sempre la parte più difficile. Convincersi che non si faceva nulla di male. Solo si dava una spinta al mondo. Sottile e delicata. «Il suo è un lavoro ai limiti della legge.» «Dica pure al di là della legge. Se elencassi tutte le infrazioni che ho commesso negli ultimi sei mesi potremmo fare notte. E c’è qualcuno che ci aspetta. Vede, Elisa. Il punto non è infrangere o meno la legge. Il punto è farlo senza che gli altri se ne accorgano.» «Intende la polizia, immagino.» «La polizia, i servizi di sicurezza, le autorità garanti. Ovvio. Ma l’importante è che il cliente abbia la sensazione di essere protetto, di aver costruito attorno a sé un palazzo dai muri di cemento. Pronto a tutto. Dal quale può guardare il mondo con superiorità. E sentirsi a casa.» «E non si preoccupa delle conseguenze?» «Come tutti. Con la differenza che mi consolo in fretta. Ogni azione porta conseguenze. Piacevoli o meno. Chi lavora come me, sospeso, deve saper reggere le avversità. Guardando dritto davanti a sé.»
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Ci fu un nuovo momento di silenzio. Relativo, perché il traffico non scemava. Anzi, se possibile aumentava. Odiavo Milano. «Immagino di essermi spinta troppo oltre. Se adesso volessi tornare indietro sarebbe tardi. O sbaglio?» «Che cosa intende?» «Se volessi mollare.» «Elisa, lei non ha neppure cominciato. Ma è libera di andare quando vuole, se lo crede giusto.» Si abbandonò al sedile morbido dello Spider. Pensava. «Sono curiosa. La seguirò dovunque voglia portarmi. Solo non esageri.» Mi trovai a ridere di cuore. E a rassicurarla. Dopo poco anche lei si unì alla risata.
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CAPITOLO 3
La segretaria del dott. Merola ci accolse con un saluto cortese. Rossa, flessuosa, con un passato neanche troppo lontano di indossatrice. Addestrata come era a sorridere sempre, mostrava quella mattina una particolare gioia nel vedermi. Forse dipendeva dal fatto che Merola se la portasse a letto da due mesi. O forse dal profumo di soldi e potere che si respirava nell’aria e che io contribuivo ad alimentare. Quel giorno Merola avrebbe fatto fortuna. Ed eccolo, il banchiere, avvicinarsi a lunghe falcate per il corridoio in linoleum chiaro. Mi invitò a sedere nel suo ufficio con una stretta di mano vigorosa. «È un piacere, signor Neri.» «Anche per me, dottore. Il cliente non è ancora arrivato?» «Tarderà, purtroppo. Una decina di minuti. Spero non sia un problema.» Mi incupii. «La puntualità è tutto. Ha garantito la presenza?» «Certo, signor Neri. Ci mancherebbe. Lo tengo per le palle da un anno. Oggi è la sua occasione per liberarsi dalla stretta.» Annuii. Elisa taceva con aria vigile. «Ho sentito che l’onorevole Sarli salirà a Milano domani.» «Campagna elettorale.» «Comizio in Piazza Duomo?» «Anche. Ma il comizio sarà la parte meno interessante del viaggio. Qui in città ci sono parecchi uomini disposti ad aprire il portafoglio. Avere un amico a Roma spalanca molte porte.» «Troppo giusto.» Merola allargò un sorriso sornione. «Gradisce qualcosa da bere? Anche per lei, signorina. Oh, deve scusarmi. Non ci siamo neppure presentati.» Strinse la mano che Elisa gli porgeva. «Onorato. Dove l’ha trovata, Neri? È un incanto.»
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«Scouting, Merola. Si tratta di selezionare il collaboratore più adatto. Comunque gradirei mi chiamasse signor Neri, se non le dispiace.» «Certo. Mi scusi.» Avvicinò un vassoio con due bottiglie di Perrier. Non le toccai neppure e lo stesso fece Elisa. Mantenere il distacco era fondamentale. Merola se ne accorse e si buttò a capofitto nell’arte. In città stavano per inaugurare una retrospettiva dedicata a Marc Chagall. Non che a Merola importasse qualcosa del pittore francese. Era solo etichetta, un modo cortese per far passare il tempo che lo angustiava. All’ennesima battuta sulla mostra lo gelai con lo sguardo e imposi un ostentato silenzio. Sentivo la pressione delle sue arterie crescere. Merola non era più un giovanotto e l’ansia garantiva esiti fatali. Ma era il suo giorno fortunato perché in quel momento la segretaria entrò a interromperci. «Qualche problema, Vanessa?» «È arrivato il cliente che stava aspettando, dottore.» «Ottimo. Lo faccia entrare.» Il senatore Malpighi aveva un aspetto sbattuto. Veniva per direttissima da Roma dove si era appena conclusa l’assemblea elettorale del suo partito. Come esponente di spicco della destra aveva tempi ridotti e una miriade di impegni. Ma per noi aveva trovato un buco in agenda. Lo tenevamo per le palle da parecchio, dal giorno in cui era entrato in Banco Popolare per chiedere un colloquio confidenziale al direttore dell’ufficio prestiti. Merola aveva ascoltato paziente e promesso massima disponibilità. Si era iniziato con un prestito di poche migliaia di euro per arrivare a transazioni milionarie. Malpighi era un politico di prestigio, ma un imprenditore fallito. I soldi servivano a coprire le falle nelle sue aziende e a mantenere un tenore di vita consono al suo rango. Ma il tempo è denaro e Banco Popolare esigeva indietro il conto con tanto di interessi. Malpighi era rovinato. Quel giorno ero lì per salvare la sua vita. A patto che fosse disposto a collaborare. Merola aveva già iniziato le trattative. «Onorevole, i patti erano chiari. Le scadenze pure. I soldi devono tornare indietro. Entro la settimana o sarò costretto a prendere provvedimenti legali.» «Questo lo so già, dottore. L’ultima volta è stato sufficientemente chiaro. Come lo sono stato io d’altra parte. I soldi non li avevo allora e non li ho oggi. Mi sembra però che avesse parlato di un possibile accordo. E vedere qui il signor Neri, l’affarista più spietato d’Italia, sembra confermarlo.» Feci un cenno a Merola.
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«Come sempre onorevole ha capito la trama. Lasci che le spieghi. Il qui presente dottor Neri e gli interessi che rappresenta sono disposti ad anticipare parte della somma da lei dovuta. Diciamo gli interessi. Senza impegno, per pura forma di cortesia.» «E io per pura forma di cortesia cosa dovrei fare?» Merola sorrise. Toccava a me. «Sarò brutale, onorevole, spero possa perdonarmi. Non ho tutto il giorno per chiudere la trattativa.» Tacqui. «Voglio informazioni. Dossier privati che so per certo lei abbia raccolto in questi anni.» «Dossier di che genere?» «Sui suoi colleghi. Diciamo il senatore Marai e il deputato Mozzi per cominciare. Poi si vedrà.» «Mi sta chiedendo di tradire il partito?» «Non parli di tradimento, Malpighi. Come se non sapessi che lei per aprirsi la strada ha fatto anche di peggio. Molto peggio. Non siamo innocenti. Nessuno di noi lo è. Siamo uomini che coltivano un interesse. Un interesse che diventa responsabilità. Oggi le propongo un affare. Domani potrebbe non essere così fortunato.» Rimase in silenzio per un po’. «Non la faccia così grave, onorevole. Nessuno lo verrà a sapere. Siamo persone riservate. E poi mi dia retta. Ha bisogno di quei soldi. Per lei, per la sua famiglia. Ho saputo che suo figlio andrà a studiare a Londra. Città stupenda, ma costosa. Mi ascolti. Prenda i soldi che le diamo. Poi la sua vita tornerà normale.» Mi guardò con odio, come una belva ferita e in gabbia. Sentiva l’odore del sangue, voleva uccidere ma le catene la sapevano lunga. D’ora in avanti avrei avuto un nemico temibile. Ma non mi preoccupavo. Lo vidi appoggiarsi stancamente alla poltrona. Il volto contratto in una smorfia e le rughe marcate a ricoprire gli angoli degli occhi. Era stanco. «Non mi lascia molta scelta, Neri. Mi servono quei soldi. Per me, per la mia famiglia. Sa che cosa si prova tornando a casa da perdenti? Quando gli altri ci credono grandi e potenti e invincibili, mentre non siamo che uomini piccoli e senza speranza? No, lei non lo sa. Non ha famiglia, non ha mai perso.»
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Ricadde il silenzio. «Avrà i suoi dossier. Domani mattina il primo. Alle nove, in Piazza Duomo. Il secondo quando vedrò estinti gli interessi sul mio debito.» «Più che giusto. Non avrà da attendere molto.» «Quando è così, io ho finito.» L’uomo si alzò con fare militaresco e si avviò all’uscita. Ma prima ebbe il tempo di voltarsi e rivolgersi direttamente a Elisa, che fino ad allora era rimasta seduta e ignorata da tutti. «Non capisco come possa restare allo stesso tavolo di persone così spregevoli. Un tempo esistevano parole per descrivere quello che è appena avvenuto. Io le ho dimenticate. Spero che possa ricordarle lei per me, quando la sua vita, come la conosce, non ci sarà più. Allora sarà sola e saprà chi ringraziare.» Il suono dolce della porta che si richiudeva accompagnò le sue parole in una lunga eco. Merola assunse un’espressione dura. «Che maleducazione. Non ci faccia caso, signorina. È un uomo finito e se fosse per me non vedrebbe un centesimo.» «Lasci fare, dottore. È solo orgoglio. Ha bisogno di tempo per superare lo scacco. Tornerà tranquillo in un paio di giorni. Piuttosto, parliamo di noi.» Merola si mise comodo in poltrona. «Spero che l’accordo sia ancora valido.» «Certo che lo è. Ha fatto un ottimo lavoro. Non solo io ne sono rimasto sorpreso, anche i miei superiori. Al punto che hanno predisposto un’ulteriore gratifica. Che si aggiunge al già cospicuo bottino che porterà a casa di qui a poche settimane.» Lo vidi stringere gli occhi e contrarre la mascella. Aspettava la notizia. «A Palazzo Koch cercano un nuovo direttore del reparto finanze d’impresa. Un incarico difficile, oserei dire pericoloso, di questi tempi. Ma adatto al suo carattere. Perfetto per il suo carisma. E soprattutto ben pagato.» «Quanto?» «Non mi faccia parlare di cifre, dottore. Non è il mio campo. Le assicuro che sono molti soldi. E poi, me lo faccia dire, i soldi non sono tutto. Esistono incarichi di prestigio che valgono ben più di cento carte al giorno. Sbaglio?» «Certo che no. Era solo per dire. Sono più che soddisfatto.» «Ovvio che i miei clienti si aspettano un ritorno.»
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«Ci mancherebbe. È tutto pronto. Con l’onorevole Malpighi la partita è chiusa e potete stare certi che nessuno in banca verrà a fare domande. Per ogni altra richiesta io sono qui.» «Molto bene. Allora la saluto.» Strinsi la mano che Merola mi porgeva. Appena fuori dall’ufficio mi venne incontro Vanessa. Ci scambiammo un’occhiata profonda. Non c’era altro da dire. Tutto andava secondo i piani. Portai Elisa al caffè Venturi, una splendida appendice storica in un’area ai limiti della periferia. Piccolo, ma elegante. Quei luoghi dove incontri persone fidate. In un tavolo d’angolo sedeva un vecchio amico banchiere, ormai avanti negli anni. Avevamo lavorato assieme per coprire un’operazione di aggiotaggio compiuta dal suo istituto di credito. Una faccenda sporca che aveva rovinato migliaia di piccoli risparmiatori, finendo su tutti i giornali. Alla fine non era stato accertato nessun reato. Tutti assolti. Elisa volle sistemarsi al bancone. «Mi sento più tranquilla, mentre sto in piedi a bere il mio caffè. Protetta. Le sembrerà stupido, ma è così.» «Capisco perfettamente. Faccio lo stesso ogni volta che entro in un nuovo locale. Fatto che non capita spesso peraltro. È una questione di sicurezza, di territorio. Ridurre tutto all’animale potrà sembrare riduttivo, ma non così lontano dal vero come si crede. Piuttosto mi dica. Cosa ne pensa?» «Del suo lavoro?» «Certo. Mi dica la sua opinione.» «È terribile. Giocare con le persone, sfinirle per avere ciò che si vuole. Lei toglie la speranza. A parole. E questo è ancora peggio. Quell’uomo, poco fa. Quando è uscito non aveva più niente, come se tutta l’energia positiva che possedeva si fosse persa in pochi minuti di conversazione. Un mestiere del genere è un’arte che soffoca la vita.» La mia risposta venne anticipata dalle ordinazioni. Due caffè. «Quello che dice è vero. Senza dubbio. Ma l’arte, come dice lei, ogni forma d’arte, aggiungo io, merita rispetto e tolleranza. Mi creda. Le prime settimane sono sempre le più difficili.» «Le credo. Voglio continuare. Solo non mi è chiaro il ruolo che ho io nei suoi affari.»
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«Giusto, devo ancora spiegarmi. Lei sarà la mia spalla, Elisa. O se preferisce il mio asso nella manica. Sarà informata sulle trattative che conduco, sulle cifre e su tutti i retroscena. Gestirà la mia agenda, secondo quelli che ritiene gli incarichi più urgenti.» Infine mi accompagnerà in ogni luogo. Sempre presente. Dovrà incantare, appassionare, stupire. E io nel frattempo le insegnerò un mestiere tra i più difficili. Trattare con l’uomo. Senza dimenticare il suo compenso mensile. Quello è a parte.» Annuì. Aveva altro da chiedere. «E nei prossimi giorni di cosa ci occuperemo?» «Di nomi e di storie. Ascolteremo tante persone, con altre parleremo. D’affari o semplicemente di banalità. Molte volte l’importante è mostrare interesse. E i risultati vengono da sé. Quindi le deve essere chiaro un aspetto. Nel mondo di oggi i banditi non girano più armati di pistole, con abiti logori ed espressioni truci. Oggi i banditi camminano per le città in giacca e cravatta, guidano auto sportive, abitano lussuosi appartamenti nelle vie della moda e giocano con i numeri. Io faccio lo stesso. Ma i numeri non mi sono mai piaciuti. Troppo freddi. Io gioco con le persone. E mi faccio pagare. Tanto.» Allungai alla barista una banconota da dieci. Era ora di andare. «Ma i banditi avevano vite avventurose. La sua vita com’è?» La osservai con intensità fino a quando non distolse gli occhi. «La mia vita è leggera, ridotta al minimo per dare sempre il massimo. Prendo i rischi che capitano, ma amo la tranquillità. La pace dei sensi. Un giorno capirà perché.» Mi avviai verso l’uscita.
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CAPITOLO 4
Vanessa arrivò alla quarta Lucky Strike. Puntuale e piena di attenzioni. «Novità?» «Il solito. Merola si sta lasciando andare a parecchie confidenze.» «Del tipo?» «Dice che vuole dare una scalata ai vertici di Banco Popolare. Vuole la poltrona di amministratore. Da anni.» Scoppiai a ridere. «Si sopravvaluta. Non avrà niente.» «Dice che voi l’aiuterete. L’incarico alla Banca d’Italia sarà solo il trampolino di lancio.» «Fantasie. Merola è in trappola. Come lo sono tutti d’altra parte.» «Nella tua trappola?» Cominciò a slacciarmi i bottoni della camicia. «Perché no?» «Anche io?» «Dipende.» Mi infilò la lingua in bocca. Potevo sentire il sapore amarognolo del tabacco spegnersi nel languore del suoi baci. «Sono stata brava. Mi merito un premio.» «Giusto. Più che giusto.» Mi insinuai fra le pieghe del suo ventre. Lo sentivo caldo al tatto, fremente. Risalii fino alla forma morbida dei seni. Prima il destro, poi il sinistro. Con calma. La sentivo sorridere al tocco cauto delle mie dita. Poi con un gesto imperioso rimescolò le carte. Ci ritrovammo nudi, fra le coperte sparse. «Quando avrai finito con questo lavoro cosa farai?» Non mi diede il tempo di rispondere perché spinse le mie labbra sui suoi capezzoli. Presi a succhiarli con foga, mentre mi massaggiava i capelli, a tocchi sapienti e lenti.
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«Mi porterai con te, lo so. Lo sai.» Annuivo mentre le mie labbra furiose ambivano a ben altra meta. La adagiai mollemente sulla schiena, aprendole le gambe. Il sottile velo si dissolse quasi fosse magico. Non rimase che la carne, la carne nuda e profumata. Ci sprofondai come fosse un nettare dolcissimo. Rimasi immobile, con le mani sulle sue cosce calde, ansando, spingendo al punto da togliermi il respiro. Avevo raggiunto la pace, il fine ultimo di tante ore passate a giocare. Sarei rimasto per sempre. Ma Vanessa voleva di più. Cominciai piano, quasi prendessi le mosse da lunga distanza, poi aumentai il ritmo fino a esplodere colpi che il suo ventre docile accettava, piegandosi e rispondendo con grazia. Quando venne l’ora le sue mani morbide e calde m’accarezzavano ancora i capelli, un invito a fare con calma, a sentirmi sicuro. Lei sarebbe rimasta con me. Avrebbe aspettato. Mentre Vanessa dormiva come una bambina nel mio letto ricevetti la visita di Pablo. Era un uomo alto e asciutto, dal volto scarno, cinto da una folta curva di baffi. «Che cosa hai scoperto?» «Niente di anomalo. La ragazza è chi dice di essere. Elisa Cantoni, di anni 22. Niente laurea. Non si può dire che frequenti il bel mondo, ma non ha compagnie pericolose. Forse un ex-fidanzato. Tale Giorgio Pasquali, che ha avuto qualche precedente per spaccio. Ma si trattava di piccoli quantitativi. La polizia ha sempre sorvolato.» Annuii soddisfatto. L’occhio aveva visto giusto. Pablo rimase un attimo in silenzio. Quasi indugiasse prima di fare una domanda pericolosa. «Scusi se chiedo, signor Neri, ma perché la ragazza? A cosa le serve?» Lo guardai fisso per una manciata di secondi. «È molto semplice. Oggi, Pablo, il mondo è più che mai dei giovani. La vita ci scorre fra le dita a velocità incredibili, velocità che solo un cuore e una mente fresche possono seguire. Basta guardarsi intorno. Le persone che contano e che vogliono apparire si circondano di giovani, possibilmente belli, perché il binomio gioventù bellezza buca gli schermi e si apre una breccia duratura nelle coscienze. Ormai, chi ha già vissuto per metà la vita come noi, deve scegliere se accettare la nuova musica e aprirsi ai giovani o soccombere.» «È una strategia la sua?»
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«Ovvio. Elisa è una ragazza sveglia, posata e gentile, ma soprattutto bella. Doti immense che le consentirebbero di fare strada nel mondo se non fosse per una piccola pecca che nasconde nel profondo.» «Che sarebbe?» «È troppo buona, Pablo. E ingenua. Il nostro è un mondo di lupi affamati. O lo fai o ti fanno. Non c’è soluzione. Ed Elisa è destinata a scivolare, lo leggo nei suoi occhi. Io cercherò di invertire la tendenza, perché ricordati amico mio che la bontà non si può insegnare, la crudeltà e il distacco sì.» Rimanemmo in silenzio per un po’. «Poi c’è un’altra ragione. Forse più egoistica. Viaggiare con lei, lavorare al suo fianco mi mette al sicuro. Ho molti nemici, lo sappiamo entrambi, e certe situazioni cominciano a spaventarmi come non succedeva da anni. Trovarmi sempre solo davanti alle difficoltà diventa snervante. Qualcuno che possa reggere o condurre il gioco al posto mio, a cui possa appoggiarmi se voglio prendermi una pausa, fa molto comodo. Non credi?» «Senza dubbio. Se la ragazza imparerà in fretta potremo servircene seriamente.» «Perché no, Pablo? Ha del metodo, lo vedo. Ha la presenza, l’eloquio, il sorriso caldo di chi rassicura e quello freddo di chi gela. Le carte sono in regola. Servono solo il tempo e una guida che le sappia valorizzare. E quella sarei io.» «Quindi le sta insegnando?» «Faccio del mio meglio. Con un po’ di fortuna fra qualche anno sarà un’ottima affarista. Guadagnerà soldi a sacchi, avrà il rispetto e la stima di chi conta. E forse vorrà ricordarsi dell’uomo che l’ha resa grande. A me basta questo. Essere ricordato.» Pablo rifletteva in silenzio. «È una bella intenzione, lo ammetto. Positiva. Per lei e per la ragazza. Ma rischia di diventare pericolosa per entrambi. Lei si fida, signor Neri, ma non sappiamo se sia giusto o meno farlo. Quella ragazza sembra la collaboratrice ideale, ne convengo. Ma i segreti di cui si occupa, signor Neri, meritano maggiore riservatezza. Senza dimenticare che il suo lavoro è un rischio continuo. Con l’intenzione di insegnarle un mestiere potrebbe mettere a repentaglio la sua vita. E la domanda allora sarebbe: “Ne è valsa la pena?”» Toccò a me riflettere in silenzio per un po’. Decisi di rispondere.
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«Forse hai ragione, Pablo. Ma non posso smettere ora. Sono stanco, come ho già detto. Stanco del mio lavoro, stanco di questa vita. Elisa mi supporta, non posso privarmene.» «Quando è così non lo faccia. Ma si preoccupi di custodirla al meglio delle sue possibilità. Non merita che le sia fatto del male.» In quel momento Vanessa prese a lamentarsi nel sonno. Pablo mi guardò con disapprovazione. Lo ignorai. «Mi servi domani mattina in Piazza Duomo.» «Malpighi?» «Esatto. Ti consegnerà un dossier riservato.» «Il pagamento?» «Se ne occuperà Merola. Tu dovrai solo prendere il dossier e custodirlo per un paio di giorni. Il tempo di far sapere all’interessato che è nelle nostre mani.» «Niente giornali?» «Assolutamente. Saprebbe troppo di sputtanamento pre-elettorale. Il dossier dovrà rimanere segreto. Ci serve solo per spingere qualcuno a fare un passo indietro. E so già come preparare la commedia.» Pablo annuì. «E per Merola?» «Tutto tranquillo. Vanessa lo tiene d’occhio giorno e notte. Non ci sfuggirà.» «Reggerà fino alla fine?» «È corrotto da star male. Lo teniamo in pugno con poca fatica. L’unico problema ci sarebbe nel caso la pressione si facesse troppo alta.» «Potrebbe?» «Non si sa mai. Al giorno d’oggi ci sono occhi e orecchie dovunque. Basta un passo falso per ritrovarsi sulle prime pagine di tutti i giornali. Merola può vincere tanto, ma la posta in gioco è la sua stessa vita. Non ci saranno seconde occasioni.» «Forse è meglio tenerci aperta un’altra strada.» «Troppi costi e troppi rischi. Meno persone sanno di questa storia e meglio è. Poi Merola è un uomo accorto. Una volpe. E non sottovalutare la donna che ha con sé. È scaltra per essere così giovane.» «Tanto scaltra da pensare al tradimento?» «Non credo. Anche se non si può mai dire. Stanotte dorme da me, ma Merola ha un suo fascino. Condividere con lui le ore migliori della giornata può diventare motivo di tentazione.»
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«Ma lei non si scompone, come al solito. Sa che la Blanqui non ci tradirà. Vero?» «Vero, Pablo. So leggere gli occhi. Nessun rischio in vista.» Se ne andò dopo pochi minuti. Tornai in camera che Vanessa dormiva ancora. Mi accomodai ai piedi del letto, accendendo la prima Lucky Strike. Lo sbuffo di fumo si fece strada tra le coperte, ma non svegliò la ragazza. Vanessa Blanqui era nata a Parigi ventinove anni prima. Avevo chiesto a Pablo di indagare anche sul suo conto. Famiglia modesta e per bene. Di sane tradizioni francesi. La figlia era cresciuta con il mito della propria bellezza. A sedici anni aveva cominciato a lavorare come modella. A venti posava per servizi fotografici delle più importanti boutique milanesi. Ma tanta fortuna aveva sconvolto la sua vita. Dopo una relazione finita male con un broker inglese, si era lasciata andare. I contratti se ne erano andati così come erano arrivati. E Vanessa era rimasta a piedi. La buona sorte l’aveva però spinta a continuare la frequentazione della Milano bene, dove era richiesta e apprezzata per la sua bellezza naturale e la sua risata cristallina. Ci eravamo conosciuti a un pranzo di gala nella dimora cittadina della Contessa Mirante. Un colpo di fulmine. Era proprio la ragazza che cercavo. O meglio che Merola cercava. Perché in quei giorni stavo stringendo importanti accordi con il banchiere milanese e una rossa come Vanessa poteva appianare le ultime difficoltà. E così era stato. Convincere la ragazza a lavorare per me, promettendo denaro e soprattutto il mio affetto, era stato facile. Scontato. Le accarezzai la punta di un piede. Eravamo finiti a letto per la prima volta due mesi prima. Quasi per caso. In una di quelle sere in cui ci trovavamo per fare il punto della situazione. Lei a riferire quanto appreso al capezzale di Merola, io a decidere mosse e interventi. Poi ci si era messo di mezzo un bicchiere di troppo e qualche confidenza intima che non guasta mai. Mi ero divertito quella sera, con lei. E avevo continuato a farlo per tutte le altre volte che ci eravamo visti. Vanessa era straordinaria. Forse perché credeva l’amassi. Ma su questo i dubbi non erano pochi. Stavo portando a termine un incarico pesante, difficile. Lavorare per un politico non era mai una passeggiata. Continue difficoltà, rischi ovunque. E di tanto in tanto ero obbligato a servirmi di pedine per facilitare i passaggi più complicati. Avevo Pablo, certo. Ma non bastava. Vanessa era
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stato il mio occhio sulla trattativa, il mio termometro sulla situazione finanziaria. Attraverso il suo sacrificio controllavo Merola, potevo conoscere in anticipo le sue intenzioni e prevedere le sue possibili mosse. D’altra parte le donne esistono proprio perché gli uomini possano confidare i loro segreti più scomodi. Vanessa aveva lavorato bene e avrebbe continuato a farlo. Ma presto la partita si sarebbe chiusa. Con la mia vittoria. E allora cosa ne avrei fatto della ragazza? Come avrei terminato la nostra intima collaborazione? Erano tutte domande taglienti. Mi allungai sulle coperte. Vanessa sentì la mia presenza e mosse un braccio a sfiorare il mio volto con l’incavo del gomito. Sarei riuscito ad abbandonarla?
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CAPITOLO 5
Il senatore Sarli arrivò verso le nove. Il caffè era il solito su Via dei Giubbonari, in pieno centro a Roma. A pochi passi dal mercato dei Fiori e dallo sguardo solenne del Giordano Bruno crispiano. Sarli apprezzava quella statua ritta, circospetta, un atto di sfida verso i persecutori e i tiranni di ogni dove. Francesco Crispi, notevole uomo politico di altri tempi, l’aveva fatta erigere a monito del suo potere. Gli occhi del filosofo infatti scrutavano da lontano la mole torreggiante di San Pietro, siglando un atto d’accusa e di sfida al tempo stesso. Ma di sfide l’onorevole Sarli non ne voleva sentir parlare. Fin da giovane, appena entrato in politica, aveva compreso quanto il compromesso fosse ben più longevo degli ideali. Quanto la vittoria appartenesse non allo slancio esagitato bensì al calcolo sottile e malizioso. Quanto la vita fosse astuzia oltre che forza e sagacia. Così, quando il suo partito aveva avviato una battaglia contro le ingerenze della Chiesa Cattolica nella vita del Paese, lui, Sarli, siciliano di Taormina, aveva scelto di stare nelle retrovie. A nascondersi. Solo a guerra finita, con l’ennesima quanto scontata vittoria dello status quo, aveva deciso di riapparire. E aveva fatto bene. Il partito chiedeva nuovi leader, nuovi volti per guidare la sinistra al tanto agognato potere. Sarli salì sul carro dei vincitori. Fu lui stesso un vincente. A trentuno anni sedeva nel Consiglio Regionale siciliano, a trentasei raggiungeva Roma per un seggio alla Camera. E poi via. Altre legislature tanto che ormai il senatore aveva superato i sessanta. Lo spirito era quello di un tempo, così come il prestigio. Ecco perché l’onorevole non stava mai in silenzio, battendosi in prima fila per procurarsi voti. E a chi gli suggeriva di competere per il ruolo più ambito, la poltrona di primo ministro, rispondeva che sì, ci avrebbe pensato. Poi non se ne faceva mai nulla. Perché Sarli amava tessere nell’ombra, al sicuro da sorprese, solo al comando.
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«Come andiamo, onorevole?» Pino, il proprietario del bar, siciliano di Enna, aveva sviluppato una grande curiosità per quell’uomo che veniva tutte le mattine, ordinava un caffè e un cornetto, discuteva con persone sempre diverse, sempre in abiti impeccabili, prima di tornare al lavoro. In Senato. Così di tanto in tanto si arrischiava a rompere la sua quiete sonnolenta per sapere le ultime novità. E il senatore non si risparmiava. «Cosa vuole che le dica, Pino? Il solito. Trappole, inganni, tradimenti. La campagna elettorale è così.» «Immagino, onorevole. Ma ce la farà, ne sono certo.» «Vedremo, vedremo.» Pino gli si fece vicino. Prese a bisbigliare. «La voterò, senatore. Io e tutta quanta la mia famiglia. Uno come lei merita fiducia. E mi creda quando le dico che molti la pensano così.» Sarli sorrise. «Grazie, Pino. Significa molto. Ha il mio caffè?» «Certo, senatore.» Mentre sorseggiava la bevanda calda il senatore diede una letta alle pagine di sport. La Roma continuava la corsa allo scudetto. Sarli odiava il calcio. Quella barbarie che ogni domenica mostrava il peggio della gente cosiddetta civile. Arrivarono clienti. Uomini e donne di tutte le età. Fra i tanti anche il futuro onorevole Gian Giacomo Preneste, uomo di fiducia del senatore, nonché amico di famiglia. Si strinsero la mano. Poi presero un tavolino in fondo al locale, per parlare tranquilli. Alcuni dei presenti infatti avevano avvistato i due uomini e si scambiavano occhiate significative, tipiche di quando si incontra una celebrità e non si ha il coraggio di cercare il contatto. «Come procede, Giacomo?» «Tutto a posto. Qualche grana sul lavoro, ma niente di grave. Lei invece ha messo a punto le ultime mosse?» «Ci sta pensando il mio uomo.» «Pensa che porterà dei risultati?» «Con quello che mi costa lo spero proprio. Per lui. Un fallimento non è accettato.» «Anche perché se non dovesse essere rieletto c’è sempre quel procedimento penale pendente.»
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Preneste era l’avvocato di Sarli, suo come di tanti altri politici romani. Il suo studio copriva tutto un sottobosco di trame e raggiri che la Procura di Roma avrebbe pagato per conoscere nel dettaglio. «Non parliamone.» «Come vuole.» Sarli rimase in silenzio per un po’. «La situazione procede spedita. Il mio uomo ha messo fuori gioco Malpighi e presto toccherà ad altri. Secondo i sondaggi ogni scandalo costa alla destra due punti di consenso.» «Di questo passo non arriveranno in doppia cifra.» «Sono molto più furbi di quanto si crede. Ma l’importante è arrivare noi davanti. Il resto non conta e il mio uomo questo lo sa bene.» Preneste si stiracchiò sulla sedia. Sarli proseguì. «Fra un paio di giorni l’affarista farà visita a Bernardi.» «Bernardi? Arriverà fino a Bernardi?» «Certo. In questa campagna niente è lasciato al caso. Anche Bernardi dovrà essere dei nostri. Perché un po’ i suoi soldi, un po’ la sua fama ci torneranno molto utili, soprattutto quando dovremo fare la voce grossa nel partito e pretendere i meriti che ci spettano.» «Crede che qualcuno potrebbe mettersi di traverso?» «Non lo credo, Giacomo, ne sono certo. Ogni vittoria presenta sempre il problema di dividersi il bottino. E allora non ci sono più alleanze o accordi di sorta. Ci si sbrana. E i migliori sopravvivono, i deboli soccombono. Il nostro partito non è diverso. Correnti, ideologie, posizioni si intrecciano in un mosaico inestricabile. Ma non preoccuparti, ne verremo fuori alla grande. E Bernardi farà il suo dovere fino in fondo. Nel suo e nel nostro interesse.» Preneste annuì, seguendo con gli occhi i passanti attraverso il vetro. Poi Sarli riprese a parlare. «Ci sarebbe una questione delicata da discutere, Giacomo.» «Dica pure.» «Ho bisogno di qualcuno che alla fine dei giochi si occupi di Neri.» «Non capisco.» «È così ovvio. Credi che gli permetta di camminare a piede libero per il mondo? Dopo quello che ha fatto per me? Mi conosce troppo bene, ci conosce troppo bene. Per questo qualcuno deve sistemarlo.» «Se crede che sia una buona idea.»
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«È necessario. E qui entri in gioco tu. Hai qualche uomo fidato da consigliarmi?» «Perché dovrei?» «Frequenti il mondo giusto.» «Lo stesso che frequenta lei, senatore.» Sarli sorrise con aria sorniona. «Non credo proprio. C’è una bella differenza. Perché io di quel mondo mi servo. Poi chiudo la porta e non ne voglio più sentir parlare. Tu invece in quel mondo ci sguazzi. E godi nel farlo.» «Cosa vuole insinuare?» «Andiamo, Gian Giacomo. Ci conosciamo da una vita. Negli ultimi tempi ti sei un po’ lasciato andare. Più o meno da quando Georgia ti ha lasciato.» «Ha fatto fare delle ricerche su di me?» «Come tu le hai ordinate sul mio conto. È così semplice. Nel nostro campo le informazioni servono a vivere. Non roviniamo un’amicizia dinanzi a un’ovvietà.» Preneste taceva. «Come stavo dicendo. So che frequenti un mondo pericoloso. Per necessità, amico mio. Ti capisco. Quando una donna con cui hai vissuto per anni ti dice addio, chiunque sentirebbe un male tremendo e cercherebbe una cura efficace. Tu l’hai trovata e nessuno può giudicarti. Però adesso se un amico ti chiede consiglio non rifiutare una buona parola.» «Di cosa ha bisogno?» «Di qualcuno che non abbia paura di sporcarsi le mani, che dia il giusto valore alla vita di un uomo.» «Posso chiedere in giro.» «Ti dico subito che farai poca fatica. Il mondo è pieno di lupi. E poi presto sarò ministro, probabilmente della giustizia. E sai bene che non dimentico chi mi ha aiutato a salire in alto.» Preneste lo osservò con distacco. «E della ragazza cosa mi dice?» «Quale ragazza?» «Quella che Neri si porta sempre appresso. Di lei cosa vuole farne?» «Ha ragione. Me ne stavo dimenticando. Voglio essere chiaro anche su di lei.» Tacque. «Penso che se dovesse scomparire nessuno verrebbe a cercarla. O sbaglio?» «Dipende.»
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«Esatto. Dipende. Da quanti soldi sono pronto a versare. Dica ai suoi amici che saranno loro a fissare il prezzo, ma il lavoro deve essere fatto a regola d’arte. Intesi?» «Come vuole, senatore. Le farò sapere al più presto. Intanto la saluto.» «Buona giornata, Giacomo.» Sarli lo guardò uscire, poi fece un cenno a Pino. Aveva bisogno di un altro caffè. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD