In uscita il 31/10/2016 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine novembre e inizio dicembre 2016 (4,99 euro)
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RAFFAELE PASCALE
L’ANARCHIA DELL’INFINITO
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L’ANARCHIA DELL’INFINITO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-038-2 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Ottobre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Laura
PRIMA PARTE
7
Capitolo I - La Rota degli esposti
Quello che rimane della Rota degli Esposti è solo una piccola lapide di marmo, ingiallita dallo smog del traffico irrazionale di Aversa. Incassata nel grande muro della facoltà di lettere e filosofia, sembra l’obiettivo di una vecchia macchina fotografica che inquadra i passanti, le bici, le moto, le auto, le ambulanze, i furgoni, i camion. Tutti si muovono in direzioni diverse, creando un disordine organizzato, senza meta apparente; un moto caotico composto da coppie di elementi opposti che si annullano a vicenda, con il risultato finale che la grande massa, vista dall’alto, non si muove in nessuna direzione. Sulla piccola lapide di marmo è incisa un’epigrafe burocratica che, dal 1861, ne vieta per sempre la sua funzione vitale. In quel tempo lontano, di cui nemmeno gli anziani hanno memoria, era stata un ventre misericordioso che accoglieva i figli della Madonna. Poi il volere del nascente e moderno Stato italiano la trasformò in un’oscura discontinuità di una parete alta e imponente, fatta di pietra lavica e tufo. Oggi è un surrogato di cestino dei rifiuti: lattine vuote, pacchetti di sigarette schiacciati, fazzoletti di carta sporchi. I neonati, avvolti in fasce, erano abbandonati al loro destino, perché figli della povertà o dell’odio. Attraversavano l’oscuro ventre e, trasportati da una ruota di legno scricchiolante, passavano oltre l’imponente muro, come ignari viaggiatori di universi paralleli. Lasciavano un mondo disordinato e infame, per approdarne in uno ordinato e accogliente. Da quando l’edificio era stato sottratto alla Chiesa, convertito in ospedale e infine adibito a università, i moderni viaggiatori attraversavano il varco spazio-tempo mediante l’enorme portone di legno. Aperto, tutte le mattine, dal custode con lentezza solenne e richiuso tutte le sere alle venti circa, dopo aver fatto il giro delle aule, dei cortili, dei giardini e della chiesa, per accertarsi che nessuno rimanesse intrappolato lì per la notte. L’ingresso in facoltà mi procurava una sensazione simile a quella che i naufraghi provano quando avvistano la terra, simile a quella del fuoco intorno al quale ci si dispone in circolo nelle notti fredde passate all’aperto. I miei giudizi confusi, le mie incomprensioni sociali, le mie
8 frustrazioni giovanili, svanivano lungo gli storici corridoi alti e freschi. Una sensazione mista di calma e tranquillità s’impadroniva di me. In quel rifugio si poteva impiegare il proprio tempo a pensare a cose che non avevano nulla a che fare con quanto stava avvenendo fuori dall’università, per le strade, nei vicoli di quartiere, agli angoli delle piazze, in case buie e abbandonate, in ville enormi e lussuose. Era possibile perdersi in luoghi sconosciuti e senza tempo. Sognare un paese perfetto, dove il metro di giudizio delle persone non funzionasse al contrario, dove i buoni sono le persone oneste e i cattivi quelli che non rispettano le regole, dove per vivere non c’è bisogno di imparare a campare, districandosi in un labirinto contorto di sotterfugi ed espedienti che rendono tutto solo più complicato. Quella mattina cominciava uno degli ultimi tre corsi da seguire prima della tesi di laurea. Ero stanco per aver dormito solo tre ore la notte prima, ma motivato perché non vedevo l’ora d’immergermi nella mia vita da studente. Quando il professore iniziò, con ritmo lento e cadenzato, una nube grigia mi avvolse e fui risucchiato nel vortice della distrazione, iniziai a collegare involontariamente parole e immagini lontane e impersonali con pensieri del tutto personali. Così le rappresentazioni delle divinità africane, tozze, con le labbra grandi e le forme tondeggianti, subivano una trasformazione inconscia nella mia mente e diventavano persone vere che incontravo al mercato o per strada. Persone che si muovevano in modo goffo e impacciato. L’arte antica delle tribù africane: era semplice e istintiva. Era il lascito di uomini che avevano come orizzonte temporale le poche ore che riempiono il tempo tra l’alba e il tramonto. Nel mondo moderno, al di là del grande portone della facoltà, l’orizzonte temporale era rappresentato dai decenni che separano l’atto di accensione del mutuo da quello di estinzione. La pausa di metà mattina delle lezioni era già iniziata da un po’ quando mi accorsi del sorriso ilare di Giulia. Dopo tante ore passate l’una accanto all’altro, sapeva che stavo viaggiando con la mente, tra i collegamenti a ricciolo delle mie idee confuse. La nostra era un’affinità creata dalla costrizione di un tempo che si misura in ore, ma che alla fine si somma in anni. Così, sorseggiando il secondo caffè della giornata, seppi che quello sarebbe stato l’ultimo corso che avremmo seguito insieme. Pronunciò quelle parole con estrema semplici-
9 tà, ma, solo per me, suonarono dapprima come un sibilo lontano, poi divennero un suono netto, acuto, stridente. Un’onda acustica estranea alle altre che componevano il rumore di fondo di una pausa caffè che segnò un limite netto. La tristezza e lo smarrimento si affiancarono, come due passanti invadenti, e divennero i miei compagni di viaggio per il resto della mattinata. Giulia si accorse di loro e con sadica noncuranza disse: «Ti mancherò?» «Sì.» Risposi in modo pietoso e senza il minimo tentativo di nascondere i miei indesiderati accompagnatori. Cercare di difendermi da Giulia era impossibile. Lei sapeva tutto di me. Mentre io vagavo in un limbo d’ipotesi senza conferme. Una rete di dubbi emotivi che mi bloccava da dentro. La bellezza di Giulia mi lacerava, mi faceva male. La odiavo per essere così bella, la odiavo per quei suoi occhi scintillanti e pieni di vitalità, la odiavo per la sua forza d’animo, il suo sorriso, il modo in cui si raccoglieva i biondi capelli che le scivolavano sul viso con tutte e due le mani, la odiavo per le lacrime amare che scivolavano dai miei occhi quand’ero solo. Lei era la mia musa, nessun’altra avrebbe preso il suo posto nel mio cuore. La odiavo e disperandomi l’amavo. Quella sera, prima di andare al lavoro passai a salutare Luca, il mio miglior amico. Non volevo raccontargli nulla in modo diretto, ma speravo, e ne ero quasi certo, che lui avrebbe intuito e compreso il mio stato d’animo. La nostra interminabile amicizia era davvero un’affinità poco probabile. Eravamo due individui distanti in tutto: interessi, idee, scelte di vita. Ma era proprio questa diversità a renderci necessari l’uno all’altro. Eravamo il riflesso delle nostre opposte aspirazioni, che si sfidavano ogni volta per la conquista della scelta giusta. Lui era pragmatico e aveva scelto d’iniziare a lavorare presto, nel negozio di suo padre. Concreto con le donne, risoluto negli affari, riusciva a schivare le difficoltà della vita con la semplice e dirompente forza del suo immancabile sorriso; io ero riservato, introverso, metafisico sia nell’approccio alla vita che in quello alle donne.
10 Quando le parole colmarono l’invisibile clessidra di un’inutile chiacchierata, finalmente Luca affrontò l’argomento per cui mi ero presentato da lui e disse: «Non pensare troppo a lei, te ne stai facendo una malattia.» Luca sapeva tutto della storia con Giulia, mi aveva spinto per mesi a chiederle di uscire, a essere meno platonico, aveva esultato con me quando seppe che avevamo fatto l’amore, e stava facendo di tutto per liberarmi dalla rete invisibile che mi avvolgeva e mi rendeva stordito e spaesato da quando Giulia disse: «È meglio se restiamo solo amici.» “Ma come si fa a tornare indietro dal paradiso?” avrei voluto urlarle con rabbia, ma non ci riuscii. Mi tenni tutto dentro e un’altra foglia caustica si depositò sul fondo della mia anima, lacerandola un po’ di più. Mi ero accontentato di starle accanto, in attesa di una nuova possibilità, ma il tempo scorreva via e così anche la nostra storia d’amore e, ora che frequentavamo l’ultimo corso insieme, stavano per consumarsi gli ultimi istanti concessi dal destino. Forse era meglio così, la lontananza sarebbe stata la mia cura, o la mia definitiva disperazione. Di giorno vivevo immerso nello studio, avvolto nell’ambiente accogliente della facoltà, rapito dalle meraviglie della letteratura e della filosofia, cercando di comprendere cosa fosse l’infinito. Di notte correvo tra i tavoli di un pub, cercando di soddisfare i piccoli ma indispensabili bisogni di un’umanità assetata e affamata, in cerca di rimedi contro la noia o la disperazione. Arrivai al lavoro verso le otto, indossando quella ridicola uniforme con il panciotto blu, la camicia bianca e il farfallino. Ogni volta che guardavo quell’immagine riflessa negli enormi specchi della sala interna del pub, pensavo che il quadro dello studente sfigato fosse completo, ma quel lavoro aveva i suoi lati positivi. Era un momento di disordine incontrollato nel quale bisognava agire e non pensare. Immerso in quella frenesia sociale, partecipavo di una vita insana, viziosa, rumorosa, disordinata, scostumata, alterata. Il mio fango ristoratore, la mia fonte termale umana, troppo umana, in netto contrasto con il resto della mia giornata. La mia vita oscillava come un pendolo tra l’ordine e il disordine, l’uno necessario all’altro.
11 Quando il buio trasformava la sera in notte e i volti delle persone, compreso il mio, mostravano i primi segni della stanchezza e del sonno, tutto magicamente rallentava e iniziavo a osservare le cose con più chiarezza. I clienti del locale facevano a gara per sembrare l’uno più ricco dell’altro. Ricoperti da abiti vistosi con la marca appariscente da sbattere in faccia a tutti. Ordinavano sempre una bottiglia di spumante alla fragola che, in maniera del tutto truffaldina, il proprietario del locale vendeva a dieci volte il prezzo di costo. Una bevanda pessima che rappresentava, però, uno status sociale. Chi la poteva esporre al proprio tavolo era ricco e la ricchezza era un valore che offuscava tutto il resto. Poi c’erano le ragazze. Belle, bellissime. Agghindate come spose indiane lasciavano una scia invisibile di profumo. Per loro non esistevo, ero come trasparente. Non avevo alcuna possibilità di apparire attraente. Non avevo nessun ornamento tipico dei maschi della loro tribù. La tribù del disordine e dell’anarchia. Fu in una di quelle notti che un cliente fisso del locale, con il quale ero entrato in confidenza da bar, a sua insaputa mi diede l’idea che avrebbe cambiato la mia vita. Avevo trovato l’oggetto della mia tesi di laurea: Giordano Bruno. Quando gli dissi che studiavo filosofia, non riuscì a trattenersi dal raccontarmi la storia di un suo compaesano, pure lui filosofo, a cui era stata dedicata addirittura una statua nella piazza principale di Nola. Era stato condannato dalla Chiesa per eresia e bruciato vivo a Roma. Pertanto, mi ammoniva ricordandomi che tutti i filosofi rischiano di fare la stessa fine. Quella di “uno che parla assai e non si fa i cazzi suoi”. Voleva mettermi in guardia dal non seguire il cattivo esempio, ma fu un’intuizione fulminea, una frattura improvvisa nei miei pensieri, un terremoto dal quale emerse la storia di uno dei più grandi pensatori, esempio di coraggio e di lotta per la libertà di pensiero, noto a tutto il mondo intellettuale internazionale per aver avuto il coraggio di abbattere il muro costruito dalla Chiesa per confinare l’Universo in uno spazio angusto e oscuro. Ritenuto dai suoi conterranei un esempio da non seguire, una pericolosa interruzione di quella linea di pensiero prudente che indica la strada del successo ai moderni-saggi-imprenditori campani. Tornato a casa, verso le due circa, quasi fosse una necessità impellente e dimentico della giornata di diciotto ore appena trascorsa, accesi il PC e mi tuffai nella versione digitale della vita e delle opere di Giordano Bruno. Un turbine di informazioni, centinaia di siti internet, libri di estimato-
12 ri e di detrattori, trattati accademici e non, appassionati di filosofia, esoterismo, magia, arte della memoria, nemici della Chiesa. Gli studi al convento di San Domenico Maggiore a Napoli, il sacerdozio, la prima messa, il panteismo, l’anima mundi e i dubbi sulla Trinità e la transustanziazione, la prima accusa di eresia, la fuga a Roma, l’accusa di omicidio, la fuga a Genova, Noli, Savona, Torino, Venezia, la peste, Ginevra, l’adesione al calvinismo e la cattedra all’università, la scomunica e il processo per diffamazione, i viaggi in tutta Europa, il Re di Francia, la Regina di Inghilterra, le opere in latino e in volgare, il ritorno in Italia, Venezia, il tradimento di Mocenigo, l’accusa di eresia, l’arresto, il processo, la promessa di abiura e la ritrattazione, il Santo Dottore della Chiesa Roberto Bellarmino, il rogo delle opere e del suo autore. L’oblio. Una vita da latitante, non per denaro o potere. Per la libertà. La libertà di pensare che la fede si richiede per l’istruzione dei rozzi popoli, che devono essere governati e diretti circa le azioni morali; la verità, le dimostrazioni, le speculazioni sono per gli uomini contemplativi che sanno governar sé e altri. Se non fosse nato nel 1548, ma ai giorni nostri, sarebbe stato sicuramente un intellettuale incazzato contro tutto e tutti. Di certo non sarebbe passato inosservato e avrebbe lasciato il segno. Era nato a Nola, a pochi chilometri dalla mia camera da letto. Figlio di una famiglia povera, si era unito all’ordine di San Domenico per poter studiare e, nonostante il luogo e la dottrina, era divenuto uno dei più grandi nemici della Chiesa: il Potere più forte nell’epoca in cui era vissuto. Era un’anomalia vivente, l’atomo che si distacca dagli altri e dà inizio alla cricca, che poi diventa frattura insanabile. Era presuntuoso e arrogante, definiva i suoi colleghi inglesi “isolani che parlano una lingua rozza”, un intellettuale integralista, un fanatico della cultura, un razzista dell’ignoranza. Era consapevole della sua grandezza, convinto delle sue idee fino al punto di accettare la morte per mano di quel nemico che gli chiedeva semplicemente di fare parte del sistema. Scelse le fiamme del rogo, piuttosto che dire: “Avete ragione voi, mi sono sbagliato”. Mi addormentai pensando alla vita avventurosa di Giordano Bruno e a quanti paralleli con la Storia moderna avrei potuto fare. Pensai alla mia tesi, riuscivo quasi a vederla.
13 La mattina seguente non avevo lezione e verso le dieci andai al negozio di Luca – il martedì non c’era un gran movimento nella strada dello shopping di Aversa – così potemmo parlare tranquillamente: il calcio, il lavoro, l’inizio della mia tesi di laurea, quando dalla vetrina del negozio si vide il riflesso di una grande auto scura. Luca non fu più concentrato sulla nostra conversazione, stava guardando fuori, con insistenza, attraverso la vetrina, così anch’io iniziai a guardare e dopo un po’ gli chiesi: «Ma cosa stiamo guardando?» E lui: «Ti ricordi di M.?» «Certo, era un tipo simpatico, mi pare lavorasse con suo zio l’assicuratore.» «Bene, ora lui non lavora più, ma è sempre pieno di soldi, sai cosa significa questo?» «Sì. Purtroppo. Ma come mai tutto quest’interesse?» «Perché il proprietario del negozio di fronte non ce la faceva più a pagare la tassa e ha sporto denuncia ai carabinieri. Stanotte gli hanno frantumato la vetrina del negozio a colpi di pistola e stamattina arriva M. a consegnare qualche messaggio.» «Lui è l’unico negoziante che ha avuto il coraggio di denunciare?» Luca si limitò a guardarmi e a sorridere come se avesse di fronte un ingenuo bambino, poi aggiunse: «Vedrai che la ritirerà.» «Spero di no.» Luca mi guardò di nuovo allo stesso modo. Non voleva approfondire il mio punto di vista, pensava fosse facile ragionare come me quando non si è esposti in prima persona, e poi era più semplice pagare e lasciare il mondo così com’era. L’obiettivo era portare a casa un incasso decente in modo da poter sopravvivere, non quello di fare una battaglia per la legalità. Quella era la missione di qualcun altro. E quando gli affari andavano molto bene, per alcuni era davvero impensabile non spendere una piccola parte di quella ricchezza per comprare una merce intangibile, ma necessaria: la tranquillità. Conoscevamo M. dalle scuole medie, negli anni in cui la fantasia lascia il posto alla realtà, quando si scopre il mondo degli adulti e si è carichi di ormoni e d’incertezze. Passavamo i nostri pomeriggi a giocare a pallone per strada, o a girare in bici per tutto il paese e poi senza accorgercene abbandonammo il pallone e la bicicletta e iniziammo a prendere le distanze da quel mondo. Vergognandoci dei divertimenti del giorno prima.
14 Non ci bastava più girare con la bici per le vie del paese, volevamo girare in moto per le strade grandi e importanti della città. Ricordo che M. si trasferì con la famiglia in un altro paese a soli quattro chilometri. Ma dalle nostre parti, quattro chilometri sono una distanza siderale, cambia tutto: il dialetto, la cucina, i valori, le mode. Non seppi più nulla di lui fino a quella mattina, quando guardando attraverso la vetrina del negozio di articoli sportivi di Luca lo vidi scendere da un SUV Mercedes blu scuro e dopo poco risalire con in mano una busta del negozio di fronte. Indossava un completo grigio scuro e una camicia bianca che gli illuminava il volto, sembrava un uomo ricco e perbene. Condivisi subito questo pensiero con Luca e dissi: «Però! Sta molto bene il nostro amico, a confronto con lui mi faccio quasi schifo.» «Tu fai schifo a confronto con chiunque», rispose Luca, dando inizio a una grossa risata. E questo concluse la nostra forbita conversazione, così lo salutai, salii in bici e andai all’università. Durante il breve tragitto pensai a M. e alla sua scelta di vita, la notizia mi aveva turbato molto, ma alla fine pensai che non erano affari miei, la mia vita era molto lontana da quella di M.. Nonostante vivessimo nella stessa zona e fossimo stati amici, era come se occupassimo lo stesso spazio ma separati da un vetro spesso e trasparente simile a quello degli acquari, lui era il mio pesce rosso e io il suo. Arrivato all’ingresso della facoltà, attraversai il grande portone già aperto da più di tre ore e posai la bici in un angolo del muro dietro un fitto cespuglio di scooter; ero l’unico a usare la bici, ma lo ritenevo il mezzo più intelligente da usare in una città paralizzata dal traffico. Sistemai la maglia nei jeans e la felpa col cappuccio, mi assicurai che i capelli fossero come sempre liberi di fare quello che volevano, e appena mi voltai vidi lo sguardo di Giulia che esprimeva tutto il suo biasimo per la scelta del mezzo di trasporto. Alzai le spalle e le sorrisi lo stesso; indossava un pantalone chiaro, una maglia di colore rosso scuro e un cappottino in tono con i pantaloni, sembrava pronta per una sfilata. Entrammo insieme nell’androne buio ed enorme che precedeva il corridoio che portava alle aule del primo piano, dove avevamo trascorso i primi anni di università, dove mi ero innamorato di lei e dove tutto era finito. Le raccontai che avevo deciso il tema della mia tesi, ne fu molto entusiasta, anche se non capiva perché avessi scelto un filosofo poco no-
15 to. Mi fece promettere che l’avrei informata del mio lavoro e che sarebbe stata la prima persona a leggere la tesi, prima ancora del relatore. Giulia aveva spesso questi slanci di affetto nei miei confronti, ne ero contento, ma ogni volta era una spallata che mi buttava fuori strada. Allontanandomi dal mio scopo: dimenticarla al più presto. Poi come fosse un dente doloroso da estrarre senza anestesia, mi guardò negli occhi e con voce atona mi disse: «Fra due anni io e Marco ci sposiamo.» Mi rifugiai d’istinto in una frase fatta e sorridendo le dissi: «Ah! Bene! Come si dice in questi casi auguri e figli maschi.» Seguirono sorrisi di circostanza e infine il saluto con un bacio sulla guancia che normalmente mi faceva rabbrividire, ma non quella volta. Lei entrò nell’aula, io salii le scale per andare in biblioteca, ma ogni gradino mi sembrò più alto del precedente, arrivai in cima come se avessi scalato il monte Bianco. Non ero incazzato, ero semplicemente vuoto, era la marea che si ritraeva indietro prima dello spaventoso tsunami che mi avrebbe travolto da lì a poche ore. Dalla ricerca della notte precedente avevo ricavato un elenco molto corposo di testi da trovare, studiare, capire e infine sintetizzare nella mia tesi, stetti quasi un’ora al computer della biblioteca prima di mollare lo studio e tornare a casa sopraffatto da quell’onda anomala che Giulia aveva prodotto con quella sua esternazione. Mi sentivo ferito, arrabbiato, impotente, deluso, dicono che siano fasi di un percorso lineare, ma nel mio caso erano tutte fasi che si ripetevano in una spirale, facendomi piombare sempre più in basso man mano che mi avviluppavo su me stesso, senza mai passare all’ultima fase: l’accettazione. Misi in discussione ogni aspetto della mia vita cercando di razionalizzare i perché della scelta di Giulia. Iniziai un confronto spietato e crudele tra me e lui. Mi ritrovai a ripetere che avevo sbagliato tutto, che nessuna delle mie scelte era in grado di aiutarmi nel confronto con Marco, il suo prescelto. Era ricco, aveva una casa che era un palazzo, dava feste nella dependance che era più grande dell’appartamento in cui vivevamo io, i miei genitori e le mie sorelle. Al quinto liceo aveva già l’auto, era stato in vacanza in quasi tutta Europa e poteva permettersi il lusso di cambiare telefono a ogni uscita di un nuovo modello. Io avevo una bicicletta e un cellulare già vecchio il giorno stesso in cui l’avevo comprato. Lui aveva già
16 un’attività avviata, era pronto per il matrimonio, insomma quello che si definisce un buon partito. Io ero ancora all’università in procinto di diventare un dottore disoccupato, con la valigia in mano in cerca di lavoro chissà dove. Eppure, nonostante questo quadro della disperazione, Giulia aveva lasciato Marco per me. Era stata mia. Quest’ultimo pensiero mi diede sollievo e mi riportò alla mente i nostri momenti. Del primo giorno di università ricordo la sensazione di leggerezza con cui affrontai quella nuova esperienza, conobbi tanta gente, ero insolitamente socievole, cosa alquanto strana data la mia naturale timidezza, ero felice d’iniziare. Così, in quell’euforia da novità, conobbi lei. Sembrava spaesata, ma allo stesso tempo mi dava l’impressione di essere una molto sicura di sé, poi i suoi occhi chiari di un colore indefinito fecero il resto. Mi avvicinai, mi disse che stava cercando l’aula di filosofia e la invitai a seguirmi come se sapessi dove fosse. Mentre ci conoscevamo, attraversando i corridoi della facoltà, mi diressi verso l’aula più rumorosa ed ebbi un gran colpo di fortuna, era proprio quella che stavamo cercando. Purtroppo imparai presto che era impossibile tenerle nascosto qualcosa; infatti, sorridendo, mi disse: «Siamo stati davvero fortunati.» «No, non è fortuna io sapevo dov’era l’aula», cercando di salvare il salvabile, ma il volto, i gesti e il tono della voce mi avevano già tradito. Così cominciò un’amicizia bella e profonda che non tardò a trasformarsi in amore, almeno da parte mia. Il fatto che lei fosse fidanzata da tanto tempo con un certo Marco non fu un ostacolo per gli eccessi di confidenza reciproci, così in pochi mesi diventammo amanti clandestini, prima, fidanzati ufficiali, poi. La nostra prima volta fu a casa sua, con la scusa che dovevamo studiare passavamo quasi tutti i pomeriggi insieme, lei mi raccontava di tutto e io ascoltavo interessato, mi piaceva sentirla parlare e a lei piacevano le mie attenzioni che a quanto pare l’altro non le dava più. In uno di quei pomeriggi mi lanciai per baciarla e finimmo per fare l’amore. Dopo qualche mese sua madre capì tutto e dovemmo cambiare luogo di incontro, così passammo a casa mia, ma la situazione era molto più complicata visto che le mie sorelle erano quasi sempre tra i piedi, ma il nostro amore do-
17 veva comunque trovare sfogo nel letto o almeno così avevamo letto da qualche parte. Giulia lasciò Marco per stare con me, nonostante la sua famiglia fosse contraria, visto il buon partito che era, ma questo aiutava soltanto di più la mia causa. Non riuscivo a credere che una donna come lei volesse stare con me, ero entrato in paradiso per scambio. Per lei fu una forte infatuazione, come un torrente in piena che s’ingrossa e riempie completamente il letto trasformandosi in un fiume vero e proprio, poi le acque mancano e il finto fiume torna a essere un torrente, poi un rigagnolo e infine un arido e asciutto letto di cui ben presto si perdono le tracce sotto un fitto cespuglio di erbacce infestanti. Fu così che il nostro amore finì dopo circa sei mesi, senza lasciare nessuna traccia nel mondo, tutto tornò come prima, lei con Marco, io da solo, noi due solo amici. Ho cercato di capire i motivi della nostra relazione, ma la verità mi faceva troppo male, per fortuna c’era Luca a pronunciare le parole che andavano dette e che io non avevo il coraggio di dire: lei mi aveva usato, ero stato un trastullo, una distrazione dalla solita routine di un rapporto lungo che aveva bisogno di una scossa per essere salvato. Invece di allontanarla da Marco, l’avevo convinta di più che lui fosse l’uomo della sua vita; certo sua madre ci aveva aggiunto una buona dose di pragmatismo, ricordandole chi fosse Marco, ma soprattutto cosa possedesse. Giulia era una stronza e Luca aveva ragione, ma io non potevo fare a meno di amarla. Sapevo che era sbagliato, ma non riuscivo a convincermene. Accettai la sua amicizia e iniziai a non vedere più il letto che il fiume aveva scavato, forte del nostro amore, invigorito dalla passione della nostra intimità, ma a differenza di tutti gli altri, compresa Giulia, sapevo perfettamente dove fosse nascosto. Era dentro di me.
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Capitolo II - M.
«Abbiamo inserito i dati di tutte le famiglie, poi le abbiamo collegate per interessi, parentele, amicizie. È uscita fuori una mappa che ci ha fatto capire dove andavano i voti prima ancora delle elezioni. Abbiamo deciso chi candidare e chi no e alla fine abbiamo fatto vincere le elezioni a chi dicevamo noi. I tempi sono cambiati. Oggi ci sta il computer, internet, e quello che una volta si faceva con la forza oggi si fa con la cerevella.» Finì così il discorso che don C. tenne a tutti noi. Poi, in un tripudio di applausi, uomini con la sigaretta stretta tra le labbra e gli occhi socchiusi per il fumo che risaliva copioso verso l’alto stapparono le bottiglie di spumante. I tappi di sughero colpirono con violenza il soffitto della sala grande del ristorante Agriturismo, un posto sperduto in mezzo alle campagne di quella terra che i giornalisti avevano ribattezzato: la terra dei fuochi. Stavamo festeggiando i risultati delle elezioni: era salito chi volevamo noi. Il ristorante era un punto di luce e di rumore immerso nel buio e nel silenzio di una notte umida che bagnava ogni cosa. La terra che ci circondava, docile e mansueta, si lasciava profanare anche quella notte, come una puttana benevola, rassegnata al suo profondo martirio. Molti pensano che l’organizzazione sia una specie di società segreta, dove nessuno si conosce e tutti prendono ordini da un solo affiliato. È tutto sbagliato. Uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il potere dell’organizzazione è proprio la visibilità. Farsi conoscere sia all’interno che all’esterno. Il popolo deve sapere chi è che comanda. Il popolo sa sempre tutto. Il popolo non fa mai niente. È indolente, indifferente. Guarda altrove. Essere riconosciuti da tutti non è solo una questione di rispetto. È la soddisfazione suprema che va oltre ogni ricchezza possibile e immaginabile. È la motivazione che spinge uomini liberi a rinchiudersi in un bunker sotto terra per mesi, anni. Per sempre. Il potere e la sua ostentazione, a ogni costo: l’isolamento, la morte dei familiari, quel sapore ferroso e caldo che inonda la bocca mentre si esala
19 l’ultimo respiro, l’ultimo attimo di vita, riversi a faccia in giù in una pozza di sangue e fango. Uomini veri. Oggetto di miti e leggende che si tramandano nei paesi del casertano, sufficienti a garantirsi il rispetto del popolo. Tutti vogliono essere il Re del mondo e, nel frattempo, si accontentano di uscire di notte con le Ferrari rosse o blu metallizzato, come quella di Maradona. Guardandomi intorno vedevo gente comune, gli stessi volti che si possono osservare stando seduti al tavolino di un bar, o in una pizzeria, eppure il peso della storia di ogni vita criminale donava a ciascuno una sorta di aura che mistificava le sembianze esterne. Lo stesso volto poteva appartenere a un operaio come a un capo dell’organizzazione, a un manager d’azienda come a uno spietato killer. Agli occhi di chi non conosceva nessuna delle persone sedute ai tavoli del ristorante potevamo sembrare una qualsiasi comitiva aziendale. Eppure i camerieri erano tesi e il proprietario non faceva che correre tra i tavoli e dare istruzioni ai suoi, per offrirci il meglio che potessimo avere. No. Non eravamo gente comune, anche se i nostri volti si confondevano con quelli degli altri, noi appartenevamo a un’altra specie. Noi facevamo la storia della nostra terra. Noi eravamo la storia della nostra terra. I padroni di tutto, delle nostre vite e soprattutto di quelle degli altri. Eravamo una minoranza rispetto alla gente comune eppure dominavamo tutto, dalla politica e le grandi opere, al traffico di droga, alla piccola attività commerciale, fino ad arrivare alle bancarelle dei neri. Non si poteva restare indifferenti a tutto ciò. Non potevo accettare di lavorare con mio zio e fare l’assicuratore per il resto della mia vita, sfiorando solo marginalmente il mondo degli affari con piccole frodi assicurative da ladri di galline. Dovevo scegliere se accontentarmi delle briciole di un sistema corrotto in cui tutti erano coinvolti, o farne parte in maniera attiva, sfruttarlo per i miei interessi e dimostrare a tutti gli altri che ero capace di essere un uomo vero. Se la differenza tra noi, la minoranza, e la gente comune, la maggioranza, fosse stata più netta, più marcata, avrei potuto soffermarmi sugli scrupoli morali di un’attività criminale e magari fare una scelta di vita diversa. Ma vivere da brava persona in una società corrotta a tutti i livelli, dove per ottenere i tuoi diritti devi chiedere un favore a qualcuno o dove gli insospettabili sono i primi a delinquere appena possono, dove tutti, in un modo o nell’altro, cercano di sopraffare il prossimo con qual-
20 siasi mezzo a disposizione, era un’impresa folle. Era più semplice, più redditizio e soddisfacente fare parte del sistema, controllarlo, dominarlo. Se il confine tra la brava gente e i delinquenti fosse stato visibile, avrei potuto fare ragionamenti diversi da quello che mi avevano portato al tavolo del ristorante Agriturismo. In compagnia di uomini i cui volti non raccontavano nulla, fino a quando non conoscevi le straordinarie imprese di cui erano stati capaci nella loro malavita. Quella sera erano tutti presenti, anche i latitanti. Ero stato insieme ad A. per più di un mese, chiuso nelle stanze comunali a dettare nomi e cognomi a uno studente di primo liceo che usava il computer per registrare tabelle e informazioni di parentela, avevo intuito che la cosa avesse a che fare con le elezioni, ma non avevo capito che quell’assurdo e noiosissimo lavoro avesse lo scopo finale di decidere chi candidare in modo opportuno, pensavo servisse a costruire un elenco di persone il cui voto doveva essere consigliato da noi. Invece i capi avevano trovato un altro modo pulito e legale per vincere e fare i propri interessi. Quando don C. finì di parlare fu la volta del neo eletto, ma complice la musica ad alto volume e la scarsa considerazione che avevo per lui, non volli ascoltarlo e ritornai a mangiare il tris fumante di carne arrosto che rischiava di raffreddarsi e non essere più buono, cosa assai probabile visto che per arrivare a questo piatto avevamo già mangiato due antipasti e tre primi. Nel mio tavolo c’erano solo ragazzi di prima mano come me, tranne un uomo d’esperienza che non aveva trovato posto al tavolo dei suoi pari. Secondo A. questo significava che gli stavano dando un messaggio, “perché niente era lasciato al caso dai capi, quelli vedevano e sapevano tutto”. Secondo me stava esagerando e allora A. decise di chiarire la cosa chiedendola direttamente a G.. «Néh don G., ma come mai vi siete seduto con noi stasera?» La risposta fu uno sguardo pieno di odio e rancore, ci mancò poco che non lo prendesse a schiaffi lì davanti a tutti. G. era davvero poco credibile come affiliato, era basso, calvo e con un pancia rotonda e soda, avrà avuto circa cinquant’anni, comunque sembrava più una caricatura che un pezzo grosso dell’organizzazione. A. aveva ragione, i capi non lasciavano mai niente al caso e probabilmente G. aveva fatto qualche cazzata. L’atmosfera si ravvivò grazie all’ingresso in sala di una treccia di mozzarella enorme, trasportata a fatica da due camerieri:
21 «Pesa almeno quindici chili», ci tenne a precisare il proprietario del ristorante, «appena fatta. Direttamente dai caseifici dei mazzoni, la migliore mozzarella di bufala della Campania.» Don C. non attribuì troppa importanza alla pietanza, ma cercava l’approvazione negli sguardi degli altri, che ovviamente facevano a gara per mostrare al capo il loro apprezzamento per la bella serata di festa. Verso l’una di notte arrivarono i tanto desiderati amari e limoncello per aiutare a digerire l’enorme quantità di cibo che avevamo mangiato, non per fame, ma per dimostrare un appetito vorace da uomini veri. Poi ci furono i saluti. Il primo ad andare via fu don C. che salutò tutti con un cenno appena visibile della testa, poi seguirono gli altri senza troppi convenevoli, il neo eletto cercò qualche stretta di mano, ma ne ottenne solo qualcuna e controvoglia. I saluti calorosi, educati, entusiasti non appartenevano al nostro codice di comportamento, erano cose da femmine, gli uomini veri si salutavano con pochi cenni e più eri vero meno percettibile doveva essere il cenno. Io e A. ci muovemmo quasi per ultimi. Eravamo arrivati alla nostra auto quando all’improvviso, come un fantasma, emerse dal buio del parcheggio G.: “Ecco ora ci siamo”, pensai. A. mosse la mano verso la cintura dei pantaloni indietreggiando, ormai cercare la pistola era un riflesso involontario, io avanzai in modo da frappormi tra loro due, G. si fermò, guardò prima me e poi A. e infine disse: «‘Uagliù stasera venite con me, vediamo se sapete sparare.» «Qual è il problema don G.! Siamo a disposizione», rispose A.. Così salimmo nella mia macchina tutti e tre. Ovviamente G. era seduto al posto del passeggero, accanto a me, il rispetto si dimostrava anche da queste cose. M’indicò la superstrada Nola-Villa Literno, a quell’ora di notte il traffico era inesistente e quella striscia di asfalto dritta era un invito a spingere sull’acceleratore, tanto i posti di blocco non c’erano e se ci fossero stati l’avremmo saputo molto prima con un SMS che annunciava “malu tiempo sulla Nola-Villa Literno”. Il SUV sparato a 210 km all’ora tagliava il buio della notte con i suoi potenti fari, quando G. mi disse di scendere ad Aversa Nord e andare nel quartiere Sieggio. Decisi di fare le strade principali, approfittando dell’ora tarda, così passammo davanti all’ex campo profughi, al carcere giudiziario, e facemmo un giro di ricognizione nella strada dello shopping.
22 Arrivati al duomo G. disse: «Mi pare tutto tranquillo.» «Eh, ci credo, a quest’ora chi ci volete trovare?» rispose A. «Meglio accussi, torniamo indietro facciamo il giro e quando arriviamo davanti al negozio di ‘Tore o carestuso spariamo alle vetrine, mi raccomando tre, quattro colpi e ce ne jamm’.» La gola secca per l’eccitazione. Il gran rumore della vetrina del negozio in frantumi. Il tempo infinito per riprendere la superstrada in direzione di Villa Literno. A. che aveva sparato era eccitatissimo, non riusciva a stare fermo e saltellava sul sedile posteriore mentre guardava prima indietro e poi avanti, G. rideva e sembrava che si fosse tolto un peso dalle spalle. Percorremmo tutta la Nola-Villa Literno, quasi a voler fuggire dal nostro mondo attraversandolo da un capo all’altro. Arrivati al villaggio Coppola ci fermammo al solito bar, sempre aperto ventiquattr’ore ore su ventiquattro, scendemmo dall’auto, entrammo e ordinammo tre campari con gin. Ci furono serviti al tavolo da una cameriera rumena, con i capelli tinti di color rame e una ricrescita bionda che le dava l’aspetto di una strega dei cartoni animati. In lontananza, il mare con il rumore delle onde ci ricordava la sua presenza, quando G. iniziò a parlare a ruota libera: era soddisfatto perché aveva messo a posto la situazione di ‘Tore o carestuso e il capo gli avrebbe perdonato la mancanza di rispetto che aveva subito, quando chill’ommo e merda si era recato dai carabinieri per denunciare G. e tutta l’organizzazione di estorsione. Il capo l’aveva chiamato e gli aveva fatto una cazziata senza pietà: “Ma tu ti rendi conto che significa questo? Da domani ogni negoziante non vorrà pagarci più la tassa, ognuno diventa ‘u boss ro quartiere, e noi facciamo la figura dei fessi e tutto questo per colpa tua, perché non sai importi, non hai presenza, non sai…” e così via. Ma ora le cose erano state sistemate, il segnale era chiaro e l’indomani mattina bisognava farsi vedere in zona, magari scendere dall’auto e comprare qualcosa da ‘Tore o carestuso, così capisce e schiatta ‘n cuorpo. «Domani ci vai tu M., ti compri qualcosa e gli dici che poi passo io a pagare.» «Ok», risposi senza esitazione, anche se pensavo fosse una pessima idea presentarsi nel negozio così a caldo. Non gli davamo nemmeno il tempo di sbollire la rabbia e potevo aspettarmi anche una reazione.
23 Tuttavia l’ordine era chiaro, non potevo disobbedire o mostrare remore, sarebbe stato interpretato come una mancanza di coraggio. Quello che era stato deciso andava fatto a ogni costo. Lealtà, obbedienza, affiliazione. O così o niente. A., inclinando il busto verso il tavolino e con un tono di voce sottilissimo, chiese a G. come avessero risolto per il problema della denuncia: «I nostri amici delle forze dell’ordine ci hanno informato che per questioni politiche di facciata devono mettere delle telecamere e dei microfoni in modo da cogliere sul fatto l’esattore.» «E ora come si fa a riscuotere la tassa?» chiese ancora A.. «In modo indiretto», rispose G.. «Cioè?» ribatté A.. «‘Uaglió, ma tu fai sempre tutte queste domande?» rispose G., ridendo. Così ci raccontò del nuovissimo espediente che l’organizzazione aveva iniziato a usare, che consisteva nell’imporre un fornitore al negoziante che doveva comprare della merce pagandola quel tanto in più che equivaleva alla tassa e poi il fornitore ci tornava quello che era nostro; semplice, pulito e a prova di telecamere e microfoni. G. parlava come un vecchio saggio e noi pendevamo dalle sue labbra. Discepoli avidi di sapere, alla presenza del maestro. A. guardò G. con ammirazione e stringendogli la mano gli disse: «Don G. si’ gruosso.» Poi si voltò verso di me e contorse il viso, aprendo la bocca e strizzando l’occhio destro. Significava che lo stava prendendo in giro. A. era fatto così. G. non si accorse di nulla, ovviamente, anzi il suo viso assunse un’espressione beata. L’ammirazione era una droga per tutti i membri dell’organizzazione. Era quasi l’alba, il sole cominciava a schiarire il cielo nel lato opposto al mare, passò un’auto con lo stereo ad alto volume che riproduceva l’ultima hit del neomelodico del mese e, quasi fosse un segnale atteso, G. disse: «Si è fatta ora, possiamo andare a dormire.» Accompagnammo G. nella sua villa a tre piani, nascosta alla vista da un muro di cemento alto circa quattro metri, sormontato da una ringhiera massiccia. Appena l’auto si avvicinò al cancello una luce abbagliante c’illuminò e G. non perse l’occasione per vantarsi di questo sistema che permetteva una ripresa migliore alle telecamere di sorveglianza, installa-
24 te non per i ladri, non per la polizia, ma per gli amici. Ci fu un momento di pausa, quasi a rimarcare l’importanza dell’espediente tecnologico. Poi ci salutò, guardandoci negli occhi e augurandoci la buonanotte. Non aveva ancora capito bene la regola del saluto appena accennato, questo confermava i sospetti di A., G. non dimostrava di essere all’altezza del ruolo che aveva nell’organizzazione, proprio come don C. aveva sentenziato. Feci inversione a U nella parte finale della strada, dove uno slargo precedeva una campagna incolta. A. passò dall’eccitazione dell’azione a un profondo sonno in meno di un minuto. Lo guardai dormire, il suo respiro ritmico e rilassato era peggio di un sonnifero, così aprii il finestrino e feci entrare l’aria fresca della notte. Poi alzai il volume dello stereo così da coprire quel sottofondo di aria che entrava e usciva lentamente dai suoi polmoni. Quella era stata la prima azione violenta a cui avevo partecipato in prima persona. Finora avevo avuto tutti compiti ordinari, come riscuotere le tasse dai commercianti, rifornire gli spacciatori nelle piazze di smercio, accompagnare i camion che venivano dall’estero e dal Nord Italia per scaricare la loro munnezza nelle campagne, nelle cave, ovunque ci fosse uno scavo buono per nascondere alla vista della gente quella schifezza che, a quanto pare, valeva più dell’oro. Erano bastate solo le minacce come intimidazione, non ero mai stato costretto ad agire in modo così diretto. Fare parte dell’organizzazione rendeva bene: soldi, macchine. Ma la cosa più importante era il senso di appartenenza a qualcosa, un gruppo, una famiglia. La gente ci rispettava, ci riconosceva. Eravamo necessari per l’economia dei paesi. Senza di noi come si poteva fare? Chi avrebbe assicurato i negozianti dalle rapine? Chi avrebbe gestito il mercato della droga senza lotte assassine tra gli spacciatori? Chi avrebbe provveduto a costruire case, strade, fogne? L’organizzazione era necessaria, come il prete, il maresciallo e il sindaco, in paese ci voleva anche il boss perché tutto funzionasse, perché tutto andasse così come doveva andare: nell’interesse dell’organizzazione e a discapito di chi non apparteneva all’organizzazione. Il nostro sistema era molto più efficiente di quello di Roma: lavoro ben retribuito e se ti beccano la mesata a te e alla tua famiglia non manca mai, senza dover fare richieste, domande e marche da bollo. C’era il rischio che scoppiasse una guerra tra clan, ma fino a quando don C. fosse stato il capo il rischio era molto basso. E poi in fondo quali al-
25 ternative avevo, nell’attività di mio zio a mala pena ci campava una famiglia, lavoro non ce n’era a meno di non volersi spezzare in due dalla fatica per essere sottopagati in nero. La mia scelta era giusta, senza dubbio e senza ripensamenti. Con questi pensieri in testa, percorrendo la Nola-Villa Literno in direzione Nola, arrivai a Caivano, lasciai A. davanti al portone di casa sua dopo averlo svegliato scuotendolo con la mano sulla spalla sinistra. Mi salutò con un cenno appena visibile simile a quello di don C. e nello stesso istante iniziammo a ridere, così ci demmo appuntamento di lì a poche ore. Accompagnai A. con lo sguardo fino a quando sparì nel gran cortile del condominio in cui abitava, poi guardai nello specchietto retrovisore per fare marcia indietro e vidi il sole che si stava levando: era rosa intenso, poi si trasformò in un arancione simile al colore delle arance. Sorrisi e pensai che quel genere di pensieri delicati non erano appropriati per un uomo vero. Parcheggiai la macchina in diagonale nell’unico spazio libero disponibile in strada, a circa duecento metri da casa, quando la città iniziava un risveglio lento e pigro. Vidi le luci accese nelle cucine degli appartamenti di fronte al mio e nell’aria c’era un irresistibile profumo di caffè, il segnale inequivocabile che qualcuno stava iniziando la sua giornata. Da quand’ero entrato nell’organizzazione non avevo più un ritmo di vita regolare, non era possibile distinguere in modo netto il giorno e la notte, non seguivo una regola circa il tempo e il suo impiego. Ero in continua attività, come se il tempo passato in casa e speso nelle normali attività quotidiane come mangiare, dormire, guardare la TV, fosse tempo sprecato, un’assenza dalla vita, lontano da quell’oceano di eventi che accadevano e dei quali dovevo fare parte. Il moto perpetuo degli affari mi aveva coinvolto così tanto che ormai vivevo con la continua impressione di perdermi qualcosa che stava accadendo da qualche parte. Io non c’ero, questo non poteva accadere. Per inerzia o per abitudine, con questi pensieri mi ritrovai nudo sotto la doccia, con l’acqua calda che dolcemente lavava via i residui degli eventi che avevo appena vissuto. Erano circa le sette e quella mattina avrei dovuto consegnare un messaggio a ‘Tore o carestuso, così decisi di non andare a letto e dopo la doccia mi sedetti in poltrona e accesi la TV per guardare il telegiornale. La Politica, attesa per il voto in parlamento della nuova legge su non so cosa; la Cronaca, ennesimo omicidio di camorra a San Sebastiano al Ve-
26 suvio, tale M. B., non lo conoscevo; lo Sport, tutti avevano vinto soprattutto il Napoli, ma come era possibile che tutti avessero vinto, allora un giornalista interveniva e spiegava che, secondo la nuova regola della federazione, era possibile che in casi particolari, poteva accadere che… Era tutto frutto dello stato confusionale che precedeva il sonno quando si è molto stanchi e ci si sforza di tenere gli occhi aperti, ma stavo già dormendo da chissà quanto tempo. Fui svegliato all’improvviso, di soprassalto, con in testa un battito forte come una botte suonata dai Bottari. Un mal di testa il cui dolore faceva un velocissimo giro del cranio, premendo forte sulle tempie al ritmo del mio cuore che sembrava stesse per uscire dal petto. Mi alzai a fatica dalla poltrona, a causa dei muscoli ancora addormentati, andai in bagno e chino sul lavandino mi sciacquai il viso con l’acqua fredda, poi con il volto bagnato mi sedetti sul pavimento in attesa che quella sinfonia di dolore si placasse. Era successo ancora. Ero bambino, vestito da chierichetto e alzando lo sguardo vedevo uomini, donne e bambini in piedi con il capo chino, qualcuno anche in ginocchio sul pavimento di quella che sembrava una chiesa. Alla mia sinistra un prete alto, magro, con le spalle larghe e possenti, ma senza volto, stava consacrando un’ostia bianca che teneva sopra la sua testa con tutte e due le mani nel silenzio assoluto. L’ostia era grande, un disco troppo grande per poter essere mangiato, all’improvviso il bianco candido diventa un giallo sporco e poi un rosso vivo, il disco è diventato un pezzo di carne in cui s’intravedono i legamenti e il grasso, i colori sono nitidi, la carne sembra viva e grondante di sangue. Il prete si volta indietro e io pure, lo seguo con lo sguardo pieno di terrore sul quel pezzo di carne che ora tiene in alto con la sola mano destra, nell’altra mano un calice d’oro, ci muoviamo verso il crocifisso posto alle spalle dell’altare. Gesù è vivo, è sulla croce che piange e si lamenta. L’orrore mi assale quando mi accorgo che gli manca un pezzo di carne dal muscolo della gamba sinistra, il sangue scorre continuo dall’orribile ferita, lungo il ginocchio. Il prete avvicina il calice e lo riempie. Mangia e beve, il corpo e il sangue di Cristo, che sta morendo sulla croce.
27 Poi ci voltiamo di nuovo, la gente è in fila sempre con capo chino in attesa della comunione, scorgo anche i miei genitori in fila, provo a fermarli, ma non ci riesco, sono bloccato, non riesco a parlare come se avessi qualcosa in gola e il mio corpo è pesante e immobile. Tutti ne prendono un pezzo e tornano al loro posto con la bocca sporca di sangue. Voglio interrompere questo martirio, ma non ci riesco. Voglio che non mangino la carne viva di Cristo, ma non ci riesco. Poi mi volto verso il crocifisso e Gesù non sta più piangendo, ora mi guarda fisso negli occhi, con un’espressione che più di tutto mi gela il sangue e pone fine all’orribile incubo. Mi alzai dal pavimento, mi guardai allo specchio e sorrisi a me stesso, gli incubi erano cose da bambini, non dovevo preoccuparmene. Tornai in cucina e vidi che erano le nove meno un quarto, decisi di vestirmi, andare a fare colazione e poi svolgere il compito che mi era stato assegnato. Erano quasi le dieci quando uscii dal bar scrollandomi dalla giacca scura le briciole della polacca che avevo mangiato per colazione e con la bocca piena del sapore dolce della crema e amaro del caffè, presi l’auto per ritornare al Sieggio. Parcheggiai a lato della strada poco prima del negozio di ‘Tore o carestuso, i pezzi di vetro della vetrina erano stati già rimossi e anche i manichini con gli abiti. Prima di entrare ebbi la sensazione di essere osservato, così mi voltai e vidi due uomini che mi guardavano dal buio del negozio di fronte, mi sembrava di conoscerli. O carestuso capì subito, appena mi vide entrare. Se mi avesse fatto pagare voleva dire che la guerra continuava, in caso contrario la guerra era finita e io mi sarei portato a casa un bel regalo. Però, nel dubbio, decisi di non esagerare, non potevo tornare indietro con un conto di circa mille euro pagato. A. mi avrebbe preso per il culo almeno un anno per una cosa simile. Scelsi una cravatta il cui prezzo, scritto a mano sul cartellino che pendeva da un filo cucito a mano, era di 120 euro. Mi avvicinai alla cassa e ‘Tore o carestuso con il volto pallido, allungò una mano fredda e molliccia, strinse la mia e disse che era un regalo. «Mio zio sarà molto felice del pensiero», risposi e uscii dal negozio portandomi dietro una sensazione di sollievo che cresceva man mano che mi avvicinavo all’auto.
28 Salii, accesi il motore e chiamai subito G. per riferirgli che avevo un regalo per lui, ma stranamente non rispose. Provai altre volte, ma sempre con lo stesso risultato.
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Capitolo III - Y
Prima un fastidioso ronzio, poi una luce celeste lampeggiante. Quando mi accorsi che era l’una di notte, spostai lo sguardo dal libro avvolto nel cono di luce della lampada da scrivania. Tutt’intorno era buio e non si sentiva nessun rumore, tranne quel maledettissimo ronzio, così mi alzai e andai verso il comò, dove avevo lasciato il cellulare a caricare. Era ancora lei. Perché non smetteva di cercarmi? Per quale motivo non potevo restare a casa? Soprattutto, cosa le importava che fine avessi fatto? Decisi di spegnere il cellulare e tornai alla scrivania. Dopo due giorni di totale isolamento avevo finito di leggere il De Umbris Naturae di Giordano Bruno e ora non potevo fare a meno di pensare che solo per quest’opera avrei potuto scrivere un’intera tesi di laurea. La visione lacerata e pessimistica dell’esistenza, divisa tra un mondo ideale e perfetto e uno reale e imperfetto, si era trascinata da Platone fino a Giordano Bruno. Il mondo così come lo conosciamo è solo l’ombra di ciò che veramente è. Non viviamo in una realtà secondaria, semplicemente non siamo in grado di vedere e comprendere la verità delle cose, non riusciamo a conoscerla tutta, nella sua interezza, così possiamo vedere le cose nell’ombra e non alla luce piena e intensa della verità; che è unica ed è in tutte le cose del mondo. L’ombra non è tenebra: ma o traccia di tenebra nella luce, o traccia di luce nella tenebra… Ovvero perché non è né vera né falsa, ma traccia di quel che può essere veramente e falsamente. Ma esiste la possibilità di passare dall’ombra alla luce, da un’inconsapevole e accidentale ignoranza a una consapevole e intenzionale conoscenza, attraverso una scala composta da nove elementi; un cammino che schiarisce le ombre, che intensifica la luce, che ci avvicina alla Verità. L’arte della memoria diviene il mezzo con cui intraprendere questo cammino, il filo con cui connettere e ordinare le cose del mondo,
30 l’insieme delle operazioni interiori con cui tendere dal moto e dalla moltitudine, alla quiete e all’unità. Una visione del mondo platonica e cristiana, poiché l’ombra che avvolge la nostra esperienza è molto simile al peccato in cui la religione relega la nostra esistenza, la scala a nove elementi per raggiungere la luce è molto simile alla redenzione dai peccati che conduce alla salvezza dell’anima e alla vita eterna. Giordano Bruno era vissuto nel 1500, in un mondo in cui era impossibile pensare che Dio non esistesse e, in qualunque modo la mettesse, tutta la sua ricerca filosofica era stata indirizzata alla conoscenza di Dio, benché non lo citasse mai. Da due giorni, immerso nel buio della mia stanza, ero rapito da questi pensieri, imprigionato da catene invisibili, non potevo fare a meno di pensare al significato simbolico di una lettera dell’alfabeto. Attratto dalla sua origine egizia, tramandata dai greci e giunta fino a me attraverso l’opera di Giordano Bruno. Un simbolo che rappresenta una teoria da cui traspare il suo disprezzo per il popolo ignorante che sceglie di percorrere la strada della religione che è più agevole, più larga, meno faticosa, per darsi una risposta, per placare quel senso di inquietudine interiore che ci assale quando iniziamo a porci domande che esulano dal vivere quotidiano, quando la mente vaga attraverso spazi enormi e bui, per distanze siderali, fino a giungere alla domanda delle domande: “Chi siamo?”. Sull’altra sponda c’è chi, invece, sceglie di cercare da solo le risposte e quindi s’incammina per la strada più difficile da percorrere, un sentiero stretto e arduo, ma che dona una maggiore consapevolezza a chi riesce a percorrerlo tutto e nel modo giusto. Il disprezzo intellettuale per la beata ignoranza, la consapevolezza del dubbio, l’inconsistenza delle storie narrate e tramandate dalla Chiesa, la necessità famelica di pensare e di comprendere sono alcune delle ragioni che spingono a scegliere la strada stretta. Quest’ultima fu percorsa da Giordano Bruno, come altri prima e dopo di lui, ma alla fine non trovò alcuna ricompensa, almeno in questo mondo. La Y. La lettera pitagorica rappresenta il cammino che ogni uomo compie durante la vita. Con un gioco di prestigio la stessa metafora si trasforma e diviene il simbolo di una delle teorie di Giordano Bruno: l’arte della memoria, difficile da imparare e per questo accessibile a pochi, è lo
31 strumento con cui legare insieme tutte le cose del mondo per percepirne l’unità che sta in esse, che è contemporaneamente e indistintamente il principio creatore della sostanza e la sostanza stessa: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un’unica cosa, perché il mondo è un’unica cosa, perché il Creatore e il creato sono la stessa cosa e se la causa è infinita lo è anche l’effetto. Per questo e altro ancora fu avvolto dalle fiamme di chi non voleva porsi domande per paura delle risposte. Una teoria condensata in un’unica lettera: simbolo del bivio a cui prima o poi tutti arriviamo per fare la scelta fondamentale. La genialità di alcuni individui si esprime come creatività e immaginazione e la condensazione o la contrazione di una visione in un simbolo ne sono la prova più evidente e talmente vera da essere sopravvissuta fino ai nostri giorni. La sensazione che proviamo negli istanti in cui il nostro cervello apprende il significato di un’opera d’arte, lo stato di eccitazione e soddisfazione allo stesso tempo, l’energia che si sprigiona dal nostro interno quando capiamo che stiamo imparando qualcosa di nuovo, qualcosa di importante. È per momenti così che non riesco a smettere di leggere e di studiare. Di nuovo quel maledetto ronzio, ma più lontano. Ancora, ma questa volta sembrava più vicino. Ancora più vicino. Incredulo mi alzai e andai a controllare il display, era come l’avevo lasciato, cioè spento. Ancora il ronzio e ad ancora più vicino. Poi un cigolio stridulo seguito da un ronzio fortissimo. Un volto in chiaroscuro, illuminato da una luce azzurra e poi un braccio teso con alla fine un cellulare in mostra come se fosse una colpa. Sul display il volto sorridente di Giulia. «Rispondi», furono le parole atone pronunciate da mia sorella Lucia che a quell’ora, ancora sveglia, non aveva notato il cartello immaginario appeso fuori dalla porta della mia stanza con la scritta “non disturbare”. «Pronto.» Pensavo facesse più freddo a quell’ora di notte, stranamente la temperatura era mite e il cielo limpido con le stelle brillanti, sorrisi pensando che era una notte perfetta per due amanti. Peccato che la ragazza che mi attendeva in macchina non fosse la mia amante, ma solo “un’amica”. Uno spreco di romanticismo notturno.
32 Giulia mi aveva chiesto che fine avessi fatto e poi con tono pacato, come fosse una naturale conseguenza, mi chiese di vederci, aveva bisogno di parlarmi. Volevo essere freddo, distaccato, poi salii in macchina e lei mi salutò con il suo sorriso. Un’improvvisa felicità e una sensazione di benessere mi riportarono alla vita. Mi venne voglia di uscire, di stare fuori tutta la notte, tutta la vita. Le proposi di andare a Napoli e l’entusiasmo contagiò entrambi. Parlammo con naturalezza, prendendoci anche in giro. Ridevamo molto e nessuno dei due aveva voglia di pensare al perché fossimo lì, insieme, in quella macchina alle due di notte. Volevamo solo divertirci, essere leggeri e felici, e fu quello che facemmo. Prendemmo la Nola-Villa Literno, poi l’Asse Mediano e arrivammo a Napoli passando da Pozzuoli, lo stadio San Paolo e, attraverso la galleria Posillipo, finalmente arrivammo al lungo mare. A quell’ora di notte, sembrava che la città ci stesse aspettando, poco traffico, parcheggio libero, locali semi vuoti. Camminammo tanto, come se entrambi volessimo sfuggire al nostro destino, arrivammo fino al quartiere San Ferdinando. I troppi ricordi, in contrasto con lo spirito libero della serata, ci spinsero lontano dai soliti locali. Quella notte, tutto doveva essere speciale e avere un tocco d’imprevista originalità, così ci ritrovammo in un locale nuovo, non molto grande, con le luci soffuse. Ci sedemmo a un tavolo e ordinammo la prima birra del menù, con la promessa di ritornare per provare la seconda, la terza e così via fino all’ottava pagina. Quella notte era una di quelle in cui il tempo si ferma, la magia delle luci della città ti coinvolge emotivamente e per quanto cerchi di resistere, non puoi non pensare che la vita sia un dono meraviglioso. Assaggiammo la prima birra del menù, aveva un gusto un po’ aspro, ma ricco e intenso. Aveva qualcosa da raccontare: la storia di chi l’aveva prodotta, il luogo in cui erano stati coltivati i suoi ingredienti. Bevemmo in silenzio, Giulia si avvicinò e posò la sua testa sulla mia spalla sinistra. Nel frattempo, con fare lento e inesorabile, era entrato dalla porta del locale e si era seduto al nostro tavolo, di fronte a noi, il cappello tra le mani, il volto in ombra, serio e in attesa che lei parlasse. Il destino ci aveva scovato, il nostro tentativo di fuga ci aveva fatto guadagnare solo poche ore. Giulia ruotò la testa in modo da potermi guardare negli occhi e disse: «Perché non sono felice?» Non risposi, nonostante avessi voluto dirle tante cose, ma non sarebbe stato giusto in quel momento di sua fragilità. Così continuò, con una se-
33 rie di domande rivolte più a se stessa che a me o al destino che era seduto di fronte a noi. Elogiò Marco, più per i suoi averi che per il suo essere. Raccontò a noi tutti come fosse giusta la sua scelta, quale vita avesse condotto di lì a poco e come il matrimonio fosse il suo approdo naturale. La sua ricompensa per aver vissuto dovendo fare molti sacrifici, a casa sua di certo non erano ricchi. Le sue parole non sembravano quelle di una ragazza di vent’anni innamorata e pronta a tutto pur di vivere la propria storia d’amore, erano quelle di una donna matura, esperta, che aveva già vissuto la sua vita e con il senno di poi pensava di sapere bene cosa scegliere. Dopo una pausa di silenzio, continuò e questa volta era un’altra persona a parlare. La ragazza di vent’anni voleva completare gli studi e fare un viaggio all’estero, vedere il mondo, conoscere altra gente, scrivere, leggere, amare qualcuno che valesse la pena d’amare, qualcuno che conquistasse il suo cuore e la sua mente. Non c’era alcun bisogno che parlassi, o che ponessi domande, avevo intuito e immaginato quel discorso fin dal momento in cui mia sorella, Lucia, era entrata in camera con il volto sorridente di Giulia nella sua mano destra. La scelta non era mia, ma sua. Il destino non era lì per me, ma per lei. Giulia mi guardò negli occhi e intuì il motivo del mio silenzio. Mi aveva già ferito una volta, era prevedibile che tra me e lei ci fosse un muro, un argine atto a trattenere gli slanci emotivi nei suoi confronti. Era vero. Non volevo, per nulla al mondo, ritornare in balia dei suoi sentimenti, già una volta ero stato naufrago tra le onde della sua tempesta emotiva. Ci fu un’altra pausa di silenzio, nella quale pensai di aver avuto più risposte lasciandola parlare liberamente piuttosto che aggredendola con un’irragionevole petulanza. Continuò il suo discorso, elencando una serie interminabile di dubbi sulla nostra relazione e quella con Marco. Viveva una straziante dicotomia, così in uno slancio di coraggio mi voltai verso di lei e la baciai. Sembrava che non stesse aspettando altro, fu come se avessi scelto al posto suo e l’avessi tratta in salvo da quella sofferenza. Purtroppo nell’esatto istante in cui la baciai, capii che non l’amavo più. Quando ci staccammo, ero completamente immerso in questa novità, presi il bicchiere per bere un sorso di birra. Nel buio del locale il destino si alzò, rimettendosi il cappello in testa e uscì dal locale allo stesso modo in cui vi era entrato. Il destino era lì per me. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD