Federica Speranza
L’ASSAGGIO
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L’ASSAGGIO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Federica Speranza
ISBN: 978-88-6307-373-7 In copertina: Immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Luglio 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
Ai miei nonni, che mi hanno insegnato a sorridere alla vita, nonostante tutto.
A volte basta un attimo per scordare una vita, ma a volte non basta una vita per scordare un attimo. Jim Morrison
Succede che all’improvviso, forse per uno scherzo del destino, la tua vita cambia improvvisamente. Succede che un mattino ti ritrovi a farti domande per le quali non esistono risposte, domande che mai avresti pensato di doverti porre. Succede che tutto quello su cui avevi fatto affidamento, tutte le convinzioni e le certezze che ti eri costruita vanno a farsi benedire e ti ritrovi a dover fare i conti con una nuova te stessa. Succede che improvvisamente ti devi sedere perché ti senti vacillare. Il tuo equilibrio diventa talmente precario, che capisci che se non vuoi cadere, è arrivato il momento di fermarsi un attimo e riflettere. Succede che se noi non siamo in un universo statico, il tempo non è un’illusione, e due settimane sono un sacco di tempo.
9
«Ciao sono Nicola, posso aiutarti?» furono le prime parole che udii quella mattina di quasi tre anni fa. «Ciao, io sono Sara, vorrei un preventivo per il Monster 620» dissi allungando la mano. Mi fece accomodare e disse che avrei dovuto attenderlo solo pochi secondi, prima di allontanarsi e andare a salutare una persona che stava uscendo dal negozio. Nicola ritornò alla scrivania dopo pochi minuti e si sedette di fronte a me. «Bene, Sara, vediamo cosa posso fare per te» disse incominciando a scrivere freneticamente su un foglio. «Hai un usato da rottamare?» domandò senza alzare gli occhi dal pezzo di carta che aveva di fronte. «Mmm, veramente sì» risposi indicando il mio motorino parcheggiato fuori. Nicola guardò rapido attraverso la vetrina, prima di girarsi e comunicarmi in modo garbato che quel coso, lo chiamò esattamente così, non me lo avrebbe ritirato. Quel “coso” era stato il mio compagno di traffico per due anni. Era vecchio e malconcio, aveva la carena sinistra tutta graffiata a causa di un volo acrobatico con atterraggio sui binari del tram. Aveva riportato solo qualche graffio, io invece tre punti sotto il mento, ma dopotutto funzionava e il pensiero di trasformarlo in un cubetto di lamiera accartocciata non mi aveva neppure sfiorato l’anticamera del cervello. Il mio viso doveva aver assunto un’espressione affranta, perché all’improvviso Nicola tornò a guardarmi «Aspetta un momento,
10 vediamo cosa posso fare» aggiunse sospirando, prima di dileguarsi su per una scala. Sarei voluta scappare e portare in salvo il mio motorino, ma a un tratto, da in cima al soppalco sentii delle voci. Una era quella di Nicola “l’assassino” e l’altra era quella di un tale, con una tuta blu. Mario Bros. «Roby, tu che dici? Se vuoi, glielo ritiro, ti paghi il trapasso e lo tieni così, giusto per non usare sempre la moto» domandò Nicola al tale che gli stava accanto. L’amico strabuzzò gli occhi continuando a tenere le mani nascoste nelle tasche della tuta. «Ma ti sei rollato una canna con il copione di Zelig? Cosa me ne faccio di sto cadavere?» rispose incredulo Mario Bros. Lo fulminai con lo sguardo, ma cosa stava dicendo? Come si stava permettendo? «Oh piano, piano, io sono venuta per comprare una moto, non per far insultare Varenne» dissi scocciata e sempre più convinta di volermene andare. «Chi?» chiesero in coro spostando il loro sguardo su di me. Indicai il mio scooter parcheggiato fuori davanti alla vetrina. Sì lo so, Varenne era un po’ impegnativo per un Booster cinquanta, ma con i suoi pari non aveva niente da temere. Il tizio che me lo aveva venduto era un mezzo malato di mente, ci aveva speso un sacco di soldi. Aveva montato una marmitta Polini for race tre, un variatore tpr, un albero motore rms super racing e una centralina Leonelli rimappabile. Almeno queste erano le cose che ricordavo, ma nell’insieme non avevo la minima idea di che diavolo fosse tutta quella roba. Sapevo, però, che Varenne arrivava con disinvoltura ai 100 km/h. Unica pecca: carena gialla con fiamme rosse sul parafango posteriore. Era questo che intendevo affermando che il tizio che me lo aveva venduto aveva dei seri problemi mentali. «Ma, hai mai guidato una moto prima?» domandò il tizio con la tuta da Mario Bros, continuando a ridacchiare. «Secondo te? La patente l’ho presa con i punti fragola dell’Esselunga?» risposi scocciata. Fu la mia fine. Ci mancava solo che si fossero sbattuti per terra a gambe per aria
11 «Va bene, magari torno, in un altro momento» affermai paonazza. Nicola cercò di ritrovare un minimo di contegno, non tanto per me, ma per gli altri clienti che, invece di farsi gli affari loro, stavano ascoltando quell’assurda conversazione. Mario Bros invece continuava a ridere… Vidi Nicola fulminarlo con gli occhi per poi ritornare a guardarmi ormai serio «No aspetta, ricominciamo daccapo, che ne dici? Anzi, Roby, vedi di riprenderti anche tu, perché a questo punto, se Sara se ne va senza il Monster, ti trattengo le provvigioni dalla busta paga». «Ma io non lavoro a provvigioni e soprattutto non lavoro qui!» rispose asciugandosi gli occhi con il palmo delle mani. «Ah sì? E allora, com’è che sei sempre dentro la mia officina? La tua moto in pratica te l’ho pagata io! Avvocato!» In quel momento cominciai a perdere totalmente il filo del discorso, quei due mi sembravano uno più folle dell’altro, ma alla fine l’“Avvocato” riuscì a tornare serio e mi fece firmare il contratto. Fece tutto lui, persino le pratiche del finanziamento e assicurò che me l’avrebbero consegnata dopo una settimana. «Dai, hai visto che alla fine ti ho anche fatto risparmiare?» disse sorridendo. Il suo atteggiamento era cambiato e la sua voce era diventata più gentile. «Anche? Perché? Cos’altro avresti fatto, a parte prendermi in giro per quasi un quarto d’ora?» risposi ormai in balia di quel tale. «Scusa, ma te la sei cercata…» disse continuando a copiare i dati della mia carta d’identità sul modulo del finanziamento. «Quindi Varenne non lo volete?» domandai facendo un ultimo, disperato tentativo. «Mmm… Anche no». Come se ci avesse pensato seriamente solo per un momento.
Ritirai la moto, come stabilito dopo una settimana, trovando in negozio solo Nicola, con mio immenso sollievo. «Stai attenta, non è il Booster: se apri, questa va. Magari, quando arrivi a casa, fammi uno squillo» ripeteva serio.
12 Sì mamma, ti chiamo, ma tutti a me devono capitare? pensai. «Ok, stai tranquillo, andrò piano» risposi sbuffando. «Speriamo» replicò preoccupato. In quell’attimo mi tornò alla mente il film “Travolti da un insolito destino sperduti nell’azzurro mare di Agosto”. “E non dica speriamo con quel tono iettatorio!” avrei voluto rispondere. Arrivai a casa sana e salva, per la gioia di Nicola, che alla mia telefonata tirò un sospiro di sollievo. Per lo meno non si sarebbe sentito in colpa se fosse accaduto qualcosa. Cenai svogliatamente con qualche avanzo trovato nel frigo senza fare troppo caso a non mischiare carboidrati e proteine, come al mio solito. Erano passate le nove da un pezzo e in tv non c’era nulla in grado di catturare la mia attenzione. Ad un tratto sentii una moto fermarsi sotto casa. Mi alzai pigramente dal divano e ciondolai fino alla finestra per guardare fuori. Sbirciai e intravidi un tizio alto slacciarsi il giubbotto. Non vidi parecchio dalla finestra, ma ormai mi ero ripresa dal mio torpore, così spensi il televisore e infilai un cd nello stereo. Feci appena in tempo a premere play prima che suonasse il citofono. «Chi è?» risposi controvoglia. «Il tuo venditore preferito». «Chi sei?». «Sono Roberto l’amico di Nicola». E questo che ci fa qui? Pensai. «Dobbiamo continuare a stare come due imbecilli al citofono o mi fai salire?» aggiunse sfrontatamente, facendomi sorridere. «Sali, quinto piano». Forse era arrivato il momento della vendetta, avevo omesso di avvertirlo che erano sì cinque piani, ma senza ascensore. In quel momento provai una piacevole sensazione di trionfo. Il campanello della porta suonò troppo in fretta e constatai che il record delle scale era stato triturato. Di solito avevo margine anche per mettere su il caffè. «Ciao!» disse con tono amichevole. Almeno aveva il fiatone e le mani appoggiate sulle ginocchia, altrimenti l’indomani sarei andata a farmi vedere da uno pneumologo.
13 Solitamente quella rampa di scale la facevo a tappe come il giro d’Italia, invece lui in meno di quarantacinque secondi era già su. Avevo anche rinunciato a fare la spesa, cioè la ordinavo su internet e la vittima sacrificale di turno me la portava fino al pianerottolo. Non sono mai stati gentili con me, però ho sempre dato la mancia e sperato nel loro perdono. «Ciao, entra» dissi spalancando la porta «Ho dimenticato di firmare qualcosa?» «No, ma tanto… sei sempre disponibile…». Il fiato ormai l’aveva recuperato tutto. «Scusa?». «La felpa...» rispose puntando l’indice all’altezza del seno. Abbassai lo sguardo e lessi quello che c’era scritto. “Always available”. «Cos’è, hai anche la vista bionica?» domandai ironicamente, arrossendo un po’. Scosse appena la testa «No, è che mi è saltata all’occhio la tua felpa». Come no, la felpa… «Posso offrirti qualche cosa? Lo vuoi un caffè?» dissi cercando di cambiare argomento. «Non ce l’hai una birra?» chiese sfacciatamente sfoderando un bellissimo sorriso. «Facciamo che ti porto il menù, cosa dici?». Evitò di rispondere alla mia provocazione, si guardava attorno con aria strana e io guardavo lui con altrettanta curiosità. «È carino qui!» disse posando il suo sguardo sul mio. «Grazie». Era diverso da come l’avevo visto in officina. Aveva un completo grigio scuro, la camicia bianca e una cravatta che gli usciva appena dal taschino della giacca. Restai immobile a fissarlo per alcuni secondi. C’era qualche cosa di singolare nei suoi occhi verdi, qualcosa in grado di attirarmi come una calamita. «Com’è guidare una moto vera?» domandò accorgendosi che lo stavo fissando. Mi girai alla svelta prendendo una birra dal frigorifero, tentando di evitare di imbambolarmi ancora su di lui.
14 Cercai nel cassetto l’apribottiglie, ma come al solito non riuscii a dissotterrarlo dalla marea di cose che lo seppellivano così presi dal tavolo l’accendino e feci saltare via il tappo con un colpo secco. Lui mi guardò alzando il sopracciglio. «Però!» disse scuotendo la testa in segno di disapprovazione «Molto femminile...». «Ci devo ancora prendere un po’ la mano, ma la sensazione è bella» risposi, lasciandomi alle spalle la sua affermazione. Tornando verso il soggiorno sentii squillare il cellulare. Cominciai a cercarlo, seguendone il suono. Rovistai velocemente sotto i cuscini del divano, sul tappeto, senza riuscire a trovarlo. «Cerchi questo?» domandò a un tratto sventolandolo in mano. Dovetti afferrarlo al volo. Per poco non finì a terra. Risposi. Era mia madre ferma in mezzo alla strada con la macchina in panne, per la terza volta in un mese. Mi chiese se avessi potuto passare a recuperarla. Mi feci dare indicazioni sul luogo in cui si trovava, assicurandole che l’avrei raggiunta il prima possibile. Attaccai felice che in quell’occasione avesse avuto un tempismo da manuale. Cominciavo a sentirmi a disagio in sua compagnia. «Tutto bene?» chiese Roberto. «Sì, scusami, ma devo andare a prendere mia madre. Si è rotta la macchina e ha bisogno uno strappo» dissi, troppo velocemente «Tu finisci con calma la tua birra, tanto io mi devo vestire». «Cos’è, le hai prestato Varenne?» domandò alzando il tono di voce «Vengo con te, posso?» aggiunse affacciandosi alla camera. A un tratto vidi spuntare la sua testa oltre le ante dell’armadio, mi coprii velocemente con il maglione che mi stavo infilando, cacciando un mezzo urlo. «Fuori di qui!» dissi infuriata. Lo sentii ridere, appoggiato alla porta. «Stai tranquilla, non ho visto niente». Restammo in silenzio per alcuni istanti prima di tornare a parlare. «Allora che faccio, ti accompagno?».
15 Sbuffai «Se vuoi, ma non so a che ora torno indietro» risposi sperando che rinunciasse. Invece raccolse velocemente le sue cose e mi seguì fuori dalla porta. Il mio garage a quell’epoca era stracolmo di roba. Tutto era sistemato in modo tale che parcheggiare qualsiasi cosa significava farsi una partita a tetris. «Che caos!» esclamò appena aprii la saracinesca, passandosi una mano tra i capelli spettinati. Lo fulminai con lo sguardo per impedirgli di fare qualsiasi altro commento. Capì che non era il caso di forzare la mano, parcheggiò la moto e salimmo in macchina. «Guido io?» domandò allungando la mano, sperando che gli passassi le chiavi. «Non credo proprio!» replicai seccata. Durante il tragitto parlò del più e del meno, mi chiese come fossi capitata in negozio e da quanto tempo conoscessi Nicola. «Veramente abbiamo un amico in comune. Non l’avevo mai visto prima» dichiarai. Lo vidi pensare qualche istante e ne approfittai per spostare la discussione su di lui. Gli chiesi perché Nicola lo avesse chiamato “Avvocato”, scatenando nel suo viso una strana espressione. Aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo prima di rispondere. «Perché effettivamente, è quello che faccio. Mio padre è avvocato e naturalmente, secondo i suoi piani, dovevo diventarlo anch’io. È una specie di tradizione di famiglia, hai presente?». Rimasi sbalordita. L’avevo visto per la prima volta con una tuta da meccanico e le mani tutte sporche di grasso. L’ultima cosa che avevo pensato era che di giorno s’incravattasse per andare a discutere cause in un tribunale. «Missione compiuta. Sarà contento!» farfugliai. «Lui di sicuro, io un po’ meno» sospirò, distogliendomi dalla sua immagine di super eroe dei videogiochi. «Spiegati un po’ meglio» dissi. «È stato come una specie di accordo: tu diventi avvocato e io ti lascio fare con i motori. Non avevo alcun interesse a intraprendere questo tipo di carriera, ma sono figlio unico e lo studio dovrà andare avanti. In compenso però riesco a ritagliarmi parecchio tempo libero. Diciamo
16 che mio padre per ora se la cava bene anche senza la mia costante presenza». «Di cosa ti stai occupando in questo momento?». «Nulla in particolare. Sto facendo delle ricerche per conto mio» asserì distratto. Avrei voluto chiedere di cosa si trattasse, ma il movimento che fece sporgendosi verso di me mi irrigidì. Si tese per guardare il contachilometri mentre la tangenziale scivolava veloce fuori dai finestrini, forse troppo se a guidare non era lui. Rimase a fissarmi per qualche istante sperando che rallentassi. Era nervoso, ma mai e poi mai avrei fatto qualche cosa per farlo sentire a suo agio. Il mio orgoglio era ancora troppo ferito. Lo capì e sorrise restituendo il suo sguardo alla strada. «Ma, non sei un po’ troppo giovane per essere già avvocato?» chiesi riportando il discorso a dove lo avevamo interrotto. «Ora mi toccherà restituirti il complimento. Ho trentadue anni» rispose osservando i miei movimenti. «Allora i complimenti te li faccio sul serio». «Questi però, me li prendo senza restituirteli. Mi sono fatto un mazzo spropositato. A diciannove anni mi sono diplomato, a ventiquattro ho preso la laurea e a ventisei, dopo due anni di praticantato, ho dato l’esame di stato» disse compiaciuto. Distolsi per un momento gli occhi dalla strada per guardarlo. «Mi hai fatto venire il mal di testa» dichiarai stupita. «Addirittura?». «Io mi sono laureata quest’anno e ho dovuto perfino accelerare la cosa, altrimenti…». «Laurearsi a trent’anni non è mica una tragedia. Io ci ho messo poco perché non mi è mai piaciuto quello che mi era stato imposto di fare. Ho preferito togliermi di mezzo l’università il più velocemente possibile». Già, perché a me piaceva economia? Manco per sogno. Avevo passato l’esame al conservatorio come pianista ma mio padre, senza neppure anticiparmelo, mi aveva iscritta al liceo. “Non si mangia con la musica” dichiarò negandomi qualsiasi possibilità di replica.
17 «Ciao Mamma!» dissi scendendo dall’auto. «Meno male che si è rotta la macchina così almeno ti vedo». Un grazie no? pensai. «Ma se ci dobbiamo vedere questo fine settimana!» esclamai. «Sì certo!Perché te l'ho chiesto io». Scossi la testa rassegnata. Ad un tratto, alle mie spalle, sentii la voce di Roberto. «Posso presentarmi?» disse allungando la sua mano verso mia madre. Gli occhi di mia mamma si fecero due piccole fessure, mentre cercavano di ricordare se e dove l'avesse già visto. «Scusatemi. Mamma lui è Roberto» dissi esitando appena. «Signora, posso dare un’occhiata alla sua macchina?» domandò Roberto già vicino allo sportello. Mia madre lo squadrò da capo a piedi. «Prego, faccia pure» rispose continuando a studiare i suoi movimenti. Roberto aprì la portiera e fece scivolare la mano sotto il volante alla ricerca della levetta del cofano mentre mia mamma continuava a guardarlo chiedendosi: ma quello chi è? Che cosa fa con mia figlia? Effettivamente chi era, in parte lo avevo capito, ma cosa facesse lì con me, non esattamente. Non osò fare domande, sapeva che non le avrei detto nulla e non importava che ci fosse stato meno di zero da raccontare. Per lei era già un avvenimento trovarmi in compagnia di qualcuno che non fosse Anna. Poco dopo Roberto riapparve da dietro il cofano, girò la chiave e in un lampo fece partire la macchina. «Ecco fatto signora, era un manicotto. In ogni caso adesso è tutto a posto» disse pulendosi le mani con uno straccio. Un mani-che? Pensai strabuzzando gli occhi. «Preferirei accompagnarla a casa. Non si sa mai, l’ho giuntato con la mia cintura e non so se regge». «Lei è un meccanico?» chiese stupita. «Ufficialmente sono un avvocato, ma nel tempo libero mi piace giocare un po’ con i motori» rispose, facendomi l’occhiolino. Dopo quell’affermazione sapevo già a cosa stava pensando mia madre… “E speriamo che ti piaccia anche mia figlia”.
18 «Sara, seguici, per cortesia» Roberto aprì la portiera e fece accomodare mia mamma al posto del passeggero. «Grazie Roberto, mi sento più sicura se guida lei» rispose sedendosi, continuando a fissarlo con occhi adoranti. «Signora mi dia del tu. La prego». «A patto che smetti di chiamarmi Signora». «D’accordo». La mia testa si muoveva da una parte all’altra, come se stessi guardando una partita di ping-pong. Cercavo di star dietro a quello scambio di battute troppo cortese. Mi chiedevo fino a che punto la mente di mia madre stava viaggiando incontro a speranze alle quali non avrei voluto dare spazio. Da quella sera Roberto divenne il figlio maschio che avrebbe tanto voluto avere. Lei e mio padre si separarono immediatamente dopo che lui si fece beccare letto con la mia insegnante di ginnastica artistica. A quell’evento seguirono settimane di urla e piatti rotti prima che mio padre si decidesse a prendere le sue cose e andarsene da casa. Avevo sei anni quando incominciai a vivere la mia vita di figlia a metà. Dal lunedì al venerdì stavo con mia madre e i weekend li trascorrevo insieme a mio padre. Lui e Daniela, così si chiamava la mia insegnante di ginnastica artistica, si sposarono dopo quattro anni. Ancora oggi mi chiedo cosa ci vedesse lei in mio padre. Cosa invece ci trovasse mio padre in lei era fin troppo palese. Aveva dodici anni in meno ed era una figa pazzesca. «Grazie Sara, e scusami ancora per il disturbo, se avessi saputo che eri in compagnia non ti avrei chiamata» farfugliò mia madre, mentre cercava le chiavi di casa nella borsa. «Eh? Quale compagnia?» ribattei aggrottando la fronte. «In ogni caso, tieniti libera per mercoledì prossimo, vi aspetto a cena» disse guardando Roberto. «Vi?» chiesi sorpresa. «Sì, tu e Roberto, ci siamo messi d’accordo in macchina». Andiamo bene, sussurrai.
19 «A proposito, quando avevi intenzione di dirmi che ti sei comprata una moto?». …Veramente mai… «Te l’avrei detto a cena una di queste sere» risposi mentendo. Qualcosa non quadrava quella sera. Stavo beatamente facendo zapping sul mio divano, quando improvvisamente Mennea si autoinvita a casa mia, invade i miei spazi, la mia tranquillità, si presenta a mia madre come il più caro dei miei amici e infine le spiattella i fatti miei? Ma questo qui chi diavolo è? pensai irritata. Sulla strada del ritorno guidavo più nervosa e veloce di prima. Distolsi per un momento lo sguardo dall’asfalto scuro e lo guardai senza dire nulla. Se ne accorse, ma fece finta di niente. «Posso salire a finire la mia birra?» chiese continuando a guardare fuori dal finestrino. «No!» risposi seccata. «Ma io devo salire per forza» ribatté sicuro. «Non credo proprio». «Ok, allora mi lasci alla fermata della metropolitana? Sai, dovrei tornare a casa ma, visto che non posso riavere indietro il casco e la moto, mi sa che mi toccherà prendere il treno». Cavolo! L’avevo scordato. Per salire raccolsi tutte le forze in mio possesso e riuscii a farcela senza fermarmi. Arrivati davanti alla porta, pensai che stesse per venirmi un collasso. Non avevo più saliva, la faccia era diventata bollente e le gambe erano dure come il marmo. Capii che forse era giunto il momento di smettere di fumare e iscrivermi immediatamente in palestra. Aprii e mi precipitai a prendere le sue cose. Fece un sospiro profondo «Vuoi proprio che me ne vada, vero?» domandò, mentre gli restituivo la sua roba. Sì, volevo che andasse via, ma non avevo intenzione di essere scortese, dopotutto era stato gentile con mia madre e mi aveva risparmiato l’incombenza di ritornare a recuperare la macchina. «Sono stanca e domattina mi devo svegliare presto, scusami» risposi, questa volta un po’ più garbata.
20 «Ok! Allora ci vediamo sabato» asserì sicuro. Le parole uscirono talmente veloci da investirmi in pieno. «No, non posso» risposi freddamente Si ritrasse indietro, con un gesto involontario.. «Hai già un impegno o non vuoi uscire con me?» la sua espressione divenne tesa. Non riusciva a capire fino a che punto poteva spingersi. «Ho già un impegno». E comunque, non volevo uscire con lui. «Devo andare ad aiutare mia madre. Sta traslocando» aggiunsi sospirando. Serrò le labbra in una smorfia di rammarico «Dove va?» domandò senza smettere di guardarmi. Per un attimo mi persi dentro quegli occhi verdi. «Si trasferisce in Toscana tra due settimane, non te l’ha detto in macchina?» dissi stizzita. «Tu rimani vero?». «Rimango, Rimango» risposi alzando gli occhi al cielo. Vidi il suo viso distendersi e la bocca trattenere un sorriso. «Ti passo a prendere alle otto e mezzo, fatti trovare pronta» disse immediatamente dopo «Alle otto e mezzo? Di mattina?». «Sì perché?» rispose secco, spazzando via ogni mio dubbio. «Tu sei impazzito! Secondo te mi sveglio presto anche il sabato? Almeno il weekend, vorrei non sentire la sveglia!». «Mmm vediamo...» si fermò a pensare per qualche istante, mentre i suoi occhi non mollavano la presa. Aveva capito che era l’unico modo per tenermi in quel cerchio che mi aveva disegnato intorno. «Ci sono!» esclamò «lasciami una copia delle chiavi di casa, ti sveglio io!». «Non se ne parla nemmeno!» risposi, scuotendo la testa. La discussione stava prendendo una piega diversa. Era riuscito, non so come, a tranquillizzarmi. «Ti prometto che ne varrà la pena» sorrise malizioso. «Cosa? Seguirti non so dove sabato?» questa volta il mio sguardo si era posato sulle pieghe della sua bocca. «Scusa, ma non posso proprio, te l’ho detto devo aiutare mia mamma con il trasloco» aggiunsi.
21 «Chiamala e dille che domenica avrà due ospiti a pranzo. Agli scatoloni ci penso io. Vedrai che non ti farà storie, dopotutto le sto simpatico». Lo guardai di sottecchi, volevo capire fino a che punto avrebbe insistito. Forse troppo, per potergli dire di no. «Eh va bene, hai vinto tu!» affermai rassegnata. Aprii la porta e lo invitai ad andarsene. Lui sorrise e avvicinò le sue labbra al mio orecchio. «La moto la rivoglio!» sussurrò dandomi un bacio leggero sulla guancia. Con un gesto lento sfilai dal doppione delle chiavi quella del Box e del cancello elettrico. «Me le ridai sabato, ora vattene però!» dissi indicandogli le scale.
Quando il sabato seguente mi svegliai sentendo un suono sordo echeggiarmi nelle orecchie, pensavo facesse parte del sogno che stavo vivendo, ma lentamente presi atto che non si trattava del mio subconscio. Aprii a fatica gli occhi, mentre scendendo dal letto, cercavo di non inciampare nei vestiti che qualche ora prima avevo letteralmente gettato a terra. Risposi al citofono, ma era l’ultima cosa che avrei voluto fare. A un tratto vidi il mio viso riflesso nello specchio e riuscii a spaventarmi da sola. Non mi ero neppure struccata prima di buttarmi a letto. Il mascara disegnava dei ridicoli contorni nerastri intorno agli occhi e i capelli, che non mi ero neppure presa la briga di sciogliere, avevano una piega tutta loro. Ma chi se ne frega… pensai. «Sali, sono un po’ in ritardo» dissi ancora addormentata. «Com’è che lo sospettavo?» asserì la voce robotica. Mi girava la testa e il martellare incessante che avvertivo nelle tempie non lasciava molto spazio a movimenti svelti, così rinunciai a intraprendere qualsiasi attività e lo aspettai davanti alla porta. Forse avrei dovuto precipitarmi in bagno e porre rimedio a quel disastro, ma
22 per la mia incolumità decisi che era decisamente meglio non muovermi da dove mi trovavo. «Ma sei ancora in pigiama!» esclamò dandomi un bacio sulla guancia, senza fermarsi veramente a guardarmi. Richiusi lentamente la porta, attenta a non farla sbattere, cercando di evitare di procurare rumori che potessero peggiorare la situazione. Si girò e rimase immobile di fronte a me. «Ma cosa?…» disse trattenendo a stento una risata. «Shhh ti prego. Non dire niente. Ieri sera ho fatto un po’ tardi» dissi a bassa voce. «Mmm… e mi sa che hai anche esagerato un pochino vero?». «Tutta colpa di Anna» mugugnai. Mi appoggiai al muro, coprendomi gli occhi ancora troppo sensibili alla luce. «Anna?» domandò curioso. Per un momento mi balenò nella testa l’ipotesi di raccontargli chi fosse Anna, ma mi resi immediatamente conto che mi ci sarebbero volute troppe energie, di cui al momento non disponevo. «Tranquillo, dieci minuti e sono pronta». «Dai, vatti a fare una doccia, io intanto ti preparo il caffè. O preferisci che venga a insaponarti la schiena?» chiese con tono irriverente. «Scelgo il caffè. Grazie». Cercavo di non biascicare, almeno questa figura tentavo di risparmiarmela. «E chi lo dice che devi scegliere, puoi avere entrambe le cose». Feci finta di non sentire e seguii il mio istinto di sopravvivenza verso il bagno. «Posso mettere su un cd?» chiese dal corridoio. «Fai pure, tanto ormai… Mi casa es tu casa» risposi sospirando. «Ma quanti ne hai?». Lo immaginavo smarrirsi tra le mensole della sala. «Quattromilatrecentoventidue» gli gridai dal bagno. L’acqua mi fece riprendere contatto con la realtà. Sentivo che stavo tornando in possesso delle mie facoltà fisiche e mentali quando la sferzata di vitalità arrivò decisa, appena spostai il rubinetto verso l’acqua fredda.
23 «Cominci a spaventarmi. Non stai parlando sul serio vero? Non mi dire che sai esattamente quanti sono?» domandò con tono preoccupato. «Be’, più o meno». Erano veramente quattromilatrecentoventidue. «Vabbé, ho capito, scelgo a caso» Un sorriso affiorò sulle mie labbra, ascoltando cosa aveva messo. …e centomila occhi si voltarono a guardare il cielo, con un sospiro leggero, Era la canzone ideale per iniziare la giornata, in fin dei conti quello lì mi sembrava che venisse sul serio da un altro pianeta. Uscii dalla doccia accompagnata dalle parole di Vasco. Sicuramente più presente di qualche minuto prima. …E centomila cuori cominciarono a sondare il cielo, con un sospiro leggero, da quella parte si è da quella parte che, sarebbero venuti loro, non c’era che aspettare fino all’alba con pazienza e rassegnazione, avrebbero risolto tutto quanto loro senza fare il minimo, rumore. Avevano bisogno di loro… «Sono pronta, bevo il caffè e possiamo andare» dissi, passandomi l’asciugamano tra i capelli bagnati. «Fai con calma, ti ho preparato anche due fette con la marmellata». «Non per farmi i fatti tuoi, ma dove andiamo?» chiesi impaziente di conoscere la nostra destinazione. Mi sedetti di fronte a lui e nell’istante in cui mi stava versando il caffè, il mio cellulare incominciò a squillare. «Ciao Anna». «Sara, mi devi raccontare tutto, ma sei sveglia?» allontanai il telefono, cercando di preservare il timpano dal suo entusiasmo. «Raccontare cosa?» chiesi stupita. «Mi ha chiamato tua mamma, mi ha detto dell’altra sera. Ma perché non mi hai detto nulla ieri, possibile che certe cose debba venirle a sapere sempre dagli altri!»
24 Figuriamoci se il gazzettino padano non aveva menzionato l’evento. «Ma, raccontato che?». «Smettila e parla!» incominciò a sparare mille domande a raffica «Chi è, come l’hai conosciuto? Come si chiama? Tua mamma sostiene che è bello, gentile e… avvocato!». Ovviamente non poteva aver tralasciato quel particolare. Mi chiedevo come diavolo facesse ad avere tutta quella vitalità. Dai miei pochi ricordi sfuocati, la notte appena trascorsa era stata deleteria per me quanto per lei, eppure non smetteva di parlare nemmeno per riprendere fiato. «Guarda, facciamo che te lo passo, così parli direttamente con lui eh? Cosa ne pensi?» domandai. «Non fare la cretina, vuoi raccontarmi sì o no?» disse impaziente, certa che lui non fosse lì con me. Lui mi guardava divertito, cercando di capire cosa stesse accadendo. «Roby, c’è una mia amica che pare molto interessata a te. Vuole sapere chi sei, da dove vieni. Posso passartela? Così almeno le chiarisci tutti i dubbi ed io faccio colazione in pace». Sorrise facendomi cenno di passargli il telefono. «Ciao, sono Roberto, tu chi sei?». Anna ci mise un po’ di secondi a realizzare. «Ah, sei la migliore amica di Sara» ci fu solo un attimo di pausa prima che la curiosità prendesse il sopravvento. «Scusa, ma sei l’Anna con la quale è uscita ieri sera?» domandò guardandomi con aria inquisitoria. Rimase solo un momento in silenzio. «No, non mi ha detto niente. È solo che questa mattina, quando sono arrivato non era… come dire… in forma. Cosa avete combinato stanotte?». Sperai che Anna, per una volta nella vita, riuscisse a tenere chiusa la bocca ma quando poco dopo lo vidi annuire divertito capii che gli stava raccontando tutto. «Senti, oggi te la rapisco, ma non preoccupatevi, ho i sette giorni, vero?» disse Roberto sorridendo. «Per il reso: soddisfatto o rimborsato» aggiunse. Gli lanciai l’asciugapiatti, mentre mi ripassava il telefono. «Sara, mi devi racc…». Attaccai ancor prima che Anna potesse aggiungere altro.
25 Arrivammo davanti a un bar, fuori c’era un gruppetto di ragazzi, qualcuno aveva in mano un cornetto, qualcun altro la tazza del cappuccino. Parlavano e si muovevano a rilento nelle loro tute di pelle. «Guarda che devi scendere, non ci tocchi su questa» disse, girandosi. «Spiritoso», risposi facendogli una smorfia. Ci avvicinammo lentamente al gruppo di persone sedute ai tavoli, io mi guardavo intorno cercando di capire come e in compagnia di chi avremmo trascorso la giornata. «Finalmente, cos’è, hai fatto le ore piccole?» gridò un tale con una tuta di pelle color giallo canarino. Ci guardammo per un istante. «Almeno…» rispose con un’espressione affranta. Almeno cosa? L’ho conosciuto ieri con decorrenza domani e dice anche almeno, pensai. Aveva la capacità di farmi perdere la pazienza in un lampo, l’aveva capito e si divertiva a stuzzicarmi. «Sto scherzando» aggiunse, facendomi l’occhiolino. «Lei è Sara, una mia amica. Ha appena comprato un Monster da Nicola» disse, mettendomi un braccio intorno alla vita. Si presentarono tutti, tranne il tizio con la tuta gialla che avvicinandosi guardò un istante Roberto negli occhi prima di tornare a scrutarmi. «Sara, quella del Booster?» domandò con una strana espressione dipinta in viso. Per un secondo sperai che Roberto mentisse, ma come avrei dovuto aspettarmi non lo fece. L’occasione si presentava troppo ghiotta e non se la sarebbe fatta sfuggire per nulla al mondo. «Sì, Luca, è lei» disse tagliando quel filo di speranza al quale mi ero aggrappata. L’attenzione si era posata completamente su di me e io non riuscii a trattenere un risolino isterico. Signore e Signori, il circo! Ma perché sono venuta? A quest’ora, ero felice e beata nel mio lettuccio pensai. Considerai l’idea di girare i tacchi e andarmene via velocemente quando, all’improvviso, una voce spiccò dal gruppo. «Volete smetterla?» gridò qualcuno. «Scusali, hanno dimenticato il neurone a casa» disse subito dopo, appoggiandomi la mano sulla spalla.
26 «Non è colpa loro, ma di quello là in mezzo» dissi indicando Roberto. «C’è un tabacchi, qui in zona?» chiesi nervosa. «Ci stavo andando, ho finito anch’ io le sigarette, andiamo insieme?». «Io le ho dimenticate a casa, di solito non fumo di mattina». Di solito… Ma la situazione richiedeva una dose extra di nicotina. Ci allontanammo e raggiungemmo il tabacchi dall’altra parte della strada. «Piacere, sono Elisa» disse presentandosi. «Io…». «Tu sei Sara. Ti conosciamo tutti!». «Ho notato…» risposi, abbassando lo sguardo. «Roby ci ha parlato spesso di te». «Spesso?» chiesi stupita «Ma se ci siamo visti solo due volte». «Eh, appunto, ma…». S’interruppe per parlare con il tabaccaio, scatenando la mia curiosità. «Un pacchetto di Diana Rosse, grazie» disse. …Ma cosa? volevo saperlo… «Uno di Philip Morris blu». «Lascia, devo cambiare, pago tutto io» disse, porgendo una banconota da cinquanta euro al tabaccaio. «Quindi hai appena comprato una moto da Nicola?» chiese, mentre riponeva il resto nel portafogli. «Sì, finalmente ci sono riuscita. Ho la patente da tanto, ma sai com’è, fino a due mesi fa avevo il mutuo e ho dovuto aspettare» speravo che la nostra conversazione tornasse al punto di prima. «Io sono la ragazza di Nicola» dichiarò con mia grande sorpresa. Ma come fa quel decerebrato ad avere una ragazza così carina? pensai. Avevo paura che la mia espressione potesse scatenare la sua curiosità, così decisi di cambiare argomento. Forse quei due si erano risparmiati di raccontare altri particolari del nostro incontro. «Cosa fai nella vita?» chiesi curiosa. «Mi sono laureata tre anni fa e ora sto facendo la specializzazione in ortopedia». E così in gamba, aggiunsi al mio pensiero.
27 Quando tornammo verso il bar, vidi Roberto in disparte parlare con un uomo distinto. Aveva una mano appoggiata al muro e la testa china. Ascoltava attento, scuotendo di tanto in tanto il capo. Gli altri ragazzi erano rimasti vicino ai tavoli, intenti a allacciarsi le tute e i caschi, ma non appena Roberto mi vide arrivare, salutò la persona che aveva di fronte e si diresse verso di me. Il signore salì su una macchina e sparì in fondo alla via. «Allora Roby, che fate? Venite sì o no?» domandò, il tizio con la tuta gialla. Roberto si avvicinò a me con i due caschi mettendomi un braccio intorno al collo. «Questa volta no, devo farmi perdonare per la brutta figura che mi avete fatto fare. Andate voi» disse facendo l’occhiolino ad Elisa. Salì in moto e io lo seguii. «Sei sicuro? Se vuoi possiamo andare con loro. Per me non c’è problema, alla fine hai cominciato tu e in ogni caso, adesso siamo qui» dissi, allacciando il cinturino del casco. Ci stavano guardando tutti e il mio imbarazzo ormai era diventato palese. «Oggi ti tengo tutta per me, dove vuoi andare? Decidi tu, te l’ho detto: devo farmi perdonare». «Ok, allora prendi la Valassina» dissi, alzando gli occhi al cielo. Con un gesto veloce mi chiuse la visiera e ingranò la prima. Luca si avvicinò chiedendo se li avremmo raggiunti a cena, ma Elisa lo trascinò via, prima che potesse aggiungere altro. «Ma sei matta?» disse ad un tratto facendomi no con il dito. «Ho detto che devi salire» risposi divertita. «Ma non vedi che sono tutti tornanti stretti, questa è una moto da strada, mica un enduro!». «Vuoi che guidi io?» dissi con aria di sfida. «Va bene, hai vinto, salgo» brontolò rassegnato. Arrivati in cima, scesi e mi tolsi il casco. «Ma è stupendo, a quanti metri siamo?» chiese guardandosi intorno. «Quasi tremila» risposi. Davanti a noi, in fondo alla strada c’era solo la diga e qualche baita, notai che il piccolo ristorante appena affianco allo skylift era aperto.
28 «Hai fame?» domandai slacciandomi il giubbotto. «Sì, mi hai fatto fare la scalata dell’Everest!» affermò divertito. «Esagerato!» «Ma se ho dovuto fare tutti i tornanti in due volte e con te sopra, per di più!». «Cosa vorresti insinuare? Che sono pesante?» dissi portandomi le mani ai fianchi. «Insomma, come zainetto pesi» confermò sorridendo. «Ah sì, va bene vuoi la guerra? E guerra sia. Vedi quella casa gialla? Chi arriva primo mangia, l’altro digiuna! Sei pronto?». Non aspettammo neanche il via e incominciammo a correre sul prato. Prese un po’ di metri di vantaggio, prima di girarsi verso di me fissandomi divertito. «Dai, anche se salti un pasto non muori mica, ti farà bene!». «Sei proprio un idiota» urlai. Si mise a ridere, tornò indietro e mi caricò in spalla. «Ah sarei un idiota?». «Sì, mettimi giù!» ribadii. Rideva, e più lo insultavo più si divertiva. Era bello quando sorrideva, perché lo faceva anche con gli occhi e il suo viso s’illuminava. «Mettimi giù, mi gira la testa» dissi colpendolo con un pugno. «Prima chiedi scusa». «Mai!». Mi mise a terra, con una mano mi bloccò i polsi e con l’altra incominciò a farmi il solletico. Cominciai a contorcermi sotto di lui, cercando di sfuggire alla tortura, totalmente incapace di controllare i movimenti. «Chiedi scusa!» disse muovendo le sue dita sui miei fianchi. «Ok, ok, scusa. Basta, ti prego mi fa male lo stomaco dal ridere!» dissi, inglobando quanta più aria potevo. Allentò appena la presa prestando attenzione a non lasciarmi spazio di fuga. «Ora ti lascio, ma prova soltanto a vendicarti che ti riacchiappo e ti faccio tanto di quel solletico da farti svenire. Ora so qual è il tuo punto debole!».
29 Lasciò delicatamente i polsi, mi spostò i capelli dalla faccia e tolse i fili d’erba che avevo davanti alla bocca. Mi guardava sfinita sotto di lui. Si avvicinò lentamente, le sue labbra sfiorarono le mie e ci baciammo. Lasciai che quell’istante m’ingurgitasse completamente. Avevo voglia di piangere, ma paradossalmente sentivo che in quel momento una parte di me aveva bisogno che tutto ciò accadesse. All’improvviso aprii gli occhi e lo vidi sorridere sopra di me. «Andiamo?» disse guardandomi. Mossi appena la testa per fargli capire che ero d’accordo, perdendomi ancora una volta dentro i suoi occhi verdi. Salimmo in moto e questa volta non ci fu bisogno di indicargli la strada. Non mi diede neppure il tempo di chiudere la porta. Cominciò a slacciarmi il giubbotto e io feci lo stesso con lui. Eravamo in piedi, l’uno davanti all’altro. Le sue mani dietro la mia testa sollevavano delicatamente i capelli mentre gli sfilavo la maglietta. Passavo il dorso delle mani lungo i suoi fianchi, sul suo petto verso le sue spalle morbide e grandi. Sentivo il suo desiderio e lui sentiva il mio. Quella notte non riuscii a chiudere occhio. Il chiasso che avevo dentro non lasciava scampo ai pensieri, alle domande che affioravano nella mia mente. Lo guardavo dormire nella penombra della mia camera da letto. Il lenzuolo lo copriva appena e notai che aveva una cicatrice dietro la schiena all’altezza della scapola destra. Ricordo che pensai “non correre con quella moto, cerca di stare attento”. Non so come, ma collegai le due cose, istintivamente, come se non fossero potute esserci altre spiegazioni. Mi alzai infilandomi una maglietta e andai in cucina. Ero irrequieta, mi rendevo conto che il mio atteggiamento era del tutto scriteriato, ma non riuscivo a calmarmi. La sua presenza nell’altra stanza mi agitava ancora di più. Mi versai un bicchiere d’acqua e andai sul terrazzo. Mi sdraiai sulla poltrona di vimini e finalmente riuscii a addormentarmi. «Sara» sentii sussurrarmi all’orecchio, mentre la sua mano mi accarezzava la fronte.
30 Aprii a fatica gli occhi perché non volevo svegliarmi. Il sogno dentro il quale mi ero rifugiata mi aveva quietata. «Che ore sono?» chiesi con la voce impastata dal sonno. «Le tre. Ma cosa ci fai qui?» disse sussurrando, mentre mi portava in camera. Mi adagiò lentamente sul letto e mi coprì con il lenzuolo.
Mi svegliai verso le dieci, lui non c’era, ma sul comodino trovai un biglietto: Buon giorno dormigliona, Sono dovuto andare via questa notte, ma non preoccuparti ho chiuso con le chiavi di scorta che ho trovato sul tavolo. Oggi te le restituisco. Ci vediamo da tua mamma verso le undici. Un bacio Mi ero completamente dimenticata degli scatoloni di mia madre o forse mi ero convinta che non sarebbe stato più necessario doverlo rivedere. Restai a letto per un’altra mezz’ora cercando una scusa per non andare, ma i sensi di colpa ebbero la meglio. «Ciao Mà» dissi entrando in casa con tre ore di ritardo. «Ben svegliata!» rispose lei con uno strano sorriso dipinto sul volto. Lui era già arrivato. Si avvicinò cercando di baciarmi, ma io mi ritrassi davanti ai suoi occhi increduli. «Da dove devo cominciare?» dissi togliendomi la giacca. «Roberto ha già fatto quasi tutti quelli della sala, tu vieni con me in camera e mi aiuti con i vestiti». Ci guardammo per un istante, prima che scomparissi nella camera da letto. «Cosa c’è Sara?» non aspettò neppure un secondo. «Mamma ti prego, dammi tregua». «Ma tregua di cosa? Poverino era così felice che arrivassi e tu lo hai ignorato».
31 «Ma dai, lo conosco appena» dissi seccata, cercando qualche cosa da inscatolare. «E chi se ne frega! io e tuo padre siamo stati insieme dieci anni eppure, sai bene com’è finita!». «Che palle, sempre la stessa storia» dissi sbuffando. «Sara, lui mi sembra diverso. Ti prego datti un’opportunità. Ormai è passato tanto tempo. Non dico che sarà l’uomo della tua vita, ma almeno provaci» asserì troppo sicura. Diverso? Che strano, forse l’unico motivo per il quale ci sono andata a letto è che gli assomiglia tremendamente. Considerai. Eppure inaspettatamente in quel momento incominciai a pensare a cosa poteva esserci di tanto sbagliato, al perché non potessi provarci. Non poteva essere sbagliato. Non doveva esserlo. Fissai la porta e il mio corpo incominciò a muoversi manovrato da fili invisibili, indipendenti dalla mia volontà. Andai in soggiorno e rimasi ferma dietro di lui. «Scusami» sussurrai. Si girò lentamente, facendo attenzione a non far crollare la pila di scatoloni che gli stava accanto. «Cos’è stata? Un’avventura di una notte?» domandò fissandomi dritto negli occhi. Arretrai appena. Non mi andava di dirgli che sì, per me era stato solo quello. «E dai Sara, non preoccuparti. Non saresti né la prima né l’ultima» disse dipingendosi in volto un sorriso teso «È solo che mi dispiacerebbe un po’, tutto qui». Dovetti aspettare qualche secondo prima di parlare. «Non è un buon periodo per me» riuscii a farfugliare. Mi spostò delicatamente una ciocca di capelli dal viso, cercando con insistenza il mio sguardo. «Questo l’avevo capito, ma credi di poter provare a credere in noi due?». «Ma… Ci conosciamo appena» dissi spiazzata da quella richiesta surreale. «Non ti è mai capitato di incontrare una persona in grado di farti provare cose tanto forti da rimanerne sopraffatta?» disse, senza spostare i suoi occhi dai miei.
32 Sì, mi era capitato, ma questo non potevo dirglielo, non aveva il diritto di saperlo, era soltanto mio, in fondo all’anima. «Io non ti posso garantire niente, questo lo capisci?» dissi. Senza capire come, mi aveva portato nella sua metà del cerchio e io stentavo a credere che nella mia mente si stesse sedimentando l’idea di provare a voltare pagina. Inaspettatamente mi accorsi che stavo creando un passaggio in mezzo alle brume del mio cuore. Abbassai lo sguardo, incapace di dire altro. Mi strinse tra le braccia, mentre sentivo il suo cuore battere.
Da quella mattina incominciai un nuovo capitolo della mia vita. Lentamente mi abituai alla sua presenza, anche se a volte faticavo nel vivere a pieno la quotidianità. Roberto non affrettò le cose e io lasciavo che tutto avvenisse naturalmente, concedendomi di farmi guidare da lui. I fine settimana li trascorrevamo tranquilli dividendoci tra i suoi e i miei amici. A volte spegnevamo i telefoni e ci barricavamo in casa a fare l’amore isolandoci dal mondo intero, a volte mi portava in montagna in una casa che i suoi genitori possedevano ma che, a suo dire, non avevano mai il tempo di sfruttare. Non so bene quando e come, ma all’improvviso, una mattina come tante, mentre mi parlava mi scoprii totalmente a mio agio con lui. Gli presentai Anna quasi subito. Il loro incontro fu surreale, Anna lo squadrò da capo a piedi, prima di dirgli che lo avrebbe tenuto d’occhio, ma che nell’insieme gli sembrava un tipo a posto. Roberto aveva la capacità di piacere a chiunque si trovasse di fronte, senza contare che era di una simpatia devastante. Spesso Anna si univa alle nostre gite domenicali, anche se Roberto si lamentava del fatto che dovessi essere io a portarla in moto. Aveva provato inutilmente ad affibbiarla a qualche suo amico, senza mai riuscirci. Quando però Roberto le presentò Luca, le cose presero una piega diversa.
33 Trascorrevo sempre più spesso le mie nottate a osservarlo, pensando a quanta distanza c’era tra il suo cuore e il mio, chiedendomi se era giusto approfittare della serenità che mi stava regalando. Aveva imparato a riagguantarmi dal mezzo della nebbia dentro la quale spesso mi perdeva, riportandomi ogni volta, con pazienza, al suo fianco. Non gli avevo mai mentito sui miei sentimenti, non gli avevo mai detto di essere innamorata di lui, ma era convinto che il problema fosse quello di non riuscire a esprimere le mie emozioni. Purtroppo però dovette saggiare che a monte c’erano dei problemi ben più grossi. Una notte mi svegliai di soprassalto, urlando. Si alzò di scatto dal letto cercando di capire cosa stesse accadendo. Mi guardava impotente, mentre provavo a calmarmi, come avevo imparato a fare negli ultimi tempi. Corse in cucina e prese un bicchiere d’acqua. Mi aiutò a trovare regolarità nel respiro sedendosi dietro di me, tenendomi stretta tra le sue braccia, cullandomi dolcemente. «Shh, va tutto bene, tranquilla» continuava a sussurrarmi all’orecchio. Il mattino dopo, si sedette sul bordo del letto e cercò di farmi qualche domanda. Aveva capito che c’era qualche cosa di ben più grave di una semplice difficoltà di comunicazione. «Cos’è successo questa notte?» chiese, mentre rovistavo nell’armadio in cerca della mia gonna di jeans. Non mi voltai neppure, non ero ancora pronta a affrontarlo con lui. Restai in silenzio per qualche secondo, prima di voltarmi e guardarlo negli occhi. «Immagino che tu non voglia dirmelo» asserì sconsolato. Mi rifugiai tra le sue braccia scuotendo il capo. «E va bene» disse, baciandomi la testa «Non ti voglio forzare. Quando sarai pronta, se vorrai, ne parleremo» aggiunse tranquillo. Ci sono state cose che non ho saputo nascondere, notti come quella che non ho trattenuto la paura e la voglia di scappare via. Notti che mi sono odiata per non essere riuscita a separarmi dall’unica cosa che era in grado di tenermi a galla.
34 Roberto mi stava accanto silenziosamente, rispettando un dolore che neppure conosceva, senza avere nulla in cambio, senza chiedere niente. E io mi domandavo per quanto sarebbe stato in grado di reggere. Restavo disarmata davanti alla sua forza, cercando di capire per quale motivo avevo permesso a quel ragazzo di avvicinarsi tanto. Avevo paura di fargli del male, ma la consapevolezza che i miei silenzi o le mie urla alla fine lo avrebbero allontanato mi faceva sentire meno in colpa. Roberto aveva un dono speciale: Nel suo sorriso riuscivo a vedere riflessa la volontà della mia anima. Lentamente e con tenacia riuscii ad avvicinarmi a lui più di quanto credevo possibile.
A fine estate, Roberto Luca e Nicola si iscrissero a una gara che si teneva nel circuito di Misano. Era una competizione a cui nessuno aveva mai rinunciato negli ultimi otto anni. Quello, a detta di Luca, sarebbe dovuto essere l’anno della resa dei conti. Roberto aveva vinto le ultime quattro edizioni e sia lui sia Nicola non avevano nessuna intenzione di farsi battere ancora. Luca e Anna stavano insieme da qualche settimana, così d'accordo con Elisa decidemmo di accompagnarli. Anna aveva pensato alla logistica trovando un agriturismo che a sentir lei era “Proprio un amore”. La mattina della gara ci avviammo di buon’ora verso il circuito. Luca e Roberto scherzavano su quanti secondi si sarebbero dati in pista, mentre Nicola e Elisa ci seguivano con il furgone. Sganciarono il carrello dalla macchina di Roberto e si lanciarono in pista ancor prima che potessi rendermene conto. Avevano intenzione di sfruttare quello che restava della mattina per completare la messa a punto delle moto. Lo seguii con lo sguardo fino in fondo al rettilineo, dopo di che mi avviai verso il bar insieme a Anna. Ordinammo due caffè e ci sedemmo a un tavolino. Anna mi stava raccontando gli sviluppi della sua storia con Luca, quando ad un tratto Elisa comparve sulla porta del bar. Aveva il fiatone, ma quello che mi sconvolse era lo sguardo con cui mi
35 fissava. Mi alzai di scatto facendo cadere la sedia all’indietro e mi precipitai verso la porta. «Cosa? Cosa c’è?» dissi scuotendo il capo. «Dobbiamo andare». Lanciò un’occhiata a Anna, riportando immediatamente la sua attenzione verso di me. «Roberto è caduto, lo stanno portando in ospedale». Sentii mancarmi l’aria, mi tastai freneticamente le tasche dei pantaloni e estrassi le chiavi della macchina. Uscimmo di corsa e incominciammo a volare verso il parcheggio. Misi in moto e in pochi secondi eravamo già in strada. Guidavo furiosamente senza rispettare i semafori, le precedenze, ma nessuna delle tre pronunciò una sola parola durante il tragitto. Scesi davanti al pronto soccorso, lanciai le chiavi a Anna e le dissi di occuparsi della macchina. Oltrepassai le porte di vetro dell’ingresso e vidi corrermi incontro Luca. Mi abbracciò, mentre scoppiavo in un pianto disperato. «Sara, calmati» disse «sembra meno peggio di quanto era apparso in pista. Ora lo stanno visitando». «Voglio entrare!» urlai contro il suo petto. Elisa mostrò un tesserino all’infermiere che controllava gli ingressi alle sale visite e scomparve dietro a una porta. Respirai profondamente e mi soffiai il naso. «Ma cos’è capitato?» chiesi ancora singhiozzando a Nicola. «All’uscita della curva si è trovato davanti un pilota a terra, non ha potuto far altro che buttarsi fuori pista per non travolgerlo». Mi sentii cedere le gambe, ma in quell’istante entrarono gli altri due ragazzi coinvolti nell’incidente. Mi sedetti in un angolo a aspettare notizie che tardavano ad arrivare. Trascorsero venti minuti, prima che Elisa spuntasse dal corridoio. La fissai negli occhi, terrorizzata. «Non uscivi più! Come sta?» domandai impaziente. «Stai tranquilla, ha una leggera commozione cerebrale, stiamo aspettando i risultati della Tac, ma non abbiamo motivo di preoccuparcene. Ha la frattura dell’ottava e nona costola, gli faranno parecchio male ma si sistemeranno da sole. C’è solo una cosa che ci preoccupa un po’ più delle altre. Purtroppo ha una brutta frattura alla
36 tibia e dovranno operarlo, ma è in buone mani e vedrai che si rimetterà presto. Sara credimi, gli è andata bene, tutto sommato». «È sveglio?» domandai questa volta più sollevata. «Sì, è un po’ stordito dagli antidolorifici, ma è cosciente». «Dimmi cosa devo fare». «Chiama i suoi genitori ed avvertili che Roberto è in ospedale». Presi dalla borsa il cellulare di Roberto e incominciai a scorrerne la rubrica. Decisi che avrei avvertito suo padre. Gli uomini si agitano di meno, pensai. Digitai il numero memorizzato e dopo due squilli mi rispose un uomo dalla voce roca. Fu una telefonata breve, cercai di tranquillizzarlo, anche se potevo immaginare quale fosse il suo stato d'animo. Mi chiese in quale ospedale fossimo e riattaccò subito dopo avermi ringraziata. «Elisa, posso vederlo?» domandai rinfilando il cellulare nella borsa. «Certo che puoi. È la terza stanza in fondo a destra. Vai pure». Entrai silenziosamente senza richiudere del tutto la porta. Era sdraiato su un lettino coperto da un lenzuolo verde, sembrava dormire, mentre le gocce della flebo scendevano veloci. Un brivido mi percorse la schiena nel vedere ciò che rimaneva della sua tuta di pelle e del casco. Non c’erano parti che non fossero graffiate. Appoggiai le labbra sulla sua fronte costringendolo ad accorgersi della mia presenza. «Lo sai, vero, che mi hai fatto morire di paura?» dissi sussurrando. «Allora mi vuoi bene… davvero» riuscì a pronunciare con un filo di voce. «Smettila di fare il cretino, possibile che ti va di scherzare anche adesso?». «Ma io non scherzo» rispose con una smorfia di dolore. Presi la sua mano e con un gesto lento l'appoggiai al mio cuore. Chiuse gli occhi e rimase immobile a seguirne i battiti. In quel momento, giurai a me stessa che l'avrei amato, fosse stata l'ultima cosa che avrei fatto in vita mia.
37 Trascorremmo un’ora nella stanza del pronto soccorso, prima che un infermiere ci informasse che finalmente lo avrebbero trasferito. Il reparto di ortopedia si trovava al quarto piano ma Roberto si era addormentato e con ogni probabilità non si accorse del suo spostamento. Si svegliò solo nell'istante in cui lo spostarono sul letto. Due medici si occuparono di immobilizzargli la gamba e di controllare con una lucetta gli occhi, mentre un’infermiera gli misurava la pressione. Improvvisamente una voce profonda interruppe le attività in corso. «Roberto, ma è possibile che ne combini sempre una?». Mi girai e vidi sulla porta un uomo brizzolato con un camice bianco. «Sergio» farfugliò Roberto. L'uomo brizzolato si avvicinò al letto e lanciò un’occhiata all'infermiera. «Come andiamo?» chiese. «Ho dolori dappertutto». «Con il volo che hai fatto lo credo bene. Ho qui l’esito della Tac, hai preso una bella botta, ma è tutto a posto. Devi ringraziare la tua buona stella. Sai com'è, non è da tutti cadere a duecento allora e non farsi quasi niente». Il medico si girò verso i due dottori che fino a quel momento aveva palesemente ignorato e chiese quanto antidolorifico gli avessero somministrato. I due risposero quasi in coro la quantità di un farmaco a me sconosciuto e si allontanarono sommessamente dalla stanza. «Ho parlato con tuo padre, stanno arrivando, erano già a Bologna quando li ho sentiti» disse mentre gli slacciava il collare ortopedico. «Sergio, ma dovevi proprio? Mia madre sarà in preda al panico». «Guarda che è stato tuo padre a chiamarmi. Io oggi non dovevo neppure essere in ospedale». Roberto corrugò le sopracciglia. «Li ho chiamati io» dissi avvicinandomi al letto. Allungai la mano verso il medico e mi presentai. «Piacere, Sara Franchi». Lui accolse la mia mano nella sua e disse di essere un vecchio amico di famiglia. «Lei è...» in quell’istante vidi Roberto irrigidirsi, s’interruppe per cercare la parola più adatta.
38 «Sono la sua fidanzata» dissi terminando io la frase lasciata in sospeso. Roberto chiuse gli occhi e sorrise. Uscii dalla stanza, mentre il medico, che scoprii essere il primario di Ortopedia, finiva di visitarlo. Anna, Elisa, Luca e Nicola stavano aspettando fuori dal reparto davanti agli ascensori di servizio. «Allora?» domandò Luca senza aspettare che gli fossi del tutto accanto. «È tutto ok, la Tac non ha evidenziato ematomi o altro e il professor Torre gli ha promesso che tra due mesi al massimo la gamba si rimetterà completamente». «Il professor Sergio Torre?» domandò Elisa sgranando gli occhi. «Sì, perché?». «Quell’uomo è un genio. È il guru dell'ortopedia. Devo andare da lui» disse scomparendo in fondo al corridoio ancor prima che potessimo rendercene conto. Nicola alzò gli occhi al cielo e si rimise seduto sulla sedia. «Ragazzi, perché non andate a cambiarvi? È inutile che stiate qui combinati in questo modo». Luca assentì e convinse Nicola a andare a recuperare le moto al circuito. Anna diede loro le chiavi della macchina e gli ricordò di saldare il conto all'agriturismo. «Stai bene?» domandò Anna appena i due ragazzi si furono allontanati. «Sì, mi sono solo spaventata a morte» risposi appoggiandomi al muro. «Che ne dici se andiamo a prenderci qualche cosa da mangiare?». «Non ho fame, ma se vuoi ti accompagno volentieri a bere un caffè». Passammo davanti alla stanza di Roberto e avvertimmo Elisa, che in quel momento stava subissando il professore di domande, che ci saremmo assentate per qualche minuto. Rispose con un cenno senza degnarci di uno sguardo. «Anna» dissi ad un tratto «penso che Roberto sia la persona giusta per me». Anna prese i caffè dal bancone e m’indicò un tavolino libero, senza dire nulla.
39 Rientrai nella stanza dopo una ventina di minuti e vidi che a Roberto erano stati messi un paio di pantaloni a scacchi e una maglietta di cotone. A un tratto una donna sbucò da dietro le ante dell’armadio guardandomi con aria interrogativa. Roberto mi fece cenno di avvicinarmi e mi presentò sua madre.
Fu operato la mattina seguente dal Professor Torre e la sua équipe. Anna e gli altri erano rientrati a Milano la sera prima sul tardi, occupandosi di trasportare anche ciò che era rimasto della moto da pista di Roberto. Più passava il tempo più incominciavo a essere nervosa. Osservai sua madre leggere tranquilla un libro seduta sulla poltrona accanto al letto e mi domandai da chi avesse preso Roberto. I lineamenti del viso dei suoi genitori mi erano del tutto sconosciuti e per quanto potevo constatare, anche i tratti caratteriali. Accesi la Tv e incominciai nervosamente a cambiare i canali. Sua madre, infastidita dal susseguirsi di parole e immagini, mi lanciò un'occhiataccia così spensi la televisione e andai a aspettare in corridoio. Passai le due ore successive da sola, scattando in piedi appena sentivo l'ascensore fermarsi al piano, ma fu solo verso mezzogiorno che lo riportarono giù. Era pallido ma cosciente. Una voluminosa fasciatura alla gamba spuntava dai due strati di coperte che aveva addosso. Mi avvicinai e appena mi vide mi strinse la mano. Attraversammo il corridoio senza che me la lasciasse, fino a quando dovettero metterlo a letto. Il professor Torre si affacciò alla porta ed entrò richiamando anche l'attenzione del papà di Roberto. «L’intervento è andato bene. Fortunatamente siamo riusciti a rimettere perfettamente in asse l'osso. Se la caverà in quaranta giorni».
40 «Sergio, grazie» rispose il padre di Roberto appoggiandogli una mano sulla spalla. «La gamba non avrà problemi, se si atterrà alle nostre indicazioni. Dovrà fare molta fisioterapia e non muoversi per i prossimi venti giorni». «Ci puoi scommettere» intervenne solenne sua madre. In quel momento un mugolio uscì dalla bocca di Roberto. «Ho sete» disse senza aprire gli occhi. «Può?» domandò sua mamma. «Bagnategli le labbra, ma fate passare almeno due ore prima di dargli da bere». Il padre di Roberto uscì dalla stanza insieme al professore, mentre Roberto tentava invano di succhiare l'acqua dalla garza. I suoi genitori mi prenotarono una stanza in un albergo vicino all'ospedale. Avevano provato a convincermi a tornare a casa ma davanti al mio rifiuto si sentirono in obbligo di trovarmi una sistemazione per la notte. E in ogni caso ero troppo stanca per guidare. Il professor Torre ci aveva invitati a trascorrere i giorni della convalescenza di Roberto a casa sua, ma con la scusa che distava troppo dall’ospedale ero riuscita a rifiutare. Mi fermai a Cesena fino al mercoledì successivo, fino a quando mi telefonò il mio capo in preda al panico. «Sara, ma che fine hai fatto?» strillò dall’altra parte del telefono. «Cosa vuol dire che fine ho fatto? Non hai ricevuto il mio messaggio domenica sera?». «No, io non ho ricevuto un bel niente, ma ad ogni modo, dove diavolo sei? Qui c’è il finimondo!». «Sono a Cesena, in ospedale. Roberto ha avuto un incidente e è stato operato». Seguì solo un breve silenzio. «Ah, mi dispiace, cosa gli è capitato?». «Si è rotto la tibia, cadendo in moto. Comunque l’intervento è andato bene e tra due mesi al massimo tornerà come nuovo» risposi facendo l’occhiolino a Roberto. «Sara, so che il momento non è dei più adatti, ma ho bisogno che tu mi raggiunga in ufficio oggi stesso».
41 Corrugai le sopracciglia. Non mi capitava spesso di sentire il mio capo così agitato. «Qual è il problema?» domandai uscendo dalla stanza. «Ieri sera è arrivato il grande capo da Dubai e vuole vedere lo studio di fattibilità con l’analisi economica dei punti vendita di Londra e Amsterdam». Tirai un sospiro di sollievo. «Paolo, vai nel mio ufficio» dissi tranquilla. «Nel terzo cassetto della mia scrivania ci sono due cartellette. Una verde e l’altra arancione. Ci sei?». «Aspetta, non si apre» disse trafelato. «È un po’ difettoso, tira forte». «Ho fatto. Sono tutto orecchi». «Nella cartelletta verde c’è lo studio di fattibilità del punto vendita di Londra, mentre in quella arancione c’è quello di Amsterdam. Sono già stati corretti e approvati dall’Ingegner Pirro». «Bene, un problema in meno. E per l’analisi economica?». «È pronta anche quella, ma devi stamparla tu. Ti do la password del file…». «Aspetta, non trovo la cartella». «Budget ed Analisi». «Ok, ho fatto. La password?». «Amsterdam quattro e Londra uno». Trascorsero pochi secondi prima che tornasse a parlare. «Sara, come farei senza di te?». «Sì, come no» dissi respirando a fondo «Ascoltami, stampa solo il foglio riassuntivo, ma prima dagli un’occhiata. Sono già pronti da un po’, ma non ho avuto modo di farteli vedere» aggiunsi. «E chi se ne frega, tanto come al solito andranno benissimo». «Mmm, mi sa tanto di sviolinata». «Sara, dimmi che ce la fai a tornare oggi! Io non posso illustrare tutto da solo al grande capo. Non sono preparato». «Ma come! Sei il mio capo!» esclamai ironicamente. «Lo sai che è solo sulla carta. E poi guadagni più tu di me!». «Sì, ma lavoro anche più di te!». «E va bene, di questo te ne do atto, ma ti prego, fai ancora un piccolo sforzo e ti prometto che saprò ringraziarti».
42 Sbuffai sonoramente nel microfono del cellulare, ma tanto sapeva che non l’avrei lasciato nei casini. «E va bene, dammi quattro ore e sono lì. Piuttosto cerca di inventarti qualche cosa per prendere tempo». «Ti adoro!». «Sì, sì come no….» dissi riagganciando. Ritornai nella stanza e dissi a Roberto che sarei dovuta partire. Mi guardò crucciato, ma si rese conto che non avevo avuto scelta.
FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...
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