L'assoluto inconsapevole, Carlo Sindaco

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In uscita il 20/7/2018 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2018 (3,99 euro)

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CARLO SINDACO

L'ASSOLUTO INCONSAPEVOLE

ZeroUnoUndici Edizioni


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L’ASSOLUTO INCONSAPEVOLE

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-220-1 Copertina: immagine di Carlo Sindaco

Prima edizione Luglio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Alla vita, alle difficoltà insormontabili e a tutto ciò che sognamo di essere.


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CAPITOLO 1

Una bambina stringe il suo orso bianco dagli occhi enormi e la bocca cucita con del cotone nero, guarda fisso la hostess per cercare di capire quale sia il suo ruolo: strappa una parte dei fogli di tutti i signori in coda e poi, con un gesto garbato e un sorriso accogliente, li lascia passare. La piccola, colta da un dubbio, con lo sguardo controlla l’uomo accanto a lei: sì, il foglio ce l'ha anche papà. Possiamo partire. È passata da poco l'ora di pranzo, il sole fuori è caldo, un'aria umida e appiccicosa ci attende oltre la porta dell'imbarco. Come se non bastasse, c'è il solito tuttologo che ha già visitato Istanbul in lungo e in largo. Sembra una maledizione: in ogni viaggio ce n’è sempre uno! Dice di conoscere come le sue tasche la città in cui stai andando e, in quei minuti di solerte attesa che precedono l'imbarco, parla con un tono di voce un po' più alto degli altri per cercare di cogliere qualche sprovveduto ascoltatore. Questo in particolare parla con i suoi sfortunati compagni di viaggio: la moglie e un'altra coppia. La sua compagna proprio non ce la fa più ad ascoltare la stessa solfa, non fosse per i sorrisi estasiati degli altri due che credono di essere in mani sicure. Più sorridono e più quelli della coppia del tuttologo si danno un tono


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da viaggiatori consumati, perfino annoiati, come non ne potessero più di fare la spola con il Medio Oriente. A sentire lui, Istanbul è una specie di Roma con le moschee e senza Tevere. Sarà l’aria saccente o i capelli con un taglio troppo giovanile per un brizzolato impiegato romano a dargli un tono accattivante ai miei occhi, una comicità involontaria e superficiale, figlia di una vita frustrata e spesa più nella ricerca del consenso e nell'apprezzamento di colleghi e conoscenti che nel coltivare l'intesa e il rapporto con la moglie. Questa considerazione mi fa venire in mente che devo inviare un messaggio ad Anna: “Siamo all'imbarco, tra poco spengo il telefono” smile, aeroplani. Anche Marco armeggia con il suo telefono, in viso ha stampato un mezzo sorriso. È immerso in una rassicurante intimità familiare, sarebbe complicato altrimenti partire e lasciare a casa moglie e figlio di due anni, pur avendo avuto il benestare per un viaggio di qualche giorno con un amico. Tastare sino all'ultimo minuto gli umori della propria famiglia è allo stesso tempo la garanzia di avere un posto dove tornare e la conferma di aver costruito un rapporto sano e franco, che ti permetta di spegnere il telefono con un orgoglioso luccichio negli occhi. Anna risponde al messaggio: “Sii prudente Manuel, mi raccomando”, seguito da un po’ di smile tristi e baci. Cosa c'è da scrivere in fondo? Ne abbiamo parlato tante volte e siamo sempre stati d'accordo, meditando insieme la possibilità di


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viaggiare per piacere in maniera indipendente, ma con un compagno di viaggio responsabile, placebo per sedare residue irrazionali paure, una specie di traccia nel proprio patrimonio genetico che ci consiglia di avere un'ennesima sicurezza per preservare la persona cara. Passerà qualche giorno al mare con un’amica, in una località vicino a casa, sarà così più facile per entrambi digerire la novità del mio primo viaggio senza di lei. Ha evitato di proposito di organizzare delle vacanze all'estero perché non sembrasse una specie di ripicca, amabili accortezze che renderanno ancora più piacevole, durante questi giorni, il pensiero di casa. Cerco con lo sguardo Marco che ha appena riposto il telefono e sfila dalla tasca posteriore dei pantaloni la carta d'imbarco. Gli faccio cenno verso il nostro compagno di volo, sbruffone e saccente. Lui ruota gli occhi verso l'alto quasi non l'avesse notato sino a quel momento. Conteniamo delle risate che altrimenti sarebbero state fragorose. Marco è un mio collega, o quasi: lavoriamo insieme da quattro anni, lui è un quasi-quarantenne di un metro e settanta, corporatura robusta, ma non in sovrappeso grazie a un’estenuate dieta che in ufficio ha tenuto banco per tutto l'inverno, capelli neri tirati indietro con chissà quale gel dal fissaggio a prova di uragano, ma mi è difficile sfotterlo su questo argomento data la tendenza dei miei di capelli a sfidare le leggi di gravità. Mi è più facile riguardo all'altezza, visto che gli do almeno una decina di centimetri, o magari sulla tendenza al sovrappeso, che forse per una questione di metabolismo è un problema che non mi ha mai


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riguardato. Ha gli occhiali tondi con una montatura sottile, pizzetto folto, che un tempo era una barba incolta come la mia, e un ovale del viso regolare, dai marcati tratti mediterranei. A vederlo, non si direbbe che nel periodo dell'università andasse in giro con delle Dred lunghe mezzo metro e che la polo griffata che indossa oggi, un tempo fosse una maglietta dei Metallica o degli AC/DC. No, non è uno di quei figli di papà che per lunghi periodi hanno potuto fare una vita da rockstar tanto avevano le spalle coperte. Ha studiato finanziandosi con le borse di studio, lavorando e prendendo in prestito i libri dalla biblioteca dell'università. Inevitabilmente a una certa età ci s’imborghesisce e forse si scende più facilmente a compromessi, barattando un po' della propria orgogliosa immagine e le proprie certezze assolute con una più solida integrazione sociale che aiuti a gestire l'incertezza del futuro, perché come direbbe lui citando a sua volta qualche geniale uomo della strada: «Vorrei sapere la metà delle cose che credevo di sapere quando avevo vent'anni». Ci siamo conosciuti al lavoro. Lui è tecnicamente il mio capo e a volte prova anche a esercitare, ma con scarsi risultati, il potere che il suo ruolo gli darebbe. Siamo coetanei, e tutte le angosce vissute insieme nei momenti di difficoltà dell'azienda, in una specie di sodalizio tacito, hanno creato un rapporto di stima reciproca quasi illimitata, che trascende i nostri ruoli. Anche questo viaggio è un modo per giocare e per mettere alla prova un'amicizia anche fuori dagli schemi di una collaudata


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commedia lavorativa che a tratti assume i dissacranti contorni della farsa. Superato l'imbarco, entriamo nella navetta, stipati come pesci spada in una barca d'altura. Mi sarei aspettato un'aria pesante, quel tipico odore misto di umido, residui di smog o gasolio, particolarmente pesante nelle metro delle grandi città, invece l'aria è pervasa da un odore di zucchero a velo, dolcissimo, che forma con l'aria umida un cocktail micidiale. Ho già la nausea. Non è difficile individuare la fonte: c'è una coppia agganciata alle maniglie poco più in là. Lui potrebbe fare il cantante neomelodico, polo con il colletto sparato, pantaloncini aderenti e scarpa da running dai colori scioccanti. Lei invece è probabilmente la reincarnazione di un Arbre Magique: tutina rosa shocking aderentissima che mette in evidenza le forme sinuose e modellate da un sapiente uso della biancheria, capelli neri raccolti in una coda alta e tiratissima che è quasi un lifting. Quasi sicuramente c'è un viso grazioso sotto tutto quel trucco e fard rosa, ma sarebbe un peccato perdere per sempre una così ricercata opera d'architettura femminile post-moderna. Si guardano intorno, forse cercando d’incrociare lo sguardo di qualche curioso antropologo. È sicuramente più che una semplice richiesta di attenzioni: proporre un'immagine di sé così simile a uno sgargiante richiamo animale è una palese forma di adescamento, anche l'imitazione di atteggiamenti visti in TV da personaggi molto curati nel look e nell'aspetto fisico che frequentano programmi ad hoc per ottenere una piccola notorietà


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televisiva, o male che vada di un quarto d'ora di celebrità a buon mercato, completano la dimensione del fenomeno. Si rimane però spesso delusi nella conoscenza più approfondita di queste persone: tanto clamore estetico e tanta dedizione nella ricerca e nell'imitazione di certi modelli sarebbe ben accompagnata da una dialettica elementare ma incontrovertibile, una specie di retorica dell'ovvio orientata alla ricerca di valori assoluti e di ampia condivisione. Invece fanno fin troppo spesso discorsi ordinari, banali, noiosi. Dandosi un'aria inspiegabilmente intellettuale, parlano dei guai che hanno avuto con la lavatrice nuova che si è rotta troppo presto, ottenendo come unico risultato quello che fare saltare agli occhi l’anomalia tra la ricerca così affannosa di attirare le persone a sé rispetto al motivo per cui lo fanno. È un po' come entrare in un night club e trovarci dentro una stireria, con donne di mezza età immerse nel vapore, occupate a parlare dei mariti troppo poco presenti o di prodotti di bellezza dai benefici inimmaginabili. Sono la prova più evidente che tutti noi siamo ormai un prodotto commerciale. Lo smartphone nuovo che acquistiamo ogni nove mesi non è uno strumento per telefonare o un valido supporto per ogni occasione, bensì un fine. Quello che interessa davvero è soltanto il possesso dell’oggetto, non la sua reale utilità. Allo stesso modo ci si può mascherare da coatto o da fumoso intellettuale della sezione del Partito Comunista degli anni Ottanta, o da borghesuccio con la camicia e le iniziali cucite all'altezza del fegato, per un semplice vezzo: fin troppo spesso


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non ci sono idee radicalmente diverse che distinguono queste categorie, né un gap particolarmente ampio nel tenore di vita. È una semplice carnevalata, un modo di vendersi come un prodotto accattivante senza la consapevolezza di essere del tutto ordinari. Ci vendiamo come modelli differenti ma siamo tutti lo stesso modello. Dribbliamo sapientemente la folla: trent'anni di partite a calcetto saranno pur servite a qualcosa. Arriviamo così in perfetta sincronia alle scalette dell'aereo. Le hostess ci accolgono con il loro sorriso collaudatissimo da Pin Up anni Cinquanta e uno chignon dalla forma a salvagente perfetto ma che di sicuro nasconde qualche trucco al suo interno. È un volo low-cost, non ci sono posti assegnati, poggiamo le valigie nelle cappelliere e ci sediamo nei primi posti disponibili. Rimane a tutt'oggi un mistero impenetrabile il perché le persone che entrano in aereo non si siedano nel primo posto libero, spostandosi verso il centro o, a volte, addirittura verso la parte opposta, creando degli ingorghi di difficile risoluzione, dando quasi l’impressione di voler mettere in piedi qualche esperimento di meccanica quantistica. È come se per un periodo limitato di tempo perdessero le più basilari capacità di ragionamento, affidandosi unicamente alle leggi inesplicabili del moto dei corpi. «La vedo lunga» si lamenta Marco. «Vedi cosa succede a non prendere l'aereo invisibile?». Ridiamo di una risata che per qualche secondo squarcia il mormorio della piccola folla dell'aereo. Alcuni si voltano, rendendo ancora più ridicola la scenetta di due non più


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giovanissimi che ridono a crepapelle per una battuta non poi così brillante. Nell'ipotesi migliore penseranno che siamo ubriachi. Qualche mese fa in ufficio, prossimi all'orario di chiusura, parlavamo pigramente di curiosità lette su internet. Lui aveva scoperto il vezzo di un milionario: «Sai che c'è un tizio che ha comprato un Boeing dismesso per un milione di dollari, l’ha messo in giardino e adesso ci vive dentro?». «Incredibile, proprio non sapeva come buttare i soldi… chissà chi gliel'ha venduto?». «Eh sì, dai, proviamo a vendergli un aereo... invisibile!». «Giuro che se divento milionario, compro un aereo invisibile e lo parcheggiamo qui sulla piazza». «Un altro? E dove lo mettiamo?». Ho riso così tanto da avere i crampi. Questa battuta ha reso impossibile per i seguenti due o tre giorni pronunciare le parole “aereo” o “invisibile”, pena l'istantanea risata anche alla presenza di clienti o comunque in situazioni che richiedevano una qualche apparenza di formalità. Stupidaggini come queste sono un vero toccasana per scacciare via le tensioni lavorative e lo stress. Il solito viavai di persone, in quel corridoio strettissimo che, come è evidente, non è fatto per passeggiarci avanti e indietro, e non si capisce proprio perché non ci si possa sedere in un posto casuale: forse non tutti riescono a sopportare la distanza dai propri cari anche per poche ore soltanto. Finalmente una hostess, in un inglese impeccabile, riesce a far capire ai passeggeri più indisciplinati che se non si decidono a


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trovare una sistemazione, il volo non decollerà mai. L'idea è così scioccante che pare illumini molti dei nomadi presenti e finalmente può partire lo show delle hostess. Avete mai notato quanto somigli a un ballo di gruppo? L'indicare ritmicamente i portelloni seguendo la voce registrata, i giubbetti di salvataggio, la leva da tirare, la luce, la cannuccia da soffiare, le luci luminose sul corridoio da seguire. I più giovani dell'equipaggio spesso ridono mentre eseguendo questi gesti compiuti per le prime volte, guardano i propri colleghi, forse sentendosi un po' ridicoli, ma una misurata allegria è sicuramente ben accetta da parte dei passeggeri. Il volo mette agitazione a molti e spesso i passeggeri più chiacchieroni e simpatici cercano soltanto di stemperare la tensione socializzando e facendo amicizia con i vicini di posto, o cercando con lo sguardo i propri compagni di viaggio. Ci sono quelli che chiedono informazioni sul meteo, i gruppi in viaggio d'affari che sfruttano ogni momento per riposarsi o per mangiare. Le coppie mature in weekend romantico che spesso ci mettono un po' a entrare nella dimensione del viaggio, dimostrando di essere un po' troppo nevrotizzate dalle abitudini domestiche. I bambini immersi in videogiochi su una miriade di nuove piattaforme ma con l'audio rigorosamente chiuso, indizio o della buona educazione o, più probabilmente, di un compromesso che consente a loro di entrare in un mondo che va ben oltre la loro sciocca realtà e ai propri genitori di avere momenti di assoluta quiete. Mi viene da pensare che il vero motivo per cui non gli permettono di giocare ogni volta che vogliono è che potrebbero


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perdere interesse e sarebbe complicato poi trovare un surrogato altrettanto efficace per farli stare “buoni”. Ognuno ha la propria occupazione: è raro trovare un passeggero intento esclusivamente a guardarsi intorno o a godersi il panorama. È paura, come in quel romanzo dove c'è un monologo su un masso grande come una montagna sospeso per aria. Tutti ne avranno paura, non importa se si è medici, avvocati, agricoltori o casalinghe. Il sentimento irrazionale che ci fa avere paura del dolore, anche in una situazione in cui non ci sarà il tempo di provarlo, ci accomuna tutti, ci mette tutti allo stesso livello. E solo chi sarà capace di superare questa paura irrazionale si eleverà al disopra degli altri, assumendo le sembianze di una divinità. Da quello che vedo, da quello che percepisco intorno a me, di divinità sembra non essercene neppure una. L'asfalto corre veloce sotto di noi, l'aereo si stacca dal suolo, quella sensazione di vuoto e di caduta per qualche istante ci zittisce quasi tutti, poi in pochi istanti siamo sopra le nuvole.


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CAPITOLO 2

Un enorme spazio, cartelli con nomi di capitali internazionali pendono dal soffitto, e un continuo e intrecciato susseguirsi di traiettorie di viaggiatori che portano a spasso trolley microscopici, tutto un viaggio condensato e miniaturizzato in uno spazio così piccolo. Una città che ha puntato sul turismo, l'accoglienza e il commercio da tempi remoti si distingue da come offre soluzioni facili e collaudate ai visitatori. Prendiamo un portachiavi magnetico che è un biglietto elettronico ricaricabile in ogni chiosco e ci consentirà di prendere tutti i mezzi con una semplice strisciata dello stesso: metro, tram e siamo in hotel. La hall è piccola ma ricca di mobili antichi e tappeti, non ha uno stile prettamente arabo, ma ha un'eleganza retrò, confortevole e internazionale. Grandi lampadari di cristallo con una luce calda e soffusa. Mentre porgiamo i documenti, ho una sensazione molto forte che mi coglie di sorpresa e, mentre mi chiedo cosa sia, sento dei passi. Mi volto e una figura di donna dai capelli corti, maschili e neri, si dirige verso l'uscita, decolté nere, longuette e camicia soffice bianca. Non un cenno alla reception, non ha neppure lasciato le chiavi.


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Ci accompagnano alle nostre camere, Marco ha voluto prendere una singola, cosa che ha pesato considerevolmente sul mio budget. Non avendo uno stipendio da dirigente, forse avrei dovuto optare per una sistemazione più economica, ma stiamo facendo un viaggio in coppia e sarebbe stato logisticamente irritante doversi accordare di continuo sui luoghi di incontro. Abbiamo due camere adiacenti. Trovo Marco nella hall a richiedere la password del Wi-Fi e ci avviamo verso un ristorante poco distante dall’albergo. Andiamo a piedi, un buon modo per dare un primo sguardo alla città. Il ristorante l’ha scelto lui: sarà carissimo e pieno di quei piatti che promettono tipicità ma quasi mai la mantengono. Istanbul ci regala il suo primo impagabile scenario: le piccole e grandi moschee che abbiamo intravisto dal tram, ora sono immerse in un tramonto rosso fuoco. Le poche nuvole hanno i contorni di un giallo brillante e, insieme a un tiepido vento di scirocco, ci cullano in un ipnotico canto dei minareti. La voce risuona da un capo all'altro della città, di torre in torre, in un dialogo lento e carico di melodie che provengono da un passato imperscrutabile. La voce degli Imam è un richiamo arcaico verso la conoscenza di un sapere antico e ormai perso tra le pieghe del tempo. Ci facciamo strada tra i ragazzini che cercano di venderci dei profumi contraffatti e gli adulti che ci propongono magliette griffate altrettanto contraffatte. Continuano a ripeterci i nomi dei


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marchi sapendo che sono un irresistibile richiamo per ogni occidentale, pensando di riuscire a gabbare un vanitoso europeo, garantendosi così una doppia soddisfazione: oltre a quella economica, c'è il gusto di riuscire a dimostrare a se stessi di essere più furbi dei turisti. Giungiamo al locale dal nome piuttosto anonimo, all'interno una grande sala dalle decorazioni ottomane, ceramiche colorate alle pareti e un pavimento di marmo nero ne fanno il perfetto teatro per uno spettacolo, i tavoli tondi e ampi sono disposti a raggiera, lasciando al centro un ampio spazio vuoto. Il cameriere, che parla un inglese pratico, ci accompagna al nostro tavolo che, a giudicare dagli otto posti a sedere intorno alla tovaglia bianca, condivideremo con altri ospiti. Scopro che il menù è turistico e quindi non ho neppure l'imbarazzo di scegliere. Il cameriere mi elenca la serie di portate sperando che non faccia obiezioni: come gestire un europeo celiaco o un intollerante al lattosio, rassicurandolo al meglio in un locale turco con un menù turistico? Chissà quante ne ha sentite, quali trucchi si è dovuto inventare per rassicurare clienti pretenziosi e dal palato raffinatissimo, che hanno passato tutte le serate dell'anno precedente mangiando cotolette e insalatina o piatti pronti mentre guardavano MasterChef. Gli faccio cenno che per me va bene e lui capisce al volo che sono un cliente che non gli darà fastidi. Marco si accerta che nel menù ci siano realmente le pietanze che gli interessano, il cameriere lo rassicura, ripetendo punto per punto la lista. Appena finito non gli pare vero di poter tornare in cucina, felice per non


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aver riscontrato problemi con le ordinazioni. Sta per andarsene quando arrivano quelli che hanno tutta l'aria di essere i nostri commensali. Lui li saluta con ampi gesti e li invita a sedersi. Sono in sei, io e Marco facciamo loro un cenno e un sorriso mentre si accomodano tra grasse risate e abbondanti pacche sulle spalle. Sono ubriachi, parlano un tedesco sicuro e un italiano stentato con cui si rivolgono a una coppia che conoscono. Tutti sulla quarantina, due coppie sposate tra cui l'italiana e due energumeni che se non fossero palesemente dei dirigenti li si sarebbe potuti scambiare per due giocatori professionisti di rugby. La cena trascorre tra i Dervisci che inscenano il loro spettacolo piroettante, un intrattenimento che ha sÏ un sapore antico, anche se non c'è un'eccessiva spettacolarizzazione degli eventi. Tutto scorre in un crescendo di difficoltà e di stati di trance, senza colpi di scena o un tentativo di stupire a tutti i costi, una dimostrazione della propria arte senza trucchi e lustrini, ulteriore dimostrazione di coraggio. La musica ha un volume alto anche per aiutare la trance dei Dervisci ma le risa sguaiate dei nostri compagni di tavola, in particolare dei due rugbisti, rende l'atmosfera un incrocio tra il grottesco e il surreale. Si affannano in goffe e plateali imitazioni delle rotazioni, le birre vuote ormai occupano quali tutto il tavolo. Uno dei due si alza, rosso e accalorato in viso, e si dirige verso il centro della pista. Lo spettacolo inizia a essere davvero esilarante: lui in primo piano e i Dervisci dietro che fanno la loro


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performance. Lui, con la camicia risvoltata e sudatissima anche sulla grossa pancia piena di birra, compie inaspettatamente un balzo in alto e ho subito l'impressione che sia molto più agile di quanto la sua corporatura non lasci intendere. Prova ad atterrare con le ginocchia volendo dimostrare la sua innata abilità teutonica nel fare qualsiasi cosa, soprattutto da sbronzo, anche se il risultato non è quello sperato: il suo corpo flaccido lo inchioda al pavimento in un comprensibile e dolorosissimo tonfo. Si accartoccia su di sé, tenendosi le ginocchia al petto in posizione fetale. Imprecazioni a squarciagola in un tedesco lamentoso echeggiano per il ristorante. Sicuramente doloroso, assolutamente buffo. Nonostante fosse un locale colmo di turisti e non una seriosa conferenza internazionale, è risultato scioccante per tutti i clienti. Le facce tra l'incredulo, il disgustato e il divertito hanno aggiunto una componente teatrale a quella scena già molto forte di per sé. Io, al contrario, non mi scandalizzo per un uomo che si rende ridicolo in pubblico perché ha bevuto troppo. Un'adolescenza stracolma di eccessi mi fa sorridere di situazioni come questa, c'è gente che conosce un solo modo per divertirsi ed evadere da situazioni che gli vanno strette: alcool, droghe, sesso a pagamento, sono una “botta” con cui resettare tutto. Per questo ho molta più compassione per chi si arrende e non trova il modo di evadere, rassegnandosi a vivere infelicemente. Lo spettacolo continua nonostante l’uomo accartocciato sul pavimento. La coppia che parla tedesco si alza e va via: lei scandalizzatissima blatera frasi di sdegno mentre si avvolge in


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una pashmina e nella sua alterigia lui la accompagna cortesemente non prima di averci rivolto un cortese commiato e uno sguardo di incresciose scuse. L'amico compagno di sbronza ha la testa poggiata sul tavolo, sembra addormentato, troppo cotto anche per ragionare. Decido di alzarmi e mi avvicino all'uomo sul pavimento mentre Marco ancora ride per tutta la faccenda. Chiamo con un gesto il cameriere, che prende coraggio e si avvicina. Lo aiutiamo ad alzarsi; nel frattempo si è avvicinata anche la coppia italiana e decidiamo che forse è il caso di portarlo in un'altra stanza e di mettergli del ghiaccio sulle ginocchia. Marco invece decide di rimanere a godersi lo spettacolo fino all’ultimo. Ci avviamo in una stanza appartata e, nel breve tragitto, scopro che il marito della coppia è un dipendente del fenomeno con le ginocchia gonfie. Lavora nella filiale italiana di una nota multinazionale tedesca, il resto lo deduco dai discorsi con la moglie e dalla formale cordialità che riservano al tedesco: fare carriera in un'austera azienda tedesca deve essergli costato molta fatica. Gli standard lavorativi, di produzione e amministrativi richiesti in un paese come la Germania, devono essere molto rigorosi, devi saper fare puntualmente il tuo lavoro giorno per giorno, non importa se non avrai mai un exploit o un'eccelsa creatività. L'importante è che tu non dia mai motivo di preoccupazione, l’esatto contrario insomma del normale background culturale italiano.


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Il cameriere torna dalle cucine nelle sue scarpe nere lucidissime e i capelli neri tagliati da poco, visibilmente più rilassato. Deve aver riso a crepapelle raccontando ai colleghi tutto l'accaduto prima di chiedere del ghiaccio. La signora si prodiga in una caritatevole opera di aiuto, si siede sistemandosi la gonna del tailleur e appoggia il ghiaccio sulle ginocchia dell'uomo che emette dei mugolii in un piagnisteo quasi infantile. Lei guarda il marito in cerca di approvazione e continua a tenere debolmente il ghiaccio sulle ginocchia. Ha completamente sbagliato mise, non deve essere abituata a questo genere di situazioni. È vestita come se andasse a una cena di lavoro degli anni Novanta, anche se sta solo approfittando dell'opportunità di fare un viaggio di piacere, mentre gli uomini, suo marito compreso, sono lì per affari. Tutto questo non sarà sfuggito alla donna dell'altra coppia, ma per gli uomini la questione è passata totalmente inosservata. Probabilmente non lavora, è abituata a sondare gli umori di suo marito quando torna la sera, vive l'angoscia di non essere abbastanza per un uomo che ai suoi occhi appare assolutamente brillante, così ha deciso d’impegnarsi al massimo per far funzionare il suo matrimonio, cercando di aggiustare sempre tutto, che sia un desiderio o una giornata pesante al lavoro. Vuole che tutto sia perfetto, anche se questo probabilmente il più delle volte accade solo nella sua testa. L'amico è ancora così sbronzo che neppure il dolore alle ginocchia riesce a farlo riprendere. Chiedo al cameriere, che nel


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frattempo è stato richiamato al suo posto, se può portarci un caffè. «Sì, va bene anche un caffè turco!» rispondo e, mentre rientro nella saletta, il marito della donna in tailleur mi accoglie con un mezzo sorriso. «Incredibili questi qua… veniamo a portargli i nostri soldi e neppure si degnano di darci una mano» sbotta. «È già tanto che non gli ho tirato in faccia la merda che cucinano, fino a ieri inculavano le capre e adesso che gli abbiamo portato il grano…» gesticola sfregando indice e pollice «…pensano di essere come noi!» scuote la testa. «La verità è che sono gente cattiva ed è per la religione… chissà che minchia gli raccontano nelle moschee!». Ha un accento palermitano, meno marcato della moglie, ma c'è da ringraziare che di Milano abbia preso solo un certo slang e non quel finto accento sostenuto da meridionale complessato. Io mi limito a guardarlo senza dire niente. Lui scuote la testa e prosegue il suo sermone: «Sì, è la religione che gli insegna queste cose! Vengono da noi e vogliono comandare, e il crocefisso non mi sta bene, le donne tutte coperte che fanno paura, io c'avevo un cognato musulmano, mica parlo così a caso, è gente cattiva, hai visto come c'hanno guardato mentre uscivamo?». Non solo loro, penso io. «È come dice la Fallaci! Tutti i musulmani sono terroristi, ma non tutti i terroristi sono musulmani». «Se mai, è il contrario» faccio io giusto per dire qualcosa.


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«Ma sì, è la stessa cosa, dai» prosegue allora: deve averlo preso come un segnale di interesse, questo tentativo di amarcord da italiani all'estero è un misto tra un film di spionaggio e una sitcom demenziale. Dovrei interromperlo, ma sono basito. Non che non avessi mai sentito sproloqui simili, ma utilizzarlo come modo per fraternizzare, come argomento di facile consenso da tirare fuori come jolly in una situazione imbarazzante, confesso che mi ha spiazzato. «Se ne devono andare a casa loro!». Il tedesco lungo disteso ride. «Abbiamo un sacco di problemi a casa nostra figuriamoci se possiamo farci carico dei loro!» prosegue imperterrito lui. «Io non penso tu sia una persona particolarmente cattiva, al più una pecora esaurita, è incredibile come ti possa ridurre un lavoro stressante, la sudditanza a un capo inetto e alcolizzato» gli dico, incapace di trattenermi ancora, mentre il tedesco rantola dolorante. «È una società che t’indirizza sempre nella direzione più facile, verso la distinzione tra noi e loro, instillano in te la paura». Sgrana gli occhi, non capisce bene cosa stia succedendo. «Ti hanno esaurito con ritmi di lavoro impossibili, fomentando paure per il tuo vicino mussulmano, dicendoti che bisogna fare tutto in fretta e sempre di più e sempre meglio e ancora e ancora e ancora, perché il tuo vicino ha la macchina nuova e allora tu devi comprare qualcosa di enorme, tedesco, indistruttibile, un bilocale su quattro ruote, monumentale… devi cambiare i mobili di casa, devi ritinteggiare, fare le vacanze in posti turistici e super


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affollati, lavorare, lavorare, fingere di lavorare, non chiedere mai niente a nessuno, devi sempre sapere tutto prima, essere pronto, reattivo e, se ti colgono impreparato, dissimulare». Nel frattempo, è tornato il cameriere che ha un vassoio con sopra un caffè versato in una tazza perfettamente cilindrica senza manico, esattamente il genere di contenitore che ci si aspetta per un caffè turco. Mi guarda sorpreso, quasi impaurito, non capisce una parola di ciò che dico: sa solo che sono arrabbiato e che sto accusando un signore distinto, pietrificato dalla mia reazione, puntandogli contro il dito in un impeto d’arroganza. Anche il cameriere si ferma, non ha il coraggio di dire o fare nulla. La signora finge di non ascoltare, rimane in silenzio: sono cose da uomini, le hanno insegnato che è meglio non entrare in situazioni simili per non sminuire l'immagine da uomo risoluto e padrone della propria vita che deve avere suo marito. Ormai il malato ha smesso di rantolare, ma rimane con gli occhi chiusi in una tanatosi alcolica: meglio fingersi morti che affrontare una simile discussione da una posizione così imbarazzante. «Non hai nessun reale scopo nella vita, altrimenti perché accetteresti in maniera così entusiasta quegli impossibili obiettivi aziendali? Ti hanno succhiato via le energie, i tuoi sogni e la tua personalità, in cambio di soldi e qualche briciola di potere, sei un automa smanioso di servire, cambiano le tue priorità, il tuo umore, le tue paure, le tue idee spingendo un singolo bottone,


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mentre ti ripetono che sei libero e che potrai avere sempre di più, sei un fanatico di una religione laica, non hai un credo, fai ciò che ti viene detto perché è l'unica cosa che ormai sei in grado di fare, sanno esattamente come manipolarti, raggirarti, come farti diventare un burattino nelle loro mani, e quando non gli servirai più t’immoleranno, utilizzandoti per l'ultima volta come esempio per chi verrà dopo di te». Lo guardo senza battere ciglia. «Dimmi la verità, quanto tempo è che non guardi qualcuno negli occhi e ci vedi una persona?». Mi fissa basito, proprio come io lo guardavo qualche attimo prima, mentre blaterava quell'urticante filastrocca razzista. Perché l'ho fatto? Perché sono lontano da casa e da chiunque possa giudicarmi, qui non sono nessuno, non rischio niente, non ho paura che essere me stesso fino in fondo possa portarmi a rovinare per sempre la mia vita e le mie piccole certezze. Sì, sono anch'io schiavo dell'equilibrio di un castello di carte, ma il mio obiettivo non è un tornaconto ma un moto spontaneo di comunione e di verità. Questo improvviso e inusuale sfogo mi ha scosso, ma adesso basta chiedersi il perché, è un esercizio che porta alla regressione, che conosco e di cui in questo momento non ho bisogno. Li lascio lì tutti e quattro, zitti e increduli. Il caffè si è freddato. Esco dalla stanza, mi dirigo verso il salone dove la musica è ancora alta, sento dietro di me il palermitano che dice: «Ma l'hai sentito? La gente non sta bene!». Scuoto la testa: speriamo che qualcosa sia almeno penetrato nel


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suo inconscio. Marco attende al tavolo, mi sorride da lontano, mi siedo accanto a lui. «Ma come gli è venuto in mente?» dice ridendo mentre ripensa all'accaduto. «Che avete fatto tutto questo tempo?». «Guarda, non hai idea, una cosa patetica, ma quest'altro invece?» l'altro allegro amico tedesco è ancora addormentato con la testa sul tavolo. Marco gli si avvicina e gli chiede se è tutto okay. Lui si alza imprevedibilmente dritto sulla sedia ancora un po' intontito con la faccia rossa e i segni delle pieghe della tovaglia ancora stampate in faccia, i capelli biondissimi e corti hanno mantenuto incredibilmente la loro forma originale portata sul lato sinistro. Ci chiede se andiamo via, noi gli rispondiamo di sì e lui fa cenno come per venire via con noi. Gli ricordo gentilmente dei suoi amici e lui si lascia sfuggire un per niente elegante: «Uff, stupidi idioti!». Guardo Marco che è già molto divertito dalla situazione. Ci avviamo alla cassa, il nostro nuovo compagno ci impedisce fisicamente di avvicinarci e paga lui per tutto il tavolo, s’infila la giacca e, mettendosi al centro, ci abbraccia entrambi. «Conosco un paio di posti niente male».


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CAPITOLO 3

Il suo nome è Ermes, davvero strano per un tedesco. Conosce Istanbul come le sue tasche, mi farà da guida nella prima mattinata in questa immensa città. Marco avrebbe preferito il tour turistico sul pullman e le audio-guide, ma come ho potuto testare ieri notte il mio nuovo accompagnatore è un individuo davvero sorprendente. Sono convinto di aver fatto la scelta giusta. Appena uscito dal locale, ancora mezzo sbronzo, ha fatto una telefonata e dopo qualche minuto è arrivato un taxi. L'autista l’ha salutato con un forte abbraccio come si saluta un vecchio amico e poi ci ha fatto segno di salire a bordo della piccola Peugeot gialla. La situazione e il clima cordiale suggerivano di fidarsi, anche se conosco la tristemente nota fama dei tassisti di Istanbul. Montiamo in macchina sull'onda dell'entusiasmo: l'auto ha un odore di tappezzeria vecchia e stantia, mista a fumo di sigaretta, maldestramente mitigato da un deodorante al sandalo. Chi guida è un turco di mezza età, carnagione olivastra, baffo nero che copre tutto il labbro superiore come un folto scopino, magro ma nerboruto, camicia bianca e pantalone nero di un’eleganza popolare che forse andava di moda a Istanbul quando lui aveva diciotto anni. Ha le mani di chi ha fatto lavori pesanti, non ha


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sempre guidato un taxi e il sole ha riempito di rughe un viso simpatico che appare predisposto al riso. Parla con Ermes, ma soprattutto ascolta le sue storiacce che lo fanno ridere divertito; nonostante la sua cultura non approvi certe serate brave ed estreme, sembra ben disposto e non per semplice cortesia nel servire un cliente dalla mancia facile. Si capisce che stima quell'uomo. Marco se la ride tra sé e si gode il viaggio guardando dal finestrino, se lo conosco, e lo conosco bene, è un po' nervoso, ma l'idea dell'avventura l'ha trasportato in un'incoscienza goliardica. Forse immagina di andare a visitare posti sconosciuti ai turisti, dove scattare un sacco di foto da far vedere alla moglie e agli amici una volta a casa. Io invece ho il sospetto che non sarà così. Approfitto della situazione per mandare un messaggio ad Anna: non posso farla stare in pensiero, ma non posso neppure dirle la verità perché le verrebbe un colpo se sapesse che sono in macchina con un tizio conosciuto un paio d'ore prima in circostanze così singolari e che non ho la minima idea di dove mi stia portando. Scelgo quindi una mezza verità: “Abbiamo finito di cenare e fatto amicizia con dei tedeschi, andiamo a bere qualcosa e poi torniamo in hotel, ti chiamo domani mattina ;-)” Le racconterò tutto appena tornato a casa. Non ho idea di dove siamo, la guida sicura ma veloce e nervosa nei vicoletti di un’Istanbul sconosciuta ai turisti mi ha fatto


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perdere l'orientamento, l'ultima volta che ho visto un quartiere e una moschea che ho riconosciuto saranno stati quindici minuti fa. Gli alti palazzi non danno la possibilità di guardare molto lontano. È mezzanotte passata, c'è ancora tanta gente in giro, è il periodo del ramadan e i trasporti pubblici si fermano un'ora dopo il solito. Fra mezz'ora sarà tutto fermo e il lato storico della città si addormenterà poco a poco. Anna risponde al messaggio: “Qui tutto bene, divertiti, ci sentiamo domani.” Il taxi si ferma al bivio tra due vicoli. Ermes si volta verso di noi e ci dice soddisfatto che siamo arrivati. Il tassista ci saluta sorridente mentre riceve 100 lire turche e mi accorgo solo adesso che non aveva acceso il tassametro. Il taxi sfreccia via e noi entriamo in una stradina in cui è stato improvvisato un mercato, abiti che dovrebbero essere contraffatti ma che sembrano del tutto uguali a quelli che compriamo nei nostri negozi, sono disposti di fianco a ceste di verdura, venditori di essenze ci invitano ad annusare dei piccoli flaconi colorati. C'è un negozio aperto dietro la baracca di un venditore, si vede a stento, vende orologi. Ermes ci entra, voltandosi un attimo per vedere se lo seguiamo, e ammicca: il negozio è minuscolo, lo attraversiamo guardandoci pigramente intorno. Non sono mai stato un fanatico degli orologi, non amo il ticchettare del tempo, preferisco considerarlo un flusso irregolare, lo considero più realista. Ci sono orologi che sembrano antichi e preziosi appesi alle pareti e devo ammettere che pur essendo dei semplici strumenti con


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tutta la loro eleganza danno un senso diverso al tempo che trascorre. In un angolo c'è una scala che porta a un seminterrato, non ci sono finestre: all'interno c'è un negozio di spezie. L'odore mi stordisce e rende l'aria inebriante, i colori sono brillanti e danno all'intera stanza, che è completamente tappezzata di recipienti a tutti i livelli, un'impressione avvolgente: è come essere all'interno di un quadro che trasmette emozioni pure o in un tappeto dai disegni intricati e la trama fitta in una continua evocazione di ricordi, immagini ed emozioni. Appena ci chiudiamo la porta del negozio di spezie alle spalle, torniamo a respirare un'aria inodore ma fresca. Adesso siamo su un pianerottolo. Alla nostra sinistra c'è una scala che sale verso l'alto, l'ambiente è climatizzato, il caldo umido che c'è all'esterno non si avverte. La scala è stretta e buia, Marco mi segue comprensibilmente disorientato, ogni tanto ci lanciamo uno sguardo interrogativo ma divertito, tuffati in un'incognita completa come due ragazzini in un libro di avventure. Ermes è davanti a noi, sale pigramente le scale dondolando, mentre schiaccia un gradino dietro l'altro. Apriamo la porta e un fascio di luce bianca ci investe in pieno. Entriamo in una stanza che ha il candore della sala d'aspetto del paradiso, le pareti sono così bianche e la luce così intensa che si distinguono a stento i contorni. Man mano che la vista si abitua alla luce, cominciamo a distinguere delle vetrinette ai lati e una al centro, al cui interno brillano degli oggetti di un giallo


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inconfondibile e traslucido: oro. Collane, orecchini, anelli e manufatti di ogni genere di un oro puro, dolce, non una lega, tutto è semplicemente poggiato all'interno delle vetrine quasi fossero dei comuni soprammobili, la manifattura artigianale balza agli occhi anche del piÚ inesperto degli osservatori. Un indiano con un lungo vestito bianco in lino ci osserva senza proferire parola dal centro della stanza, ha solo un sorriso educato dipinto in viso e un'aria disponibile. Ermes ci osserva dal fondo della stanza divertito, appoggia la mano sul muro e questo si apre in una porta senza maniglia che fino a pochi istanti prima non c'era, un suono ovattato esce dall'altra stanza, lo seguiamo attraversando e spostando numerose tende di un rosso sanguigno come superando un sipario dietro l'altro. La musica sale di volume fino a diventare un piacevole terzetto di batteria, contrabbasso e tromba che suona un ritmatissimo pezzo di un allegro jazz che non riconosco. Tappeti persiani sul pavimento di marmo e broccati alle pareti senza finestre, una ragazza nana sulla trentina ci annuisce dall'altra parte dell'ampia sala dietro un bancone che sembra una reception e mentre attraversiamo i salotti, le poltrone e i tavolini di un ricco liberty d'epoca, penso che tutta la stanza sembri la hall di un hotel di lusso. I lunghi boccoli biondi fanno da cornice a un viso insolitamente dolce, gli occhi blu intenso e delle labbra sode e carnose glossate di un rosso vivo, riconosce Ermes che è diventato insolitamente formale e cortese, gli porge tre grosse monete e lui ce ne consegna una ciascuno.


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«Dove ci hai portato?» chiedo «Che senso ha dirtelo ora? Stai per vederlo con i tuoi occhi… hai paura?». No, non ho paura, ma Marco è visibilmente teso. Provo a prepararlo a ciò che potrebbe esserci oltre questo dedalo di stanze profondo come la tana del Bianconiglio, ma non c'è bisogno di bere strani intrugli, dimenticare chiavi, mangiare funghi o piangere lacrime fanciullesche e disperate. Si dà semplicemente per scontato che a questo punto della propria vita si sia sufficientemente coscienti di ogni genere di rischio. «Se avessi paura sarebbe ancora più divertente». «Sapevo di non sbagliarmi». Il tedesco ci fa ancora strada, ma ha un'andatura più dritta e contenuta e un passo determinato ma non frettoloso. È in un ambiente che evidentemente conosce molto bene e che lo stimola, quasi come se fosse nel suo campo di battaglia ideale. Un uomo della servitù vestito come un cameriere inglese Old School ci apre un ampio portone di legno scuro e siamo in una sala enorme dal soffitto alto approssimativamente dodici metri. Al centro, un caos ordinato di cuscini e tappeti, su cui sono adagiati uomini che fumano beatamente narghilè in compagnia di donne bellissime vestite come in un racconto da mille e una notte. Preziose stoffe, veli e metalli tintinnanti, mentre musica tradizionale risuona nell'immenso formicaio di uomini e di donne, lungo più di ottanta metri. Dall'alto si affacciano balaustre in legno da cui si accede a numerose altre stanze.


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Tutto ha preso una piega follemente onirica, svegliarsi in questo momento significherebbe continuare a chiedersi nei prossimi anni cosa sarebbe successo se si fosse continuato a sognare. Marco sentenzia che siamo semplicemente nel più enorme bordello del mondo, magari molto più chic ma decisamente un bordello. Ermes ci fa cenno con la mano di seguirlo con un gesto risoluto di chi è abituato a dare ordini. Ci guida in questa gigantesca struttura e non posso fare a meno di chiedermi come sia possibile nascondere un posto così enorme in una città moderna. Oltre a una delle porte c'è un vasto casinò, pieno di luci e un cicaleccio di voci divertite, ma ci affacciamo appena. Mentre ci avviciniamo alla porta successiva finalmente Ermes ci spiega: «In questo luogo potete trovare il vostro piacere o magari dare pace alla vostra pena, dovete semplicemente cercare, saranno i vostri bisogni più intimi a guidarvi, quelli che in molti non hanno il coraggio di confessare, qui dovete solo scegliere». Ha appena finito di parlare e ci guarda con aria soddisfatta e assorta, probabilmente pensa a tutte le esperienze che ha colto lì dentro, vedo Marco stranito, quasi come se stesse rispondendo male a una situazione stressante e inaspettata, una specie di trance. In un improvviso slancio di curiosità apre la porta successiva quasi di scatto, rimane sulla soglia per qualche secondo e poi si tuffa sul pavimento all'indietro non riuscendo a trattenere con la mano un fiotto di vomito. Mi avvicino cercando di capire cosa sia successo, getto uno sguardo attraverso la porta: un combattimento di cani in una


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piccola arena, in una stanza che sarà grande cento metri quadri, un grosso pitbull ha le mascelle serrate al collo di un rottweiler, mentre un altro cane giace al suolo in un piccolo lago rosso. L'odore di sangue arriva sino a noi, accompagnato dalle grida di uomini e donne che urlano sbavando più dei cani. Ermes si avvicina a Marco e lo aiuta a rialzarsi. «Al tuo amico ci penso io» dice mentre mi stringe il braccio. «Non abbiate paura di perdervi ragazzi, vi assicuro che è l'ultima cosa di cui vi dovreste preoccupare». Poi, mentre va via con il mio compagno di viaggio, aggiunge: «Qui c'è una sola occasione, un'unica possibilità di scambio, riconoscerai qual è!». Cosa voglio? Questa è la domanda mi si stampa nella mente, l'unico pensiero che realmente riesco a formulare. Vago per i corridoi e le balaustre, per minuti o forse decine di minuti, ma non apro nessuna porta: come posso desiderare qualcosa se non la vedo? Ma non ho nessun segnale, nessuno stimolo che monti da dentro. C'è un filo invisibile che ci guida attraverso una strada che se perseguissimo rispettando tutti i segnali trovati nel percorso, riusciremo a percorrere per intero compiendo un destino netto e privo di fallo. Sì, c'è qualcosa al di sopra che ha stabilito un ordine e che ci indica, con dei segni, il tragitto, non il più facile, ma il migliore. Per perseguire il nostro destino non dobbiamo far altro che interpretare correttamente questi segni, anche se nulla vieta di ignorarli, di perdersi in viuzze secondarie e di contorno, ma questa sorta di segnaletica


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rimarrà comunque lì, a indicarci quando lo vorremo, quale sarebbe stato il cammino che più avrebbe reso virtuoso il nostro destino, pronta a indicarci nuovamente la strada. Passo di fianco a molta gente, ma nessuno sembra badare a me. Decido di sedermi nella grande sala centrale, sono semidisteso su alcuni cuscini mentre mi chiedo se cederò alla tentazione di un narghilè. Una donna si siede alla mia destra, vicino, quasi mi tocca. Ha le gambe nude e i piedi scoperti, carnagione scura, un velo le copre il viso che mi sembra di intuire fine e dalle lunghe palpebre nere, ma i suoi occhi verdi in un kajal nero vi penetrano attraverso. Due lembi di stoffa la coprono: uno all'altezza del bacino, l'altro trattiene a stento un seno giovane e voluttuoso. Riesco a sentire da qui il calore del suo corpo, sarà a stento maggiorenne. È davvero bella, l'ideale rifugio dei piaceri della carne, ma non sono qui per una cosa simile, questo è certo. Mi vede rapito dal suo corpo e allunga una mano sul mio viso e poi sul collo, è incredibilmente calda, al suo passaggio sulla mia pelle sento dei brividi, e un forte istinto mi monta dentro, non nego di essermelo goduto, ma con un gesto educato le tolgo la mano dal mio collo e le chiedo: «È questo ciò che hai da offrire per lo scambio?». «Ho molti modi per procurarmi ciò che m’interessa». «Non lo dubito, ma prevedono tutti che tu mi debba sedurre?» le scappa da ridere. «La seduzione è solo un modo per alzare la posta in palio, per rendere più divertente il gioco».


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«O per convincermi che hai davvero qualcosa di interessante da vendere, fuori da qui i tuoi fratelli in moschea non sarebbero molto felici di vedere che uso fai del tuo corpo». Se è musulmana difficilmente negherà la propria fede, e infatti lo è. «Ci sono musulmani fatti in molti modi, anche se è pericoloso parlarne da queste parti, prego come tutti loro, credo fermamente nel Profeta e nel Corano, ma il giudizio dei miei fratelli non ha nulla a che vedere con ciò che faccio qui, o con ciò che mi accadrà dopo la morte». È appena maggiorenne, vende il suo corpo in un luogo che fatico a credere che esista realmente e parla della propria religione e di morte in un modo che da dove vengo io è inconsueto anche per un adulto. Davvero seducente. Non resisto, voglio capire. «Cioè, non credi esista qualcosa dopo che morirai? Che senso ha considerarsi musulmani allora?». «No, io credo che per quanto l'interpretazione del nostro Libro possa essere illuminata, un uomo non possa sostituirsi a Dio nel giudizio su un individuo, il ragionevole dubbio nasce dall'impossibilità di vivere interamente i sentimenti altrui, come si può giudicare un individuo al punto tale da diventare padroni della sua anima?». Si è calmata, in una specie di ossequiosa meditazione, è sparita ogni traccia della sua irresistibile presenza seducente, tiene gli occhi bassi come parlasse a se stessa. «Quindi è tutta una recita, ognuno sceglie un cammino lasciandosi guidare da figli del Padre, Profeti o interpreti


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illuminati, per poi rimettersi al giudizio di un Dio che in realtà non si conosce?». «Come puoi tu concepire Dio? Noi ci facciamo edotti della sua presenza immanente, tutto il resto è solo una supposizione e un convincimento personale di chi crede, e io credo fermamente, quindi ho tutto il diritto di sperare che ci sia salvezza anche per la mia anima». I suoi occhi sono all’improvviso lucidi. «Lo credo anch'io…». Quale orribile entità potrebbe giudicare male un animo così profondo? «Un'ultima cosa» tiro fuori la mia moneta dalla tasca e solo adesso mi accorgo che su entrambi i lati sono raffigurati un ingranaggio e un compasso, anche troppo scontato. «Te la sei meritata ma, voglio sapere cosa ci fai in un posto del genere». «Non hai nessun diritto di chiedermi una cosa simile! Niente entra o esce da questo posto impunemente». Poi in modo inspiegabile si apre: «vengo qua da almeno due anni, prendo le monete di quelli che come te cercano di colmare un vuoto e non trovano dentro di sé le risorse per farlo da soli, e così aiuto anche la mia famiglia e pago i miei studi, da quando mio padre non può più fare il secondo lavoro per mantenere me e i miei sei fratelli, i suoi amici non approvano che io possa lavorare e così Ermes mi ha trovato questo lavoro, la mia famiglia crede che questo posto sia un enorme hotel dove lavoro come cameriera». Le porgo la moneta per interromperla, lei la prende con un gesto frettoloso e senza guardarmi si alza e si allontana meccanicamente. Ha perfettamente ragione: che diritto ho di chiedere una cosa del


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genere? È stato egoistico, ma me ne accorgo solo adesso. Non so che ora sia perché il mio cellulare si è spento da un pezzo, ma è sicuramente molto tardi. Comincio a sbirciare aprendo qualche porta, scoprendo spesso ampie sale vuote, poi decido di seguire gli schiamazzi e i gridolini che vengono da un corridoio in un angolo estremo al primo piano della struttura. Attraversa improvvisamente il corridoio davanti a me a passo svelto una donnina dagli abiti succinti. Il cerone sul viso e un'acconciatura seicentesca a palazzo, seguita qualche istante dopo da un goffo ciccione completamente nudo e terribilmente eccitato, tra il buffo e il grottesco. Come spiegherò questa nottata a mia moglie? Sembra divertente anche questo. Mi addentro poco alla volta tra scene di scambi amorosi di varia intensità e natura, fino a quando scorgo su un letto a baldacchino bianco, in una stanza piena di gente, Marco lungo e disteso, impegnato in un amplesso con una donna accovacciata sul suo basso ventre. Mi vede con la coda dell'occhio, ma si sforza di rimanere concentrato e nel prendersi ciò che vuole. Torno nella hall. C'è già Ermes che aspetta, mi siedo su un basso divanetto biposto che ha dei ricchi uccelli di legno come braccioli, e lui chiede: «Soddisfatto?». Ma non è di questo che voglio parlare. «Perché l'hai portata qui? Perché l'hai messa su quella strada,


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aveva solo sedici anni quando ha cominciato…». Ermes mi lancia uno sguardo indulgente. «Perché suo padre non può vivere delle mie ricche mance, ma guida un vecchio taxi e ha tanti figli da mantenere, potrei passargli io dei soldi ma che ne sarebbe della sua dignità? Non potrei mai rubargli anche quella, riguardo a Fatima è già una donna e lo era anche due anni fa, non puoi decidere per loro se li rispetti come persone». «Perché non fa un altro lavoro? Perché non fa la cameriera in un bar?». «Perché nessuno deve sapere che Fatima lavora! La sua famiglia e tutti i loro amici non approverebbero, ma tu non puoi capire quanto volentieri si sacrifica per la propria famiglia! È nel luogo più sicuro per lei, nessuno può permettersi di parlare di questo posto e nessuno saprà mai che c'è stata». «Il sacrificio per la propria famiglia non dovrebbe prevedere l'annullamento della sua persona». «Anche vivere nella periferia degradata di una grande città, avere intorno a sé un gruppo di persone che ti ama e ti protegge ma ha le proprie rigide regole, qui ha un prezzo». Parla con un tono sereno e rilassato. Non è più l'uomo determinato che ho visto qualche ora fa. Il suo animo è mutato di nuovo, è stanco ed evidentemente ha soddisfatto i suoi bisogni in chissà quale stanza. È pacifico, appagato, mi spiega il suo punto di vista come un sacerdote che catechizza un bambino sveglio ma un po' troppo vivace. «Domani vorrei essere la vostra guida, mi piacerebbe farvi


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apprezzare la città». Marco entra nella hall, ha un viso contratto, mi guarda negli occhi un secondo, poi si volta altrove, fingendo di essere assorto in altri pensieri. Vorrei aiutarlo a uscire dall'imbarazzo, un tradimento consumato in un ambiente simile ha poco valore ai miei occhi, non c'è coinvolgimento emotivo. È la messa a terra di una libido frustrata da una vita dedicata ad altre priorità e lontana da quelli che sono i bisogni primari di un qualsiasi individuo. Certamente non sarà facile spiegarlo una volta tornato a casa, ma c'è anche l'alternativa di un'ostinata menzogna raccontata a se stessi e che ci assolva. Infilando a forza il senso di colpa in fondo a un lago nero, difficile da dimostrare che tra le sue gelide acque si nasconda un orribile mostro. Col tempo ci si sorprenderà a pensare che sia stata solo una precoce crisi di mezza età e si accarezzerà l'idea di vantarsene velatamente con gli amici, magari solo accennando a esperienze fatte in viaggio, senza precisare né quando, né dove, né con chi. Ma è Ermes a mettere la questione su un altro piano, rivolgendosi direttamente a Marco: «Domani mattina sveglia di buon’ora, vi porto nel centro storico di Istanbul». «Credo che starò da solo, domani». È nervoso ma cosciente di non avercela con noi, determinato nella sua decisione, tuttavia spaventato da quanto la propria coscienza lo possa destabilizzare. «Ho già prenotato il mio tour in bus». Torniamo in hotel con un taxi, una moderna auto giapponese ad alimentazione ibrida: un altro esempio di come questa città possa


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fondere in un disegno uniforme la contemporanea necessità di rimanere al passo con la velocità e gli standard tecnologici di un mondo accattivante e pieno di nuove possibilità, per sviluppare l'economia e per promettere nuovi e migliori condizioni di vita ai propri cittadini, insieme alla proverbiale capacità di riconoscere, accettare e accogliere tradizioni e culture antiche. Regna un malinconico silenzio, ognuno è comprensibilmente assorto nei propri pensieri e nei propri recenti ricordi. Il tassista, un po' infastidito, accende la radio senza temere possibili obiezioni. Musica tradizionale, comincio a riconoscere edifici e moschee che scorrono oltre il finestrino. Ermes si schiarisce la voce e senza voltarsi sentenzia: «Domani mattina alle 10.30 alla fermata del Tramway Sultanahmet, la nostra prima tappa sarà il mosaico della Madonna col Bambino di Santa Sofia». Si rivolge solo a me, è tornato il tedesco risoluto, simpatico e dai modi spicci: ha già metabolizzato la serata. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrĂ assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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