In uscita il 31/1/2019 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2019 ( ,99 euro)
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SANDRO MICHELI
L’INCAPPIATORE
ZeroUnoUndici Edizioni
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L’INCAPPIATORE Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-271-3 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
L’INCAPPIATORE
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È
il 26 luglio 2018, stazione ferroviaria di una cittadina del Nord…
VOCE: «Leonida! Alzati, è tardi! Sei lì, seduto con la testa tra le ginocchia, in quell’angolo che ti rende invisibile. Il fetido olezzo, figlio di una dignità annientata, ti presenta ovunque, come un biglietto da visita, generando emarginazione e disgusto. Anche oggi, grazie alla pietà dei pochi, hai potuto procurarti il tuo tetrapak di veleno rosso che ingoi senza gusto, con dolore, sapendo che ha corroso il tuo stomaco e distrutto la tua anima, ma oramai non t’importa più né dell’uno e tanto meno dell’altra. Leonida, ti chiamo ma non mi ascolti! Fissi la gente passare, ma per te sono solo ombre, il tuo silenzio senza speranza è un abisso in cui solo i ricordi riescono a sopravvivere, quelli che ti torturano e che sono la causa del tuo immenso dolore. Hai cinquant’anni e sembri un vecchio di settanta, la barba grigia e lunga, senza senso, occhi profondi scavati dalla fame, che tu ormai non accontenti più. Ho capito, Leonida, devo aspettare anche oggi, vuoi ripercorrere di nuovo il tuo passato.
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Io ti conosco bene, ma se ti fa piacere starò qui accanto a te, ancora una volta, per ascoltare la tua confessione, il tuo rimorso e il tuo amore dannato. Tu sei il riflesso di un mondo che ha strappato l’anima agli uomini e che si avvia inesorabilmente verso la sua fine. Perché continui a sorseggiare quella mistura che ti ucciderà, raccontami Leonida, raccontami».
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IO
LEON: «Voce! Così ti ho chiamato fin dalla prima volta. Non ti sopporto più, chiamami Leon come fanno tutti. Mi fai tante domande e mi impedisci di morire, mi ricordi che devo spostarmi, che devo dormire e qualche volta mangiare, non mi sei simpatica, ma sai ascoltare. Con te non devo neanche parlare per farmi sentire, per questo voglio dirti di me, chi ero... visto che chi sono ora ti è ben noto. Io non sono un figlio del carcere, un emarginato sociale, tu non ci crederai, io ero un professore, un giovane docente universitario, un uomo dalle umili origini, il cui padre dalle mani callose aveva insegnato il senso dell’onore, il rispetto delle leggi, del prossimo e in ultimo l’amore per la terra, da cui la mia famiglia traeva sostegno e tranquillità economica. Io ammiravo quell’uomo così legato alle tradizioni e alla cultura contadina che, dopo dodici ore di duro lavoro, riusciva a trovare il tempo di leggere i classici e rispondere alle mie domande, prima di cadere sfinito, dopo un piatto di zuppa, in un sonno pieno di sogni destinati a me, il frutto del suo sacrificio. Un figlio solo, con un nome importante, quello di un re, così era stato deciso: a lui non servivano braccia, lui puntava su una mente fine, su qualcuno che avrebbe potuto contribuire a
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cambiare un mondo di cui aveva già allora intuito il pericoloso futuro. Mi diceva sempre: “osserva la terra! È sincera, a volte generosa a volte crudele, ma sai che è quella e sempre così sarà. Diversi sono gli uomini! Molti sono ipocriti e assetati di potere, ma sanno anche amare e l’amore è il più grande dono che abbiamo, un giorno lo capirai”. Quelle sue parole, i suoi semplici principi, erano gli archi che sostenevano la mia mente generando in me una grande forza interiore che non mi avrebbe mai abbandonato almeno fino a quel giorno». VOCE: «Leon, quel giorno». LEON: «Voce, fammi ricordare! Pantaloncini corti e sandaletti, la differenza la facevano solo le stagioni, non gli abiti. Il freddo e il caldo erano solo insignificanti particolari che condizionavano i due chilometri che dovevo percorrere per giungere a scuola ogni mattina. Nel primo caso due castagne calde in tasca e un passo veloce facevano miracoli; contro il caldo invece c’era il fontanile di mezza via, da cui trarre sollievo bevendo e bagnando i capelli. Tante erano le materie, fin da subito cercai di capire in quale di esse mi riflettevo. Letteratura, matematica, scienze e infine storia; sì, Storia, Essa stessa una traccia dell’umanità, l’incancellabile ricordo di ciò che siamo, nel bene e nel male, il passato che potrebbe aiutarci a cambiare il futuro, questo mi convinse appieno, per cui la scelta era fatta. La mia prima insegnate di storia la ricordo ancora molto bene, anche se concentrato soprattutto sulla sua voce, con quel leggero accento siculo, padrona della materia nelle sue nozioni,
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era per me il risultato ideale della millenaria miscela di culture che quell’isola meravigliosa custodisce in sé. Bionda, con occhi azzurri, probabilmente dalle origini normanne, fuori dagli schemi cinematografici che ci hanno sempre fornito un’iconografia opposta. Io le devo molto, per avermi insegnato un semplice metodo logico per l’analisi degli eventi, di cui ho fatto tesoro in tutto il mio percorso di studi e nella mia vita, fino a quell’attimo in cui la mia anima precipitò nell’abisso del male». VOCE: «Leon, andiamo al dunque!». LEON: «Non cercare di fregarmi! Aveva trovato un nome buffo e, devo dire, anche singolare per quella “regoletta” che nascondeva una forza incredibile, la chiamava “la catena dei perché”. Io percepii subito la sua potenzialità e ne rimasi incantato. Un metodo dalla meravigliosa duttilità, in grado di condurti nei più arcani meandri del ragionamento, lasciandoti però “la scelta”. Una logica quindi consapevole, pervasa di umanità, paura o coraggio di affrontare un altro perché, fame di risposte. Rammento bene quando diceva: “potete fermarvi al primo perché o proseguire”, e io mi impegnavo andando avanti fin quanto potevo e dove non c’erano risposte, c’era la ricerca, capii successivamente che quella era l’essenza del sapere, il cuore dell’evoluzione». VOCE: «Leon, non posso che darti ragione, ma lo sai, dobbiamo». LEON: «Voce, ti chiedo di ascoltarmi ancora, non ho mai pregato nessuno nella vita, non costringermi a bere ancora, m’impedirebbe di ricordare e io anche oggi voglio farlo».
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…Gli anni passarono veloci, fino a quando arrivò il liceo, l’emozione del pullman ogni mattina e le cinquecento lire in tasca per lo spuntino. Facce nuove, nuovi insegnanti, una struttura imponente dall’architettura neoclassica tipica del ventennio, con colonne di travertino annerite dal falso progresso. Il primo giorno fu per me un evento memorabile. L’entrata era costituita da una meravigliosa scalinata in marmo dalla tipica forma a ventaglio, che stringeva verso vecchie e screpolate vetrate in legno che cigolavano a ogni apertura. Il loro richiudersi e sbattere rimbombava in un ampio atrio, quasi da tempio greco, uno spazio che infondeva altresì un timore reverenziale, quello generato dai sapienti che vi insegnavano. Appena entrato notai subito l’altra scalinata a spirale che portava ai piani superiori e la sua ispirazione all’immenso matematico pisano Leonardo Fibonacci». VOCE: «Leon... a cosa serve tutto ciò?!». LEON: «Voce serve a me, non interrompermi. ..Feci i gradini due a due, cercando l’aula che mi avrebbe ospitato per cinque anni e notai subito che la vita di quei luoghi era impressa nelle orme di scarpe rimaste sui muri, a imperitura testimonianza del passaggio di generazioni di giovani, individui che, magari solo appoggiandosi per sostenersi nelle pause tra una lezione e l’altra, avevano lasciato un segno, come quelle tracce già viste nelle pitture murali australiane dove migliaia di mani sono sopravvissute al tempo. L’umanità non cambia, poi, odore di gesso e banchi di legno e formica verde.
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VOCE: «Leon, è quasi sera». LEON: «Lo so. Dopo ci fu l’Università e la laurea, ottenuta con il massimo dei voti e il plauso dei docenti, l’abbraccio sincero di mio padre, le lacrime di mia madre: questo succede quando il mondo ti apre le porte per poi richiuderle dietro di te e inghiottirti. Ti giri e non vedi più il tuo passato, hai voglia di vivere, interagire, ma non sai cosa ti riserva il destino, considerando quest’ultimo quell’insieme di condizioni e variabili che determineranno azioni e reazioni, scelte giuste e irrimediabili errori, i miei. Mi definivano il più giovane professore titolare di cattedra che quella piccola università avesse mai avuto, avevo vinto il concorso brillantemente, rendendo nulle anche le avverse raccomandazioni che avrebbero dovuto avvantaggiare alcuni predestinati. Tutto quadrava e gli eventi erano in sintonia con la mia determinazione, il mio entusiasmo e la mia professionalità che, seppur pagata cara con una giovinezza senza discoteche e senza ragazze, mi aveva consentito di realizzare un sogno». VOCE: «Leon, il destino è più complicato di quanto tu possa immaginare». LEON: «Voce, mi prendi in giro, guarda cosa sono e mi parli di destino? Io sono padrone e causa del mio destino, l’ho determinato». VOCE: «Leon, non funziona così, non sono queste le regole».
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LEON: «Quando fai così mi fai innervosire e devo di nuovo bere, lasciami in pace!». VOCE: «D’accordo Leon, non ho intenzione di discutere, continua». «Bene, quella mattina di settembre mi sentivo particolarmente positivo e appena alzato avevo sbirciato fuori, muovendo la tenda con un dito. Un’azione semplice, ripetuta molte volte, quasi insignificante, ma che poteva comunque influire sul mio umore. Quel giorno il sole abbagliava su quella finestra esposta a est e il calore dei raggi, anche se solo per un breve momento, aveva accarezzato il mio viso. Mi ero lavato e vestito; poi, davanti allo specchio, con le forbicine, avevo curato l’aspetto dei baffi e della mia barba direi ottocentesca, che molti definivano un po’ troppo retrò, ma che secondo me contribuiva a migliorare l’approccio con i miei studenti del primo anno, trasformandomi in un personaggio proveniente dal passato, ma pienamente proiettato verso il futuro. Io aspettavo con curiosità quel particolare giorno, con il desiderio di cogliere nei visi di quei ragazzi quelle espressioni di meraviglia, paura, voglia di vivere e spirito di avventura... insomma tutta quella gamma di emozioni che già mi erano appartenute. Volevo soprattutto capire se ciò che ero diventato era unico, oppure se potevo essere classificabile come un classico modello gaussiano, un elemento d’insieme che la solita statistica aveva fatto entrare dalla porta di quell’aula. Ero giunto con largo anticipo, la boria del ritardo non mi apparteneva, ero lì con la mia borsa di cuoio regalatami da mio
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padre con all’interno alcuni appunti e il panino acquistato nella salumeria sotto casa. Avevo tracciato pochi e significativi tratti sull’enorme lavagna alle mie spalle, scrivendo due nomi: Marx e Weber, nient’altro. Volevo vedere le loro facce man mano che entravano, quel giorno intendevo creare un legame con loro, parlando dei conflitti sociali, dei mezzi di produzione, delle compensazioni immateriali e i percorsi classisti, l’elevazione sociale e l’emarginazione, il proletariato necessario, i movimenti di protesta e le grandi rivoluzioni».
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LEI
Mentre pensavo a tutto ciò, quasi in maniera automatica, avevo provveduto alla registrazione dei vari studenti che si erano presentati a me con celere cortesia, tant’è che le prime file dell’aula erano già piene di ragazzi che mi scrutavano con sguardo analitico, cercando probabilmente di scorgere in me qualche caratteristica che gli avrebbe permesso di intuire se ero uno dei tanti professori etichettabile con un quinquennale epiteto, oppure un anacronistico scherzo della natura. La loro evidente curiosità non mi dispiaceva, d’altra parte l’avevo fatto anch’io. A un certo punto, però, entrò in aula una studentessa vestita in modo semplice e sobria negli atteggiamenti, quasi timorosa, di cui percepii immediatamente l’aura particolare. I suoi lunghi capelli e i suoi occhi chiari mi colpirono come un fulmine in una notte senza luna. Non era molto alta, ma ben modellata dalla natura, la bellezza che io avevo sempre immaginato, un tesoro da custodire gelosamente. Con passo regolare si avvicinò alla cattedra per confermare la propria presenza e si presentò: «buongiorno professore, mi chiamo Giulia D’Ambrosio». Io risposi: «buongiorno signorina, sono il professor Leonida Bennati, benvenuta, questo è il corso di storia moderna che terminerà con la prova d’esame a luglio, si scelga un posto e buona frequentazione». Lei si congedo con un: «Grazie» .
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La vidi dirigersi verso il vertice in alto a sinistra dell’aula, sistemare i propri effetti personali e poi iniziare a scrutare gli altri studenti del corso. Era una ragazza bellissima e il mio cuore mandava inequivocabili segnali alla mia mente. Quella ragazza aveva fatto interagire in me, per la prima volta, istinto e anima: sentivo che stava accadendo qualcosa di speciale, forse mi stavo innamorando di una donna.
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IL RIVALE
Quattro mesi dopo eccomi là, completamente trasformato, consapevole di essere pervaso di amore puro verso quella ragazza, senza possibilità di rescindere quel contratto con il mio “io” più recondito: sentivo che lei era il mio completamento. Quel sentimento, quasi devastante, faceva sì che la ritenessi la convergenza di tutto ciò per cui mi ero sempre sacrificato e impegnato al massimo: ero convinto che ricevere l’amore di una donna è la vera ricompensa alla propria esistenza, il loro essere speciali e tutto ciò che ti donano, accresce e migliora la tua universalità, fino a raggiungere il grande equilibrio. Il solo immaginarla scatenava in me tempeste ormonali che mi procuravano momenti di gioiosa follia, oppure crisi di panico. La vedevo lì davanti a me, con i capelli sciolti e il suo profumo di glicine, inebriante e allo stesso tempo discreta, il suo sorriso provocava calore come il primo sole di primavera dopo un duro inverno, una sensazione che ancora oggi, seppur solo un ricordo, insieme al rosso veleno, placa il freddo della stazione ferroviaria in cui mi sono emarginato. Ma così come nell’Eden albergava il serpente, anche per me si era materializzato un potenziale pericolo. Un concorrente, la mia spada di Damocle, una minaccia che s’insinuò in questo lasso di tempo, colui che non avrebbe meritato neanche di
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sfiorarla ma con cui, però, percepivo che avrei dovuto competere. I suoi soldi, la sua spavalderia, la sua nomea di latin lover, bastava guardarlo in faccia per capire che la parola sacrificio non apparteneva al suo scibile, l’unica cosa che trasudava da lui era il potere dei soldi. Il rettore in persona si era premurato a chiedermi di avere un occhio di riguardo per Roberto Perotti, il figlio del “commendator Perotti”, il re della bresaola come lo chiamavano. Per lui quella ragazza sarebbe stata solo un capriccio, un trofeo da esporre e raccontare ai suoi adulatori, pronti a ridere e a compiacerlo, anche solo per un invito in villa o una serata scarrozzati con la Maserati regalata dal papi. Lo avevo sentito più di una volta, al termine della lezione, proferire commenti volgari sulle donne e soprattutto, manifestare senza alcuna remora, che per lui, erano solo i trofei del suo passatempo preferito, il safari sessuale. VOCE: «Immagino che tu fossi sicuro che i tuoi valori, ossia tutto ciò in cui credevi, avrebbe prevalso nei confronti di un playboy di provincia; che i sacri principi su cui l’umanità dovrebbe sorreggersi non avrebbero consentito che potesse accadere quello che tu negavi a te stesso, davanti a quello specchio che ti urlava che forse non eri il più bello del reame». LEON: «Voce, quando vuoi sai farti odiare, ti piace passeggiare nei corridoi della mia mente, con le chiavi di quasi tutte le porte, ma non quella che io ho chiuso per sempre, fai silenzio, fammi continuare!».
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Il cacciatore tentò la prima volta l’avvicinamento alla preda con una naturalezza da far confondere anche l’Otello di Shakespeare e, fingendosi uno studente distratto, manifestò la necessità di alcuni appunti alla donzella che io, Parsifal, salvai con un intervento diciamo quasi incidentale. Ricordo ancora adesso la sua faccia quando, facendo finta di aver casualmente ascoltato, m’intromisi fornendogli delle mie fotocopie, distruggendo così il cavallo all’assediante che sì allontanò. Avevo cambiato le sorti di una guerra? Avevo cambiato il destino di Laocoonte? Non me ne voglia il grande Omero, anche perché di quell’epico scontro fu la mia sola vittoria. Lei mi guardò negli occhi, non so dire come interpretò il mio gesto, se gli parve un ridicolo tentativo d’approccio di un giovane sfigato professorucolo di provincia, o il singolar tenzone di un cavalleresco pretendente a cui donare il proprio fazzoletto. So soltanto che i suoi occhi per la prima volta si rivolsero a me in maniera diversa, accompagnati da un accennato sorriso. Un’ondata di calore m’investì in pieno, partendo dall’interno, sapevo di non poterla controllare e le prime perle di sudore sulla fronte mi stavano tradendo per cui, visto il termine della lezione, salutai in fretta e lasciai celermente l’aula. Sceso in cortile sorrisi tra me e me... oggi dico: ma per cosa? Avevo abbandonato il campo prima della vittoria definitiva, un errore che il grande generale cinese SUN TSU aveva racchiuso in una delle sue memorabili frasi: “in ogni conflitto, le manovre regolari portano allo scontro mentre quelle imprevedibili alla vittoria”.
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Avevo avuto la possibilità di sferrare il colpo decisivo, magari invitandola l’indomani a una colazione per discutere delle prossime lezioni, invece avevo maldestramente optato per un commodus discessus. Contrariato dalla mia affrettata condotta, giunto al parcheggio interno e salito sulla mia R4 bianca, decisi di aspettarla per vederla di nuovo. Volevo tornare a casa appagato per quel piccolo passo verso il mio grande amore. Spostai leggermente a destra lo specchietto retrovisore e rimasi in religiosa attesa, fino a quando la vidi uscire con passo lesto verso il grande cancello dell’università, a quel punto decisi anch’io di partire con la mia auto per poterla incrociare sul viale di fronte all’ateneo. Appena uscito dalla carraia, accelerai nervosamente, prima, seconda e terza, la mia povera R4 stava dando il meglio di sé per accontentare chi l’aveva salvata dall’essere rottamata, acquistandola da un vecchio militare in pensione, inquilino del terzo piano, che altrimenti si sarebbe dovuto rassegnare a vederla sparire dalla propria vista. Volle poche lire e mi raccomandò di trattarla bene, perché era un pezzo della propria vita, uno scrigno in cui erano racchiusi alcuni dei suoi più bei ricordi. Io non avevo avuto il coraggio di staccare tutti quegli adesivi scoloriti dove a malapena potevi leggere le località visitate. Barcellona, Dublino, Parigi, Berlino e altre. La sera la parcheggiavo sotto casa e quando scendevo, spesso mi accorgevo che la tendina della finestra del suo affezionato pilota si scostava per poterla vedere, erano come due vecchi amanti che vivono di ricordi quando incrociano i propri sguardi e la cosa non mi dispiaceva.
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Girai a destra, un motociclista distratto mi fece rallentare, maledizione non la vedevo, pensai così di averla persa, proseguii e rallentando superai il cancello arrivando alla seconda carraia. In quel momento vidi uscire la Maserati, impossibile non notarla, nera metallizzata cerchi in lega e un profondo graffio nella fiancata, forse il segno di una vendetta proletaria. Mi fermai, consentendogli di uscire e svoltare a sinistra passandomi davanti, e a quel punto mi accorsi che la mia Giulia, era in macchina con lui, non poteva essere vero, non credevo ai miei occhi! Il Perotti doveva aver venduto la propria anima al diavolo per soddisfare il proprio egoismo; maledissi lui e la sua stirpe, ma oggi dico come criticarlo, anch’io poco tempo dopo gliela cedetti per placare il mio odio. VOCE: «questa è una cosa di cui potremmo discutere». LEON: «Maledizione! Voce, non ci provare! Ho la gola secca e lo stomaco sembra la caldaia a carbone di un vecchio palazzo londinese, devo per forza mangiare qualcosa». Torno cosciente, i miei occhi vanno verso un cestino della spazzatura, quello vicino alla fermata dell’autobus, la mia più preziosa riserva di cibo. Sì, perché qualche esperto di marketing deve aver positivamente valutato l’apertura di un fast food vicino alla fermata dei bus di fronte alla stazione, il resto è opera di chi non resistendo alla fame o indotto dall’infame messaggio subliminale acquista il tanto desiderato panino.
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Alcune volte qualcuno esce da lì e ha in mano l’incartata ricompensa, ma vede arrivare il bus stracolmo di persone; a quel punto deve decidere cosa fare: rischiare di imbrattare qualcuno e magari litigare per una richiesta di risarcimento danni di lavanderia o gettare con rammarico nel cestino ciò che mi sfamerà. Be’, io sono diventato come quegli animali cosiddetti “opportunisti”, attendo con pazienza colui che risolvendo l’equazione poc’anzi descritta, lascerà a me i propri avanzi, viva il progresso. Anche oggi mi è andata bene, ho finito di mangiare e mi dirigo alla fontanella per sciacquarmi le mani, un residuo di dignità che non è ancora sprofondato nella melma del disprezzo per me stesso. Ora devo tornare al mio giaciglio, mi muovo lentamente, sono il nuovo Mosè che, con il suo odore e i suoi colori, apre il mare di persone che scende in senso contrario le gradinate della stazione, li osservo e colgo in loro quella ripetitiva frenesia che li spinge ad arrivare il prima possibile a casa, magari per rubare un po’ di tempo alla monotonia, assassina della nostra vita. Nei momenti di lucidità, il mio spirito di osservazione non ha potuto fare a meno di percepire l’annichilimento mentale dell’umanità, ma questo oramai non conta, il problema ora è ritrovare il mio fedele cartone, quello che mi consentirà di inoltrarmi nell’avanzante notte. Ingoio alcuni abbondanti sorsi di scadente vino perché mi serviranno, come sempre, a incontrarti di nuovo nei miei ricordi: Giulia.
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Sono disteso, ancora qualche sguardo, le serrande si abbassano e gli annunci degli altoparlanti della stazione sono meno frequenti a vantaggio di una quiete che in luoghi come questo non è mai vera. Alcune notti sono squarciate da grida che testimoniano come la sfortuna non sia la sola a perseguitare certe persone, io penso che in realtà, essa sia la sorella di violenza e solitudine e, tutte e tre, come un Cerbero sempre veglio, sono lì pronte a garantire la tua sofferenza. Sto dormendo, è un buio assoluto squarciato da flashback di ricordi questo è il tuo regno Voce, qui la fai da padrona. VOCE: «Smettila di giudicarmi, ce l’hai con me che ogni notte ti accompagno nel viaggio dei tuoi ricordi, su un sentiero di un mondo con cieli senza stelle. In fondo mi puoi paragonare al tuo amato Virgilio, sono anni che ti guido, evitando che tu possa sprofondare nei crepacci della pazzia e questo è il tuo riconoscimento?». LEON: «Perché no?! In fondo la pazzia cancella ogni dolore, è l’oblio assoluto, senza ricordi senza rimorsi». VOCE: «No, caro mio, non è come dici tu, la pazzia ha molte forme e la tua assomiglierebbe molto all’inferno». LEON: «Ormai non parlo più con qualcuno da anni, non rispondo nemmeno ai poliziotti quando mi cacciano dalla stazione durante il giorno e la mia puzza li fa desistere dal portarmi nel loro ufficio per identificarmi, quindi Voce ci sei tu! Unica compagna di questo viaggio di cui non conosco ancora la meta». VOCE: «Dormi Leon, non pensare a nulla, recupera le tue forze, ne avrai bisogno domani».
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LEON: «Perché? Cosa devo fare? Ma cosa dici?». VOCE: «Che giorno è domani?». LEON: «Bella domanda, io non conto i giorni e lo sai». VOCE: «Lo so, ma c’è un solo giorno che conta per te». LEON: «Voce, ormai siamo ai giochi di parole, mi prendi in giro!». VOCE: «Domani è il 27 luglio. E tu dove vai ogni 27 luglio?». LEON: «Non lo ricordo, ti prego aiutami». VOCE: «È il giorno dei fiori, Leon. Ora dormi, ne parliamo domani, dormi e racconta Leon, ti aiuterà a vivere». Dormo, le immagini si accavallano velocemente e al contrario, come un rewind di un vecchio videoregistratore, un triste film visto e rivisto centinaia di volte, senza un finale. Torno a quella Maserati nera che mi sfrecciò davanti e ai suoi capelli lunghi che, colpiti dal vento, sporgevano dal finestrino come la chioma di una puledra mustang in libera e selvaggia corsa nelle praterie del mid-west americano. Non c’era tempo per ragionare, non c’è logica in certe condotte, è l’istinto che prende il sopravvento, la mia mano sinistra ruotò lo sterzo e mi ritrovai dietro quell’auto, un evento inimmaginabile, così come il fatto che tale azione sarebbe poi divenuta un’abitudine. Ripetevo a me stesso che lei era troppo intelligente e pura per cadere tra gli artigli di quel predatore da balera, eppure sentivo che una minaccia stava materializzandosi dentro quell’auto, che ora sfrecciava nel Viale zigzagando tra le altre, come un James Bond di provincia, convinto che il rombo della sua Maserati potesse far da surroga a quell’insopportabile vuoto
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mentale, sostituito dal sesso e da un benessere economico mai intriso del suo sudore, ma da quello degli operai che “il Commendatore” sfruttava da ormai un ventennio. Eravamo ormai in prossimità del ponte sul canale e il mio sguardo andò inevitabilmente sull’orizzonte, il cui imbrunirsi metteva in risalto le figure di quei soliti cinque, sei pescatori appoggiati alla ringhiera con le loro canne piegate, come tanti rami di salice. Sul rettilineo la velocità aumentava e io, con la mia R4, facevo fatica a tenere il passo. Alberi, negozi e luci mi sfrecciavano affianco mentre la mia logica martellava la mente con la domanda: “ma cosa stai facendo?”. Mentre cercavo una risposta, mi accorsi di essere passato con il rosso a un incrocio piuttosto trafficato, beccandomi gli improperi del guidatore di un furgoncino di fiori. Mi stavo comportando come quei soggetti negativi, che avevo sempre giudicato quasi come una sottospecie di umani, abbandonati ai loro istinti senza una logica comportamentale, il titano a cui ho affidato il peso della mia vita. Le mani erano sudate e l’adrenalina mi provocava quasi uno stato di euforia, sentivo le gomme fischiare in curva e avevo la pelle d’oca, mi stavo immergendo nell’acheronte e non ricevevo l’immortalità, ma le emozioni scatenate da un cocktail chimico che il mio corpo aveva gelosamente custodito fino a quel momento. Nonostante l’ora, la luce cominciava a scarseggiare, ma io riuscivo ancora a distinguere l’auto, la vidi imboccare una traversa subito dopo la pasticceria Lo Cascio, un tempio della bontà ove transitando vieni avvolto dai profumi più invitanti e
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io, devo dire la verità, amavo recarmici per degustare un ottimo cappuccino accompagnato ogni volta da un dolce diverso. Il mio preferito era senza dubbio il cannolo siciliano, con quella cialda croccante e quella ricotta fresca di pecora, guarnita da pistacchi di Bronte. Un dolce semplice, ma che nella sua preparazione ingloba colori e sapori di una regione benedetta dagli dei, dove sole e terra si stringono in un eterno abbraccio, un giardino amato dai grandi re, che solo la mafia ha saputo rovinare, ma che comunque è ancora bellissima. Da quel che avevo saputo, la famiglia Lo Cascio era giunta nella cittadina vent’anni fa e il capo famiglia, il signor Filippo, aveva cominciato la propria attività in un altro quartiere, molto più modesto e decentrato, una zona popolare ma dignitosa, purtroppo oggi degradata e preda della prostituzione e dello spaccio. La sua forza di volontà, la sua famiglia e migliaia ore di lavoro avevano sortito gli effetti sperati e, dopo circa quindici anni di sacrifici, finalmente il trasferimento in Corso Vittorio Emanuele. Lo Cascio aveva voluto appagare il proprio ego, tre vetrine scintillanti di luce, travertino e mosaici interni con marmi brasiliani dalle tonalità verde smeraldo, aria condizionata e inserti in radica, un lusso che colpisce per la sua essenziale bellezza e un gusto che non penseresti di trovare in una persona dalle così umili origini, un predestinato del successo. Ora è lì elegantemente vestito, dietro la cassa, che accoglie con naturale cordialità le autorità cittadine, il cardinale, gli alti gradi delle forze dell’ordine, tutti in fila per gustare i suoi magnifici dolci.
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Girai anch’io nella strada e loro erano già in fondo, vidi gli stop illuminarsi e poi di nuovo a destra, ridussi la velocità e arrivai fino all’incrocio dove avevano fatto l’ultima svolta, la logica mi suggerì che potessero essere giunti a destinazione. Avanzai lentamente con il muso dell’auto e scorsi la Maserati ferma a una trentina di metri, con il vapore che usciva dal tubo di scappamento e gli stop accesi. Sforzai la mia vista per percepire ogni piccolo movimento all’interno dell’auto, ma poco dopo vidi lo sportello aprirsi e lei scendere dall’auto. Dopo averlo richiuso si piegò, probabilmente per ringraziarlo, lo salutò e poi entrò nel portone di una piccola palazzina. L’auto ripartì quasi subito lasciando dietro di se solo rumore e una gran fumata nella gelida serata di febbraio. A questo punto girai anch’io, una targa di marmo scolorita dal tempo m’indicò che ero in via Benedetto Croce, proseguii e passai davanti questa palazzina di quattro piani, facciata in cortina, stile anni sessanta, abbastanza curata ma non di lusso. Alzai lo sguardo e vidi accendersi una luce al primo piano, dunque era qui che abitava, probabilmente ancora insieme ai suoi genitori, avrei dato un braccio soltanto per vederla e due per parlare con lei da soli . Il dato certo e inconfutabile era però uno solo e mi rendeva strafelice: le aveva dato un passaggio, ma lei era scesa dall’auto celermente, condotta convergente verso un disinteresse personale al soggetto. Giunsi in fondo alla via, girai ancora a destra e di nuovo sul Corso, e così mi diressi verso il supermercato per fare spesa, una cosa che non amavo fare, ma non quella sera, non dopo aver visto quella scena, il mio ego si sentiva compiaciuto,
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ancora una volta le mie elaborazioni mentali avevano fatto centro, lei era come io pensavo, bella intelligente sensibile e inattaccabile. Vagavo con il carrello tra gli scaffali pieni di cibo e quant’altro, ma la mia mente era altrove, il mio braccio si allungava inconsapevolmente e afferrava l’indispensabile alla mia sopravvivenza. Per me il cibo non ha mai avuto un’importanza particolare se non quella di sostenermi, ma quella sera passando davanti al reparto dei sughi i miei occhi si soffermarono su un barattolo di vetro dal colore rosso acceso che fu afferrato e infilato nel carrello, una piacevole anomalia, segno di un cambiamento in corso. Quella notte fu particolare, i miei muscoli non erano contratti, le porte del subconscio socchiuse quasi ad attendere l’arrivo di Giulia e la sua materializzazione. Un invito a entrare nella mia mente, dove avevo creato uno spazio riservato a lei, avvicinando ai muri di quella stanza immaginaria il raziocinio, la serietà, la dignità, la logica, come quando l’ultimo giorno di scuola con i tuoi compagni spostavi banchi di scuola e facevi largo per festeggiare. Percepivo un tepore ed ero sereno, sensazioni comparabili solo al ricordo di mia madre che amorevolmente mi accarezzava quando ero appena addormentato e mi rimboccava le coperte: non la vedevo ma captavo il suo profumo e la sua speciale aura. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
IO .............................................................................................. 7 LEI .......................................................................................... 14 IL RIVALE ............................................................................. 16 IL PROGETTO ....................................................................... 55 IL GIORNO DELL’OBLIO.................................................... 58 LA NOTIZIA .......................................................................... 67 LE INDAGINI ........................................................................ 70 IL GIORNO DEL GIUDIZIO................................................. 92 IL MESSAGGERO................................................................. 98 L’ALTRA VOCE.................................................................. 101 IL CIMITERO ...................................................................... 109 IL RITROVAMENTO.......................................................... 113 EPILOGO.............................................................................. 127