CRISTINA VENNERI
L’INCONSAPEVOLE BELLEZZA DEL FIORE
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L’INCONSAPEVOLE BELLEZZA DEL FIORE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-595-3 Copertina: “M” di Maca, olio su tela 70x100 cm, 2012
Prima edizione Settembre 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
A Matteo
Specular scintilla di rampicanti sguardi violenta le intenzioni.
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I. FEMMINILE PLURALE
La notte del 31 dicembre 1999 fu notte attesa e carica di suggestioni, contaminata da un alone di misticismo medievale. Esattamente a mille anni di distanza, così come avvenne allo scoccare dell’anno 1000, quando voci popolari profetiche preannunciavano la fine del Mondo, l’arrivo del nuovo millennio portava con sé l’oscuro presagio della distruzione totale, piuttosto che del Giudizio Universale, o qualcosa di simile. Ma come può l’uomo così ingenuamente credere che quella che fu una sua stessa invenzione come la scansione del tempo possa coincidere con un dato evento naturale, se non addirittura divino? Senza poter tralasciare una fondamentale considerazione: che già nell’ambito del piccolo e insignificante sistema terrestre, popolazioni appartenenti a culture diverse hanno adottato differenti scansioni temporali. Basterebbe questo dato a far crollare ogni tipo di credenza in tal senso. Come ha potuto, allora, l’uomo (europeo quindi) immaginare una coincidenza tra un numero, che fu sua stessa invenzione, e un evento di portata mondiale? Colpa dell’Umanesimo. Laddove, nella definizione, non si intende certo il periodo storico che va sotto quel nome.
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Per comodità, gli storiografi (europei) hanno convenzionalmente adottato, per quel che concerne la storia che accomuna taluni Paesi che oggi, per la maggior parte, costituiscono il continente europeo, la ripartizione in periodi più o meno accomunabili secondo determinate caratteristiche culturali, sociali, economiche, politiche cui sono stati assegnati dei nomi. Non avrebbero potuto fare di meglio gli storiografi, dall’alto del ruolo che ricoprono di studiosi degli eventi passati. Meno adeguato risulta, invece, far entrare nell’uso comune concezioni che dovrebbero rimanere limitate alla sfera settoriale di appartenenza. Chiaro è che l’arte, la scienza, la cultura hanno camminato più o meno di pari passo all’evoluzione del flusso storico (e quindi sociale, economico, politico), per il quale motivo entro talune suddivisioni possono essere genericamente inclusi diversi aspetti e ambiti, sebbene ognuno di questi, nel particolare, segua in fin dei conti delle proprie, specifiche, direttive. Ebbene il Medioevo, storicamente parlando, ha rappresentato, per quel che concerne la parte occidentale dell’odierna Europa, una sorta di brusco freno a mano a quella grandezza che appartenne, fino a non molto tempo prima, all’Impero Romano, il quale ebbe origini nel cuore della penisola italica: dato che non può essere trascurato alla luce di quelli che furono gli sviluppi futuri, in quanto chiunque, da quel momento in avanti, da quella terra fosse stato generato sarebbe stato caricato di una pesantissima sopravvalutazione della propria natura che avrebbe inciso su ogni risvolto culturale. Nel corso del Basso Medioevo proprio questa parte occidentale dell’Impero continuò ostinatamente a vivere a oltranza, come la coda mozzata di una lucertola che continua a dimenarsi senza rendersi conto che non andrà troppo lontano, quantomeno non
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ancora per molto tempo, e allo stesso modo le coscienze di certa fascia colta della popolazione continuarono a crescere come unghie e capelli di un corpo ormai morto. È presupposto necessario evidenziare tale considerazione per comprendere che l’Umanesimo (così come ogni altro periodo storico) non prese certo avvio da un giorno all’altro e che, anzi, quello che comunemente viene indicato come l’inizio di un periodo storico altro non è che il punto di maturazione di una mentalità che in precedenza si accresceva modellandosi fino a prendere una forma compiuta entro la quale solo a posteriori, avendo un quadro completo, possono essere raggruppate soluzioni affini. Ma l’Umanesimo, inteso nel particolare del suo significato, è molto più che un periodo storico europeo: l’Umanesimo è una esaltazione che contraddistingue la natura stessa dell’essere umano nella sua concezione di supremazia sul resto del Creato, che lo stesso si è arbitrariamente attribuito. E, chiaramente, il fatto che un paio di secoli abbiano particolarmente condiviso e sbandierato tale visione dell’esistenza non ha potuto che incidere maggiormente il solco di una simile convinzione. La notte del 31 dicembre 1999, chiaramente, nessuna catastrofe colpì il pianeta Terra, ma stringendo la visuale in Europa, in Italia, a Roma, ai Parioli, in casa Rapagnetta, Giulia, la più bizzarra di due sorelle, iniziò ad avvertire la ribellione che le strisciava dentro. Il gap generazionale del nuovo millennio ha fatto sì che la presa di coscienza di molti giovani si trovasse a cozzare con le precedenti generazioni, addolcite dal benessere del boom economico. Difatti la madre di Giulia, Anna Ronchetti, cresciuta tra gli agi di una famiglia medio-borghese degli anni Sessanta, era figlia di un
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sarto che, riuscito a crearsi una modesta posizione di prestigio nella splendida Roma di quegli anni, aveva concesso ai suoi figli di vivere nello strascico della sua ricchezza – come buona parte dei padri di famiglia del tempo – proprio lui che, invece, era figlio della povertà e della guerra. In questo clima di totale libertà e asservimento ai piaceri, Anna si ritrovò presto sposata a Nunzio Rapagnetta – nonostante il dissenso del padre – vinta dal fascino dell’attivista sessantottino e già nell’81 in attesa della sua prima figlia, cui Nunzio volle dare per nome Micol, come la bella protagonista di un romanzo a lui molto caro. L’incontro tra Anna e Nunzio era avvenuto il 12 maggio di quattro anni prima in piazza Navona, tramite un’amica comune, Giorgiana, che quel giorno perse tragicamente la vita per mano di un violento regime. L’esperienza li unì a tal punto da tentare un’unione anche sentimentale. L’ironia della sorte volle che il loro primo incontro avvenisse nell’ambito dell’anniversario della vittoria del referendum sul divorzio, per il quale venne organizzato, a opera dei cosiddetti radicali, un sit-in in piazza Navona, nonostante l’assoluto divieto di manifestare, in seguito alle sanguinose conseguenze derivate dalle ultime manifestazioni, imposto dal ministro degli Interni Cossiga, il quale credé di risolvere il problema schierando forze dell’ordine, in borghese, armate tra la folla. Fu proprio uno di quei colpi di pistola a uccidere l’amica comune, Giorgiana, sebbene le indagini furono chiuse nel 1981 riportando agli atti che: “[...] mistificatori, provocatori e sciacalli (estranei sia alle forze dell’ordine sia alle consolidate tradizioni del Partito Radicale, che della non-violenza ha sempre fatto il proprio nobile emblema),
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dopo aver provocato i tutori dell’ordine ferendo il sottufficiale Francesco Ruggero, attesero il momento in cui gli stessi decisero di sbaraccare le costituite barricate e disperdere i dimostranti, per affondare i vili e insensati colpi mortali, sparando indiscriminatamente contro i dimostranti e i tutori dell’ordine.” In quello stesso 1981, Anna era rimasta incinta e dovette insistere a lungo per convincere Nunzio a sposarla, certa che sarebbe stato l’unico modo per accreditare l’immagine del marito agli occhi del padre, che dall’alto della sua esperienza continuava a opporsi alla stravaganza della coppia, finché Nunzio dovette cedere, pur contravvenendo alle proprie teorie libertarie; ma in seguito al matrimonio, dopo appena un anno di vita coniugale, tra i consorti iniziarono a emergere ideologie dissonanti, dettate da antipodici background: Nunzio, siciliano trasferitosi a Roma per conseguire la laurea in Filosofia, desiderava tornare con la sua nuova famiglia nella periferica pace della sua terra natia, stanco, rassegnato e provato da anni di contestazioni che non avevano portato nessun vantaggio né a lui tantomeno alla patria; Anna, figlia della borghesia e vittima dell’illusione di una vita “soddisfacente”, non intendeva allontanarsi dalle radici che le donavano linfa e sicurezza cosicché, con molta facilità, accettò la casa ai Parioli che suo padre le “regalò” – a patto che si liberasse dall’ammorbante e contagioso peso del marito. Dopo il divorzio, Anna era stata costretta a inventarsi una professione: avendo ereditato da suo padre il cognome e la sartoria, riuscì a farsi strada come costumista, ottenendo, tramite amicizie “non molto chiare”, un posto di rilievo presso gli studi di Cinecittà.
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Nunzio, invece, fu finalmente libero di orientare il proprio percorso verso mete a lui congeniali e, di lui, Anna non ebbe più notizie. Era la notte del 26 aprile 1983 quando Giulia Rapagnetta nacque senza che suo padre nemmeno lo sapesse. E in quella celebre notte di Capodanno di sedici anni dopo, fu come se lo spirito di Nunzio le si fosse insediato fin dentro le viscere e avesse iniziato a inondarla come una marea suscettibile all’influenza della luna dapprima, lentamente, crescendo e allagandola, per poi ritirarsi e scoprire un fondale che era sempre stato lì, ora ben evidente. Sua sorella, Micol, era invece la proiezione della madre e questo le bastava per vivere senza la preoccupazione di dover trovare la sua strada. In fin dei conti, fino a quel momento, entrambe le figlie avevano sempre visto realizzare i propri desideri con estrema facilità, ma anche in quelle circostanze la differenza si palesava con l’entità delle ambizioni. Così quell’anno, come regalo di Natale, Micol aveva ottenuto la tanto desiderata e omologante borsa di Louis Vuitton, mentre Giulia aveva richiesto una Polaroid. E alle dieci di sera del 31 dicembre 1999, mentre Anna e Micol erano freneticamente impegnate a imbellettarsi, Giulia era seduta a gambe incrociate in terrazza a fotografare le sue piante, mentre il gatto di casa, Berta, le si strofinava addosso facendo le fusa. Sui vetri delle finestre, appannati dalla differenza di temperatura, si creavano delle goccioline di condensa attraverso cui le luci gialle e colorate degli addobbi natalizi, provenienti dall’esterno, si scomponevano in molteplici forme.
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Giulia restava ore intere a contemplare ogni minima forma e colore che i suoi scrupolosi occhi percepivano e ora che, finalmente, poteva immortalare le sue fantastiche visioni, il tempo da lei trascorso in meditazione aumentava in maniera esponenziale, finché qualche agente esterno interveniva a dissuaderla e a farle riprendere coscienza. «Giulia ti dai una mossa? Tra un po’ arriva Massimo!». Anna passava casualmente davanti alla veranda, dove era posta la scarpiera da cui si apprestava a prendere un luccicante paio di scarpe tacco dieci, comprato apposta per l’occasione. Era una donna non molto alta, ma ben proporzionata nelle forme, tanto che le bastavano dieci centimetri di tacco in più per apparire un bel bocconcino. Giulia, invece, aveva ereditato l’altezza da suo padre, tanto che a diciassette anni era la più alta della classe e quando stava seduta, soprattutto se con le gambe incrociate, la schiena le si inarcava considerevolmente. «Mamma, ma io sono pronta» rispose Giulia con la calma che la contraddistingueva e quasi sminuendo l’importanza del discorso, dal momento che rimase con l’occhio piantato nella fotocamera. Anna, che nel frattempo aveva fatto avanti e indietro almeno cinque o sei volte davanti alla terrazza, passando confusamente dal bagno al guardaroba, alla scarpiera e cambiando un copioso numero di gioielli nel tentativo di trovare la combinazione più originale, si fermò all’improvviso sull’uscio della porta sistemandosi un orecchino e fissando Giulia che, dopo qualche secondo, avvertendo una presenza alle sue spalle, si voltò – solo dopo aver scattato un’ultima foto e sventolandola per farla asciugare. «Ma co-
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me... sei pronta, Giulia?», le disse Anna, «Datti una sistemata! Guarda che capelli hai!». Effettivamente anche i capelli Giulia li aveva ereditati da suo padre. Capelli folti e scuri, spesso scombinati, quelle rare volte che non li portava legati in una pallina sulla testa. L’espressione di Giulia si trasformò in un punto interrogativo, non riuscendo a comprendere perché i suoi capelli fossero sbagliati se a lei piacevano così: «Ma perché, che hanno?». Anna si infilò la scarpa che aveva in mano appoggiandosi alla porta e si diresse verso Giulia con un rumore di tacchi a cadenza regolare; le si avvicinava protendendo la mano destra già in direzione dei suoi capelli, motivo per cui Giulia si sentiva puntata e iniziava a indietreggiare con la testa. «Ma non mi interessa... lasciami stare dai!» sbottò nel preciso istante in cui le unghie laccate di rosso le si infilarono tra i capelli. Nel frattempo, il profumo di Anna si era gradualmente imposto in maniera soffocante nella camera, come un regime dittatoriale che sembra emergere d’improvviso dopo essersi silenziosamente affermato in tutti i settori. Contemporaneamente, e per tutto il tempo, Anna continuava a scavare in una borsetta come se non sapesse precisamente cosa stesse cercando. Giulia ebbe questa impressione pensando che non fosse possibile, in uno spazio così piccolo, non riuscire a trovare qualcosa nel giro di qualche minuto e che avrebbe, perlomeno, potuto provare a guardarci dentro. «Micol, hai preso il mio rossetto rosso?» urlò Anna per farsi sentire fin dentro casa, da sua figlia, in qualunque stanza si trovasse. Finalmente si rivolse a Giulia con tono serioso: «Come fai a essere così... disinteressata?».
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Giulia in realtà non riusciva proprio a capire il motivo per cui una donna dovesse fare tutto ciò e, mentre lo pensava, sua madre, che era lì davanti a lei, rappresentava perfettamente il motivo della sua perplessità. Da cosa si era travestita? E perché lo aveva fatto? Forse per attirare un uomo. Ma dove? Nella rete dell’inganno. Per non parlare del dispendio economico che comportava montare questo palchetto! Anna, come spesso accadeva e poiché “poteva permetterselo”, aveva speso tutto lo stipendio di dicembre per le feste di Natale e buona parte per i vestiti. Giulia era stata costretta a seguirla, con Micol, e aveva scelto un semplicissimo tubino nero, che quella sera indossava con delle ballerine rosse. Non un gioiello sulla sua pelle, solo un nastrino nero (che Anna non riuscì a farle togliere) che aveva trovato una volta nelle Lettere dal carcere di suo padre. Intanto Micol passò davanti alla porta-finestra aggiustandosi la frangia bionda riflessa in uno specchietto tondo che portava in mano. Appena sentì il rumore dei tacchi, Anna si girò. «Micol! Il mio rossetto!» esclamò spazientita. «Non l’ho preso io mamma! Guarda nella tua borsa...» replicò la figlia con voce acida. Sulla seconda frase si era fermata sulla porta in silenzio, proprio come aveva fatto sua madre poco prima. Anna la guardò e sorrise soddisfatta: stava venendo su proprio un’ottima figlia! A quel sorriso di approvazione, Micol si impettì di un ingiustificato orgoglio e, incuriosita dalla situazione, valicò la soglia che la teneva esclusa dalla faccenda. Si accostò a sua madre con la scusa di dover cercare qualcosa nella borsetta e, prendendogliela dalle mani, si mise a sedere su uno sgabello, con la borsetta sulle gi-
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nocchia, dimostrando l’intenzione di voler essere coinvolta nella discussione, e prestò attenzione alle parole di sua madre. «Intendo dire, Giulia, che nella vita bisogna pianificare tutto affinché le cose vadano per il meglio... tu non sai cosa vuol dire sposare l’uomo sbagliato...» e spostò lo sguardo dall’interlocutore rendendosi conto della pesantezza della sua affermazione. «È molto importante avere accanto una persona che possa... assicurarti un avvenire, cercare di migliorare la tua posizione sociale...». Mentre parlava, Anna aveva uno sguardo non molto convinto, a parere di Giulia, che era nel frattempo inorridita nell’ascoltare l’esatto opposto di ciò che pensava, per di più proferito dalla persona che avrebbe dovuto insegnarle le regole basilari della vita. E rimaneva zitta a fissare sua madre, aspettando vanamente che il discorso potesse evolversi o prendere un’altra piega. Notando che Anna guardava insistentemente il sottile orologio, che si capovolgeva puntualmente sotto il polso, per controllare l’orario, in una pausa dalla lezione di vita che cercava di inculcare alla sua figlia “sbagliata”, Micol intervenne in suo soccorso: «Mamma ha ragione, sei proprio una scema, c’è pure Marco stasera... ma non è che sei un po’...». Giulia la guardò allibita, aspettando la conclusione della frase, che non arrivò, sebbene incitata da un: «Cosa...?», al ché Micol le fece intendere di pensare che fosse lesbica. Giulia perse le staffe: «Oh ma basta! Mi avete rotto voi due! Tentate sempre di farmi passare per quella sbagliata! Mi fate una pena!» e si alzò in piedi come se, allontanandosi da loro, potesse evitarne il contagio. E sua madre, come se non bastasse, continuò a infierire: «Tua sorella dice bene, Giulia... il figlio del giudice Vicenti non ha mai
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dimostrato un interesse così palese per una ragazza...» confessò piegando il busto sulle ginocchia e abbassando la voce come se qualcuno potesse sentirla. «Ma tu che ne sai?» sentenziò Giulia, che in quel momento si sentiva aggredita su due fronti dallo stesso nemico e non riusciva a trovare una tattica per restare indenne. Avrebbe avuto bisogno di una ritirata contemplativa, ma la stavano bombardando lì e in quel momento. Anna continuò: «Me l’ha detto suo padre... eh! Non capisci che queste sono cose che bisogna considerare nella vita? Mica ti posso dire tutto! Fidati di tua madre... io voglio il meglio per le mie figlie». «Certo, magari vi siete pure accordati per un matrimonio d’interesse! Ma ti rendi conto?» replicò Giulia. Micol colse l’occasione per inserirsi nella discussione, mentre si specchiava nelle vetrate passandosi le mani tra i capelli: «Mamma ha ragione, avessi avuto io questa fortuna!» e Giulia pareggiò in battuta: «Tu pensa a pettinarti, che non sai fare altro!». Mentre Anna si alzava in piedi aggiustandosi la gonna che si era sgualcita, squillò il citofono, che la fece sobbalzare come fosse stata punta da uno spillo: «Oh Dio! È arrivato Massimo! Dai forza sbrigatevi!». Agitava le mani come se stesse dirigendo un’orchestra; poi estrasse dalla borsetta una boccetta di profumo e si mise a spruzzarlo su tutte e tre. «Michi per favore vai tu... e digli pure che scendiamo». Ma per Giulia la discussione non era conclusa, aveva ancora qualcosa da comunicare a sua madre. «Io neanche volevo venirci a questa pagliacciata! Trascuri le tue figlie un anno intero per spendere la metà dei tuoi soldi in feste e viaggi, ma che madre sei?!».
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Anna non si aspettava una reazione così estrema da parte di Giulia che, per quanto stramba, non aveva mai osato mancarle di rispetto. Si bloccò come una statua e si mise a fissarla con aria di sfida: «Non ti do un ceffone proprio per dimostrarti che madre sono». Si girò di scatto continuando a parlare e alzando il tono della voce man mano che si allontanava: «Io vorrei capire Giulia, come hai fatto a diventare uguale a tuo padre senza averlo mai conosciuto!» poi rispuntò mentre si infilava la pelliccia e, porgendo il cappotto a Giulia, la incalzò: «Ora mettilo e sorridi» e rimase con il soprabito tra le mani pronto per essere indossato. Giulia non sapeva come reagire, ma – quella notte – prese il coraggio di rimanere sulle sue posizioni: «Ma che schifo, non ci voglio venire!» urlò dribblando sua madre e dirigendosi verso la sua camera. Intanto Micol aveva già indossato il cappotto e attendeva davanti alla porta d’ingresso continuando a fissarsi allo specchio da tutte le angolazioni: «Mammaa, Massimo sta aspettando sottoo!». Anna si diresse con passo svelto e rumoroso in camera di Giulia, entrando come una furia e si rivolse a lei con la voce affannata dalla rabbia: «Che fai, ti muovi?», ma Giulia non aveva nessuna intenzione di cedere. «Se vengo, giuro che ti rovino la serata, mamma... e la reputazione pure». Certo, meglio evitare un dramma di quel calibro che guastare il rapporto con una figlia, per una donna come Anna che lavorava da una vita per mantenere il suo status e magari migliorarlo; questo le bastò per accettare l’ultimatum di Giulia. Posizionò la catenella della borsetta sulla spalla e disse: «Domani facciamo i conti!». Poi si girò nervosamente: «Andiamo forza!» urlò verso Micol, passandole accanto e tirandola per un gomito.
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Al rumore della porta sbattuta, Giulia si alzò dal letto; non poteva credere che sua madre fosse arrivata a tanto. Si mise a fissare la porta d’ingresso e, sentendo che gli occhi e la gola stavano per riempirsi di lacrime, urlò: «Buon anno!», lanciando un cuscino che in realtà era diretto a sua madre. Davanti al portone Massimo aspettava le donne facendo nervosamente avanti e indietro. Quando Anna e Micol apparvero, dietro le porte dell’ascensore che si aprivano, esplose in un sorriso a braccia aperte, mentre le vedeva sfilare verso di lui tra le luci accecanti. Anna, mentre camminava frettolosamente, iniziò a giustificarsi come un omicida reo confesso: «Massimo! Caro... perdona l’attesa!». Sapeva come prendere un uomo. «Ah! Ci ho fatto l’abitudine con le donne, tranquilla!» esclamò baciandola delicatamente per non distruggere le sue impalcature. «Ciao Micol...» le avvicinò la mano al viso con l’intento di sfilarle un pizzicotto, ma subito si accorse che iniziava anche lei a “comporsi” come sua madre, il ché vietava di toccarla; così cambiò direzione. «Ma... Giulia?». Micol iniziò a rispondere: «Non aveva...», ma fu sovrastata dalla voce di sua madre, che intendeva fornire la sua versione dei fatti: «Si sentiva poco bene, ho preferito farla rimanere a casa!» improvvisò Anna con tono compassionevole, tanto da colpire Massimo che si propose per la tipica cortesia affatto sincera: «Oh mi spiace! Ha bisogno di qualcosa?». Anna doveva mantenere la sua linea per rendere tutto più credibile. Rispose istantaneamente: «No! Figurati! Ho provveduto a tutto... starà meglio domani...» annunciò con il solito sorriso risolutore. «Sei una donna eccezionale...» sorrise Massimo, appoggiandole una mano dietro la schiena. «Andiamo ragazze, la festa ci aspet-
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ta!» e fece galantemente accomodare le due donne nella sua vettura. Il sorriso ebete di un facoltoso uomo in tight al volante di una poderosa auto d’epoca: in un solo colpo, Anna aveva ottenuto ciò che la faceva sentire appagata. Raggiunsero la sala della festa e, nell’attimo successivo, la donna era finalmente circondata da gente ben vestita come lei e che, come lei, chiacchierava di vacanze e tartine e declamava lo champagne servito. Le risa si levavano in un unico schiamazzo prolungato, come se nel mondo tutto andasse come in quella sala, come se la vita si riducesse alle loro vili lussuosità. Coppie mischiate, donne abbarbicate ai colli sbagliati, camerieri pronti a rinnovare i vassoi di bicchieri pieni che non bastavano mai, la musica di sottofondo del quartetto che li accompagnava senza mai fermarsi, per dare l’impressione ai clienti di essere i protagonisti di un film. Nello stesso tempo, Giulia, sconfitta dalla sua stessa vittoria, si intravedeva vagare dietro le finestre di casa Ronchetti come un fantasma intrappolato. A volte, vincere una battaglia comporta dover fare i conti con una realtà che non piace. E, sentendosi per la prima volta veramente sola e incompresa, iniziò a pensare al suo futuro, alla sua identità e al fatto che doveva rimboccarsi le maniche per costruirsi la “sua vita”. Prese, allora, d’impeto la macchina fotografica e sorrise in quel momento di estrema tristezza. Sorrise, e iniziò a scattare foto ai fuochi d’artificio che festeggiavano l’inizio di una nuova era.
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II. FEMMINILE SINGOLARE
Il tempo non si ferma. Ma l’uomo è riuscito a tenergli il passo solo in campo tecnologico e il dislivello con l’organizzazione civile e morale risulta, a questo punto, eccessivo. Il tempo cambia, mentre l’uomo resta sempre uguale a sé stesso, finché non si preoccuperà di intraprendere una cosciente e coscienziosa riforma intellettuale senza confonderla con inutili eccessi artistici retorici. Come accade in Sicilia, centro culturale di grande importanza storica, ma più che “centro”, estremità, perché è in periferia che nasce ogni forma d’arte. I centri storici “irradiatori”, invece, sono impregnati di burocrazia e amministrazione. Non c’è tempo per l’arte. Eppure, per effetto di una strana alchimia, diventano pian piano punto d’incontro degli artisti provenienti dalla periferia. Come i piedi nudi di una bella donna che, instancabili, continuano a ballare fino a notte fonda, dimentichi dell’andirivieni giornaliero, delle punte troppo strette delle scarpe a collo alto che costringono le dita alla seria immobilità del dovere, che sopportano il peso del corpo intero, schiacciati al suolo, come estrema periferia trascurata eppure fondamentale, la Sicilia si dimena nelle fresche acque in cui alla notte trova ristoro e non rinuncia al meritato svago del corpo che sorregge con fierezza.
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Bisogna vivere il presente come se si stesse già raccontando dal futuro, qualcosa di simile all’alvariano “era così bello che pareva già di ricordarsene”: è necessario rendere piacevolmente sincero, sinceramente piacevole ogni momento vissuto per poter creare un degno ricordo. Senza troppe speculazioni filosofiche o atteggiamenti programmatici, il popolo siciliano gode di sua natura di una simile impostazione di vita, non rinunciando ai piaceri della famiglia, della delizia del pasto articolato, dell’arte che lo circonda e lo ammaestra, della musica e del ballo che lo rendono allegorico come i policromi carretti trainati dai muli per alleviare il lavoro delle lunghe giornate assolate. È un popolo che sa come gestirsi, che sarebbe stato in grado di portarsi avanti anche da solo se ne avesse avuto le possibilità. A Palermo, difatti, ulteriore prolungamento della periferia, si respira un’aria di indipendenza tipica di chi, forte della consapevolezza delle proprie capacità, non si conforma agli altri, ma lascia che questi si adattino a sé e non vuol essere tirato fuori dalla propria condizione, sebbene questa possa comportare difficoltà oggettive quali la povertà o la “sopraffazione”. Un popolo che non sente la necessità di integrarsi, che vive bene con le proprie regole, che non si fa mettere i piedi in testa perché è esso stesso piede. Un popolo isolato perché isolano. E Giulia Rapagnetta, divenuta adulta, invasata dal sangue di quel popolo che le scorreva tra le vene, tornò indietro come un boomerang, da Roma a Palermo, dove forse vigevano regole sbagliate ma si sentiva al posto giusto. Era finalmente libera, potenziale cittadina del Mondo, eppure scelse Palermo come meta, come se stesse tornando a casa dopo una lunga assenza.
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Il giorno in cui era partita da casa sua madre le aveva detto: «Lo capisco, non è facile immaginare che i propri genitori abbiano avuto la tua stessa età e siano stati colpiti dalle stesse pulsioni e agito in modi sconvenienti, ma ormai le generazioni tendono sempre più a convergere con la sola differenza che vengono anticipati i tempi d’azione nei figli. Ai miei tempi era diverso, i genitori sembravano essere nati tali e non avevano mai fatto ciò che a noi invece era consentito, per cui ci vietavano ogni cosa e tutto diventava trasgressione. Ma io ti assicuro che non ho fatto niente di meno di quello che tu potenzialmente hai fatto o potresti fare, perciò ti dico: vai». Nonostante il tentativo di Anna di mostrarsi comprensiva e quasi amica della figlia per evitare una separazione drastica, Giulia l’aveva lasciata parlare per educazione e poi aveva risposto analiticamente: «Vorrà dire che avrò una valida motivazione per non fare dei figli» e, con tale proclamazione di indipendenza bilaterale, aveva svincolato anche sua madre da ogni responsabilità. Viveva sola ormai da cinque anni e dedicava anima e corpo alla sua storica passione: la fotografia. La mattina del 30 novembre 2010 si trovava nella Biblioteca comunale della sua città a condurre delle ricerche per un lavoro che aveva intrapreso da qualche tempo sul ruolo delle ancelle. Il mestiere di Giulia era lavorare sui suoi interessi: approfondiva argomenti che la incuriosivano corredando i suoi lavori di fotografie inerenti la tematica trattata. Si era sempre categoricamente rifiutata di collaborare con qualche rivista o agenzia che potesse decidere per lei il tema da trattare (con il quale avrebbe corso anche il rischio di trovarsi in disaccordo) o permettersi di stravolgere il suo lavoro, così contava sulle sue sole forze e vendeva il prodotto finito.
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Molto spesso le capitava di dover cercare i soggetti giusti da immortalare, per cui si trovava a “pedinare” persone che le sembravano interessanti. Quella mattina, mentre sfogliava uno dei libri selezionati precedentemente, si trovò a leggere dell’incontro tra Ulisse e Nausicaa. Una rappresentazione della principessa che gioca a palla con le ancelle la colpì particolarmente e le diede uno spunto per una serie di scatti. Monica, la ragazza del Cafè Bordeaux, era il soggetto ideale per il suo servizio. Appena finì di trascrivere gli appunti, Giulia si precipitò per strada con la sua solita borsa che a mala pena riusciva a contenere la mole di libri che si portava sempre appresso. Camminava distrattamente per le strade di Palermo – costantemente concentrata sul suo lavoro, ma con evidente senso di appartenenza a quella terra ricca di storia e tradizione, a quelle persone che avevano i suoi stessi occhi grandi e scuri contornati da linee allungate verso l’esterno – sotto un cielo sempre cosparso di sole, circondata da ogni lato dal mare. Giunse al Cafè Bordeaux emotivamente provata, come se stesse presentandosi a un colloquio di lavoro. Si fermò davanti al locale per un istante fissando l’insegna del bar, inalò una boccata d’aria e spinse la porta di vetro, che aprendosi produsse un suono di campanello. Entrò, chiudendo fuori i rumori della strada, e in un attimo si trovò catapultata in una nuova situazione. Salutò la donna che da anni sedeva alla cassa, una signora grassoccia a causa della vita sedentaria che faceva, che aveva ormai sviluppato la bocca come un muscolo involontario, sempre sorri-
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dente, nonostante i suoi occhi facessero trapelare un’evidente noia dovuta alla monotonia delle sue giornate. Poi estese il saluto al resto dei dipendenti volgendo lo sguardo a loro e, muovendo il capo nel senso di un arco, disse: «Buongiorno...» e sorrise come ogni volta che rivolgeva la parola a qualcuno, indipendentemente dal suo stato d’animo. Scrutò la sala per trovare un tavolino libero dove sedersi per ordinare un caffè. La stanza non era molto affollata e piuttosto silenziosa, per cui, dopo essersi accomodata, il banconista, dalla sua postazione, si rivolse a lei dicendole: «Cosa le porto?», ma Giulia sperava di farsi servire da Monica e continuava a guardarsi intorno senza vederla. «Oh, non ancora mi scusi... aspetto una persona!» rispose, mentre si toglieva la giacca che indossava. «Non c’è problema, prego» riprese l’uomo sorridendo mentre continuava a lavare tazzine e sentendosi osservato dalla direttrice, che non perdeva occasione per ammonire i suoi dipendenti con sguardi inibitori. Giulia estrasse uno dei suoi libri dalla borsa e lo aprì poggiandolo sul tavolino. Sollevava lo sguardo ogni volta che sentiva passare qualcuno, ma nessuna traccia di Monica. Essendo cliente più o meno abituale del bar (il più delle volte di passaggio per prendere un caffè) Giulia conosceva il nome della ragazza per il semplice fatto che lo portava scritto sul gilet e che, di tanto in tanto, qualche cliente o collega si rivolgeva a lei chiamandola, ma non aveva idea di chi fosse veramente. Sapeva solo che, da quel momento in poi, era la persona che le serviva per realizzare il suo servizio e che aveva urgente bisogno di vederla per trarne maggiore ispirazione. Trascorso qualche minuto, mentre Giulia aveva la testa puntata parallelamente alle pagine del libro, dalla porta del bar entrò Gia-
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da, sua amica ormai da tempo – una delle prime persone che conobbe al suo arrivo a Palermo – che la vide subito ed esclamò: «Giulietta!» dando l’impressione di essere la persona che essa aspettava. Giulia la accolse con sorriso sincero, nonostante fosse anche soddisfatta dell’avverarsi della sua messa in scena. «Oh Giada!» si salutarono e la ragazza si sedette spontaneamente di fronte all’amica, poggiando sul tavolo una catasta di fogli impacchettati e dandole discorso: «Sono in preda al panico, ho un mare di lavoro da sbrigare entro domani. La difficoltà di lavorare in redazione è che non puoi permetterti di accumulare lavoro... soprattutto quando ti arriva materiale fresco fresco e non puoi rischiare di farlo scaldare. Diventa subito roba vecchia! Guarda qua: il baule di Fogazzaro!» e sventolò uno dei fogli in superficie. «Si avvicina il centenario della sua morte e, come da testamento, verrà aperto per la prima volta! Nessuno conosce il contenuto: i vicentini sono in fibrillazione in attesa dell’evento e ne sanno sicuramente più di noi, ma dobbiamo riuscire ad abbattere le barriere culturali locali». Giada lavorava per un magazine locale di arte e cultura e, per la natura stessa del suo lavoro, era una persona molto frenetica e loquace, praticamente l’opposto di Giulia, contemplativa e perennemente distratta dai suoi pensieri. Proprio come quell’occasione in cui Giulia continuava a guardarsi intorno, pur degnando di attenzione la sua amica: «Ah bella impresa! Ma devi ammettere che senza questo lavoro moriresti... prendiamo un caffè?» aggiunse, riportando lo sguardo su Giada. «Oh, sì... sì, ero venuta per questo». Giulia alzò la mano verso il banconista per chiedere di mandare qualcuno a prendere l’ordinazione al tavolo – del resto, insieme a
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Giada, era entrata un’ondata di gente, così immaginò che finalmente avrebbero mandato una cameriera al tavolo. Il banconista fece cenno col capo di aver accolto la richiesta e fece comprendere col labiale che sarebbe arrivato subito, poi si rivolse dall’altro lato della sala per chiamare qualcuno. Giada riprese a dialogare: «Tu che combini in questo periodo Giu’? È da un po’ che non ci vediamo...» e Giulia rispose vagamente come sempre, a causa della sua riservatezza: «Io... ah, sì... sono un po’ presa da un lavoro, sto facendo delle ricerche che mi impegnano tutto il giorno...», ma aveva uno sguardo piuttosto confuso, che la sua amica riconobbe al volo cercando di spronarla: «Aah, ah... e con Mattia?». «Cosa?» rispose lei per eludere la domanda. Giada rise. «Con Mattia, dico... come procede?». «Ah! Alla grande! Come sempre!» sorrise Giulia annuendo più del necessario. «Mh! Non si direbbe...» la sorprese sfacciatamente Giada. In quel momento si avvicinò al tavolo una cameriera di cui Giulia vide in un primo momento le gambe, coperte dal grembiulino bordeaux. Dopodiché alzò lo sguardo, ma la sua aspettativa fu delusa dalla vista di un volto chiarissimo – ricoperto di lentiggini e incorniciato da capelli ramati – che subito si illuminò di una effervescente cortesia anche verbale: «Buongiorno! Scusate l’attesa, siamo a corto di personale!» esclamò la ragazza. «Che prendete?» chiese con il blocchetto in mano e la penna pronta per scrivere. «Ah! Figurati!» rispose Giulia con un pizzico di sconforto, «Prendiamo due caffè, grazie». «Arrivano subito. Promesso!» rassicurò la ragazza strizzando l’occhio. «Ah dannazione!» esplose Giulia, non appena la ragazza si allontanò e Giada la guardò perplessa continuando ad ascoltare. «Cercavo una ragaz-
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za... una che lavora qui. La vedo sempre e oggi che sono venuta per lei non riesco a trovarla!». «Ah, ecco i problemi che hai con Mattia! Sei passata dall’altra sponda!» ironizzò l’amica. «Sì certo!» sorrise Giulia riprendendo subito il discorso che le interessava. «Ero passata per chiederle di posare per me. Avrebbe fatto comodo anche a lei dopo tutto!». «Sì ovvio! A chi non piacerebbe essere adescata dalla prima maniaca di turno che viene a spiarti nel bar in cui sa che lavori!» disse Giada ridendo. «Ma dai!», riprese Giulia, «A me piacerebbe molto: fare un’esperienza diversa, sentirti diva per un periodo... essere scelta da qualcuno per la tua particolare unicità...» e fu interrotta dalla cameriera che arrivava per servire i caffè, intervenendo questa volta con discrezione: «Prego...» e si insinuò gentilmente tra le due amiche che ringraziarono all’unisono. «Ma perché, lei non ti va bene?», chiese sottovoce Giada piegandosi sul tavolino, «O io?!» e alzò corpo e voce indicandosi con le due mani a mo’ di freccia. «Ma no, no...», replicò Giulia stizzita, «trovare un soggetto è una fase molto delicata, costituisce praticamente la metà del lavoro da svolgere! Lei era perfetta... era Nausicaa trasfigurata al giorno d’oggi!». Giada scoppiò a ridere: «Ma di che stai parlando? Nausicaa?? Spiegami». «La verginetta dalle bianche braccia. Scusa, non te ne ho parlato... è l’ultima evoluzione del mio progetto. Sono partita dalle ancelle – sono sempre state sottovalutate le ancelle – e sono arrivata a Nausicaa. Avresti dovuto vederla... era perfetta!» spiegò Giulia.
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«Certo, capisco... ma se non la trovi che fai? Mandi tutto all’aria? Fai delle audizioni, non so... prova a pensare a un’altra soluzione, non ti fossilizzare! Almeno, nel mio lavoro funziona così...» cercò di confortarla l’amica. «Sì infatti, sono due lavori molto diversi...» concluse Giulia demoralizzata, con lo sguardo puntato nella tazzina in cui giocava con il cucchiaino. «Potrei tenerlo archiviato per anni finché non trovo la persona giusta!». «Fai tu...» aggiunse Giada. «Ora, a proposito di lavoro», disse poggiando le mani sulle ginocchia, «mi sa che mi devo mettere in moto» e guardò l’orologio sul polso. «Sì, è davvero tardi». Si alzarono e si diressero alla cassa, dove Giulia si offrì di pagare. «Lascia, faccio io...» e colse l’occasione per indagare. «Mi scusi Signora...», si impostò con la massima gentilezza, «avrei una domanda da porle, forse un tantino indiscreta...» e si avvicinò a lei abbassando la voce, «cercavo una ragazza, che lavora qui... Monica?». La signora grassoccia la guardò, alquanto insospettita e un po’ perplessa, dalle fessure che le spuntavano sulle guance sollevate, poi rispose: «Ah! Monike! Forse Monike dice lei, è una sua amica?». «N... no... Monica mi pare si chiamasse, ce l’aveva scritto sul cartellino» e si indicò il petto disegnando la forma di un rettangolo con le dita. «Sì sì!», rise la signora, «Monike è una ragazza greca, ma qui nessuno riusciva a pronunciare bene il suo nome così lo abbiamo reso in italiano!». «Greca!» esclamò Giulia guardando Giada stupefatta e continuò a fissare la signora grassoccia aspettando che le dicesse dove trovarla.
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Al che la donna, che continuava a sorridere e guardare alternatamente Giulia e Giada, riprese scuotendo la testa: «Ah, ma comunque non lavora più qui, mi dispiace... una brava ragazza, ma è andata via per problemi personali» e diventò più seria. Giulia notò che si era creata fila dietro di lei nel frattempo e, non avendo ricevuto la sua informazione, abbandonò il campo sconfitta. «La ringrazio, alla prossima, arrivederci». «Prenda il resto signorina», la fermò la signora mentre lei si allontanava, «Ah, no! Tenga pure...» rispose e uscì facendo suonare nuovamente il campanello della porta. Appena fuori, Giada la salutò frettolosamente baciandola sulle guance e stringendola in un abbraccio: «Bene Giu’, non mi preoccupo per te solo perché ti conosco e so che sei così... però mi raccomando, eh?... Ti vedo un po’ tra le nuvole». «Tranquilla, me la so cavare da tempo ormai» sorrise Giulia. «E sentiamoci, mi raccomando, voglio vederti presto!» disse Giada allontanandosi, mentre Giulia restava immobile. Era un po’ interdetta, aveva perso la sua occasione, ma non le speranze di trovare Monike. Si mise, così, in marcia verso casa e attraversò la città con il solito piacere. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD