L'inganno degli uomini

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In uscita il 29/9/2017 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine settembre e inizio ottobre 2017 ( ,99 euro)

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DANIELE ALBERTO VISENTIN

L’INGANNO DEGLI UOMINI

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L’INGANNO DEGLI UOMINI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-111-2 Copertina: immagine di Gianni e Valerio Zaccagnini http://www.valeriozaccagnini.com/

Prima edizione Settembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Ad Alessandro e Lorenzo, perché la vita regali loro sempre un sogno da coltivare…

L’immagine di copertina è stata realizzata da Gianni e Valerio Zaccagnini, a cui vanno i miei più sinceri ringraziamenti, oltre al mio affetto.

“Quello che per noi è una perla, per il mondo è solo un granello di sabbia.”



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13 Agosto 1984

I cardini della serratura scivolarono dolcemente, emettendo un suono fluido e armonico, celando perfettamente il vano all’interno della colonna in granito. La frattura che divideva il pilastro, perpendicolarmente rispetto al dipinto che ritraeva una truculenta immagine della crocifissione di Cristo, svanì in uno sbuffo di polvere. Le ombre di cinque persone, rese sproporzionate e innaturali dai raggi del sole, che filtravano all’interno della piccola navata della chiesa da due finestre laterali, rimasero immobili, meravigliate dalla perfezione e dall’efficacia di un meccanismo tanto astuto, quanto invisibile. Reggendosi su un vecchio bastone da passeggio intagliato a mano, la sagoma di un uomo dalla figura esile si parò di fronte agli altri col capo chino, gli occhi fissi al disegno che decorava il pavimento. «Oggi, condanniamo il mondo all’ignoranza. Lo facciamo perché siamo certi di operare per il bene della Cristianità e della Madre Chiesa. Pecchiamo, consapevolmente, per un fine superiore. Solo Dio, alla resa dei conti, potrà giudicarci. «Nessuno di noi, mai, in nessun luogo e per nessun motivo, dovrà rivelare ciò che è accaduto qui, in questo momento. «Melchiorre, sia gentile, mi consegni le chiavi.» Un uomo nerboruto e dall’andatura incerta si avvicinò alla colonna, sfilando una coppia di chiavi dal rispettivo alloggiamento. «La ringrazio molto. Ci tengo a comunicarle, e parlo sinceramente e a nome di tutti, che ha svolto un lavoro eccezionale. Siamo rimasti davvero colpiti dalla sua arte e dal suo ingegno. Si è rivelato un prezioso e valido collaboratore, svolgendo il suo incarico con competenza e riservatezza.» Melchiorre annuì, stringendosi nelle spalle con un sorriso imbarazzato. «Affiderò queste chiavi», le osservò con un misto di deferenza e vergogna, «a una persona che gode della mia massima fiducia che, oltre a essere un confratello, è anche un caro amico, il quale provvederà a custodirle nel massimo riserbo. «Decidiamo, tutti insieme, di celare questi oggetti per difendere un’idea. Una fede. Inutile dirvi che se anche uno solo di noi dovesse rompere il patto e divulgare la notizia, ci condannerebbe tutti. In questa vita e nella prossima. Una dannazione terribile ed eterna.


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«Ora, vi saluto e vi ringrazio. È stato un piacere lavorare con voi. Soffro solo nel constatare che il più prezioso dei nostri studi non potrà mai vedere la luce. Sono certo, comunque, che saremo annoverati tra i giusti. «Se così non fosse, che Dio abbia pietà della nostra anima.» Chiuse gli occhi, rivolgendo lo sguardo al sole nascente, e disegnò col pollice sulla sua fronte, sulle labbra e sul cuore una croce perfetta. Spinse la porta in legno e nell’aria umida attraversò la piazza dalla pavimentazione in ciottoli bianchi e neri, proprio mentre il vecchio campanile batteva il sesto rintocco. *** Oggi Le luci intermittenti dei neon conferivano al pavimento in marmo una sinistra tonalità di grigio, mentre un uomo di circa trent’anni, braccia incrociate all’altezza dello stomaco, tentava per l’ennesima volta di trovare ristoro, chiudendo gli occhi e cercando di rilassare i muscoli, allungandosi su una delle poltrone in finta pelle che arredavano in modo spartano il lungo e stretto corridoio. I secondi passavano lentamente, mentre, perfettamente conscio dell’inutilità del suo gesto, incapace di allentare la tensione, si rimise a sedere, portando le mani all’altezza delle tasche della vecchia e lacera tuta nera che aveva distrattamente infilato prima di uscire di casa. Frustrato dal vuoto percepito dai suoi polpastrelli e dall’insegna metallica che gli proibiva di soddisfare il suo impellente bisogno di fumare. Andiamo, non sei mai stato un vero fumatore… Eppure… Per l’ennesima volta, prese a misurare a passi lenti il pavimento, cercando di focalizzare l’attenzione sulla lunga e sottile linea verde decorativa che lo delineava. Si sollevò, sentendo il peso delle ultime ore gravare in modo quasi insostenibile sulle martoriate articolazioni, stirando i muscoli del collo e passando le lunghe dita sui capelli appena tagliati. Sfiorò la piccola zona rasata sulla parte sinistra del cranio, evidente segno di un’errata e frettolosa impostazione del suo rasoio elettrico e inspirò a pieni polmoni, sentendo una fitta intensa alla bocca dello stomaco che tentò di allentare spingendo con forza sullo sterno, nella vana speranza di favorire i


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succhi gastrici che si ribellavano all’hamburger, eccessivamente speziato, mangiato nervosamente e senza cura. Il silenzio lo avvolgeva completamente mentre cercava di scrutare, tra le rigide tende bianche fissate alla porta a vetri, la schiena nuda di Sandra Brocchi su cui si muovevano, esperte, le mani di un’ossuta infermiera, strette in guanti di lattice bianco. Una torsione del busto di lei, che gli consentì di intravedere il viso disteso della sua compagna che annuiva rivolgendosi all’anestesista, gli regalò qualche istante di tranquillità che prese forma in un sorriso complice, rivolto alla neve che cadeva, copiosa, appoggiandosi delicatamente alla finestra dell’ospedale. Le lancette dell’orologio appeso alla scarna parete bianca, sembravano rincorrersi con una lentezza innaturale, mentre uno dei vecchi campanili nascosto dagli alberi che si arrampicavano sulla collina, batteva le cinque. Il buio profondo della notte, reso ancora più intenso dalla neve candida che cadeva incessantemente, fu squarciato dai lampeggianti di un’autoambulanza che slittava sull’asfalto ricoperto da una fitta coltre bianca, mentre la porta della sala laterale si aprì alle sue spalle. «Lorenzo, ora può rientrare.» La voce di una corpulenta infermiera dai capelli biondi e col viso illuminato da un rigoglioso sorriso, di cui Lorenzo aveva fino ad allora ignorato l’esistenza, richiamò la sua attenzione, mentre accompagnava alle parole un ampio gesto del braccio. Con passi che sperava di far apparire decisi, e un sorriso ottimista scolpito sul volto, attraversò la porta a vetri e, imboccato uno stretto corridoio, reso tetro e inospitale dalle luci spente e dalle barelle abbandonate disordinatamente contro il muro, entrò nella sala in cui, avvolta da un camice bianco, la sua compagna lo aspettava col volto segnato dalla stanchezza e dalle contrazioni, mentre con la mano sfiorava la pelle tesa e scura della pancia, nella speranza di percepire movimenti che, negli ultimi giorni, erano diventati sempre meno frequenti. «Allora, come ti senti?» «Bene. Strana. Comincio a non sentire più dolore.» «Ti hanno fatto male?» «Non ho sentito niente.» Il respiro regolare di Sandra si arrestò bruscamente, per poi spegnersi per qualche istante in un lungo sospiro. «Doloroso?» «Sei scemo? Hai mai sentito qualcuno entusiasmarsi per le contrazioni?» «No. Credo proprio di no. È che non so bene cosa dire, cosa fare…»


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«Stai andando benissimo. Stai solo zitto e fammi riposare un momento. Credo che l’epidurale stia facendo effetto. Sono distrutta…» Gli occhi dai tratti decisamente allungati di lei si chiusero lentamente, lasciando Lorenzo immerso nel silenzio della sala pre-parto, rotto dal battito costante del cuore di suo figlio, amplificato dal cardiotocografo. Rimase immobile, osservando incuriosito, spaventato e impaziente il corpo della sua compagna rilassarsi, invaso dal benefico farmaco che ne intorpidiva i sensi, cercando di dipingere nella sua mente i lineamenti e i gesti presto reali di una creatura fino ad allora solo immaginata. Sospirò, accarezzandosi la barba che cresceva da alcune settimane sul suo viso, ripensando alle parole di amici e parenti che, prima di lui, avevano vissuto e raccontato quei momenti, quelle sensazioni. Il suo corpo era pervaso da una miriade di emozioni, intense e contrastanti, che si rincorrevano, eccitando muscoli, nervi, pensieri, preoccupazioni e sogni. Il giorno più intenso della mia vita *** Accanto a un camino in cui i ciocchi di legno ardevano in una viva e indomita fiamma, in una sala adornata da un meraviglioso dipinto che ritraeva la Vergine Maria in lacrime, Victor Kane respirava intensamente i fumi del Cardinal Mendoza che salivano da un bicchiere a tulipano ancora caldo. Accostò il bicchiere alle labbra, eccitando le papille gustative con l’intenso sapore di alcol segnato da forti venature di legno, mentre un sorriso impercettibile, ma beffardo gli si disegnava sul volto, scorrendo con gli occhi affaticati le lettere impresse sull’etichetta ingiallita della bottiglia. Scherzi del destino… Il fiume tortuoso dei suoi pensieri venne interrotto dalla voce stridula della sua segretaria che, dal vivavoce del telefono poggiato su un angolo del prezioso tavolo in legno di tiglio, lo informava dell’arrivo della sua ospite atterrata nel cuore della notte nel vicino aeroporto con un volo privato proveniente da Londra. «La signora Stewart è arrivata, signore. Sta per raggiungerla. Inutile dirle che, come al solito, ha preferito non essere accompagnata.» «Immaginavo. Grazie Cristina. Ora può finalmente andare.»


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«Grazie, signore. A domani.» La comunicazione cadde, lasciando risuonare nella grande sala solo il suono sordo della linea occupata. Victor si sollevò, posizionandosi di fronte al camino scoppiettante e portando il cappuccio della tunica ambrata all’altezza degli occhi, mentre versava un’abbondante dose di brandy in un secondo bicchiere scaldato dal calore prodotto dal camino, rabboccando la propria. Si voltò non appena la maniglia scattò e il suono ritmico dei tacchi riempì il silenzio. La bellezza tagliente di Matilda sembrò attirare a sé e poi rilasciare con violenza tutto lo spazio circostante, mentre le sue gambe snelle, strette in un’elegante gonna nera tagliata appena sopra il ginocchio, si muovevano sinuose e a passi decisi. Si fermò a circa mezzo metro dalla figura incappucciata alla quale le fiamme che si alzavano dal camino, irradiando la propria luce intermittente sulle ombre del dipinto, conferivano un aspetto tanto austero quanto solenne. Non appena ebbe l’impressione di scorgere una smorfia sul viso dell’uomo di fronte a lui, Matilda si avvicinò e, inchinandosi con delicatezza e deferenza, gli sfiorò con le labbra il dorso della mano sinistra. «Maestro, grazie per avermi ricevuta tanto in fretta.» «Alzati, Matilda. E accomodati.» Le dita lunghe e ossute si aprirono in un gesto distratto e accomodante che indicava una sedia in legno, impreziosita da eleganti filamenti d’oro, mentre Victor offriva alla sua ospite il bicchiere da cui i fumi del brandy cominciavano a espandersi. «Allora, come mai tutta questa impazienza? Possibile che la tua frenesia mi costringa a rimanere sveglio fino a quest’ora?» «Mi scuso, Maestro. Ma ritengo sia giunta l’ora…» Victor sospirò, immergendo il collo nello schienale in pelle della poltrona, alzando lo sguardo all’alto soffitto a volta e premendo con forza sulla pelle liscia del mento. «Mi rendo perfettamente conto di avere già promosso diverse iniziative simili in passato che non hanno portato a grossi risultati, ma…» «Sono assolutamente sicura che questa volta sarà diverso. Ho valutato tutte le possibili conseguenze…» La voce profonda di Victor Kane risuonò nella sala, segnata da una profonda venatura stanca e sarcastica, mentre gli occhi di Matilda si muovevano, nervosi, tra le venature del parquet e il tacco lucido e appuntito delle scarpe, che scavava piccoli solchi nel legno. «L’ho sentito troppe volte, Matilda.»


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«So di aver perso credibilità, Maestro, e di non godere più del vostro favore, ma…» «Ti consiglio vivamente di non usare i tuoi inganni con me, donna. Il fatto che tu sia stata ricevuta e che sia per me un piacere offrirti un po’ del nettare della mia riserva esclusiva», accennò con lo sguardo alla bottiglia di brandy poggiata sul tavolo, «dovrebbe essere la prova tangibile della mia benevolenza nei tuoi confronti.» «Vi chiedo perdono, sono stata stupida. Ma vi prego di credermi. I tempi sono maturi e credo di aver trovato il modo per poter rendere pubblica, finalmente, la verità.» Kane sbuffò, accarezzando con i polpastrelli le unghie che si allungavano dalle scheletriche dita nodose, protendendosi verso Matilda che assaporò per qualche istante l’alcol misto all’eccitazione della vittoria che infiammò le sue labbra carnose e la sua gola, mentre la neve cadeva copiosa, poggiandosi alle imponenti vetrate della sala. *** La sala da parto è fredda e asettica. Una lampada accecante taglia il buio circostante, proiettando la sua luce sul corpo immobile della mia compagna e su quello di mio figlio che sembra fremere. Sono esausto. Tento di rivivere nella mia mente le emozioni appena provate, l’intensa gioia di un viso che mi scopre con lenta e attenta curiosità, dei capelli madidi di sudore di Sandra che continuano a profumare intensamente di mandorla. La prima volta che mi sono sentito colmo di un qualcosa che ancora non riesco a identificare con assoluta certezza. Mi sollevo dalla vecchia sedia su cui mi accorgo di essere seduto, barcollando per la stanza che scopro essere deserta. Mi sento come una falena stordita dal veleno, attratta da una candela. I passi sono lenti, pesanti. Mi sembra che il pavimento si scolli, restando appiccicato alle suole. Provo un dolore accecante, la schiena brucia, mentre i muscoli sembrano tendersi in uno spasmo continuo. Paura, ecco quello che provo. Cammino, rischiando di inciampare su quella che mi sembra essere la placenta, abbandonata sul pavimento, che al contatto col mio piede sembra sussultare.


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Ancora un passo, mentre la stanza sembra vivere e respirare attorno a me, allontanandosi sempre più e allontanandomi dalla barella su cui riposa ciò che amo. Tento di correre, ma inciampo, franando a terra con un tonfo che sveglia Gabriele che, scuotendosi nervosamente, comincia a piangere. Sandra si muove appena, coprendogli il volto con una mano e stringendolo al seno. Gabriele si volta, fissandomi con un’espressione indecifrabile, mentre stringe avidamente i seni della madre. Rimango incantato, per un momento, nel vedere quella simbiosi prendere forma davanti ai miei occhi, quando mi accorgo che dall’altro lato della stanza, una figura, di cui inizialmente riesco a percepire solo i contorni, mi scruta. I suoi occhi mi gelano il sangue nelle vene. Non è illuminato da alcuna fonte di luce, eppure percepisco distintamente il suo sguardo, con le orbite gialle che sporgono in modo innaturale dalla testa, inquadrando il volto in un sorriso tetro e spaventoso. Devo muovermi. Devo accelerare. Devo difendere ciò che è mio. Uno sforzo che sembra sovrumano mi regala qualche centimetro, dandomi la possibilità di scorgere i dettagli del volto di Gabriele. Voglio stringerlo, accarezzarlo, toccarlo, proteggerlo, ma non posso. Le mani sono inchiodate dietro la schiena. Un qualcosa di innaturale e mostruoso le blocca. Mi accorgo che la figura è alle mie spalle. Sento il suo alito pesante attorno a me. Zolfo e benzina. Mi schiaccia, con la sua mole mastodontica, mentre le mie braccia, strette nella morsa delle sue mani scricchiolano. Urlo, senza voce. Piango, spingendomi in avanti e sfiorando con le guance il corpo nudo di Gabriele. Il profumo intenso della sua pelle mi stordisce. Prego. Prego che Dio mi aiuti. Una lucida razionalità mi colpisce. Cosa sto facendo? Ho sempre pensato che Dio fosse solo quello che ti ignora quando vuoi fortemente qualcosa. Sconforto.


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Prego l’essere alle mie spalle di lasciarmi andare, di farmi abbracciare il mio bambino, di farmelo stringere tra le braccia. Una voce che sembra provenire da un luogo tetro e cavernoso riempie la stanza. «Non puoi fare nulla. Non ti resta che il silen…» «zio. Guarda amore, papà si è addormentato di nuovo davanti alla televisione.» Gabriele rise fragorosamente, colpendo col palmo della mano il seno gonfio e ricco di latte della madre. Con la luce intermittente del televisore che trasmetteva un vecchio film noir in bianco e nero fissa negli occhi, Lorenzo si guardò intorno ancora ansimante e scosso da tremiti di terrore. Tentò di rallentare il battito del cuore con respiri profondi, cercando di fuggire dall’ansia che ancora lo attanagliava, di riprendere la piena consapevolezza della realtà attorno a lui, sentendosi ancora ingabbiato in una strana sensazione di precario equilibrio tra il sogno e la veglia. I suoi occhi, che incontrarono fugacemente quelli di suo figlio, il quale, in preda a un piacere che appariva estatico, succhiava dai seni della sua compagna, si distesero in un sorriso ebete e di compiaciuta ammirazione della realtà che lo circondava. Meravigliosa realtà. *** L’auto che trasportava padre Fernando Guratti si arrestò di fronte alla sede de “La Stampa”, il prestigioso quotidiano piemontese, mentre un timido raggio di sole si faceva largo tra le nubi che avevano appesantito il cielo plumbeo degli ultimi giorni. La porta scorrevole si aprì, offrendo all’anziano uomo di chiesa il fastidioso gracchiare di stampanti e monitor che riportavano notizie dalle più svariate testate giornalistiche mondiali, mitigato dal soffio di aria gelida che sgorgava da uno dei bocchettoni dell’aria condizionata che facevano capolino da strategici fori nel soffitto. Padre Guratti inspirò a pieni polmoni, gli occhi socchiusi. L’ottavo peccato capitale.


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Una corpulenta signora di mezza età, stretta in un tailleur blu, gli offrì un sorriso distratto, mentre afferrava la cornetta del telefono sulla scrivania e annunciava il suo arrivo. «Lorenzo, padre Guratti è appena arrivato. Provvedo a registrarlo, mentre…» Poggiandosi al bastone da passeggio che ne sorreggeva l’andatura, il prete si avvicinò lentamente alla reception. «Eccellenza, il dottor Berti, mi comunica che arriverà nel giro di qualche minuto. Posso offrirle un caffè? Una bibita fresca? Quest’aria umida e afosa è terribile.» «No, grazie, cara. Posso accomodarmi in quella sala?» Emma aggirò il bancone, accompagnando il prete che zoppicava vistosamente in una sala d’aspetto laterale, nella quale troneggiava un imponente televisore al plasma di cinquanta pollici sintonizzato su Sky Tg 24. La donna ebbe l’istintiva e insensata sensazione che la cortesia dei gesti e il tono pacato delle parole di quell’enigmatico anziano contrastassero con la sagoma del naso uncinato e asimmetrico. Un particolare che accentuava l’espressione infida e furtiva del volto, con labbra tese in un sorriso che le parve, per un momento, inquietante. Pochi secondi e l’ombra della mano di Berti si allungava nella sala d’aspetto fino a incontrare quella nodosa del prete. «Eccellenza, è un piacere poterla incontrare.» «Mi chiami padre Fernando, Lorenzo. I titoli ormai non mi appartengono più. Grazie per avermi ricevuto qui.» Berti, segnato da profonde occhiaie, simbolo evidente della difficile notte appena trascorsa, accompagnò l’invito a seguirlo nel suo ufficio a un gesto del braccio, imboccando il lungo corridoio che si snodava all’interno di una struttura grigia e simmetrica, un loft ristrutturato, con vecchie stampe incorniciate appese alle pareti in cui si muovevano, come palline impazzite all’interno di un flipper, decine di persone indaffarate tra conversazioni telefoniche e consultazioni di pagine web di tutto il mondo. La temperatura climatizzata e piacevole diffusa all’interno della redazione venne resa soffocante dalla folata d’aria calda e umida proveniente dall’ufficio di Berti non appena questi aprì la porta. Padre Fernando, accomodatosi con fatica su una vecchia sedia di fronte alla scrivania, si concesse una rapida occhiata dell’ufficio che gli regalò, nell’umido e soffocante scenario di due grandi finestre aperte, la visione di un computer portatile sistemato sulla scrivania accanto a pile ordinate di fogli e fotografie, di una tazza azzurra, evidentemente riparata con colla e pazienza, appoggiata su una mensola che interrompeva la sequenza di


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stampe e articoli incorniciati appesi alle pareti di fianco a un appendiabiti su cui erano appese due giacche, e di un bizzarro foglio di carta appeso al soffitto, perpendicolare alla sedia di fronte a lui, su cui si poteva leggere “Dovresti essere al lavoro”. Tastò le profonde tasche della giacca di un grigio anonimo, ed estratti un accendino d’argento e una pipa fece un cenno interlocutorio al giornalista. «Nessun problema, faccia pure.» «Lei è un fumatore?» «Saltuario. Sono uno di quelli che ritiene che in una sigaretta ci sia più di un po’ di tabacco e ha l’idea che vadano centellinate.» «Dovrebbe provare col sigaro, allora.» «Non sono un grande estimatore del sigaro. Brutti ricordi.» «Preferisce che io non…» «Non si preoccupi. Brutti ricordi, ma vecchi.» Schermato dal fumo denso dalle tinte blu che saliva dalla pipa, l’anziano prete rimase in silenzio per qualche secondo, osservando un punto invisibile alle spalle di Berti. «La ringrazio per avermi accolto qui. Nel mio alloggio, sarebbe stato complicato. Come può immaginare, non sarò ben visto dai miei confratelli nel prossimo futuro.» «La comprendo. Nessun problema. È un piacere poterla avere da noi. Gradisce un bicchiere d’acqua, o altro?» «Non si preoccupi, Lorenzo. Come ho detto anche alla signora alla reception, sto benissimo così.» «A questo punto direi che possiamo cominciare se per lei va bene.» «Sono pronto.» «Se non le dispiace, registrerò quanto da lei riferito.» «Immaginavo.» «Una domanda preliminare. C’è qualcosa del suo presente o nel suo passato che dovrei sapere? Qualche cosa attraverso cui potrebbero screditarla, o renderla invisa all’opinione pubblica?» Padre Fernando inspirò una lunga boccata e rimase in silenzio per alcuni secondi, mentre il fumo si allargava dalle sue labbra, formando una sinistra aureola bluastra che circondava il suo viso spigoloso. E sembra un santo mentre fa la parte del diavolo. «Sì.» «E me ne può parlare?»


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Un sospiro e gli occhi inchiodati al pavimento rivelavano l’inquietudine del prete, più di quanto avrebbero potuto fare le parole. «Padre, mi ascolti. Accusare dalle pagine di un quotidiano nazionale i suoi colleghi», il prete sembrò immediatamente stizzito nel sentire apostrofare i suoi confratelli in quel modo, «di vendere reliquie sacre al mercato nero per finanziare attività proprie o concedersi qualche vizio, è chiaramente una situazione delicata. Per lei e, mi creda, soprattutto per il giornale. Come sa meglio di me, il Vaticano non è solo un ridente stato indipendente, ma una munifica spa con interessi, avvocati, banchieri… la stritoleranno. Si attaccheranno a tutto pur di screditarla e screditarci. Se, ripeto, nel suo passato c’è qualche cosa di poco pulito, ho necessità di saperlo adesso.» «Sono passati quasi venti anni.» «In questioni come questa, il tempo è assolutamente relativo.» «Era l’autunno del 1990…» Lorenzo spinse, non senza difficoltà, il tasto rosso del vecchio dittafono. «Sì, dicevo, era l’autunno del 1990. La famiglia di una ragazzina affetta da sindrome di Down minacciò di denunciarmi per molestie.» Lorenzo consultò rapidamente lo straordinario e perfettamente organizzato archivio della sua memoria. «Non me ne ricordo assolutamente.» «Lo credo bene. Non si arrivò mai a un’accusa formale.» L’espressione interlocutoria del giornalista spinse padre Fernando a un’esposizione più dettagliata. «Innanzi tutto, la politica della Chiesa cattolica in materia di scandali era decisamente orientata alla negazione, per di più la ragazza non riuscì mai a parlare con un giudice. Fu chiamata a Dio qualche settimana prima dell’atto d’accusa. Si sa, purtroppo, che le povere anime afflitte da quel terribile male non hanno mai una vita molto lunga.» Berti fece scivolare le dita sul mento intrecciando con fatica i peli corti e dai riflessi ramati della barba. «Certo, questo non la favorisce.» «Me ne rendo conto.» «Ma non essendoci una vera e propria accusa…» Padre Guratti rimase immobile per qualche secondo, le mani incrociate sotto il mento. «Mi stupisce il fatto che non mi abbia chiesto se è vero oppure se fu solo una malignità.» «Sinceramente, non mi riguarda. Non è la mia storia. Quello che mi interessa è che sicuramente tenteranno di screditarla. In una situazione del genere non è tanto importante che l’evento… lo squallido evento, si sia


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verificato o meno. Quello che è rilevante è che lei verrà sbattuto in prima pagina, la sua vita verrà spulciata, passata al microscopio e poi tritata. Stiamo per scoperchiare un calderone bollente senza guanti.» «Lo so bene. Non mi sono vantato di essere il miglior testimone possibile. Ho sempre e solo detto che le avrei raccontato la verità. Per quanto squallida e torbida.» «Faccio il giornalista di cronaca. Per anni mi sono occupato di cronaca nera. Non sono certo un’educanda. Mi lasci delineare lo scenario che ci si presenterà davanti. Noi cominciamo questa intervista in cui lei denuncia parte della grande e fulgida famiglia della Chiesa cattolica», il tono di Berti fu segnato da una profonda vena ironica che padre Fernando giudicò istantaneamente blasfema, «di furto e vendita di oggetti sacri che, per rendere il tutto ancora più interessante, vanno ad abbellire le case di milionari, politici e delle loro amanti. Quindi, in un colpo solo, ci inimichiamo la parte più potente del paese, descrivendoli come tombaroli che, nel buio della notte, si aggirano per chiese e cimiteri alla ricerca di ogni tipo di oggetto che la Cristianità abbia conosciuto. Persone senza volto che, però, possono farci chiudere la bocca e scomparire, in modo più o meno figurato, con una telefonata. Persone che hanno l’accesso garantito a tutti gli archivi, a tutte le memorie, tralasciando per un momento le conseguenze che questo potrebbe avere per milioni di fedeli. In questo scenario, mettiamo un prete anziano, con qualche cadavere nell’armadio.» «Non capisco. Si preoccupa per la sua reputazione, o per la mia?» «Mi preoccupo per il fatto che il direttore abbia minacciato di impiccarmi fuori dalla redazione come monito per il futuro, se questa storia gli porterà più problemi che risultati. Io ho bisogno di prove. Inconfutabili e assolute che possano contrastare ogni malignità e ogni ragionevole dubbio.» «Vede, Lorenzo. So bene che i testimoni dubbiosi di vent’anni fa, li vedrò diventare, oggi, lucidi accusatori. Nei primi anni di servizio, ho avuto il compito di tentare di illuminare la via di qualche assassino. Mi creda se le dico che il più spietato, tra quelli che ho conosciuto, è il tempo. Uccide anche la verità, ma questo non deve impedirci di lottare per raggiungerla.» «Concordo assolutamente.» «Ma sembra preferire passare questa mano che Dio le sta porgendo…» «No. Voglio giocarla, ma mettendo bene in chiaro quali potrebbero essere le conseguenze delle sue parole se non fossero supportate dai fatti.» «Faccia attenzione. Qualcuno potrebbe accusarla di essere un giornalista malato di una rara forma di moralità. Quasi di umanità, potrei dire.» «Mi sembra di poter dire che ognuno ha i propri demoni contro cui lottare. E poi, in definitiva, io mi limito a riportare fatti e parole altrui.»


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«Non mi dica sciocchezze, Lorenzo. Se c’è un qualcosa che la contraddistingue dall’inizio della sua carriera è proprio il fatto che non si sia mai limitato a riportare esclusivamente i fatti e le parole dei protagonisti.» Il giornalista allungò le mani sui braccioli della comoda poltrona girevole, mentre un sorriso beffardo e compiaciuto si disegnava sul viso dell’anziano. «Pensava, forse, che non mi fossi informato? Che non sapessi perfettamente chi è, cosa ha fatto, che non abbia letto i suoi articoli e il relativo libro sul caso del“fioraio”? L’ho scelta, Berti, chiedendo espressamente di lei al suo direttore. Non voglio un cronista. Voglio un giornalista che si dedichi anima e corpo a questa storia, che la viva… che ne sia parte.» «Lei è indubbiamente uno di quelli che la mano non la passa e le sue carte le sa giocare.» «Non si arriva nella mia posizione, e non si scoprono certi segreti, senza saper giocare qualche carta giusta nel momento propizio.» «La vanità è peccato. Un peccato capitale, se non erro.» «Un vizio capitale, non un peccato. Uno dei sette abiti del male, come li chiamava Aristotele. Inoltre, le ricordo che cedere alla vanità è un peccato, non instillarla nell’animo di qualcuno.» «Immagino, anzi, che instillarla rappresenti una prova che il buon uomo di chiesa sottopone al fedele in modo che, superandola, questi si avvicini ulteriormente a Dio.» «Meraviglioso. Sapevo che avrebbe rappresentato la scelta giusta. Sarebbe stato un ottimo uomo di Chiesa. Avrebbe fatto carriera.» «La mia fede non è mai stata incrollabile.» Padre Fernando aspirò profondamente incendiando il braciere che continuava ad ardere tra le dita ingiallite e nodose, disperdendo nella stanza il fumo grigio striato di blu che cominciava a ghermire nelle sue spire le stampe che ornavano le pareti. «In questo periodo, nemmeno la mia. Forse, adesso, è il caso di chiederle quella tazza di caffè.» *** Berti si sollevò, dopo aver spinto il tasto del registratore, e, presa dalla libreria la tazza azzurra che sembrava potersi sgretolare tra le sue dita, fece un cenno d’intesa a padre Fernando e imboccò lo stretto corridoio che si snodava nell’edificio fino a raggiungere il distributore dell’acqua fresca. Sentì la pelle intirizzirsi, stimolata dall’aria condizionata che si diffondeva tra gli uffici e le sale riunione e, svoltato l’angolo, si regalò una generosa


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panoramica delle curve di Patrizia che, china sull’erogatore, riempiva il suo bicchiere di Snoopy rosa. I polpacci disegnati si allungavano dai tacchi per arrampicarsi sulle cosce toniche che rendevano ancora più eccitanti due sode natiche, strette in un elegante e leggero vestito color crema, attraverso cui era ben visibile l’ombra scura e accattivante di un perizoma. Lorenzo si appoggiò al muro, celando a stento l’interesse per quelle curve sinuose, tentando di obbligare lo sguardo ad allontanarsi da quella pelle bianca e fresca. Una lieve torsione del corpo sinuoso di lei gli diede la possibilità di concedersi una fugace occhiata dei suoi seni prosperosi che vibravano ritmicamente accompagnando i suoi respiri, suscitando nella fervida immaginazione di Lorenzo l’immagine di due dolcissimi montblanc puntati contro di lui. Allontanò con decisione il baccanale di panna, carne e respiri che prendeva forma nella sua mente, con un gesto rapido e deciso del collo. «Che occhiaie. Spero che siano merito di tua moglie e non colpa di tuo figlio.» «Mia moglie è off limits. Dorme da mesi con un altro uomo. E anche quando, accidentalmente, dovesse decidere di dormire con me, quell’altro riesce comunque a essere più convincente e persuasivo di me, tanto da riportarla nuovamente nel suo letto.» «Forse dovresti cominciare a piangere disperatamente anche tu, implorando latte e coccole. Sai come siamo noi donne… se riesci a stimolare quell’istinto materno…» «Non voglio mica la carità. Voglio una sana e soddisfacente ora di sesso con una donna.» Lorenzo rimase impietrito per qualche istante, poi si scrollò, risvegliandosi bruscamente da un pensiero troppo intenso: «Con la mia donna.» Istintivamente percepì la profonda flessione della sua voce. «In questo caso, credo che non ti possa aiutare nessuno, a parte lei. Torno a lavorare. Ciao, bell’uomo.» Berti abbozzò un sorriso chiaramente imbarazzato e si regalò la visione della sensuale camminata di Patrizia che, sicura sui tacchi, imboccava il corridoio che l’avrebbe portata al suo ufficio. Sospirò, disegnando con il pollice e il medio le orbite segnate dalle occhiaie, compagne ormai fedeli, e, bevuto il suo caffè, ritornò nel suo ufficio, portandone una tazza per padre Guratti. L’aria umida e impregnata di fumo lo inghiottì, mentre, ripresa la registrazione, si sedette nuovamente alla sua scrivania.


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Fu colto da un’inaspettata tristezza, mentre osservava gli occhi dell’anziano prete, immobile nella medesima posizione assunta quando Berti era uscito dalla stanza, che sembravano tentare di sciogliere l’intricato filo dei pensieri. «Grazie.» L’anziano prete afferrò la tazza facendola vibrare tra le dita insicure. «Padre Guratti, riprendiamo. Dalla sua posizione privilegiata di ex vescovo di Torino, lei sostiene di essere a conoscenza del fatto che molti…» «Alcuni.» «Alcuni dei suoi confratelli siano soliti vendere oggetti sacri al mercato nero per finanziare tutta una serie di attività proprie, legali e non.» «Confermo.» «Mi spiega per quale motivo ha deciso di rivelare questo segreto proprio adesso?» «Sono affranto e stanco. Non posso più accettare di constatare che i ministri di Dio non vivono secondo i suoi dettami.» «Non è una novità.» «Alla mia età si ha la folle idea di voler essere utili. In modo tangibile, senza teorie o assiomi. Ritengo sia giunto il momento di squarciare il velo, come si suol dire.» «Mi sembra di aver intuito che questo sia un mercato eccezionalmente florido.» «Lo confermo. Non può immaginare quanto lustro possa dare nell’alta società, un oggetto sacro in bella mostra in una sala. Istintivamente trasmette solidità, rettitudine e valori. Peccato che nessuno si chieda mai come il proprietario ne sia entrato in possesso.» «Ma non capisco. Possibile che esista una moltitudine di reliquie? Di che numeri parliamo?» «Sta scherzando? Da uomo di Chiesa fatico ad ammetterlo, ma c’è una fonte inesauribile di reliquie. Probabilmente, non tutte autentiche.» «Non autentiche? In che senso?» «Mi permetta una breve digressione. Sa come nasce il culto delle reliquie? Elena, madre di Costantino, proclamato imperatore nel 306 d.C., fece tra il 326 e il 327 d.C. un pellegrinaggio in Terra Santa. Da tale pellegrinaggio tornò con decine e decine di reliquie dei personaggi più famosi della nascente storia della Cristianità. La storia narra che, accompagnata da un cristiano del luogo, Macario, scavando sul Golgota, trovò tre pezzi di legno della Santa Croce: un chiodo e due spine della Corona.» «Una truffa ben ordita nei confronti di una ricca e volubile signora?» «Probabilmente. Ma dal momento che questi oggetti furono portati dalla madre dell’imperatore, furono subito accreditati e conservati.»


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«Un piano astuto.» «E proficuo. Fu chiaro che poteva cominciare un lucroso commercio tra Terra Santa ed Europa. La situazione peggiorò con le Crociate, in cui qualunque soldato si fregiava del merito di aver ritrovato qualche oggetto straordinario, fino al ripianamento del deficit dello stato di Baldovino II di Costantinopoli, che cedette centinaia di reliquie a Re Luigi IX di Francia.» «E nessuno ha avuto nulla da obiettare?» «E perché qualcuno avrebbe dovuto? Una reliquia sacra conferisce lustro e dignità, educa il popolo. Si scatenò una vera e propria corsa all’oggetto sacro. Le basti pensare che Vittricio, vescovo di Ruen attorno al 400 d.C., affermò che non vi era nessun male a suddividere le reliquie in pezzi sempre più piccoli in modo che», un sorriso sarcastico gli si allungò sul viso, «tutti potessero goderne, dal momento che in ogni minimo pezzo risiedono la forza e la sacralità dell’unità intera.» «L’ecclesiastica dissezione della santità.» «Che portò a situazioni paradossali o, perlomeno, macabre. Di Santa Teresa d’Avila esistono più di trecento reliquie del corpo.» «Un massacro degno dei migliori film horror.» «Lorenzo, la prego. La reliquia è un simbolo ed è quello che riesce a instillare nel fedele che è determinante, non la sua autenticità.» «A questo punto, credo di poter immaginare che ci siano delle incongruenze, dei doppioni e delle autentiche cianfrusaglie.» «A Sciaffusa, in Svizzera, è stato conservato il fiato di San Giuseppe rilasciato sul guanto di Nicodemo», Berti sgranò gli occhi, col volto immortalato in un’espressione di divertito stupore, «mentre San Biagio ha, come reliquie, sei braccia. San Vincenzo e Santa Rita ne hanno nove ciascuno. Consultando la storia, il più dotato, da questo punto di vista, è San Giacomo, di cui se ne contano ben diciotto.» «Incredibile.» «Meno dei sei seni di Sant’Agata, delle venti mascelle di San Giovanni, o delle nove mani di San Bartolomeo. E tutto questo è dissacrante, ma non rappresenta nulla rispetto ai sette prepuzi di Gesù Cristo e alle molteplici ampolle in cui fu contenuto il suo sangue. E si potrebbero annoverare il panno che lo avvolgeva, la camicetta da neonato, la mangiatoia in cui giacque, la barba, l’ombelico, le lacrime versate alla morte di Lazzaro e la terra che calpestò quando lo resuscitò. Il pezzo forte, se mi passa il termine, tralasciando gli innumerevoli pezzi di legno e i molteplici chiodi della Santa Croce, è una pietra con l’impronta del piede di Gesù Cristo, lasciata quando prese lo slancio verso il Regno dei Cieli.»


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Berti allungò i muscoli del collo, facendo scorrere gli occhi sulla pelle ingiallita delle guance di padre Guratti, che vibravano segnate da un lieve rossore. «A queste condizioni, è un mercato infinito.» «Oggi come oggi è più complicato creare…», il prete si schiarì la voce con un deciso colpo di tosse, mentre allentava il colletto dell’abito, «autenticare nuove reliquie. Scienza e senso comune sono nemici difficili da affrontare, ma per quanto riguarda ciò che il passato ha già accreditato…» «Credo di cominciare a delineare un quadro più preciso della situazione. Centinaia di chiodi, pezzi di legno, lembi di pelle e di stracci… un mercato da migliaia di euro.» «Milioni. A queste aste partecipano solo clienti molto esclusivi. Blasfemi ignoranti che non saprebbero distinguere un pezzo di legno staccato da un vecchio confessionale, da una reliquia millenaria.» L’anziano prete sprofondò nella sedia, cercando ossigeno nel braciere della sua pipa. «E partendo da questi presupposti, lei sostiene che…» «Io so che alcuni confratelli saccheggiano reliquie dalle loro chiese per finanziare tutta una serie di attività private ed estranee al mondo ecclesiastico. Case per familiari o, peggio, amanti, tangenti per favorire imprenditori affiliati, rette per le scuole dei figli…» «Ma possibile che tutto ciò possa accadere senza che se ne sappia nulla? Non ci sono registri? Archivi?» «Certo. Lorenzo, deve però rendersi conto che se i beneficiari e i controllori coincidono, è difficile avere dei riscontri. Questo è un evento che coinvolge le sfere più alte di tutte le cariche. Anche nella nostra istituzione.» «Quindi è una realtà che conosce bene. Ne ha mai fatto parte, direttamente?» «E la prossima domanda sarà: può provare in qualche modo quanto mi ha raccontato? Per rispondere ad ambedue le questioni, le dico che ne sto facendo parte in questi giorni.» L’espressione stupita del giornalista spinse padre Fernando a continuare. «Ho chiesto a una persona fidata di acquistare un oggetto.» «Sacro?» «Unico. Non dovrebbe poter uscire dalla chiesa in cui è custodito, e invece, nell’arco di qualche giorno, sarà mio. Mi ripeto: sono ignoranti. Imbecilli senza alcuna cultura, senza morale. Senza fede. Cadranno per colpa della loro stupidità e della loro superbia. «Appena l’oggetto in questione sarà nelle mie mani, avrà tutte le prove che le servono. E potranno tentare di screditarmi in ogni modo, alludendo anche al mio passato, ma l’oggetto nel palmo della mia mano, sarà inconfutabile.»


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«Di che oggetto parliamo?» «Vanità, curiosità, impazienza… non è certo il prototipo del buon cristiano. Abbia pazienza. Presto avrà tutte le risposte.» Padre Guratti osservò distrattamente il quadrante dell’orologio e afferrò il bastone poggiato alla scrivania. Si sollevò stancamente, incerto sull’esile scheletro cui sembravano essere aggrappati brandelli di carne ormai stremata. Allungò la mano e strinse senza forza né convinzione quella di Berti che, sollevatosi istintivamente dalla sedia, si offrì di accompagnarlo fino all’uscita dove furono accolti dall’aria umida della città. «La richiamerò non appena avrò quello che le serve. Non si preoccupi. Mi dia solo il tempo di recuperare quanto promesso, poi sarà libero di scrivere il suo articolo. La saluto, Lorenzo.» «Grazie. Sta facendo qualcosa di…» «Non mi ringrazi per questo. Non sto facendo nulla che mi renda particolarmente fiero. Non c’è nulla per cui io debba essere ringraziato. Faccio un qualcosa che reputo giusto, ma, in realtà, sto solo contribuendo a dare una ennesima spallata al mondo che mi ha cresciuto, plasmato e che ho amato.» Si voltò, non aspettandosi nessuna risposta, dirigendosi a passi lenti e incerti, verso l’auto scura che lo attendeva, motore acceso, parcheggiata in seconda fila a pochi passi di distanza. Le porte scorrevoli si richiusero, regalando a Berti l’immagine di un uomo in completo nero che, con cura amorevole, quasi stesse maneggiando un vaso prezioso, aiutava padre Fernando a salire in auto. Il fiume tortuoso dei suoi pensieri venne interrotto dal suono incalzante del cellulare che prese a vibrare nella sua tasca. «Amore…» *** Lo studio medico del dottor Meinardi si trovava in un lussuoso e austero edificio del centro. Alla grandiosità e al lustro del palazzo, si contrapponeva l’intensa tonalità azzurro pastello con cui erano state dipinte le pareti della sala d’aspetto. Mani sapienti avevano illustrato sulle pareti le più disparate scene dei classici Disney, in cui un baccanale ordinato di scimmie, tigri, leoni e marionette di legno si rincorrevano sullo sfondo di un ridente e fiorito prato verde.


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Sandra Brocchi, immersa in un mare inquieto e burrascoso di pensieri, accarezzava distrattamente Gabriele che, occhi chiusi e respiro appena percettibile, stringeva debolmente la coperta arancione in cui era avvolto. Accarezzava delicatamente la fronte bollente del bambino che si muoveva a stento, mentre il suo sguardo si spostava veloce e nervoso tra i volti segnati, timorosi e rassegnati dei genitori attorno a lei, e il quadrante dell’orologio sul quale le lancette sembravano rincorrersi con una lentezza innaturale. Mani che sfregavano nervosamente tra loro, piedi che si muovevano istericamente, mossi da volontà propria, rompevano l’assordante silenzio della sala d’aspetto, quando la porta dello studio si aprì, offrendo il triste spettacolo di una giovane madre che, con sguardo spento e perso nel vuoto, portava tra le braccia il corpo di un bambino da cui una invisibile presenza oscura sembrava strappare avidamente forze e vita. L’immagine di una bambola di pezza, inutilmente aggrappata al collo di un adulto, si stampò violenta nella mente di Sandra che, stringendo con forza al petto il suo bambino, si chinò leggermente in avanti, avvertendo le viscere contrarsi, fino a rilasciare un veleno che le rendeva impossibile respirare. Affrontata di corsa la rampa di scale, Lorenzo si infilò nello studio del pediatra distrattamente, andando quasi a sbattere contro una donna che, stringendo il bimbo al petto, imboccava l’uscita. Si scusò, abbozzando un sorriso distratto e preoccupato, per un momento costernato e rapito dal sentire le parole di conforto e che infondevano calore e sicurezza, in antitesi all’espressione di un viso che aveva perso la sua luce, la sua bellezza «Mamma, ti prego, non voglio tornare in ospedale…» e a un corpo curvo e piegato dalla tensione e dalla paura. Una litania feroce di bestemmie e imprecazioni cominciò a prendere forma nella sua mente, mentre i denti stridevano, muovendosi nervosamente gli uni sugli altri. Varcò la soglia, sentendo le narici fastidiosamente pungolate dall’odore penetrante di medicinali e disinfettante, mentre la sua attenzione veniva richiamata dalla voce nasale di una segretaria che pronunciava il suo cognome in modo interlocutorio e dai passi della sua compagna che, bimbo stretto al grembo, si avvicinava, ansiosa, al pediatra che, con un sorriso preconfezionato e che regalava un falso senso di graditissima fiducia, la attendeva sulla porta. Le pupille degli occhi Sandra si ingrandirono incontrando quelle preoccupate di Lorenzo, che tentò di regalarle un sorriso. Il dottor Meinardi, stretto nel suo camice bianco, invitati i genitori ad adagiare Gabriele su un lettino, cominciò a tastarlo, muovendo le mani


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esperte sull’esile corpo, ponendo, nel frattempo, domande circa il manifestarsi dei sintomi, la temperatura corporea e i farmaci fino ad allora somministrati. Lorenzo, cui non sfuggì una smorfia incerta che si disegnò sul viso del medico quando questi spinse sul fianco di suo figlio, immobile in un angolo dello studio, tentava di regolare il battito cardiaco, mentre la tensione e la paura sembravano stritolargli le viscere. «Dottore, come sta?» «È disidratato, molto disidratato.» «Mangia e beve a stento da un paio di giorni.» «Lo credo bene. È molto debole.» «Sa che con il suo problema, qualunque cosa…» «State calmi. Ha contratto una forma virale molto aggressiva. Ma non ha niente a che vedere con la sua situazione cardiaca. Per il momento non è assolutamente il caso di preoccuparsi, ma è bene tenere la situazione sotto controllo per evitare l’insorgere di complicazioni.» «Complicazioni di che genere?» «Il cuore di Gabriele è fragile. La malformazione genetica che gli abbiamo diagnosticato non è invalidante, ma bisogna evitare che il fisico sia troppo stressato.» «Mi dica la verità, dottore, quanto è grave?» La voce di Sandra era segnata da una profonda ansia. «Non sta bene, mi sembra evidente. La sua particolare situazione fisica, in questo frangente, non lo aiuta. Ripeto: non c’è motivo di preoccuparsi, ma la situazione va monitorata con attenzione.» Per un secondo il cuore di Lorenzo si arrestò, saltando un battito, provocando nel suo corpo un assordante silenzio che gli sembrò frantumare le ossa, lacerare la sua carne ed esplodere scontrandosi col vetro spesso delle pesanti finestre in stile barocco. «Ci sarà pure un antivirale adeguato, un antibiotico utile a…» Le parole gli morirono in gola, soffocate da una forza opprimente, mentre la sua voce, perentoria e senza emozione, urlava nella sua mente. Non sa nemmeno lui cosa fare. Se ci fosse qualcosa da fare, non credi che te l’avrebbe già detto, povero coglione? «I virus sono sempre attorno a noi, Lorenzo. A milioni. Miliardi. Non esiste una cura per ognuno.» Questo mi ha preso per un demente.


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«Daremo a Gabriele fermenti lattici e un antibiotico generico, sperando che il suo fisico reagisca in fretta e bene.» «E se non dovesse farlo?» Si rese immediatamente conto che la domanda in realtà non era realmente rivolta al pediatra. «Gabriele è un bambino provato, ma è forte. Non ci saranno problemi. Se la cura, comunque, non dovesse dare risultati nell’arco di cinque, sei giorni, prenderemo altre strade. Non preoccupatevi, abbiamo molte carte da giocare.» Digitò sulla tastiera del computer rapidamente ed estrasse dalla stampante fastidiosamente rumorosa, la ricetta che consegnò a Sandra, che, rivestito il bambino, si diresse verso l’uscita dello studio, indifferente alla preoccupazione che, pesante, aleggiava sulla sala d’aspetto. Lorenzo scese le scale lentamente, sentendo la sua anima assottigliarsi a ogni passo. L’aria fresca del pomeriggio gli segnò le guance arrossate dalle emozioni, mentre sfiorava con le dita la fronte bollente del suo bambino. Si voltò, osservando il portone scuro del palazzo, mentre l’eco delle parole del medico continuava a risuonare nella sua mente. Abbiamo molte carte da giocare. Si sentì invadere da una rabbia crescente e intensa, mentre i pensieri venivano lentamente sopraffatti dalla paura, dall’ansia. Una battaglia in cui uno sparuto gruppo di indiani si lanciava alla carica contro un plotone di esecuzione. Parla di carte e giochi. Per lui è un gioco. Un gioco in cui c’è la sopravvivenza in palio. La sopravvivenza di mio figlio. Fanculo. *** Le luci stroboscopiche in stile anni Ottanta danzavano asincrone rispetto ai bassi pompati dalle casse, mentre Matilda Stewart, vestito rosso che, morbido, aderiva alle sue forme, si muoveva armoniosa al centro della pista, attirando naturalmente gli sguardi degli uomini presenti. Fuchi alla corte dell’ape regina. Indifferente e abituata agli sguardi insistenti degli uomini che percorrevano fantasie lussuriose sulle morbide curve del suo corpo, reclinò leggermente il


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capo all’indietro, lasciandosi cullare dalla musica, socchiudendo gli occhi di uno splendido colore tendente al viola. Li aprì istantaneamente non appena il suo olfatto fu eccitato da una pungente e impercettibile fragranza di incenso e i suoi occhi non furono rapiti dalla sagoma lunga e snella di un giovane uomo, poggiato con aria intimorita a una delle colonne che ornavano la sala, che indossava una vistosa giacca di un intenso azzurro pastello. Si avvicinò, sinuosa, a lui, scivolando simile a un felino, sotto le forche caudine degli sguardi che si incrociavano attorno a lei. Gli occhi di Alberto cercarono rifugio nel marmo lucido della pista, simulando indifferenza rispetto a quelle curve sinuose, finché Matilda non fu a pochi centimetri da lui. Il profumo intenso di mandorle dei suoi capelli corvini lo investì, riportando alla sua mente immagini di una giovinezza, rimpianta, che in quel momento gli sembrò troppo lontana. Avvertì istintivamente la sua pelle tendersi verso i glutei rotondi e tonici che sfioravano i suoi pantaloni. Una vampata di calore lo paralizzò, incendiandogli le viscere e cristallizzando il suo respiro. «Devi imparare a rilassarti Alberto. A goderti un po’ la vita.» Matilda ruotò su se stessa e in un armonico movimento afferrò la mano di don Alberto Parini e lo condusse su uno dei divani in pelle che si trovavano ai lati della sala. Un cameriere si avvicinò al tavolo per ritirare l’ordinazione, facendo strisciare sfacciatamente lo sguardo su quella venere di carne e sangue e squadrando con l’aria sospetta l’insulso ragazzo accanto a lei. «Due whisky con giaccio, per favore.» Congedato il cameriere, seduta con lo spacco che ostentava una gamba lunga e perfettamente tornita, in una foto che immortalava tutta la sua immorale bellezza, Matilda si avvicinò al viso di don Parini, fissandolo intensamente negli occhi. «Sei eccessivamente a disagio.» «Non è certo il mio stile di locale. Non lo è mai stato.» «È solo il locale a metterti a disagio?» Sorrise di un sorriso tanto sadico quanto volutamente ingenuo. «Sto solo scherzando. Credo, invece, tornando a essere seri, che tu abbia qualcosa per me.» Don Alberto, occhi inchiodati al tavolo in vetro di fronte al divano, infilò una mano tremante nella tasca interna della giacca. «No. Non così. Lascia fare a me.»


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Matilda si alzò, poggiando la pelle liscia e nuda della gamba su quella scura del divano, mentre Alberto, chiaramente imbarazzato, portando istintivamente le dita al colletto nel naturale e consueto gesto che era solito fare per sistemare il collarino bianco della fedele divisa, percepì svanire il leggero peso che gravava nella tasca del suo insolito abbigliamento. Per un istante, si regalò l’intenso profumo della sua pelle, ripromettendosi di respirarla nuovamente nell’intimità della sua fantasia, regalandosi qualche minuto di segreto piacere di cui si sarebbe pentito all’alba del giorno successivo. Matilda allontanò lentamente le labbra dal suo collo, regalandogli un sorriso e una lieve carezza sulla guancia, mentre il cameriere tornava da loro portando i due bicchieri su un piccolo vassoio. «Grazie. Sei stato estremamente utile e gentile.» Don Alberto non rispose, imprigionato dai suoi pensieri e da una sorta di aura ammaliante e venefica che sembrava fuoriuscire dagli invisibili pori della pelle di Matilda che, uscita rapidamente dal locale per entrare in un’elegante Audi nera che l’attendeva, alzò lo sguardo verso le prime gocce di pioggia che, sferzate dal vento intenso che si era alzato nel pomeriggio, cominciavano a cadere con intensità, sbattendo contro il finestrino. *** La pioggia, resa lucente dai riflessi dell’alba di un timido sole che tentava inutilmente di filtrare tra la spessa coltre di nubi, si rincorreva freneticamente sui vetri, mentre Emanuele Riondini sfogliava le ultime pagine de “Il vecchio e il mare” di E. Hemingway. Immerso nella lettura, indifferente alle corde del piano che vibravano dal suo i-pod, seguendo le tonalità della drammatica lirica di Chopin, e al fumo che si alzava dalla sigaretta che bruciava nella sua mano destra, inspirò a pieni polmoni nella stupida speranza di percepire il profumo della brezza marina nell’aria umida della stanza. Un sorriso malinconico e ricco di rimpianti sembrò svuotare la sua anima oltre che i suoi polmoni, quando, alzatosi dalla comoda poltrona e bevuto l’ultimo, generoso sorso di Oban, attraversò l’ampio salone dell’elegante villa immersa nel silenzio e tra gli alberi della collina, i cui colori danzavano in un caleidoscopio di rosso e arancione, per raggiungere la biblioteca. Digitò distrattamente la combinazione sulla serratura elettronica e spinse con forza la pesante porta blindata, venendo investito dall’aria fredda e rarefatta che sgorgava dal tecnologico impianto di deumidificazione.


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Infilò il romanzo con le pagine ingiallite e logore accanto a un’altra copia del medesimo romanzo, intonsa e impreziosita da una dedica dell’autore, e restò in silenzio per qualche minuto a osservare quella miriade di volumi finemente rilegati, conservati in maniera maniacale, allungarsi sopra di lui. Un mare di ricordi lo sommerse, scuotendolo con forza, riportandogli vivida alla memoria la reminiscenza di odori, di incontri fugaci, di cortesi strette di mano innaffiate da ottimi e profumati vini d’annata, di migliaia di vendite e acquisti effettuate nell’ombra di locali nascosti o in strade secondarie immerse nel buio. Una lacrima leggera gli inumidì le guance, solcando la pelle liscia e appena rasata del viso. Uscì, richiudendosi la pesante porta alle spalle e, riattraversato il salone illuminato dalle grandi finestre rivolte a est, tornò nella sua camera da letto. Seduto sul letto perfettamente rifatto, con il risvolto delle lenzuola ripiegato per dodici centimetri in tutta la lunghezza, prese un biglietto dal cassetto del comodino e, appuntata con cura la combinazione della biblioteca, la poggiò sotto il vaso ornato da fiori freschi poggiato sullo scrittoio sistemato in un angolo della stanza. Si voltò e restò immobile per un momento, attonito e spaventato, faticando a riconoscere l’immagine riflessa nello specchio che, indifferente e maligno, gli rimandava le sembianze di un vecchio stanco e consumato dalla vita e dai suoi pensieri, più che dal tempo. Si scrollò, ridestandosi e avvicinandosi allo specchio per fissare intensamente negli occhi lo sconosciuto che con aria familiare lo scrutava con la stessa attenzione. Spinse con forza sulle orbite, poi si passò una mano sui capelli striati di grigio. Infilato un cappotto blu finemente tagliato che si intonava perfettamente col vestito fatto su misura ritirato la settimana precedente, afferrò le chiavi della Porsche grigia che sostava nel viale e, affrontate le curve che dalla collina si snodavano fino alla grande piazza centrale attraversata dal Po, trovò parcheggio lungo i portici. Inspirò a pieni polmoni l’aria densa di profumi di legna e di erba bagnata che era solita riempire Torino nelle giornate di pioggia e a passi lenti si diresse verso la storica sede del caffè Fiorio. Fece un gesto d’intesa all’elegante signora in completo scuro nei pressi del registratore di cassa e si accomodò nel piccolo tavolo in acciaio poggiato sotto i portici sui levigati e umidi marciapiedi in pietra. Un giovane cameriere si avvicinò, regalandogli un sincero e solare sorriso. «Dottore, come va? È riuscito a vedere la partita ieri pomeriggio?» «No, purtroppo, ma ho saputo che, nonostante la vittoria, non è stato un granché. Anzi, me l’hanno descritta come una noia mortale.»


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«Di questi tempi, è meglio accontentarsi di quello che passa il convento, come si suol dire…» «Ha perfettamente ragione.» «Le porto il solito?» «No. Oggi ho bisogno di un po’ di coccole. Credo che mi dedicherò con passione e attenzione allo zabaione. Mi voglio fare un piccolo regalo.» «Sicuramente se lo merita, dottore.» «Lavoriamo ogni giorno per i piccoli piaceri della vita, Alessandro.» Sospirò, congedando il cameriere, e, indifferente alle notizie urlate dal giornale abbandonato sul tavolino, osservò e assaporò intensamente le sfumature della quotidianità che si disegnava di fronte a lui muoversi sullo sfondo di quella magica atmosfera che la pioggia conferiva alla città. Partì dalla considerazione che il lato sinistro della via presenta ancora oggi le coperture negli attraversamenti pedonali, viceversa assenti sul lato destro, a causa del fatto che il Re e il suo seguito potessero raggiungere la chiesa della Gran Madre, situata oltre il ponte, percorrendo indisturbati il tragitto anche in caso di pioggia, fino a perdersi in un filo intricato di pensieri che non riuscì a identificare distintamente. La sua attenzione fu rapita dallo sferragliare di un tram sui binari e dalla presenza del cameriere che gli porgeva un vassoio su cui era poggiato un bicchiere a calice, pieno fino all’orlo della profumata e densa crema color giallo ocra. «Ecco dottore. Scusi se mi permetto, ma… è sicuro che vada tutto bene?» «A suo modo.» Rispose tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé, finché, rassegnato, il cameriere non tornò all’interno del locale. Finalmente solo. Intinto il cucchiaino, lo avvicinò alle labbra e avvertì l’olfatto e il gusto eccitati dagli intensi odori e dalle fragranze dolci e liquorose, esaltate dal gusto deciso del Marsala. Estasiato, rapito da ogni singola molecola di zucchero e alcol che lo allontanava da ogni pensiero, terminò rapidamente il suo zabaione e, pulito con golosa attenzione quanto restava nel bicchiere, si diresse alla cassa. «Era squisito», il dottor Riondini fece scivolare le monete sul bancone lucente, «come sempre.» «Grazie, dottore. E lei è gentile, come sempre.» «Ogni volta mi ripropongo di prenderne un altro…»


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«E io, ogni volta, glielo offro, ma lei rifiuta sostenendo che non si può cedere così spudoratamente alla golosità.» «Davvero sono così saggio? Non credevo davvero di essere una persona così di buon senso…» Sorrise, passandosi la mano sul mento squadrato. Ruotò su se stesso, osservando la splendida volta che ornava il locale, e imboccò lo stretto corridoio che portava fino alla toilette. Appoggiò il cappotto all’appendiabiti e chiuse la porta facendo scattare ripetutamente la serratura. Nel silenzio, seduto su un water, imprigionato in un flacone enorme di candeggina che non riusciva a coprire del tutto un penetrante odore di urina stantia, sfilò il rotolo della carta igienica che fece a pezzi e sparse sul pavimento fino a ricoprirlo totalmente. Chiuse gli occhi e, infilata la mano nella tasca interna della giacca, ne estrasse una pistola automatica che si portò alle tempie. Fece il segno della croce e cominciò a premere lievemente sul grilletto. Si bloccò per un istante, paralizzato da uno stupido pensiero. Non ho chiuso il gas. Non importa. Il boato dell’arma risuonò nel corridoio fino a esplodere con tutta la sua violenza nel locale, richiamando l’attenzione del giovane cameriere a cui, divelta con una possente spallata la porta della toilette, si presentò il macabro spettacolo di pezzi di cervello e cranio che, insieme a macchie di sangue, ornavano le piastrelle azzurre, colando su un cumulo di carta igienica perfettamente disposto. *** L’immagine di suo figlio, poco più che neonato, con la pelle bianca ed emaciata scavata da piccoli tubi che ne penetravano la superficie, col viso segnato da profonde occhiaie violacee, attaccato a un macchinario che ne assisteva la respirazione, era una lama incandescente che scavava nei pensieri e nello stomaco di Lorenzo Berti. Con la fronte poggiata a uno spesso vetro che si affacciava su una piccola sala di rianimazione, sfregava nervosamente le mani, passandole freneticamente sui blue jeans, mentre nella sua mente si addensavano una miriade di emozioni schiacciate dall’ingombrante peso della paura.


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Alle sue spalle, Sandra sedeva su una panchina di metallo, con il viso annegato nei palmi delle mani e il fisico minuto stritolato da una morsa tanto invisibile quanto tangibile. Sollevò il volto, offrendolo alla luce fredda e accecante dei neon, mostrando la pelle tesa e segnata, vibrante sotto le contrazioni involontarie della mascella. Un silenzio assordante, rotto solo dal costante suono che segnalava l’affaticato battito cardiaco di Gabriele, li avvolgeva, comprimendo le pareti lungo i corridoi attorno a loro e lacerandogli pensieri e anima. La paura, intensa e asfissiante, strisciava nelle vene, come un acido scuro che corrodeva sensi, speranza e pensieri. Lorenzo riprese a misurare il corridoio con passi lunghi e nervosi, per poi tornare a sedersi accanto alla sua compagna, stringendo nel suo palmo le mani gelide di lei. «Non ce la faccio più. Sono a pezzi. Non c’è nessuno che ci dica qualcosa. Che cazzo… e lui è lì dentro, da solo. Se almeno potessi stringerlo un po’, per fargli sapere, sentire che sono qui…» Riprese a singhiozzare, passandosi le mani sulle tempie, mentre Sandra lo stringeva con forza, poggiando la testa contro la sua. Rimasero immobili per qualche minuto, finché la loro attenzione non fu rapita dalla presenza di un medico che attraversava il corridoio, indifferente alla loro presenza. «Dottore…» «Sì?» Berti provò l’irrefrenabile desiderio di frantumare quegli zigomi che davano al volto del medico un’espressione di stupita sorpresa. «Siamo qui da ore. Mio figlio è chiuso in una stanza», con un gesto del braccio indicò la vicina sala per la rianimazione, «da solo. Ci hanno impedito di stare con lui. Nessuno ci dice niente. È possibile sapere qualcosa?» Riuscì a stento a frenare i suoi istinti, percependo, però, immediatamente il tono della sua voce vibrare in modo più duro e il volume alzarsi sensibilmente. Il dottor Pace svoltò lentamente l’angolo e si diresse fino all’ingresso della sala chiuso da una pesante porta in acciaio, piazzandosi di fronte allo specchio, osservando il respiro leggero di Gabriele. Un’impercettibile smorfia di sincera compassione gli si disegnò sul volto. Scrollò il capo, chiudendo gli occhi e sospirò, voltandosi verso i genitori che, ansiosi, lo osservavano, sperando di scorgere nei suoi occhi e di percepire nelle sue parole una necessaria speranza.


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«Purtroppo non sto seguendo io la questione. Mi informo. Vi prometto che vi farò sapere appena possibile.» «La prego…» Il medico si allontanò, scomparendo dietro una porta scorrevole, mentre Lorenzo accarezzava il vetro, seguendo con l’indice il profilo delicato del suo bambino. «Cosa succede se non ce la fa? Cosa succede se il suo cuore non regge? Cosa…» «Non dirlo. Non pensarlo nemmeno.» «Non ho avuto nemmeno il tempo di insegnargli a essere forte. A non arrendersi, a combattere. Non ho nemmeno avuto il tempo di essere padre…» «Basta, Lorenzo. Smettila. Prova, per un momento, a pensare a me, che sono qui fuori e sento ogni molecola della mia pelle urlare e tendere verso di lui, e non posso stargli vicino. Stringerlo. È tutto solo. Probabilmente avrà freddo. E se ha bisogno di me?» Lorenzo la abbracciò, avvolgendola con le braccia, respirando intensamente l’odore della sua pelle che sembrò concedergli qualche attimo di pace. «Ho paura di non poterlo più stringere tra le braccia.» Il dottor Pace si diresse verso la sala medica, mani nelle tasche, contando i passi, tecnica che da sempre utilizzava per rilassarsi, che lo separavano dalla stanza in cui lo accolse, con un sorriso distratto, un’infermiera di cui non ricordava il nome, ma famigerata per la passione e la disponibilità con cui praticava l’arte del sesso orale nei confronti dei colleghi e, saltuariamente, dei pazienti. «Dov’è la cartella del bimbo della 3A?» «Sulla scrivania, credo.» Il dottore afferrò la cartella poggiata vicino al monitor su cui capeggiavano le immagini di uno dei social network più diffusi e cominciò a esaminare le poche righe su cui erano riportati i referti dei diversi esami a cui il bimbo era stato sottoposto. «Merda.» «Già. Non è messo bene per niente. I colleghi lo danno quattro a uno.» «Chi lo sta seguendo?» «Parise, se non sbaglio.» «E sai dove posso trovarlo?» Mara osservò l’orologio digitale fissato a un angolo della parete e poi tornò a concentrarsi sul monitor del pc.


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«Mancano venti minuti alla fine del suo turno. L’ho visto scendere con Pisapia. Forse li trovi vicino agli spogliatoi, per un ultimo caffè.» Pace masticò amaramente le sillabe dell’ultima frase dell’infermiera e, dopo averla salutata con un cenno del capo, affrontò le scale che lo dividevano dalla macchina del caffè, tamburellando nervosamente sulla cartella clinica di Gabriele Berti. Svoltato l’angolo, cominciando a percepire nel vuoto del corridoio, l’eco della voce dalla cadenza fortemente pugliese del dottor Parise che si lamentava per un “rigore solare” a suo avviso non concesso durante la partita della sera prima, cominciò ad avvertire il fiato farsi più corto e il sangue pulsare con più forza. «Pisapia, non sei intellettualmente corretto. Sei prevenuto. Guardi tutto da una sola angolazione. Se inverti il colore delle maglie, cambi idea. Pace, anche se non capisci una mazza di calcio, diglielo anche tu.» Il dottor Pace si avvicinò al distributore automatico, inserendo qualche moneta nella fessura e attese il suo caffè senza zucchero, tenendo sollevata la cartella clinica di Gabriele, in modo che fosse visibile. Attese qualche secondo, finché non percepì distintamente una lieve smorfia disegnarsi sul viso del collega. «Parise, ti devo parlare del bimbo della 3A.» «Pace, guarda l’ora. Tra dieci minuti me ne vado. Devo andare a prendere Gaia e non posso fare tardi. Trovi tutto nella cartella. Esami», si allontanò di un passo verso l’ingresso degli spogliatoi, «ed esiti.» «Scusa collega, ma ci sono i genitori che aspettano da tre ore di sapere qualcosa circa la salute del bambino. Non credi che sia il caso di comunicargli qualcosa?» «Pace, lo sai bene come funziona. Mi terrebbero lì per ore, chiedendo, cercando di capire. Hanno perfettamente ragione, ma, purtroppo, oggi non ne ho il tempo. Appena arriva Renzi, ci pensa lui.» «Ci ho già parlato io. L’ho presa in carico io.» «Perfetto. Se non sbaglio», osservò il quadrante dell’orologio, «tu hai cominciato da poco più di un paio d’ore. Se va come deve andare, tutto sarà finito prima che tu vada a casa.» Il dottor Pace avvertì una fitta violenta alla bocca dello stomaco, come se un nemico invisibile l’avesse colpito a tradimento, spezzandogli ossa e respiro. Chinò il capo verso il pavimento, seguendo le linee che si intersecavano tra le piastrelle, fino a raggiungere i piedi incatenati nelle ciabatte nuove che gli dolevano leggermente, rimpiangendo la sua scelta di non aver affrontato quella discussione in movimento.


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Una sensazione di intenso calore gli sembrò incendiargli le viscere, mentre avvertì il sangue scorrere ribollendo nelle vene, arrossando la sua pallida carnagione. «Sei una merda, Parise. Te ne rendi almeno conto, o sei del tutto obnubilato dal tuo essere così stronzo?» «Pace, non c’è nemmeno il primario, non ti serve fare la tua classica sceneggiata. Si può sapere che cazzo vuoi?» «Non voglio dover comunicare a due genitori la possibile morte del figlio o i probabili deficit celebrali che potrebbe riportare in caso di sopravvivenza, al posto tuo. Hai lasciato quei due poveracci ad aspettarti per ore, perché avevi fretta? Ma non ti fai schifo? Quella cosa che la gente chiama coscienza, dove l’hai lasciata?» «A casa. Come avresti dovuto fare tu. Premesso che puoi andare a fare in culo, qui, per me, la coscienza non deve entrare. Come ti è già stato detto, questo è un lavoro. E, se me lo consenti, io penso di esercitarlo in modo impeccabile fino alla fine del mio orario di presenza che, se non ti dispiace e non hai niente in contrario, termina tra cinque minuti. Quindi, se la vostra maestà, non ha obiezioni, vado a cambiarmi.» Francesco Pace rimase in silenzio, con la bocca serrata in un ringhio sottomesso, mentre l’odore del dopobarba del dottor Parise si allontanava da lui, scomparendo dietro la porta dello spogliatoio maschile. Sospirò, tentando di spingere quell’ammasso di emozioni che gli attanagliava le viscere all’interno dello stomaco, contando sull’inutile aiuto dei succhi gastrici. Ripercorse rapidamente il tragitto appena compiuto, contando nevroticamente i suoi passi, e, nell’arco di qualche minuto, si ritrovò di fronte alla porta oltre la quale Lorenzo Berti e Sandra Brocchi aspettavano, ansiosi. Rimase totalmente immobile per un paio di secondi, tentando di abbassare il battito cardiaco e di regolarizzare il respiro, con gli occhi chiusi e la mano che sfiorava il pomello metallico della maniglia. Si passò il pollice e l’indice sulle orbite e sospirò. Ciak, si va in scena. Fronte poggiata sulle braccia, abbandonate sulle lunghe gambe, Lorenzo si voltò di scatto, sentendo il sommesso cigolio di una porta che si apriva alla sua sinistra. Rimase inchiodato in quella posizione, mentre una smorfia di sorpresa, gratitudine, ansia e paura gli deformava il volto.


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Si alzò, venendo superato da Sandra che si parò di fronte al medico, sfregandosi nervosamente le mani, osservando la cartella medica del figlio. «Dottore, allora?» «Vostro figlio ha avuto una grave crisi respiratoria con conseguente arresto cardiaco. Per il momento siamo riusciti a contenere il problema, ma è necessario tenere il bimbo sotto strettissima osservazione…» «Dottore, lei è padre?» «Scusi?» «Le ho chiesto se è un papà.» «Sì. Di Sofia. Una bimba di quattro anni.» «Allora, mi faccia una cortesia. Mi parli da genitore, oltre che da medico, e mi dica esattamente le cose come stanno.» Il dottor Pace si sfilò gli occhiali tondi e osservò il pavimento. I suoi piedi, istintivamente, cominciarono a formicolare. «La situazione di Gabriele è grave. Non credo, in tutta onestà, che supererebbe un’altra crisi cardiaca. E anche se dovesse superarla, dovremmo, purtroppo, accertare gli eventuali danni cerebrali che potrebbe aver riportato. Mi dispiace davvero. Abbiamo fatto il possibile, ma non dipende più da noi, ormai.» Berti crollò sulle ginocchia, disegnando nella mente del dottor Pace l’immagine di un bambino invisibile, goffo e malvagio, che, con le dita paffute si diverte a violentare il suo pupazzo preferito. Venne scosso da questa immagine, quando udì lo schiocco violento del palmo della mano di Sandra che si abbatteva sulla sua guancia. «No. Non è possibile. Non è giusto. Ci sarà pure un qualcosa da fare…» Le serrò il polso con forza, fissandola nei profondi occhi scuri. «Mi dispiace. Speriamo che il suo fisico sia forte abbastanza. Ora, se volete scusarmi, devo occuparmi di alcune cose. Ma vi prometto che tornerò presto.» Berti, con i palmi delle mani premute sulle orbite, venne ridestato da quel buio ipnotico e senza emozioni, dalla mano calda della sua compagna che gli sfiorava i capelli. «Non è finita. Non è detta l’ultima parola.» «Ti posso confidare una cosa terribile. Non so cosa sperare…» «Ma che cazzo dici?» «Come potrei guardarlo sapendo che non sarà mai più lui? Sapendo che non potrò mai vedere realizzate tutte le cose che ho sperato e sognato per lui? Con la consapevolezza di non poter più fare con lui, tutto quello che mi ha spinto a essere padre? Non credo di essere forte abbastanza. Ho paura. Ho bisogno di uscire un attimo da qui.»


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Uscì velocemente dall’ospedale, indifferente ai medici che lo osservavano. Uscì, mentre il sole autunnale cominciava a risvegliare la città. Rimase in uno stato di apparente catatonia, finché la sua attenzione non fu richiamata dalla vibrazione che, incessante, si produceva nella tasca dei suoi pantaloni. Afferrò il cellulare e lo osservò un momento, vedendo sul display il numero della redazione. «Direttore…» «Lorenzo, prima di tutto volevo sapere come sta andando. Ci sono novità?» «Non buone.» Cercò di nascondere una lacrima che con forza straordinaria si faceva strada scavando la sua pelle. «Sembra che la situazione sia grave. Ma non sappiamo ancora nulla di sicuro.» «Mi spiace Lorenzo. Sai che se hai bisogno di qualunque cosa sono a disposizione. Non volevo disturbarti, mi dispiace tanto.» «Nessun problema. Aveva bisogno di qualcosa?» «Lascia stare, Lorenzo. Non mi sembra proprio il momento.» «No, mi dica.» Percepì distintamente nella sua voce l’emozione spezzata dalle lacrime. «Volevo solo che sapessi per primo quello che è capitato questa notte. Padre Guratti è morto. Annegato nella sua vasca da bagno in seguito a un malore. L’ANSA sta per riportare la notizia. La morte del vecchio vescovo sarà rumorosa.» «Non capisco, non so…» «Non ci pensare. Cerca di essere forte. Andrà tutto bene. Dai un bacio anche a tua moglie. Un abbraccio. Mi raccomando, tienimi informato.» Il suono sordo della chiamata che terminava fu la sola risposta che ottenne. *** Su una scala esterna recentemente ultimata con una generosa porzione di colore arancione, Emanuela aspettava da quasi cinque minuti l’arrivo di quello che dalla notte appena trascorsa avrebbe presentato a tutti come il “suo ragazzo”, arrotolando sapientemente il tabacco all’interno di una cartina. Sbuffò una piccola nuvola di fumo grigio che si allontanò lentamente, mentre, stizzita, osservava le lancette rincorrersi velocemente sul quadrante dell’orologio, seguendo con lo sguardo il profilo della collina che si alzava tra le nubi basse e cariche di pioggia.


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Infilò la mano candida all’interno del golf di lana in perfetto stile fine anni Sessanta e ne estrasse una lettera scritta di getto prima di riuscire, faticosamente, a prendere sonno. Rilesse con passione e malinconia le emozioni descritte, percependo sulla pelle e nell’anima la gioia e il piacere che il loro primo rapporto sessuale le aveva regalato. Probabilmente, era stata la prima volta in cui aveva davvero fatto l’amore con qualcuno. Sesso, ma condito di un amore primitivo, unico e autentico. Rilesse più volte la frase in cui confessava, timidamente, i propri sentimenti, ritrovando sotto i polpastrelli le lacrime di gioia che aveva versato, pentendosi immediatamente, osservando nuovamente l’orologio, di ogni pensiero provato, di ogni emozione, maledicendo la propria debolezza fino ad allora celata, la propria stupidità che l’aveva fatta vacillare, fino al punto di fidarsi, fino al punto di concedere qualcosa di più puro e importante del suo corpo. Tenne quel piccolo foglio di carta sospeso nel vuoto, auspicando un colpo di vento che vincesse la sua inconscia resistenza, quando alle sue spalle la porta a vetri si spalancò, regalandogli il sorriso sincero di Mattia che, senza dire una parola, la strinse con forza tra le braccia, baciandola con tutta la dolcezza di cui era capace. Emanuela vibrò leggermente, poi lo colpì con dolcezza alla bocca dello stomaco. Lo guardò negli occhi, sorridendo, e accennando all’orologio. «Scusa il ritardo, ma quella bastarda della Casalegno ci ha inchiodati in classe per terminare una delle sue mirabili analisi di poesia. Oggi abbiamo massacrato Leopardi. Abbiamo concluso che “L’infinito” non è altro che una, cito testualmente la stronza, “poesuola su cui dire quattro parole”. C’è gente che le ha dedicato librerie intere. Io, nel mio piccolo, uno spazio sul muro… che cos’hai lì?» «Una cosa per te, ma leggila quando sono andata via. Come ti senti?» «Benissimo», la baciò dolcemente sulle labbra, «anche se stanotte mi sei mancata.» «Anche tu.» Si fissarono per qualche secondo, cercando l’una negli occhi dell’altro conferme e promesse. Il trillo insistente della campanella che indicava la fine dell’intervallo e la ripresa delle lezioni li risvegliò da quel momento di totale intimità.


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«Sono a casa da sola oggi pomeriggio. Mi vieni a trovare? In realtà, potresti venire direttamente da me. Pranziamo insieme, poi», un bacio, «vediamo cosa fare…» «L’idea mi stuzzica. Se non avessi lezione con “la nana” ti chiederei di uscire adesso.» Imboccarono rapidamente il corridoio che li avrebbe riportati alle rispettive aule. «Non potrei, ho filo e sono un po’ indietro sul programma. Ma è davvero come dicono in giro?» «Chi, la nana? Spettacolare. Mai sentito, anche in altre scuole, o da amici, di un insegnante di religione che ha l’aula piena a ogni lezione. Lezione in cui tutti», sottolineò con una profonda flessione della voce il suo concetto, «seguono e partecipano. È un mostro. Sa tutto. Ci spiega cose che non avrei mai pensato di sentire in una scuola. Da un’insegnante di religione, poi… non rinuncerei a una sua lezione per niente al mondo», sfiorò con le labbra quelle rosa e delicate di lei, «o quasi.» «Devo essere gelosa?» «No. Per “la nana” ho l’amore puro di Dante per Beatrice, per te…» «Mercuri, mi entusiasmano e mi lusingano le sue parole, ma forse è il caso che lei venga con me in classe e lasci andare questa», sollevò il mento e inspirò profondamente l’aria circostante, «bella ragazza.» Mattia piantò istintivamente lo sguardo nelle piastrelle e arrossì vistosamente. «Subito professoressa, la precedo.» Salutò Emanuela con un cenno del capo e svoltò rapidamente l’angolo per entrare nella sua classe, seguito, a breve distanza, dai passi sorprendentemente sicuri dell’anziana e ingobbita professoressa che, preceduta da un sottile bastone bianco, si muoveva sicura nel corridoio. All’ingresso in classe, gli studenti scattarono in piedi, mentre la professoressa Lucilla Bruni Orsini si accomodava sulla sedia, schivando uno zaino abbandonato in mezzo all’aula. «Chi è assente, Miceli o Lamberti?» «Lamberti, professoressa.» «Porvia, fammi una cortesia. Togli quello zaino e sistemalo meglio. Mica vogliamo che qualche insegnante distratto non lo veda e si faccia male.» Brevi rumori di assestamento, di penne che tintinnavano impazienti sui banchi, poi sull’aula scese un silenzio innaturale. Quasi religioso. A Mattia, sembrò perfettamente logico.


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«Mercuri, visto che in questi giorni mi sembra in grande forma», qualche maliziosa risata si sollevò tra i banchi, «aiuta questa povera vecchia a ricordare dove eravamo arrivati.» «La volta scorsa abbiamo terminato il percorso che ci ha permesso di capire quali siano state le ragioni storiche e sociali che hanno portato a una così capillare diffusione del Cattolicesimo e della Bibbia…» «Sacra Bibbia.» «Sacra Bibbia, nella società occidentale.» «E cosa abbiamo concluso?» «Che, indipendentemente dal credo personale che non ci interessa prendere in considerazione, ci sono alcuni aspetti fondamentali che non possiamo non considerare. Innanzitutto, sbagliando, noi continuiamo a considerare il testo in questione come unico, quando, invece, si tratta di due testi sensibilmente diversi, nelle tematiche e nell’approccio, redatti in periodi storici distanti.» «Nello specifico?» «La redazione dell’Antico Testamento è terminata nel 400 a.C. più o meno. Con una stesura che può approssimativamente essere considerata di circa mille e trecento anni. Quella del Nuovo Testamento è da datarsi all’incirca nel primo secolo dopo la nascita di Cristo. È ovvio, quindi, che il contesto in cui i testi sono stati scritti era profondamente diverso, come dimostra anche l’idea di fondo che li caratterizza: un Dio violento, irascibile e vendicatore, lascia spazio a un Dio che invia sulla terra un figlio divino, ma umano, e misericordioso. Che si sacrifica per la salvezza dell’uomo. Non si può, inoltre, non prendere in considerazione la figura che la donna assume all’interno del Nuovo Testamento. Si passa dalla donna peccatrice e ammaliatrice a una vergine pura che genera il figlio di Dio.» «Bene. Rimaniamo in zona. Pugliese, cosa aggiungiamo?» «Che la forza… come si dice…» «Evocativa.» «Evocativa delle immagini è molto forte. La separazione classica e filosofica tra bene e male, viene spostata su un piano molto più concreto. Fuoco e pace sono la punizione e il premio. La condanna e la ricompensa. In un mondo di paglia, legno e terra, in cui certo non erano presenti pompe idrauliche», sorrise istintivamente, ricordando il soprannome che il fraterno compagno di banco aveva assegnato a una compagna di classe, «il fuoco era da considerarsi un nemico temibile e concreto che, probabilmente, aveva distrutto diverse famiglie. Ardere per l’eternità rappresentava una minaccia concreta e conosciuta. La pace come premio nella vita oltre la morte rappresentava certo qualcosa di estremamente allettante.» «Durante, perché proprio la pace?»


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«Per le condizioni socio-politiche. Un mondo in cui un governo straniero ti impone la sua legge, ti schiavizza e ti sfrutta, è un mondo in cui la pace rappresenta, certo, un bene prezioso. E poi c’è da considerare la totale inconsistenza del premio finale. La pace oltre la morte è un premio che ritira solo chi ha fede, ma che non ha concretezza. E, proprio per questo motivo, la fede cristiana è stata abbracciata dai governanti. Dava loro controllo su un popolo vessato.» «Forse persino orgoglioso della propria sofferenza. Un popolo disposto a porgere continuamente l’altra guancia. È come se il boia, prima della decapitazione, guardasse il condannato dicendo: Non essere triste. Sorridi. Ti sto regalando un mondo migliore. È, perlomeno, paradossale. Bene, signori. È un piacere constatare che non parlo solo al vento. Oggi, invece, vorrei cominciare ad analizzare le caratteristiche e il simbolismo che si celano dietro la figura di Gesù Cristo. Ricordatevi, come non mi stancherò mai di ripetere, che non vogliamo mettere in dubbio questioni di fede personale che sono assolutamente private ed estranee al nostro corso di studi. Quello che ci interessa è capire quali siano state le motivazioni che hanno portato alla presentazione al mondo di questo Gesù Cristo, fermo restando, come tutti dovreste sapere che le sue caratteristiche divine sono da attribuirsi alle decisioni del concilio di Nicea, trecentoventicinque anni dopo la sua morte. In più, è interessante constatare che dovremmo parlare di presunta morte, non tanto in ottica resurrezione, ma quanto per il fatto che, nonostante il pensiero comune, a oggi non risultano prove concrete e inequivocabili della vita e della realtà storica di Gesù Cristo. Non c’è uno storico del suo tempo che ne abbia parlato, un riferimento, un resoconto che abbia certificato la vita di un uomo in grado di muovere la più imponente rivoluzione filosofica e sociale della storia. «Se partiamo da questo presupposto e se la vita di Gesù Cristo rappresenta una mirabile iperbole, se è un’allegoria, noi dovremmo trovare delle similitudini in altre religioni pre-cristiane, in altre parti del mondo e dovremmo chiederci, in realtà, cosa l’immagine del Cristo rappresenti. Perché ha suscitato così grande successo? Quali sono le caratteristiche che lo rendono così appetibile e necessario? Qualche idea? Cosa lo rende unico, invece?» «La sua discendenza diretta da Dio, la sua resurrezione?» «Sono le prime cose che vengono in mente, Marin, sono le più comuni. Ma, inaspettatamente, sono presenti nella maggior parte dei personaggi delle diverse religioni. Ci sono studiosi che sostengono che Horus, dio del sole egizio, venerato circa tremila anni prima di Cristo, ad esempio, sia nato il venticinque dicembre da una vergine di nome Isis-Meri.»


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Un attimo di silenzio. «La sua nascita, annunciata dal passaggio di una stella, fu presenziata da tre re che gli offrirono doni. A dodici anni era un insegnante. Si perdono le sue tracce fino a quando, a trent’anni, viene battezzato e comincia il suo ministero. Vi vedo perplessi, ma le coincidenze non finiscono qui. Horus aveva dodici discepoli con i quali viaggiava, ed era celebre per i miracoli compiuti, attraverso i quali guariva i malati e camminava sulle acque, che gli valsero i soprannomi di “agnello di Dio” e “buon pastore”. Per rendere omaggio alla più comune tradizione, come forse qualcuno di voi ha intuito, dopo essere stato tradito, Horus venne crocifisso, e, dopo tre giorni, risorse. Senza scendere nello specifico, vi posso garantire che esistono decine di divinità mitologiche che sono contraddistinte dalle stesse caratteristiche e tutte precedenti alla nascita di Cristo.» «Quindi, professoressa, se non ho capito male, ci sta dicendo che c’è un qualcosa di primordiale, di collettivo, cui tutte le religioni fanno riferimento?» «Mercuri, le ho già detto che in questo periodo è decisamente brillante. Cominciamo ad analizzare punto per punto, la vita di Gesù Cristo. La sua nascita cade il venticinque dicembre, anticipata dal passaggio di una cometa seguita dai tre re magi. C’è una chiave di lettura astronomica per questa datazione. Sirio, la stella più luminosa dell’est, il giorno prima della supposta nascita di Cristo, si allinea con le tre stelle della cintura di Orione che, il caso vuole, vengano chiamate “i tre re”. Inoltre, il giorno venticinque i “tre re” e Sirio si allineano perfettamente nel punto in cui sorge il sole. Una coincidenza? Può essere. Come può essere una coincidenza quanto accade tra il solstizio d’inverno e il venticinque dicembre. Infatti dal solstizio d’estate a quello invernale i giorni diventano più corti e più freddi, e, dalla prospettiva dell’emisfero nord, il sole appare muoversi verso sud e diventare sempre più piccolo e debole. Il sole, continuando nel suo movimento verso sud per sei mesi, arriva nel suo punto più basso il giorno ventidue in cui sembra smettere di muoversi, almeno per l’occhio umano, per tre giorni, durante i quali resta in prossimità della costellazione Crux, la Croce del Sud. Dopo questo periodo, infine, il sole riprende a muoversi verso nord, facendo presagire giorni più lunghi e il ritorno della vita e delle messi.» «Ma scusi, professoressa, in sostanza ci sta praticamente dicendo che il sole muore sulla croce, se non ho capito male. In quest’ottica anche i dodici apostoli, non possono essere legati ai segni zodiacali?» «Assolutamente sì. Se partiamo dal presupposto che Gesù è il sole, i discepoli possono certamente rappresentare le dodici costellazione con cui il


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sole viaggia. In effetti, è davvero rilevante l’importanza del numero dodici all’interno della Sacra Bibbia.» «Professoressa, le posso fare una domanda? Ieri stavo seguendo una trasmissione in cui affrontavano un argomento simile a questo, spostando però l’attenzione sul discorso delle ere e sulla precessione degli equinozi. Ma non ho capito granché…» «Ci arriviamo. Innanzi tutto, qualcuno sa spiegarmi cosa sia la precessione degli equinozi? Carodi?» «Sì. Se non sbaglio è un fenomeno astronomico conosciuto già dai tempi antichi con cui si indica lo spostamento dell’asse attorno al quale la Terra compie la rotazione giornaliera.» «Esatto. Ogni duemilacentocinquant’anni, il sole si sposta in corrispondenza di un diverso segno dello zodiaco. Il tutto è causato dalla rotazione angolare che la Terra effettua non essendo perfettamente sferica ed essendo attratta dalla gravità del sole e della luna. Aggiungo inoltre che è chiamata precessione dal momento che le costellazioni si susseguono in modo contrario rispetto al normale ordine dell’anno. Ogni fase di questo movimento è chiamata era. Anche le ere, inutile dirlo, sono simboleggiate in modo evidente all’interno della Sacra Bibbia. Che atto compie Mosé quando scende dal monte con le tavole?» Un attimo di silenzio regnò sull’aula. «Forza, ragazzi, voi che potete, l’avrete ben visto “I dieci comandamenti”. Con Charlton Heston seminudo per buona parte del film.» Da una delle ultime file si alzò una voce caratterizzata da una erre decisamente arrotata. «Distrugge le tavole lanciandole sul vitello d’oro e invita il suo popolo a uccidersi a vicenda per potersi purificare.» «Meraviglia. Se riusciamo a far parlare anche lui, siamo sulla buona strada. Giusto. Credo che non vi stupirà sapere che la prima era è quella del Toro e che questa è terminata nel 2150 a.C.. Si è passati, in seguito, all’era dell’Ariete, che ha il suo alfiere in Mosè ed è simboleggiata, ad esempio, dal fatto che ancora oggi il popolo ebraico è dedito a suonare il corno di Ariete. Da notare che anche in altre culture è presente la simbologia dell’uccisione del toro o del vitello. Dal primo anno dopo Cristo, un’altra curiosa coincidenza, entriamo nell’era dei Pesci e credo sia innegabile constatare tutta una serie di legami tra Cristo, il pescatore, che moltiplica i pesci, che ha come primi discepoli due pescatori, e la costellazione in questione. La mitra, il copricapo del Santo Padre vi ricorda per caso una testa di pesce? Se sì, avete ben presente la sua forma. Ricordate il simbolo che abbiamo visto, attraverso il quale i cristiani erano soliti riconoscersi e che disegnavano sulla


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sabbia. Due linee ondulate che unite ricordavano chiaramente un pesce. Ma il passo, che a mio avviso, indica al meglio la lettura astronomica della vita di Cristo è riportato in Luca, 22-10. Quando i discepoli chiedono a Gesù dove si preparerà la Pasqua dopo la sua morte, questi rispose: “Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà.” «Immagino che alcuni di voi, a questo punto, abbiano già supposto che la costellazione in cui entrerà il sole dopo quella dei Pesci è quella dell’Acquario. Siamo prossimi alla fine dell’ora. Riassumiamo in pochi punti quanto detto, poi lo vedremo nel dettaglio la prossima settimana. Mercuri, oggi è la mia vittima sacrificale, mi regala l’ultima soddisfazione della giornata?» «È difficile riassumere quanto ci ha spiegato. Da quanto emerso possiamo affermare, in estrema sintesi, che la religione cristiana appare come una parodia perfettamente riuscita del culto del sole, in cui, al posto di una stella, l’ingegno cattolico ha inserito una figura molto più vicina e compassionevole: Gesù Cristo. Il suo successo potrebbe essere proprio dovuto a questo. È un’immagine talmente radicata e necessaria per l’uomo che è impossibile non restarne affascinati.» «Decisamente una chiusura tagliente, su cui possiamo, in linea di massima, essere d’accordo. Ve lo ripeto per l’ennesima volta. Ciò che ci interessa non è screditare, ma capire su quali basi, allegorie e immagini si basa la nostra religione. Vi auguro una buona settimana, signori. State bene.» La frase della professoressa Bruni Orsini terminò nell’esatto momento in cui il suono della campanella si diffuse nei corridoi del vecchio liceo classico. Gli alunni si alzarono guardandosi perplessi ancora una volta a distanza di anni, tentando di comprendere i delicati meccanismi di una mente così sorprendente. Nel giro di qualche istante, l’aula si svuotò completamente. L’anziana professoressa inspirò l’aria circostante, immaginando i volti dei suoi alunni, percependone ancora gli odori nell’aria e infilò una mano nella borsa grigia. Estratto e acceso il cellulare, un suono insistente la avvertì che la sua segreteria telefonica conteneva un messaggio memorizzato. Digitò il numero e attese in silenzio, tamburellando nervosamente con le dita. Dopo qualche secondo, ripose con cura il cellulare all’interno della borsa e col suo caratteristico incedere, curvo e deciso, si diresse verso l’ascensore che la portò immediatamente all’uscita dell’istituto.


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Ferma al semaforo – in prossimità della fermata dell’autobus era solita aspettare per qualche minuto in compagnia di alcuni alunni – si voltò, regalando al suo volto scavato dalle rughe il beneficio di un timido e solitario raggio di sole che filtrava tra le nubi. L’autista dell’autobus della linea 42 che giungeva a velocità sostenuta tentando di evitare l’ennesimo semaforo rosso, non ebbe nemmeno modo di sfiorare il pedale del freno. Il corpo esile della professoressa fu sbalzato prepotentemente sull’asfalto, spezzato da centinaia di tonnellate di acciaio e lamiera. L’ultimo suono che la professoressa udì, furono le grida di terrore di un gruppo di studenti che si accalcava attorno a lei. *** )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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