L'isola Qui è ovunque

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Disponibile anche: Libro: 14,50 euro (dal 16 dicembre 2011) e-book (download): 8,99 euro e-book su CD in libreria: 8,99 euro

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Collana SELEZIONE Serie BIG‐C con Audio Grandi Caratteri con audiolibro allegato La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del ca‐ rattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (generalmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in particolare a letto‐ ri con problemi visivi (ipovedenti). La serie Big‐C Audio, Grandi Caratteri con versione vocale alle‐ gata (audiolibro su CD), oltre ad agevolare la lettura tradizionale grazie al carattere ad alta leggibilità e grandi dimensioni, è rivolta in particolare a persone non vedenti o con problemi di dislessia, che possono quindi ascoltare il racconto anziché leggerlo. Preci‐ siamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commer‐ cio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimen‐ ti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comun‐ que molto bene allo scopo. La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice. Gli audiolibri allegati, offerti a scopo promozionale e realizzati in collaborazione con l’Associazione Servizi Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole. Grazie a una particolare e rivoluzionaria iniziativa, JukeBook, i CD allegati ai libri possono essere scambiati con altri CD presso i Ju‐ keBook Point autorizzati.


All’interno del CD sono presenti tutti gli approfondimenti sull’argomento. www.jukebook.it www.0111edizioni.com


CARLO ZAMPARELLI

L’isola Qui è ovunque Romanzo breve

Serie Big‐C Audio Grandi Caratteri con audiolibro www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com L’ISOLA QUI È OVUNQUE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Carlo Zamparelli

ISBN: 978‐88‐6307‐xxx‐xx In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011 da Logo srl Borgoricco ‐ Padova

Quest’opera è esclusivamente frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone esistenti, esistite o a fatti accaduti è da intendersi puramente casuale.


Parabola Dei pescatori tirarono fuori dagli abissi una bottiglia. Dentro c’era un pezzo di carta con scritte queste parole: “Aiutatemi! Sono qui. L’oceano mi ha gettato su un’isola deserta. Sto sulla sponda e aspetto aiuto. Fate presto. Sono qui!” «Non c’è data. Sicuramente ormai è troppo tardi. La bottiglia può aver galleggiato in mare per molto tempo.» disse il primo pescatore. «E non c’è indicazione del luogo. Non si sa neanche quale oce‐ ano sia.» disse il secondo pescatore. «Non è né troppo tardi, né troppo lontano. L’isola Qui è ovun‐ que.» disse il terzo pescatore. Seguì una sensazione di disagio, calò il silenzio. È quel che ac‐ cade con le verità universali. Wislawa Szymborska – Da “La gioia di scrivere ‐ Tutte le poesie (1945 – 2009)” Adelphi 2010 – Traduzione di P. Marchesani



Capitolo 1 L’unica cosa che le figlie del dottor Modica avevano in co‐ mune era che a decidere per loro era stata la guerra. Due anni le separavano, ma molto più distanti si ritrovarono quando, passata quella follia, nulla tornò come prima. Concettina, la figlia minore, nel 1941 aveva diciotto anni e, fin da ragazza, aveva manifestato simpatia per un compa‐ gno di liceo. Giorgio aveva iniziato gli studi in giurisprudenza e sperava così di evitare gli obblighi militari; i due ragazzi avevano progettato di sposarsi non appena lui avesse con‐ seguito la laurea. Concettina aveva un carattere così mansueto e teneva tan‐ to all’approvazione dei suoi che gioiva nel vedere il padre accogliere a casa il suo Giorgio. Solo con la sorella, quando le confidava i suoi sogni, provava qualche dissapore. «Perché vuoi legarti così in fretta?» le diceva Mimì. «Non di‐ co per la laurea o il lavoro… ma la guerra… non si sa mai cosa può succedere e tu sei così giovane che potresti dan‐ narti per tutta la vita. Pensaci Concettina, hai tutta la vita davanti.» «...tutta la vita» sospirava Concettina «ma che vita sareb‐ be?»


«Non ti capisco proprio, una ragazza così bella come te… magari lo fossi io… credi che avrebbe difficoltà a trovare il suo principe azzurro?» «Ma io l’ho già trovato» piagnucolava Concettina «e finiscila con questa storia che io sono la più bella e che mi basta un fischio per far cadere chiunque ai miei piedi. Queste sono cose che sai fare tu… io e Giorgio siamo diversi… siamo come…come…» «Come due ragazzini capricciosi.» faceva Mimì con aria sac‐ cente. «Come due ragazzini che neanche immaginano cosa voglia dire rovinarsi il futuro. Sii sincera, chiediti se questa non è piuttosto un’infatuazione; cerca di vederti fra vent’anni.» Concettina ribatteva: «Veramente a me sembra di stare a dannarmi già ora. Non capisci che è tutta la mia vita? L’avrei già sposato, ma almeno la laurea e un lavoro ci vuole… per il resto se ci penso troppo finisce che lo perdo veramente. E poi… poi… la Madonna mi aiuterà, lo sento.» Mimì, che si era sempre piccata di maggiore esperienza di vita, a quel punto troncava la discussione con un’alzata di spalle e con i suoi soliti motti: «Sì, la Madonna, certo… mi sembra di sentir parlare la mamma. La tua mi sembra paura di scegliere, paura di vivere. Forse non cerchi la protezione della Madonna ma l’assenso di chi so io… Maria, Ma‐ ria…Madonnuzza mia… direbbe lei. Non è così?» «Almeno non offendere la Madonna.» E per qualche giorno si ignoravano ed evitavano di rivolgersi la parola.


Avendo frequentato lo stesso liceo, a Siracusa, avevano molti amici in comune ma era sempre Mimì a trascinare Concettina fuori casa. Mimì si era diplomata e frequentava l’università di Catania; diceva che voleva essere indipenden‐ te, che Siracusa era un povero paese dimenticato da Dio e dagli uomini e che con la laurea in lettere avrebbe presto coronato il suo sogno di fare la giornalista in giro per l’Italia. Concettina la ascoltava ma non comprendeva tutta quella frenesia di vivere. Inizialmente, forse, in quel confronto si era sentita inadeguata e scontenta, ma da quando il suo Giorgio non era più un semplice compagno di scuola, aveva capito che quella di Mimì era solamente una fuga da una camuffata insoddisfazione. Alle feste Mimì conosceva sempre tutti e, mentre Concetti‐ na si appartava con Giorgio, lei godeva a farsi desiderare dai tanti giovanotti che la circondavano. La sera a casa diceva di aver trovato il suo amore ma poi, quando quel ragazzo par‐ tiva per gli obblighi militari, si dava subito da fare per rim‐ piazzarlo come se si cambiasse d’abito. La guerra, per la gioventù di Siracusa, in quegli anni era ancora una cosa lon‐ tana e Mimì non era disposta a lasciarsi intristire. «È proprio l’incertezza del futuro che ci deve spingere a non avere remore nel vivere giorno per giorno.» Diceva così a tutti ma specialmente a Concettina quando la vedeva so‐ gnare, paga del proprio amore. «E poi chi l’ha detto che per essere felici è necessario sposarsi?» Concettina non aveva mai avuto passione per lo studio e aveva a fatica raggiunto il diploma. Finalmente soddisfatte le aspettative altrui, si apprestava a vivere mettendo da par‐


te ogni dubbio che la potesse allontanare dai suoi progetti con Giorgio. Con Giorgio accanto, Concettina era sicura di poter sfidare qualsiasi avversità. Era così piacevole stare con lui e ascol‐ tarlo quando parlava dei suoi sogni, che si era lentamente costruita un mondo di sicurezze che neanche il destino a‐ vrebbe potuto demolire. La fantasia di Giorgio, il suo estro e il suo ottimismo l’avevano stregata ormai da molto tempo. Quando, dalla marina, sulla riva opposta del golfo, guarda‐ vano il tramonto, lui, aggiustandosi il ciuffo di capelli che nell’abbracciarla finiva sempre per venir giù, indicava il sole che spariva lento e le diceva che un giorno avrebbero abita‐ to su quelle colline, in una casa illuminata da tante lampade calde e avvolgenti come il sole. Le avrebbe accese lui, una per una, e il loro amore le avrebbe alimentate per tutta la notte. Giorgio la portava dove nascevano i papiri, una giungla di steli alti e sottili dai quali, lungo infiniti fili chini sull’acqua, piovevano piccole e appassite infiorescenze: tante quante, se lei non fosse esistita, sarebbero state le lacrime che a‐ vrebbe versato. «E poi sai che farei con questi giunchi?» le chiedeva. «Li in‐ treccerei per costruire una barchetta e ti verrei a cercare per tutti i mari, gli anfratti e gli scogli dello Ionio. Sei la mia Aretusa; nessun’isola, neanche la più sperduta, ti potrà se‐ parare da me.» «E tu il mio Alfeo.» Rideva lei divertita, e dimenticava tutte le apprensioni. «Vorrei saper disegnare per farti più bella di Aretusa» diceva Giorgio «più bella di quella che è nella fontana della piazza.»


Giorgio si dilettava a scrivere qualche novella e qualche po‐ esia che non aveva mai mostrato a nessun altro se non a Concettina. Quando voleva distogliersi dalla noia dei suoi studi la evocava, bella come una ninfa, in tutti i posti segreti dove si erano scambiati baci e promesse. Poi scribacchiava qualcosa e aspettava il pomeriggio per poter far dono alla sua musa di quelle parole d’amore. «Mi piacciono proprio le tue storie.» disse lei una sera men‐ tre Giorgio la riaccompagnava a casa. «È come averti sem‐ pre accanto. Ieri ho letto quella del gabbiano solitario e poi quell’altra… quella della bambina che non voleva leggere. Ma dove la trovi tutta questa fantasia? Una mia amica dice che potresti pubblicarle e ricavarci qualcosa, così magari noi…» «A chi l’hai fatta leggere?» la interruppe Giorgio, con fasti‐ dio. «No, niente… solo…» «Non scrivo per gli altri. Sono cose personali, mie, e solo tu le puoi leggere. Non mi piace che racconti queste cose alle tue amiche. A tua sorella, poi… figuriamoci…» «Scusami, Giorgio, non volevo dispiacerti… lo sai anche tu che non desidero altro che quel giorno. Sapessi quante pre‐ ghiere alla Madonna. A volte mi sembra un sogno troppo bello.» E quel sogno si infranse, quando, per la campagna di Russia nel 1941, Giorgio fu chiamato alle armi. Era destinato a Roma alla scuola allievi ufficiali di artiglieria per poi partire a luglio, da sottotenente, con la divisione Pasubio.


Capitolo 2 Inutilmente Concettina cercò aiuto presso il padre che, con le conoscenze che aveva, avrebbe potuto chiedere al Fede‐ rale o al Prefetto di intervenire, nella speranza di una diver‐ sa e più tranquilla destinazione per Giorgio. La Russia, come tuonava il prete nelle prediche domenicali, era una terra di barbari vendicativi e sanguinari. Il dottor Modica non comprendeva come la figlia potesse anteporre un interesse privato al dovere, cui proprio la bar‐ barie di quel popolo chiamava. Ci sarebbero voluti ancora morti, lutti e tradimenti affinché lui, messo di fronte all’evidenza di una catastrofe e alla superbia di un regime, potesse poi cambiare parere. Quella volta, quindi, si rifiutò di ascoltare le preghiere della figlia, tornando per l’ennesima volta a ricordare che anche lui aveva fatto il pro‐ prio dovere nella grande guerra. Era anche inutile chiedere aiuto alla sorella. Era maggio e Concettina, spinta dai suggerimenti di qualche amica, si rivolse allora a donna Maruzza che, si diceva, pote‐ va prevedere il futuro e quindi l’avrebbe potuta consigliare. Una mattina andò a trovarla nella casa dove lei ogni giorno riceveva tanta povera gente da ogni parte della provincia. Nel quartiere tutti la conoscevano come la maga e non era


infrequente vedere qualche affaticata vecchietta che, pas‐ sando davanti a quella casa, si segnava veloce la fronte. Abitava nell’ultimo quartiere periferico della città, dove co‐ minciava, allora, una campagna sassosa e riarsa dal sole. La sua era una vecchia fattoria che, con l’aiuto di una sorella ma principalmente con i soldi che ricavava da quella attività, aveva trasformato in una decente casa di abitazione. Per raggiungere quel quartiere Concettina oltrepassò il ponte che univa l’isola di Ortigia alla terraferma e si incam‐ minò sicura di sé per le nuove strade che il regime aveva ini‐ ziato a costruire oltre il porticciolo dei pescatori. Si voltò in‐ dietro a guardare la parte vecchia della città alle sue spalle; quel paesaggio marino l’aveva affascinata fin da bambina, quando disegnava sotto un cielo turchino tante case che parevano galleggiare fra i flutti del mare. Quella era la sua isola; in una di quelle case aveva passato tutta la sua vita e ogni volta che attraversava il ponte le sembrava di avventu‐ rarsi in una terra straniera dove nessuno l’avrebbe capita. Erano le prime ore di una limpida e tiepida giornata, le ore in cui tradizionalmente gli uomini si recavano al mercato del pesce per la spesa quotidiana. Non aveva detto a nessuno dove stava andando, neanche a Giorgio, e camminava velo‐ ce con la testa bassa per paura di incontrare, in quell’andirivieni di sfaccendati, qualche conoscente di fami‐ glia. Era una bella ragazza, dai capelli castani e gli occhi grigi, con un portamento sciolto e grazioso che era qualcosa di più del solito incedere di una diciottenne. Sapeva di attirare su di sé lo sguardo di tanti giovanotti e anche per questo tirava drit‐ to per la sua strada.


Oltrepassò quella che si chiamava “la borgata” e in breve si ritrovò dove l’asfalto lasciava il posto alla terra battuta di antiche strade campestri. Sulla sinistra di via Grottasanta ri‐ conobbe, da come gliela avevano descritta, la casa della maga. Ebbe un attimo di tentennamento; si volse attorno a cercare conferme alla sua decisione e solo i raggi di sole che la colpivano alle spalle, riflessi dalle vetrate dei palazzi schierati sull’isola lontana, la spinsero a entrare. Donna Maruzza fece accomodare Concettina in una stanza che sembrava una cappella. Accanto a una statua della Ma‐ donna con il rosario che pendeva dalle mani giunte, vi erano delle teche con piccole croci arrugginite, ampolle con scuri liquidi raggrumati e scapolari di tutti i tipi. Su una parete la‐ terale una mensola conteneva una fila di vasi di coccio con misteriosi simboli tracciati con vernice rossa. La donna, dai modi spicci, si sedette a un tavolino al centro della stanza, sistemandosi un grembiule bianco che teneva allacciato sotto due enormi seni. Poteva avere all’incirca una quarantina di anni e mostrava, nel viso e nell’abbigliamento, tutto il guasto di una vita contadina che, nonostante l’aria ispirata che si voleva dare, veniva prepo‐ tentemente fuori. Come gli elastici delle calze che, una volta seduta, si intravedevano poco sopra il ginocchio di due toz‐ ze gambe. «La vita è precisa precisa come all’amore.» iniziò a dire. «Vedi la Madonna quanto amò suo figlio? Tu, povera Con‐ cettina, figliuzza mia… ora vediamo…» Fattasi dire qualcosa su Giorgio, stese su una vecchia tova‐ glia unta un mazzo di carte e tutta assorta, muovendo im‐


percettibilmente le labbra, vi faceva oscillare sopra un pen‐ dolo ricavato da un frammento di osso. «Vedo che l’amore tuo è forte assai. E anche lui ti ama…è un bravo picciotto…» «Per carità, donna Maruzza… ditemi che succederà al mio Giorgio.» «La Madonna santissima dice che il vostro amore è tanto grande, ma che però…» «Però cosa?» la interruppe Concettina, gemendo. «Dice che l’amore, però, benedetto deve essere e che tu devi portare tanta pazienza. Maritatevi, subito, prima che lui parte. Un amore così forte lo protegge sicuro. Lo vedo, lo vedo nel cuore della Madonnuzza santa: la forza dell’amore e la benedizione di lei lo fa tornare sano. Così disse.» Concettina scoppiò in un pianto sconsolato. Vedeva Giorgio già lontano da lei, la sua solitudine, la casa di città a lutto, il tempo che correva veloce, il padre che non avrebbe mai permesso quel matrimonio così affrettato. «Cosa dovrei fare, per favore, donna Maruzza?» supplicò fra le lacrime. «Devi maritarti, ora, prima che parte. Illibata devi essere e illibata lo devi aspettare quando torna. La Madonna Vergine e santissima dice che questo sacrificio è come un’offerta e la benedizione del cielo lo protegge per sempre. Devi aspet‐ tarlo come una brava mugliera.» Nel frattempo era entrata nella stanza la sorella di donna Maruzza che, rassettando il tavolo, faceva intendere che la seduta era ultimata. La maga si alzò; baciò per tre volte Concettina, un bacio per guancia e uno sulla fronte, e indi‐


cando la sorella si ritirò. L’assistente incassò il dovuto, con‐ trollò due volte il denaro e accompagnando Concettina alla porta continuava a ripeterle: «Torna quando vuoi. Mia sorel‐ la ti aiuta sempre. Sei proprio una brava picciotta.» Nei due mesi che mancavano alla partenza di Giorgio suc‐ cesse quello che doveva succedere; in verità l’unica cosa che, a quei tempi, in quei luoghi, poteva succedere. Concettina e Giorgio organizzarono quella che veniva chia‐ mata “la fuitina” e per un mese andarono a vivere a casa di uno zio di Giorgio che fece anche da intermediario con la famiglia di lei. Il dottor Modica accusò il colpo e, di fronte a un disonore che rischiava di ingigantirsi ancora di più, non poté fare altro che cedere. La partenza per la scuola di artiglieria di Roma avvenne po‐ che settimane dopo un affrettato matrimonio cui partecipa‐ rono solo i parenti più intimi. Il padre di Concettina, per l’occasione, aveva messo la divisa nera con l’orgoglio di chi cedeva di fronte ai destini della Patria. Alla stazione Giorgio non riuscì a scambiare neanche una parola con Concettina. Altri militari in partenza, facchini, pa‐ renti e bambini che strillavano trasformarono quell’addio in una bolgia indescrivibile dove ognuno si raccomandava a voce alta con parole e frasi che non erano quelle che in real‐ tà avrebbe voluto dire. Era venuta anche Mimì ad accompa‐ gnare il giovane cognato, ma rimase in disparte, guardando tutta quella calca che, sotto ai finestrini dei vagoni, proten‐ deva braccia e affetti. Con uno sguardo contrito che le sem‐ brava perfetto per l’occasione, aspettò immobile che il tre‐


no sparisse per poi avvicinarsi alla sorella che, con gli occhi velati, neanche la riconobbe. Passò poco più di un mese e l’urgenza della guerra fece sì che Giorgio fosse inviato sul fronte russo. Le sue lettere si diradarono di colpo e non erano più traboccanti di quelle malinconiche descrizioni di Roma e dei suoi tramonti che Concettina leggeva e rileggeva come poesie d’amore. Per i due anni successivi giunse ogni tanto qualche notizia da terre sperdute: lettere struggenti e piene di sofferenze che facevano piangere tutti; ma almeno Giorgio era ancora vivo. Si alternavano le notizie sui risultati positivi della campagna con quelle più pessimistiche che erano ancora leggibili no‐ nostante la censura cui le lettere venivano sottoposte. Lei gli scriveva ogni giorno e ogni tanto spediva qualche pacco con indumenti invernali, un paio di libri e, se era stagione, succose arance. Su consiglio di donna Maruzza una volta gli aveva spedito un’intera scatola di melograni appena raccol‐ ti: la maga diceva che erano come il grembo della Madonna che porta dentro di sé tutti i suoi figli. Dalle poche risposte ricevute quei pacchi non sembravano però mai essere giunti a destinazione. Nei negozi dove faceva la spesa ora la chiamavano signora e tutti si dimostravano gentili e premurosi. Le sorridevano e le facevano coraggio ma lei tornava di corsa a casa e si chiu‐ deva nella sua stanza a piangere.


Poi dalla radio, nel gennaio del 1943, si apprese dell’ordine di ripiegamento dell’armata italiana e da allora dalla Russia non giunse più alcuna lettera.


Capitolo 3 Nemmeno la creduta fine della guerra del luglio del 1943 o l’effettiva fine dei combattimenti del 1945 portò qualche notizia sulla sorte di Giorgio. Ufficialmente era dato per di‐ sperso; non figurava né fra i caduti né fra i prigionieri in ma‐ no ai russi. Una situazione che accomunava Concettina a migliaia di altre donne, mogli e madri, cui nessuno poteva dare aiuto. Si recava ogni mattina all’Arcivescovado dove venivano ag‐ giornate le scarne notizie sui militari ancora dispersi. Scor‐ reva quegli elenchi e, nel frastuono di lontane richieste di aiuto di centinaia di altri ragazzi, si illudeva di riconoscere la voce di Giorgio. Attendeva intontita nell’androne dell’Arcivescovado per poter correre a portargli aiuto. Ba‐ stava solo che lui le dicesse dove. Con altre mogli, madri e sorelle, un giorno, fu ricevuta dall’Arcivescovo che, come coordinatore di varie associa‐ zioni umanitarie, volle spendere qualche parola di speranza. Diceva che “disperso” non voleva dire “caduto” e che il Va‐ ticano si stava prodigando con le proprie delegazioni, spe‐ cialmente con quelle in Russia, a portare aiuto a migliaia di italiani. Qualche risultato si era già ottenuto ma ‐ il suo tono si faceva cupo – bisognava essere forti e accettare il volere di Dio: era passato così tanto tempo dalla fine dei combat‐


timenti e l’estensione di quei paesi era così vasta, che fare di più era veramente impossibile. Col tempo Concettina non uscì più di casa, cessò di frequen‐ tare le poche amiche che le erano rimaste e in famiglia si sentiva dimenticata e messa da parte. Anche il suo abbi‐ gliamento esprimeva solitudine e mestizia: si vestiva come la madre, con colori scuri ed enormi scialli che mortificavano la sua giovinezza. «Ma ti rendi conto di come ti stai riducendo?» le diceva la sorella. «Reagisci, esci di casa, vai a trovare le tue amiche… non ti isolare così. Non ti ho mai neanche visto piangere; ur‐ la, piangi, fa’ qualcosa… ma esci da questa prigionia che ti sei imposta. Il mondo è grande, molto più grande di questa isola di Ortigia.» Concettina non rispondeva. Un giorno Mimì, le disse: «Se vuoi posso chiedere un consi‐ glio a Nathaniel. Lui conosce tante persone e potrebbe sug‐ gerirti qualcosa. Domani lo andiamo a trovare al Coman‐ do… vuoi?» «È inutile, grazie… cosa vuoi che ne sappiano gli inglesi?» «Non so. Proviamo, mi ha detto che posso andare a trovarlo quando voglio.» «Parlaci tu se vuoi, per me è inutile.» Mimì non perdeva occasione per elogiare le qualità di Na‐ thaniel, un giovane ufficiale inglese che aveva conosciuto dopo la liberazione della città e di cui, come per un colpo di fulmine, si era subito invaghita. Siracusa era passata sotto l’amministrazione militare inglese e, nei teatri, nei circoli cit‐ tadini e nei viali della marina, molti di quegli ufficiali si pavo‐


neggiavano in cerca di avventure. Il tenente Nathaniel ave‐ va trovato la sua. Quando Mimì si offrì di accompagnare la sorella da Natha‐ niel, Concettina ebbe solo la forza di ringraziare sottovoce e tornò a chiudersi nella sua stanza. Non poteva fare a meno di ricordare quando la sorella era stata invitata da Nathaniel a un ballo di beneficenza. Mimì l’avrebbe voluta portare con sé ma anche allora lei si era ri‐ fiutata. Ricordava l’eccitazione di quel pomeriggio e come la sorella, poco prima di uscire da casa, l’aveva salutata con un finto abbraccio per non sgualcirsi il vestito. Quando a sera tarda Mimì era rientrata a casa, il padre, non potendosi più contenere, aveva iniziato a urlare e inveire contro quella che definiva la sua figlia degenere. Proibì a Mimì anche solo di rivolgere la parola a quelli che lui chia‐ mava gli invasori e, per rimarcare il suo disprezzo, minacciò di trasferirsi con tutta la famiglia in una proprietà che ave‐ vano fuori città. Concettina ascoltava in silenzio e soffriva nel vedere soffrire il padre. «Che ho fatto di male per meritarmi anche questa disgra‐ zia?» diceva rivolto a Mimì. «In questa casa non basta la di‐ sgrazia della povera Concettina? Non basta? Ma tu sei mag‐ giorenne… fai quello che vuoi, ma non venirmi più a cerca‐ re…» Quella fu l’unica volta che Concettina permise alla sua ango‐ scia di mutarsi in una rivalsa che le era dovuta. Come quan‐ do da bambine il padre rimproverava una di loro e l’altra godeva nel sentirsi la prediletta.


Mimì continuò a sfidare il padre e Nathaniel continuò a cor‐ teggiare la figlia del dottor Modica. Lui si chiuse sempre più in un silenzio che, inutilmente, sperò che potesse essere sufficientemente eloquente. Si arrivò così al 1945, l’anno in cui i due giovani avevano de‐ ciso di sposarsi. Mimì si era appena laureata ma sembrava che tutte le sue aspirazioni si fossero ridotte a volersi lascia‐ re alle spalle il passato, la famiglia e la Sicilia. Il dialogo fra le sorelle si era definitivamente interrotto. Co‐ sa avrebbe potuto chiedere Concettina a chi si sentiva già mille miglia lontano? Cosa avrebbe potuto risponderle chi, senza rimpianti e nel fragore della sua presunzione, stava per lasciare l’isola dove era nata? Le avrebbe permesso, quel fragore, di ascoltare la sua richiesta di aiuto? Quando si cominciò a parlare più concretamente del matri‐ monio di Mimì con quell’ufficiale inglese, il clima in famiglia divenne ancor più insopportabile. Il padre, messo con le spalle al muro, sembrava preoccuparsi solo che il nuovo ge‐ nero non si sposasse in divisa. «È pur sempre un inglese,” diceva, “almeno salviamo le ap‐ parenze.» La madre, inoltre, nel presentarlo ad amici e conoscenti, si ostinava a chiamarlo Natalino. Nathaniel lasciava fare, par‐ lava il meno possibile e non vedeva l’ora di partire con la moglie per l’Inghilterra. Con grande soddisfazione dei geni‐ tori di Mimì, alla cerimonia non partecipò alcun parente di lui e tutti gli invitati recitarono perfettamente la parte che sapevano avrebbe fatto piacere al dottor Modica. L’unica vergogna pubblica cui la famiglia non aveva potuto sottrar‐ si, in fondo, era stata quella di aver chiesto le dispense ne‐


cessarie per un matrimonio interreligioso. Poi lo si era nor‐ malmente celebrato con il rito cattolico e l’assenza dei con‐ suoceri era stata motivata con la lontananza e con le com‐ prensibili difficoltà di spostamento di quel periodo. Dopo il matrimonio Mimì e Nathaniel andarono a vivere in un paesino dei sobborghi di Londra, dove lui ritrovò il suo vecchio lavoro di assicuratore. Dopo la partenza della sorella, Concettina riprese a fre‐ quentare con maggiore assiduità la maga. Donna Maruzza ogni volta la confortava, diceva qualcosa ma poi divagava come se volesse lasciarla in un dubbio che abbisognava di ulteriori sedute. Giorgio era vivo, sì, ma c’era qualcosa che non vedeva chiaramente… le occorreva qualcosa di partico‐ lare per interrogare più a fondo gli spiriti. Nel frattempo dava a Concettina qualche immaginetta mi‐ racolosa e degli unguenti con cui lei doveva profumare le fotografie di Giorgio. Fu in quell’occasione che Concettina iniziò a casa a recitare litanie davanti a un improvvisato alta‐ rino sistemato sul comò della camera da letto. Una notte si svegliò di soprassalto per un incubo. Aveva so‐ gnato Giorgio che vagava barcollando, affondando le gam‐ be fino al ginocchio, in una distesa nevosa, piatta, silenzio‐ sa, senza fine. La barba ghiacciata, il fiato che gli si rappren‐ deva in brina sul volto, gli occhi feriti dalla luce e dal gelo, lo mostravano prossimo a essere avvolto per sempre dal si‐ lenzio. Poi da lontano si udì un ululato di lupi. Vennero a branchi, tanti, un’orda famelica.


Era circondato, avevano la loro preda e digrignavano i denti. Poi lo vide, lacero, con le scarpe avvolte da pezze tenute as‐ sieme con fil di ferro. Aveva le mani contratte e nere, le dita irrigidite e si arrampicava con fatica su un muro diroccato, sempre più in alto per sfuggire al pericolo. Si arrestò non riuscendo a salire ancora. Si arrestò non riuscendo a salire ancora. Una sfera liscia e lucente era sopra di lui: brillava di una calda luce aranciata ed emanava un odore di frutto ma‐ turo. Il frutto si aprì e come un germoglio spuntò una pianta che si innalzava verso il cielo ma i rami erano secchi, ostici e spinosi. L’albero divenne una croce. Giorgio era là, appeso a essa, esangue e con le braccia spalancate. Sussurrava appe‐ na: «Sono qui, Concettina, sono qui, sono vivo… salvami!» Dallo squarcio dove era conficcata la croce continuava a ve‐ nir fuori un effluvio di pesche mature, di erba e di fiori. Concettina si svegliò soffocata da quegli odori. Si riprese e si guardò intorno, stupita di non sentire gli ululati di quelle be‐ stiacce e il gelo della neve sul suo corpo. Il tepore sotto le coperte la rassicurò ma la stanza era tutta invasa da un fu‐ mo aromatico che veniva dal lumino che aveva lasciato ac‐ ceso. Non parlò con nessuno di quel sogno, neanche con la maga. L’indomani, donna Maruzza la accolse tutta raggiante. Le disse subito: «Ho sentito lo spirito di Giorgio. Ho visto gli angeli che lo proteggono… è sicuro vivo… vedo tanta luce bianca, ha fame ma non trova nulla da mangiare, forse è in un campo di prigionia. Vedo tanto ghiaccio, un mare di ghiaccio e lui che cerca di scappare da un’isola lontana, lon‐


tana, lontana. Grida, ma nessuno lo sente… Gli angeli dico‐ no che devi essere tu a chiamarlo…» «Io?» fece stupita Concettina. «E come faccio?» «Devi essere qui quando gli angeli vengono. Se ti vedono con me capiscono che il tuo amore è sempre forte e…. fida‐ ti. Ma però non è facile parlargli a loro… io ci provo ma poi loro mi rispondono all’improvviso… e se tu non ci sei c’è ri‐ schio che male finisce, che lo abbandonano perché nessuno lo ama veramente.» Poi dopo un lungo silenzio, sillabò a occhi bassi: «Tu non vuoi che muore, vero figliuzza mia?» L’unica strada che vedeva percorribile era di avvisare Con‐ cettina quando sentiva imminente la presenza degli spiriti; Concettina sarebbe potuta essere da lei in meno di mezz’ora e avrebbero assieme intercesso per la salvezza di Giorgio. Diceva che era necessario chiedere al più presto un allacciamento telefonico che all’epoca ben poche case, spe‐ cialmente quelle in periferia, avevano. Neanche la casa della famiglia Modica ne era fornita. Il padre di Concettina aveva sempre rifiutato il telefono, sia perché eccessivamente ca‐ ro, sia perché, diceva, bastava sedersi ai tavolini del bar del‐ la piazza per parlare con chiunque. Per amore della figlia, però, per ritrovare in lei il sorriso or‐ mai spento da anni, cedette e fece istallare a casa sua e in quella di donna Maruzza un apparecchio telefonico che era una bellezza al solo guardarlo. A casa del dottor Modica, entrando dalla porta d’ingresso, era quindi la prima cosa che si notava; stava sopra una elegante colonna ottagonale in legno di noce intarsiato e dava un tocco di modernità a tutta la casa. Finì che se ne invaghì lui stesso; lo mostrava


con orgoglio agli amici indicando quella scatoletta metallica di un nero opaco e vellutato, le sue borchie, i suoi pulsanti cromati e una forcella di ottone di stampo liberty che come un tralcio di vite sosteneva la cornetta di bachelite. Ruotava il grande disco nero, montato frontalmente, e diceva che era il ticchettio che si sentiva a permettere di chiamare chi si voleva, direttamente e senza parlare con la centralinista. A casa tutti chiamavano scherzosamente l’apparecchio “il telefono della maga” e anche quando, dopo la morte dei genitori, comparvero i primi telefoni moderni dalla linea più elegante e funzionale, Concettina non volle mai sostituirlo. Ma la maga non chiamava. Lei controllava più volte al gior‐ no che l’apparecchio funzionasse e quando lo sentiva squil‐ lare era la prima a correre. Erano quasi sempre l’avvocato Rizziconi o don Calogero Lifausi o qualche altro conoscente del padre. Una sera d’inverno venne giù un temporale che faceva tre‐ mare i vetri delle finestre. La famiglia era raccolta attorno al braciere e a turno sussultavano al bagliore dei lampi e al fragore dei tuoni. Ogni tanto andava via la luce e il padre, con un mozzicone di candela in mano, andava nell’ingresso a controllare che non fossero saltati i fusibili. Era tanto per fare qualcosa, per infondere sicurezza alle due donne: di certo non avrebbe saputo porre rimedio a un guasto del genere. Un lampo luminosissimo riverberò per tutta la stanza che subito dopo piombò nel buio. Il telefono, distante, trillò con strani tintinnii irregolari, come rispondendo alle scariche


che riecheggiavano per strada. Concettina si fece coraggio e sollevò la cornetta. Sfrigolii e lontani boati le impedivano di parlare. Poi una pausa di silenzio. sfumarono «Pronto, pronto!» ripeteva, con voce tremula. Tornò la luce per un attimo, appena il tempo di scorgere il padre che le si era avvicinato, poi di nuovo buio e un nuovo lampo che inondò la stanza di azzurro. Era rimasta con la cornetta attaccata all’orecchio e in quell’attimo sentì un ge‐ lo provenire da lontano. Sentì il telefono rimandarle suoni di cannoni, scoppi, urla e sibili di bufera; sempre più indistinti fino a svanire nel silenzioso fruscio di una neve che sentiva cadere da per tutto su un mare ghiacciato. «Pronto, pronto, Giorgio! Giorgio, dove sei? Dove qui? Pron‐ to, pronto!» Il telefono taceva, la luce era tornata nella stanza e lei, bianca in viso, ripeteva quel nome come un’invasata. Tremava dal freddo e le labbra avevano preso il colore violaceo di chi sta per soccombere assiderato. Si trascinò nella sua stanza e davanti all’altarino, con gli oc‐ chi eccitati, continuava a vaneggiare: «L’ho sentito, era lui… mi chiedeva aiuto… non sono pazza, non sono pazza! L’ho sentito che mi chiamava e diceva: sono qui, sono qui, veni‐ temi a salvare!»


Capitolo 4 Gli anni della guerra erano ormai lontani. La vita aveva ri‐ preso il suo corso, il dottor Modica era diventato il direttore provinciale dell’ispettorato agrario e i notabili della città a‐ vevano riacquistato la reputazione e gli incarichi che la fine del regime aveva momentaneamente messo in crisi. Con‐ cettina si era rassegnata alla vedovanza. La sorella Mimì, dopo il suo matrimonio, era tornata in Sicilia solo un paio di volte, per brevi vacanze estive e per fare co‐ noscere ai nonni il figlio, un bambino biondo dalla carnagio‐ ne chiara e con il viso coperto da tante lentiggini. Durante quelle brevi permanenze a Siracusa, però, nei genitori e nel‐ la sorella, la gioia che si era nutrita di nostalgie e di attese si trasformava lentamente in amara consapevolezza di una lontananza non solo geografica. Mimì e Nathaniel fra di loro parlavano in inglese e il bambi‐ no stava sempre attaccato alla gonna della madre. Il nonno avrebbe voluto portarlo con sé in giro per la città, alla mari‐ na o ai giardinetti, ma il suo entusiasmo veniva freddato dal‐ la figlia: «No, papà, i giardinetti sono troppo sporchi e lui tocca tutto quello che trova. Francamente non mi ricordavo che fossero ridotti in quello stato.» «Allora facciamo una passeggiata alla marina… così Denis conosce il vero mare.» insisteva lui. «Oppure andiamo al te‐


atro greco e all’orecchio di Dionisio, così gli spiego cosa vuol dire il suo nome.» «Perché cosa vuol dire?» interveniva la nonna. «Questa ma‐ nia di nomi strani… proprio non la capisco.» Poi la serata si concludeva con il nonno che recitava fila‐ strocche in siciliano sotto lo sguardo divertito di Nathanìel e di riprovazione di Mimì: «Dumani è Duminica ci tagghiamu a testa a Minica; Minica non c'è, ci tagghiamu a testa o re. U re è malatu, ci tagghiamu a testa o suddatu; u suddato fa la guerra, pigghia u culu e u batte n'terra.» Concettina ascoltava in silenzio. Capiva che tutto ciò che a‐ vrebbe voluto dire sarebbe stato fuori luogo e temeva di vedere nell’espressione della sorella la stessa aria di commi‐ serazione che mostravano i negozianti sotto casa quando la mattina usciva per la spesa. Il suo mondo era definitivamen‐ te troppo lontano da quello di Mimì. Anche le piccole in‐ combenze quotidiane erano spesso fonte di conflitto, come quando Mimì si mostrava infastidita da tutto l’odore di in‐ censo che la sera filtrava dalla stanza della sorella. Prima di andare a letto spalancava rumorosamente le finestre per cambiare l’aria.


Concettina non andava più dalla maga. Per troppe volte si era sentita dire che bisognava aspettare e che se gli spiriti erano irraggiungibili era perché volevano veramente met‐ terla alla prova. E lei viveva ormai aspettando la prova su‐ prema: era sicura che il suo Giorgio sarebbe tornato e si im‐ poneva sacrifici, umiliazioni, penitenze e rinunzie. Quando sentiva che qualche reduce era tornato in famiglia o che e‐ rano in corso delle trattative con il governo russo per il rila‐ scio degli ultimi internati, si riaccendeva di colpo e il suo al‐ tarino era tutto uno sfavillio di lumini e di incensi. Era ormai il 1948 e dall’ultima volta che aveva visto Giorgio erano passati quasi sette anni. Pensava che se avesse avuto un figlio ora sarebbe stato un bambino come quelli che in‐ contrava la mattina quando andavano a scuola. Le era capi‐ tato, un giorno, senza sapere perché, di seguire, per la via che da casa conduceva alla scuola, un signore che teneva per mano un bambino di quell’età. Li vedeva di spalle e mentalmente associava a quel padre il volto di un Giorgio invecchiato ma pur sempre riconoscibile. Voleva vedere in faccia il figlio e li oltrepassò. Girandosi, con sfacciataggine sorrise allo sconosciuto e prese ad accarezzare il bambino che la osservava con timore. Le venne da pensare a Denis, il figlio di Mimì, che manifestava lo stesso timore ogni volta che lei gli si avvicinava. Era passato qualche anno dall’ultima visita della sorella e chissà come era cresciuto quel bambi‐ no. Se lei avesse avuto un figlio sarebbe stato più grande di Denis, un ometto, ma sicuramente meno scontroso e anti‐ patico. Le venne un attimo di stizza e di superbia e pensò: “In fondo ha il figlio che si merita, così capisce cos’è l’amore, l’umiltà e la solitudine.”


Il signore con il bambino le chiese se avesse bisogno di qualcosa; lei si riprese, lo guardò con astio e corse via. Quando, un giorno, bussò alla porta un carabiniere, lei aprì e senza dire una parola, lasciando interdetto quel militare, scappò di là urlando al padre: «Papà, papà, vieni, un carabi‐ niere… parlaci tu… ha notizie di Giorgio.» Il carabiniere doveva solo consegnare i certificati elettorali: erano imminenti le votazioni politiche e stava per nascere la prima legislazione della storia della Repubblica. Votazioni importantissime, diceva il padre, ma a lei non importava nul‐ la. Non andò neanche a votare; non voleva incontrare mili‐ tari, rappresentanti delle istituzioni, carabinieri, vigili urbani o uscieri; non voleva ascoltare le promesse, le minacce, i ri‐ cordi di un triste periodo che ognuno sbandierava contro l’altro in accuse reciproche. Cosa le aveva dato quello Stato che non sapeva nemmeno quanti dei suoi figli fossero morti per lui? Il volto di Giorgio la tormentava. Lo vedeva in sogno, lo ve‐ deva nei genitori di tanti bambini per la strada; ne parlava con le amiche che le erano rimaste ma era un volto sempre più distante e stava per diventare irriconoscibile. Ripensava alle parole che le aveva detto, tanti anni prima, la sorella e cominciava a dubitare della genuinità di quell’amore. Il precipitare degli eventi, forse, non le aveva permesso di trasformare in eterno qualcosa che ora temeva fosse stata solo momentanea infatuazione. Perché non riu‐ sciva a vederlo? Perché non sentiva più il suo tono allegro? Quei momenti felici erano passati veloci come tanti altri del‐ la sua giovinezza, come le feste con le amiche, come una gi‐


ta in barca d’estate e si dannava per questa uniformità di ri‐ cordi. Oppressa da colpe e peccati immaginari cercò confor‐ to pure dal suo confessore, accusandosi di aver infangato un sacramento e di aver scambiato con Giorgio promesse che dell’eternità avevano solo il nome. Lo sguardo vispo di Giorgio, canzonatorio a volte, la sua faccia da bambino troppo cresciuto e quel ciuffo di capelli sempre ribelle le parlavano solo dalle fotografie. Lei le ripo‐ neva con un sospiro nel cassetto, riponendovi assieme i ri‐ cordi e le sembianze che temeva sopravvivessero solo in quelle immagini. Un giorno invece lo riconobbe. Dopo sette anni lo riconob‐ be. Magro, spaurito e con gli occhi spalancati; ma era pro‐ prio il suo volto, lì davanti a lei. Credette fosse ancora un sogno, uno di quegli incubi che infierivano giorno dopo giorno, minacciosi e crudeli nelle beffe che si facevano di lei. Non era un sogno. Aveva aperto la porta e subito aveva fatto un passo indietro vedendo un carabiniere con qualcuno alle spalle. Il carabi‐ niere faceva cenno di voler dire qualcosa, aveva l’aria seria e lei temette l’irreparabile. Si ritrasse ancor più nel buio dell’ingresso lasciando il carabiniere lì, muto ambasciatore di disgrazie. Poi lo vide avanzare, lo vide già con una gamba a varcare la soglia e con un urlo lo bloccò in quella posizio‐ ne. Non era un urlo di terrore. Il carabiniere aveva lasciato libera la vista sul volto di chi stava accompagnando a casa e… era proprio lui, era Giorgio. I genitori di Concettina, i vicini di casa, i bottegai lungo la strada, tutti, a quelle urla corsero temendo una tragedia. La


presenza del carabiniere confermava le loro paure e nulla riusciva a calmare Concettina cui le urla avevano seccato ogni filo di voce. Il carabiniere cercava di spiegare e indicava quel pover’uomo che con lo sguardo spiritato si stringeva in un angolo della stanza, terrorizzato da tutta quella baraon‐ da. Si lasciava abbracciare, baciare, toccare ma sembrava che obbedisse a un ruolo che altri gli avevano imposto. Il dottor Modica pregò tutti di allontanarsi e finalmente po‐ té ascoltare il carabiniere e leggere quanto gli stava conse‐ gnando. Il tenente Giorgio Scarselli, alla fine del 1943, era stato fatto prigioniero e rinchiuso in un gulag della Siberia nord occidentale: un campo di lavoro sull’isola di Vajgac, ol‐ tre cinquanta chilometri a nord del circolo polare artico, fra il mare di Barents e il mare di Kara. In quel campo, in condi‐ zioni al limite della sopravvivenza, i prigionieri erano impie‐ gati nelle miniere di uranio che veniva poi usato, senza alcu‐ na precauzione, per i primi esperimenti nucleari dei sovieti‐ ci. Da diecimila che erano, era riuscito a sopravvivere assieme a solo altri dieci compagni. Aveva però perduto la memoria e la voglia di vivere. Nella confusione del dopoguerra, senza alcuna identità e ridotto a una larva umana, in preda ad at‐ tacchi di panico più pericolosi per sé che per gli altri, aveva continuato la sua reclusione in un ospedale psichiatrico di quel paese, finché le ricerche del ministero della difesa e i recenti accordi internazionali non avevano ottenuto la sua riconsegna all’Italia. Finalmente con l’aiuto di altri reduci si era potuta ricostruire l’identità del tenente Scarselli che quindi veniva affidato provvisoriamente alla famiglia, in at‐


tesa di essere sottoposto a più accurata indagine psichiatri‐ ca. «Altro che visita psichiatrica!» urlò Concettina quando furo‐ no soli. E rivolto a Giorgio lo supplicava: «Sei contento di es‐ sere a casa? Parla, guardami… dimmi chi sono.» Lui sorrideva impacciato, diceva sempre di sì e chiedeva a che ora si spegnevano le luci e dove fosse la sua branda. Si muoveva a passi piccoli e nervosi, poi si arrestava e sembra‐ va vacillare su due gambe così magre che non erano più quelle del ragazzone che era stato. Concettina lo abbraccia‐ va quasi a sorreggerlo e lo accarezzava, piano, con delica‐ tezza, a tranquillizzarlo del suo ciuffo di capelli sparito da chissà quanto tempo. Giorgio lasciava fare; aveva un sacco con qualche indumento di ricambio e lo teneva stretto a sé. Quel giorno terminò fra gioie e ansie infinite. Giorgio si lasciava guidare su tutto. Con l’aggiunta degli ar‐ redi della vecchia stanza di Mimì si montò un letto matri‐ moniale e il futuro di quella famiglia ritrovata prese pieto‐ samente la piega di un’apparente normalità. Concettina lo portava in giro per la città sperando che desse segno di ri‐ conoscere qualcosa. Passarono anche davanti a quella che era stata la casa dei suoi genitori, morti da tempo, ma nulla sembrava scuoterlo. Salutava chiunque incontrasse con ampi sorrisi e quando incontrava qualche divisa si bloccava sugli attenti in un rigido saluto militare. Un vigile urbano si era sentito preso in giro e ne chiedeva conto e ragione. Si scusò con Concettina e diede il riposo a Giorgio che aveva ascoltato il discorso con lo sguardo fisso.


Cominciò a fidarsi solo di Concettina e chiamava i suoceri ri‐ spettivamente colonnello e dottoressa. I primi giorni passa‐ rono veloci: c’era da organizzare tutto, procurarsi i nuovi documenti, prenotare le visite mediche, richiedere la pen‐ sione di guerra e fare tutte quelle piccole cose che normal‐ mente si fanno nella vita quotidiana, come per esempio ac‐ quistare nuovi vestiti. A tavola si faceva imboccare con fidu‐ cia e chiedeva solamente se poteva portare in camerata qualche pezzo di pane. Una volta Concettina lo vide piange‐ re: con la testa china sul piatto tremava in tutto il corpo e fissava la pietanza che aveva davanti. I medici avevano assicurato a Concettina che Giorgio, se opportunamente seguito, sarebbe potuto rimanere in fami‐ glia. Col tempo si poteva sperare in un recupero delle capa‐ cità mentali e un sicuro aiuto era farlo stare più tempo pos‐ sibile in luoghi aperti, possibilmente in luoghi a lui noti. Non c’era nulla di scientifico ma dicevano che qualche caso era spontaneamente regredito. D’altra parte, come Concettina dovette poi amaramente imparare, le uniche cure per le ma‐ lattie nervose erano quelle rivolte alle forme di aggressività e si avvalevano spesso e volentieri solo dell’elettroshock. Un pomeriggio Concettina si spinse con Giorgio fino alla fonte di quel fiume sulle cui sponde crescevano le rigogliose piante di papiro, vanto della città e depositarie di tanti ri‐ cordi di tanti innamorati. Giorgio guardava lontano e Concettina guardava il suo sguardo; il silenzio era rotto solo dal tonfo di qualche rana che si tuffava impaurita nell’acqua.


Giorgio prese ad accarezzare una di quelle verdi chiome e, distolto lo sguardo dall’infinito, rivoltosi a lei, come in un miracolo, bisbigliò: «Sono come i tuoi capelli, li ho sempre immaginati così…» Lei con le guance rigate di lacrime lo tempestava di baci, lo accarezzava, allontanava il proprio volto da quello di Gior‐ gio, si scompigliava i capelli e tornava a stringerlo a sé. «Ti ricordi di quelle lacrime, Giorgio? Ti ricordi le poesie… Aretusa? Alfeo? Hai visto che finalmente l’hai trovata la mia isola?» E indicava lontana l’isola di Ortigia che si intravedeva oltre la selva dei papiri. Lui taceva guardando la moglie con curiosità, poi con stupo‐ re, poi come tornasse da un altro mondo, poi con terrore… e infine disse: «Come le granate quando esplodono… un ciuffo di schegge che piovono da per tutto.» Col tempo questa accondiscendenza iniziò a trasformarsi in ansia e Concettina lo vedeva sempre più oppresso e perse‐ guitato da qualcosa che lei avrebbe voluto condividere, ca‐ pire ed estirpare una volta per tutte. Giorgio non dormiva più e non voleva uscire di casa. Più di una volta la notte scomparve dal letto e regolarmente veniva trovato immobi‐ le davanti alla porta di ingresso: diceva che aspettava la par‐ tenza. Passava intere mattinate dietro i vetri della stanza a guardare le automobili che passavano là sotto e chiamava a gran voce il colonnello quando qualche macchina lo incurio‐ siva più delle altre. I suoi rapporti con Concettina erano sempre più turbati da queste stravaganze. Continuava a non mostrare alcuna


memoria del passato e aveva solo imparato a ripetere mec‐ canicamente che quella era sua moglie e quella la sua casa. Concettina faceva di tutto per riavere il suo Giorgio; lo inco‐ raggiava ad aprirsi, anticipava i suoi bisogni, lo circondava di mille attenzioni ma sapeva anche quando era il momento di ritrarsi e aspettare. Cambiò abbigliamento e pettinatura, e sembrò di colpo essere tornata quell’attraente ragazza che era stata a diciotto anni. Non di rado volle interpretare i suoi sguardi come richiesta di una intimità che la rassicurava; lo traeva a sé e si abbandonava a sensazioni che a lungo aveva creduto morte per sempre. In una di quelle notti, svegliatasi accanto a lui che la osservava in silenzio, sperimentò per la prima volta il potere dirompente di un amore completo, senza tabù, senza sensi di colpa e libero dalle paure di nuo‐ cergli che fino ad allora aveva nutrito. Fu un’esperienza che la fece rinascere: sentiva il sangue scorrere nelle vene, una linfa che traeva dal volto di Giorgio, rilassato, pacato, grato. Quei momenti di normalità si ripeterono e in quelle notti Concettina cominciò a intravedere il dissolvimento delle te‐ nebre contro cui, di giorno, combatteva da tempo. Erano momenti brevi ma intensi e necessari. Poco importava che Giorgio, la mattina, sembrasse non ricordare nulla; poco im‐ portava che tutta la sua attenzione, con la luce del sole, fos‐ se per le macchine che passavano per la strada. Concettina sapeva che, ciononostante, qualcosa sarebbe cambiato. Anziché migliorare, la situazione invece cominciò a essere sempre più pesante e sempre più rari quegli sprazzi di nor‐ malità. Concettina decise allora di tornare a rivolgersi alla maga; non la vedeva da molto tempo e voleva chiederle un aiuto.


La maga le annunziò piacevoli sorprese e infatti con la fine dell’estate Concettina si accorse di aspettare un figlio. Il bambino, sano e vispo quant’altri mai, nacque nell’ottobre del 1949, gli fu messo il nome di Salvatore e ripagò così la famiglia di tutte le angustie e sofferenze trascorse. Solo con la sua nascita, per loro, poté dirsi definitivamente finita la guerra. Fu forse il naturale e fisiologico allontanamento di Concet‐ tina dal marito che fece esplodere in lui, nello stesso mese che nasceva Salvatore, una incontenibile crisi che fu subito diagnosticata per schizofrenia aggressiva. Dovettero sepa‐ rarlo a forza dal figlio, quando urlando minacciava di uccide‐ re tutti i neonati, come avevano fatto loro, nel freddo fra il fango e il sangue. Loro avevano ubbidito agli ordini, diceva. Ora doveva ubbidire anche lui, altrimenti il colonnello l’avrebbe fatto fucilare. Il colonnello revocò l’ordine e lui iniziò la sua nuova vita presso l’ospedale psichiatrico della città.

FINE ANTEPRIMA CONTINUA…


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