L'ultimo canto del gallo, Alessio Balzaretti, giallo

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In uscita il 31/3/2018 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine marzo e inizio aprile 2018 ( ,99 euro)

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ALESSIO BALZARETTI

L’ULTIMO CANTO DEL GALLO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni

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L’ULTIMO CANTO DEL GALLO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-191-4 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Marzo 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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INTRODUZIONE

C’è una bevanda alcolica in Corea del Nord che si chiama insam ju e lo stesso beverone, in quella del Sud, lo chiamano soju. È una specie di vodka mescolata a un infuso di radici di ginseng. Pensano forse di essere diversi perché danno un nome piuttosto di un altro a quello che bevono? La domanda giusta da fare sarebbe: perché torturarmi per ingurgitare il cocktail che ho appena ordinato, invece di accontentarmi di un vino coreano? Risposta troppo semplice: il vino coreano, come recita la guida turistica che ho tra le mani, è fatto con riso fermentato, ginseng e undici erbe più cannella e liquirizia. No, grazie. Insomma alla fine ho deciso di vederlo questo posto e sto pensando che sarebbe ideale per chi vuole sparire. Basta guardarsi in giro per capire cosa si prova a trovarsi in un formicaio, se non fosse che, per un occidentale, la morfologia ha preso un’altra strada. Ho capito che questi piccoli tendoni pieni di tavoli microscopici fatti di lamiera si chiamano tutti pojang macha e poi, chi li gestisce ci aggiunge un’altra parola, un po’ come Osteria tal dei tali. In questo paese si dice che gli uomini d’affari, quando devono condurre una trattativa, bevono molto, perché sotto l’effetto dell’alcol le persone sono più aperte e sincere. Vedremo, intanto aspetto una persona e ho la mia vecchia pistola con il colpo in canna che mi preme sul costato.


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«Eri a conoscenza di questi articoli?» «Sì, mi pare di averne sentito parlare.» «Ti pare?» «In Italia ci sono almeno una ventina di piccoli quotidiani che scrivono cazzate per vendere dieci copie in più.» «Sì, ma se questi giornali me li mette sotto il naso l’ambasciatore cinese, tendo a essere meno indifferente di te alla cosa.» «Cinese? Non dovrebbero essere i coreani a preoccuparsi?» «No, non credo. Loro sanno come gestire certe situazioni.» «Efficienti, non c’è che dire. Se riescono a sequestrare duecento operai per una settimana e a farli tacere senza torcergli un capello, sono fenomenali.» «Non li hanno sequestrati e poi, per favore, lo sai che non voglio sentirne parlare. Mi infastidisce.» «Comunque non preoccuparti, credo di sapere come tranquillizzare i nostri amici.» «Sono tutti nostri amici, tienilo sempre bene a mente.» «Sempre.»


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1.

La storia tra me e Lisa era, da due anni, come una bottiglia di champagne dimenticata in cantina, ma non una confusa tra le altre, bensì l’unica in una cantina vuota. Era un periodo in cui mi sentivo annoiato da me stesso e da quel legame col passato di cui non riuscivo, o forse non volevo, liberarmi. Non ero tormentato e nemmeno soffrivo nel sapere che stava con un altro, perché di tempo ne era passato e, si sa, il tempo lenisce. Cazzate. Il tempo è quel figlio di puttana di cui non ti preoccupi finché non ne hai bisogno, che ti inganna scivolandoti dietro la schiena come una lama ben affilata che ti sfiora di piatto facendoti il solletico. Il tempo è come una droga: credi di non averne la necessità quando hai tutto sotto controllo e lo cerchi disperatamente nei momenti in cui le cose ti sfuggono di mano. Il tempo non aggiusta e non guarisce nessuna cicatrice, ma aiuta a dimenticare, questo sì. Il tempo diluisce i ricordi e spesso ti lascia solo i migliori, ma delle emozioni non trovi più traccia, come leggere un bel libro e rimetterlo nello scaffale, dopo un po’ rammenti solo che ti era piaciuto. I punti di vista: altro falso attorno a cui gira la realtà. Guardiamo tutti la stessa cosa da angolazioni diverse e crediamo di vedere delle differenze, ma non è così. Ci inganniamo, nascondiamo dei sentimenti, omettiamo delle verità e il risultato è che riusciamo a voltare pagina: che sia bianca o piena di tante belle parole, riusciamo a toglierci il peso e andare oltre. Lisa voleva andare oltre, come sempre nella sua vita. Era stata una breve battaglia, come spesso succede, nata dal nulla e sfociata, nel giro di pochi giorni, in una frase che mi era rimasta scolpita in testa “non sono più disposta a investire nella nostra relazione”. Come si fa a investire in una relazione? Ci metti dei soldi? Hai stipulato un contratto? Firmi delle cambiali? Tra i pochi momenti che avevano decretato la fine, quelle parole erano le uniche che Lisa mi aveva detto chiaramente, il resto lo avevo fatto io, perché toccava a me chiudere il


6 discorso, mi era sembrato naturale, era una mia responsabilità “come da accordi, signorina Lisa Levi, termina da ora il nostro rapporto. In fede…” Forse, mi dissi, era così che doveva finire una relazione con una giornalista, perché l’avevo vista gestire allo stesso modo il passaggio da una testata a un’altra: dedita fino all’osso, ma a scadenza. Eppure non l’avevo mai odiata, anche se avevo detestato il periodo in cui voleva che io le dessi la benedizione per la sua nuova storia. Come poteva pensarlo? Le donne sono più brave di noi a sovrascrivere, ad andare a capo, forse anche a perdonarsi, ma nel suo caso non credo si sentisse colpevole di nulla e magari non lo era. È proprio vero, il tempo mi ha ammorbidito, quello stronzo mi ha cancellato la memoria e se non fosse per il corpo senza vita riverso sotto la pioggia in un vicolo di Milano, non mi sarebbero mai passati per la testa certi ragionamenti. «Posso fare qualcosa per lei?» chiese una voce nasale alle mie spalle. Riportala in vita, coglione. «Faccia il suo lavoro Biondi, non dica una parola di più.» Se c’era una cosa che mi faceva rabbia era la compassione, pensare che Biondi o chiunque altro nelle ore successive si sarebbe accapigliato per consolarmi. Fumavo innervosito mentre gli agenti bindellavano il vicolo, non toccavo una sigaretta da anni, la fumatrice era lei, ma quella strana vicinanza mi aveva trasmesso un impulso frenetico a rimettere mano al pacchetto, di nuovo il suo, che campeggiava tra i vari oggetti che aveva addosso. Sottrazione illecita di prove, pensai. Non mi ero ancora avvicinato al cadavere, ma sentivo uno strano disagio, era come se non provassi nulla, anzi, adesso ero io quello pronto a voltare pagina davvero. Quale uomo può trovare sollievo nella morte della sua ex, solo per togliersi dalla mente qualche rimpianto? Ero davvero capace di questo? Sì. Mentre il lampeggiante dell’auto proiettava, a intermittenza, i suoi bagliori blu sul muro bagnato, mi guardai in giro, rilassato, come se stessi tirando una boccata d’aria fuori dal balcone dopo cena.


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2.

Il maggio più piovoso e insolitamente freddo degli ultimi anni; eravamo ancora distanti dall’estate in cui la pioggia milanese evapora dall’asfalto, vestivamo ancora tutti come se fossimo in autunno, persino Lisa. Aveva un nuovo taglio di capelli, molto corti, più chiari di come me li ricordavo, diceva spesso che avrebbe voluto tingerli di qualche strano colore, ma il rosso sangue non era compreso nella gamma. Era tutto cambiato in lei, anche l’abbigliamento: un impermeabile beige un po’ retrò, camicetta bianca rovinata dalla pioggia, una gonna scura da hostess tagliata sopra il ginocchio e scarpe dal tacco alto, troppo alto per lei che a malapena si teneva in equilibrio. Evidentemente aveva deciso di fare sul serio, non con le rubrichette da dodicesima pagina con cui era partita nel giornale di strada, il Corto Circuito. Guardarla così da vicino era come sfogliare un album di fotografie e accorgersi che lei era andata avanti, mentre per me il tempo si era fermato a due anni prima: stessi vestiti, stesse scarpe, stesse rughe, tutto solo un po’ più vecchio e conciato. «Colpi ripetuti alla testa ispettore, probabile corpo contundente.» Ci mettiamo a fare i detective adesso? «Biondi ha chiamato in centrale? Sì, quindi non faccia lo scienziato, se no ha sbagliato sezione. A certe intuizioni ci pensa il medico legale, lei compili il rapporto con le solite cose e andiamo a dormire che il turno è finito, sono le sette di mattina e tra un’ora stacchiamo, quindi si sbrighi e lo faccia all’asciutto perché si bagnano i documenti.» Le solite cose. Ecco la routine del poliziotto stronzo: un incidente stradale, un furto, un morto, le solite cose. Se avessi avuto ancora un briciolo di coscienza avrei trattato Lisa in modo diverso, ma da tempo stavo dando il peggio di me, almeno professionalmente.


8 Mentre Biondi faceva i rilevamenti con due sfigatelli in moto freschi di nomina, io attraversai la strada, avevo fame, una scusa come un’altra quando cerchi di prendere le distanze da qualcuno o da qualcosa che ti mette a disagio. Quando vedi un morto la prima volta, ti senti quasi coinvolto, non ti preoccupi se si tratta del buono o del cattivo, semplicemente pensi all’aspetto disumano di una morte violenta e in qualche modo vorresti rimediare. Man mano che accumuli caso dopo caso, mettendo in fila tutti i reati più infimi che una persona possa commettere, diventi anche tu parte della stessa casta a cui appartiene un criminale. La cosa peggiore è che nel frattempo superi i cinquanta, diventi un anziano in servizio e quelli come Biondi ti guardano come un esempio pessimo che distrugge, una picconata alla volta, tutti i principi che hanno spinto un giovane come lui a mettere la divisa. “L’ho fatto anche per lo stipendio e per il posto di lavoro, ovviamente” diceva lui. “Solo per quello Biondi, non si illuda” gli avevo risposto io, crudo come sempre. “Se si aspetta gli applausi della gente come nei film, ha sbagliato canale. Qui tutti ci girano al largo, i colpevoli ma soprattutto gli innocenti.” In un piazzale Corvetto ancora addormentato, era apparso un furgone di panini, come fuori da un concerto, forse immaginava che quella sarebbe stata l’attrazione del nuovo giorno. «Ma come fate voi a spuntare come funghi? Di notte i cinesi non dormono?» chiesi al ragazzotto che mi preparava due ciabatte con la porchetta. La piastra era già calda e occhi a mandorla mi sorrideva fingendo di non capire. «Bravo, bravo, visto che mi sorridi anche se ti mando affanculo, questi sono omaggio e hai dieci secondi per sparire prima di sequestrarti la baracca.» Tornai indietro e sentii il rumore del furgone che si metteva in moto, lanciai lo spuntino agli sfigati e passai sotto la bindella all’imbocco del vicolo. Finché non mi ero avvicinato a lei, ero sicuro della mia meschinità, avrei fatto di tutto per passare il caso a qualcun altro, ero addirittura irritato per la sfortuna che aveva portato Lisa a morire proprio durante il mio turno di notte. Il corpo era rovesciato in avanti, rasente al muro, con il viso girato verso la strada e con la ferita in bella vista, era orribilmente perfetta.


9 Il sangue tra i capelli si era già raggrumato, la pioggia aveva lavato via ogni possibile traccia, tuttavia dubitavo che fosse morta lì, forse ce l’avevano portata, o magari, dopo aver preso il colpo, si era trascinata fin lì da sola, sperando di fuggire da qualcuno. Le colava dell’eyeliner dagli occhi verdi che erano aperti e fissi nel vuoto; mi piegai sulle ginocchia, nel giro di un secondo mi ripiombò addosso il peso del passato. Egoisticamente avrei preferito trovarla fatta a pezzettini e irriconoscibile, invece era lì che mi guardava. Lei che aveva attacchi d’ansia per ogni piccola cosa, come aveva fatto a farsi ammazzare? Tempo fa mi sarei puntato la pistola sotto il mento e avrei premuto il grilletto, pur di punirmi per averla lasciata sola in quella zona della città in piena notte. «Sarà stata una rapina? Il portafogli con i documenti c’è, un pacchetto di sigarette…», lo cercò in giro prima di vedermelo tra le mani, «quello c’era, ma lo cancello. Soldi, cellulare e borsa mancano» disse Biondi temendo le mie reazioni anomale. «Bravo», dissi, «hai capito tutto: una rapina finita male. Copriamola» ordinai e Biondi scattò verso i due giovani agenti strappandogli i panini di mano e buttandoli nella spazzatura. «Li scusi ispettore, sono nuovi, a legnate li prendo quando rientriamo» disse mentre i due stendevano sopra il corpo di Lisa un telo bianco.


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3.

Milano, città distratta e spesso indifferente, non poteva certo accorgersi di un’aggressione. La periferia sud che avevo conosciuto io era ben diversa da quella di adesso, dove le famiglie milanesi si nascondono in casa. Una volta lo facevano per la vergogna se avevano qualche figlio che si infilava nei gruppi di cannaioli o se faceva il bullo picchiatore facendosi beccare dai grandi. Oggi fanno più paura le insegne sempre accese dei kebabbari o i capannelli di latinos fuori dagli internet point. Non abbiamo più le palle noi milanesi. Alzando lo sguardo mi rendevo conto che, però, il cielo era rimasto lo stesso e anche l’odore di asfalto bagnato. «Chi ha chiamato?» chiesi avvicinandomi ai novellini che si infilavano la cerata per paura di rovinarsi la divisa. Uno era la classica faccia da schiaffi, occhio a mezz’asta puntato verso l’orologio da polso e si muoveva sui piedi come se avesse le formiche nelle mutande. «Giovane cosa c’è, ti scappa da pisciare?» Mi guardava gonfiando il petto come un tacchino incazzato per la perdita di tempo. L’altro gli faceva il verso, ma per essere tra i motociclisti probabilmente aveva leccato il culo a qualcuno. Aveva ancora il casco in testa, forse per sembrare più alto oppure per non rovinare la messa in piega. «Commissà ce l’abbiamo trovata noi» disse orgoglioso puntandosi l’indice al cuore. «Occhio di falco», e bugiardo analfabeta, «meno male che ci sono ancora in giro quelli bravi. Sigaretta?» Il mastino sollevò la mano per rifiutare l’offerta, se non aveva cervello almeno sapeva le regole. Il chiacchierone invece si era allungato, sciolto, pensando di ricevere il testimone che lo eleggeva tra quelli in gamba. «Modestamente, in accademia a Palermo il migliore sono stato!» E ti hanno spedito il più lontano possibile. «Per quello allora che sei già arrivato a Milano, vuoi far carriera.» Faceva su e giù con la testa come un cammello. «Però ricordati che se mangi, fumi in servizio e dichiari il falso, c’è la sospensione a tempo


11 indeterminato.» Gli diedi una pacca sulla spalla mentre gli cadeva la sigaretta dalle dita. «Però facciamo che stavolta chiudo un occhio e adesso spiegami come sono andate le cose.» Gli voltai le spalle per un attimo, immaginando quello che, solo col labiale, mi stava tirando dietro. Ricordati anche», aggiunsi, «che il sottoscritto pezzo di merda è l’ispettore Gallinari.»


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4.

Nel silenzio apparente di quell’alba grigia, l’imbarazzo della piccola resa dei conti con i due agenti aveva portato in superficie il ticchettio metallico della pioggia sulle macchine parcheggiate. Il neon dell’insegna di un centro massaggi thailandese, a due passi da dove ci trovavamo, produceva una sottofondo simile a quello di un canto gregoriano … wommmh… Eravamo immobili, io sul marciapiede e loro sulla strada, vicino alle moto bianche e blu, pronti a decidere chi avrebbe buttato per primo il distintivo nella spazzatura. Sopra le nostre teste il cigolio di un lampione che, appeso a un cavo che tagliava in due la via, oscillava mosso dal vento che accompagnava il temporale e proiettava un fascio di luce in continuo movimento circolare. Una tapparella tossì come un motore ingolfato all’ultimo piano di uno dei palazzi, alzai lo sguardo in tempo per vedere alcuni piccioni che si staccavano dalla grondaia per scendere in picchiata. Ne seguivo la sonnolenta evoluzione e quando tagliarono in due la luce su di noi, la lampada sussultò per lo spostamento d’aria. Gli occhi tornarono a fissare la strada, il perimetro luminoso di poco prima era mutato a causa di quel piccolo terremoto e tra due macchine vidi spuntare, a intermittenza, delle scarpe da ginnastica bianche. La sagoma del ragazzino rannicchiato si era fusa come un’ombra insignificante tra le altre. Biondi mi era strisciato di fianco come una faina e aveva già messo mano al calcio della calibro nove; i delinquentelli di quartiere ci avevano creato problemi in passato, ma sarebbe stata una scocciatura maggiore spiegare, ai parenti disperati, il motivo per cui gli avevi fatto un buco in testa. «Stai buono, aspetta» gli dissi mentre si accovacciava con la canna puntata nel buio. La piccola sagoma, malgrado tutto, non si muoveva. Nessuno spavento né tentativo di fuga. Mentre avanzavo a grandi passi, Stanlio e Olio tentarono di frapporsi, non del tutto sorpresi dalla scoperta: «Commissà


13 lasci perdere è nu scemo ritardato» e Stanlio fece l’errore di appoggiarmi una mano sul petto. Lo fissai inferocito. «Togli quella cazzo di mano e spiegami cosa succede.» Il chiacchierone raccontò per filo e per segno che, mentre pattugliavano percorrendo la via, se lo erano trovati davanti, immobile: «Sembrava in trance, gli abbiamo detto di togliersi dalla strada.» E il mastino aggiunse: «Non ci sentiva, era in fissa, guardava verso il vicolo e basta. Per quello ci siamo accorti del corpo a terra.» Intanto che li ascoltavo, mi avvicinai, il ragazzino era strano, non fisicamente, ma lo sguardo sembrava incantato, come la testina di un lettore cd bloccata in mezzo a una canzone. Era fradicio, portava un paio di pantaloni corti, maglietta blu a maniche lunghe, dimostrava dodici o tredici anni, capelli a caschetto, lineamenti sottili, insomma uno in ordine. Chissà da quanto stava lì sotto la pioggia e forse qualcuno ne aveva denunciato la scomparsa, ma la cosa non mi interessava, anzi, mi domandavo come avrei fatto a cavarci un ragno da quel buco. «Dev’essere sotto shock.» Biondi era padre di famiglia e come capì il soggetto, cercò di avvicinarsi in modo affabile, sembrava che dovesse catturare un gatto impaurito, ma in realtà, guardandolo dall’alto, avevo l’impressione che non si sarebbe mosso di lì neanche se lo avessimo preso a sberle. I bambini non mi erano mai piaciuti, il caso aveva voluto che quello fosse uno degli argomenti di discussione con Lisa. Non che fossimo mai arrivati a pianificare tanto del futuro, la nostra relazione era durata meno di un paio d’anni, ma eravamo abbastanza adulti per affrontare argomenti del genere, anche perché passati i quaranta, il tempo per spassarsela sembrava una rarità. Il solito maledetto tempo, quello che non hai più o quello che hai sprecato a dibattere di tante cazzate con la donna che ti ha mollato, rimpiazzato e, come se non bastasse, che adesso ti mostra il conto negli occhi di un ragazzo autistico, quello che lei avrebbe certamente amato come figlio e che io sicuramente non avrei mai voluto. Gettai sconfortato la sigaretta in una pozzanghera e imprecai al vento: «Dove cazzo è il medico legale?! Biondi lo richiami invece di fare il babysitter.»


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5.

Roberto Denti, detto Squalo, e l’agente scelto Jenny Polenghi erano arrivati prima dell’auto medica. La Panda 4X4 del dottor Lupi, cercando di imboccare l’uscita giusta, era sfrecciata sulla sopraelevata a tutta velocità in orario di chiusura del traffico. I flash dell’autovelox erano partiti in successione. «Guardalo là», scosse la testa sconsolato lo Squalo, «o gli piace farsi fotografare o è scemo. Ciao Gallinari, Biondi» ci salutò con una stretta di mano, buttò lo sguardo oltre le nostre spalle quel tanto che bastava per capire che si trattava di una donna. «E questa chi se la prende?» chiese. «Mica penserai di scaricarcela addosso, vero?» A differenza di quello che poteva sembrare guardandolo in faccia, Denti era uno capace. Il soprannome non gli era stato attaccato addosso per qualità particolari di predatore a servizio della legge, ma più banalmente per la pinna caudale sistemata al posto del naso. Era uno tutto nervo, anche lui sui cinquanta, non molto alto e dalle articolazioni nodose, un Bartali da giovane, sempre che qualcuno si ricordi ancora la faccia del grande Gino campione di ciclismo. Si impomatava i capelli tirandoseli indietro come negli anni Sessanta, era fuori dal tempo, tuttavia l’agente Polenghi ci aveva trovato qualcosa. Lei, che era più giovane di lui di un bel pezzo, di femminile aveva i lineamenti, ma, fisicamente, un sollevatore di pesi sarebbe impallidito. Me li immaginavo mentre si prendevano con la forza per decidere chi dei due era il maschio. Sentivo spesso i commenti maligni dei colleghi che insinuavano dei dubbi sulla sessualità della morettina e di conseguenza sui gusti dello Squalo. Per quanto mi riguardava, potevano divertirsi con i gingilli che più preferivano sotto le lenzuola, quello di cui ero sicuro era che non avrei scelto nessuno di meglio a cui passare il caso di Lisa. «Fai il bravo Denti, te l’abbiamo impacchettata per bene: rapina finita male», gli mostrai il portafogli vuoto, «colpo alla testa con qualcosa di non identificato, scegli tu, lì vicino ci sono dei bidoni della raccolta del vetro da cui pescare.» E


15 per finire: «Testimone oculare giovane e sveglio: appena si riprende dallo shock, come dice Biondi, è tutto vostro.» Lo Squalo allargò le braccia e Biondi rimase a bocca aperta con l’indice proteso nel tentativo di obiettare. Ci avvicinammo di nuovo alla scena del crimine, ma io decisi di tenermi a distanza, non volevo saperne più niente, avevo bisogno di scrollarmi di dosso quel leggero morso di coscienza che stava bussando al mio stomaco. Sapevo che Denti era testardo come un contadino sardo, soprattutto non era tipo da farsi spiegare il lavoro dagli altri, quindi ero certo che le mie conclusioni da poliziotto superficiale lo avrebbero stimolato ad approfondire la cosa, ma, soprattutto, ero certo del guaio peggiore: avrebbe riconosciuto Lisa. Non feci in tempo a pensarlo che, appena si abbassò verso di lei e diede un’occhiata ai documenti, si voltò incredulo, fulminandomi con lo sguardo. Lo sentii esclamare: «Ma che cazzo… Cristo santo» e già capivo come sarebbe finita. Così, prima che cominciasse la processione di pacche sulle spalle, mi avviai verso la M3 che riapriva i battenti. Il vagone della metropolitana era un luogo strano, degno di uno studio sociologico. Trovarsi per un certo tempo in uno spazio chiuso insieme ad altri esseri umani, innescava un processo di osservazione, conoscenza e adattamento. Una volta superate le porte scorrevoli, cominciavo un gioco tutto mio. Guardare le persone, catalogarle per estrazione sociale, età, occupazione. E poi intuire, una fermata dopo l’altra, quale poteva essere la loro destinazione: perché si trovavano lì. Cercavo di portare la mente lontana da quel vicolo, ma lei era seduta tra gli estranei. Mi sembrava di cogliere in tutte le donne che vedevo, qualcosa di Lisa: una pettinatura, un colore dello smalto, uno sguardo, un sorriso, il titolo di un libro tra le mani di una persona che ero sicuro di averle visto leggere. Potevo chiudere quella benedetta storia, una volta per tutte, il pensiero era confortante. Mai più con lei, mai più con la speranza latente che potesse tornare, non poteva più succedere. Credevo di non aver mai pensato a quell’eventualità, invece era successo. Inconsciamente c’era stato un filo sottilissimo, nascosto chissà dove, che mi aveva tenuto legato al passato.


16 Incrociavo gli sguardi degli altri passeggieri e sembrava mi dicessero “povero idiotaâ€?. GiĂ , quanto la odiavo adesso che vedevo le cose chiaramente. Mi aveva fottuto per bene: prima, durante e anche dopo la nostra relazione.

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6.

Fare lo Sherlock Holmes da vagone mi aveva portato a diversi risultati. La ragazza dark con i capelli corvini, rasati da una parte e lunghissimi dall’altra, seduta all’estrema sinistra della fila di seggiolini davanti alla mia, aveva un esame di filosofia: “una palla allucinante” diceva la sua espressione mentre masticava il chewing gum a bocca aperta e sfogliava un tomo con Aristotele in copertina. L’uomo di fianco a lei sembrava invece sbarcato da una Londra d’altri tempi, aristocratico, elegante, con un farfallino al collo e ai piedi un paio di Cheaney, scarpe dal costo spropositato che volevano rifilarmi quella volta che cercavo dei mocassini per un abito da cerimonie. “Cosa ci fai in mezzo ai comuni mortali Lord Byron?” gli avrei voluto chiedere. Poi capii, vedendolo scendere alla fermata Montenapoleone, che la griffe italiana tira ancora. All’altra estremità un anziano asiatico fissava il vuoto davanti a sé, forse guardava la sua immagine riflessa nel finestrino. Si dice che i giapponesi, rispetto ai cinesi, abbiano dei lineamenti più occidentali, può darsi, ma lo sguardo e gli occhi rimangono, in entrambi i casi, delle fessure nere inespressive: “dove vai vecchio santone?”. Difficile a dirsi, finché non fece spuntare fuori un sacchetto di plastica con delle verdure all’interno, poteva essere il cuoco di un ristorante fusion, come un contadino metropolitano che, di prima mattina, aveva fatto rifornimento giornaliero in qualche orto abusivo dei tanti sparsi qua e là in periferia. In piedi, di fronte alle porte, tre giovani sudamericani ridevano tra loro e probabilmente sfottevano, nella loro lingua, tutti noi: direzione Duomo, senza ombra di dubbio, a rinfoltire il popolo di extracomunitari parcheggiati sulla gradinata. A ogni fermata calava il sipario ed ero pronto a un nuovo atto, nuovi attori, nuove facce da ispezionare, almeno fino alla fermata della Stazione Centrale. Dove stavo andando?


18 Potevo girare per ore rintanandomi sotto terra come una talpa pur di fuggire da Lisa, ma c’era solo un posto dove la mia vita rimaneva sospesa infilandosi in un buco spazio temporale, come sciacquarsi sotto una doccia gelata in una giornata schifosamente afosa. Questo fantastico mondo di Oz era il Blitz Bar di viale Tunisia, con le sue streghe e il suo Mago che, da dietro il bancone, scandiva le ore e i passi che portavano verso la città di Smeraldo in un viaggio di andata e ritorno, dalla serranda che si alzava la mattina con l’entusiasmo e le aspettative di noi che eravamo di casa e che scendeva tristemente la sera come una ghigliottina che spezzava il sogno della vita perfetta tra quelle quattro mura. «Signore e signori mani in alto, arrivano le forze dell’ordine» disse il Mario con la bocca impastata e la voce profonda e rauca delle otto di mattina. Mi fermai a guardarlo dall’ingresso della porta a vetro e tirai un sospiro di sollievo, ero a casa. Il soprabito grigio, buono per tutte le occasioni e zuppo all’inverosimile, pesava una tonnellata, me lo levai come fosse una camicia di forza e lo sbattei su una delle sedie attorno ai tavolini quadrati di formica. «Acqua ne hai presa abbastanza, mi pare, ma se vuoi qualcosa di diverso…», disse passando lo straccio sul bancone di marmo punteggiato, «ti ricordo che bisogna pagare.» Si gettò il canovaccio sulla spalla e incrociò le braccia pensieroso. «Nottataccia?» chiese. Gli risposi con un grugnito, tra amici non serviva altro. «E va bene: cappuccio? Ma segno! Perché qui la Caritas ha chiuso i battenti già da un pezzo, anzi, ho qualche speranza che mi saldi il centello che hai indietro?» Salii a cavalcioni sullo sgabello guardandolo male: «Non fare il pirla, oste.» La luce di quel giorno grigio cominciava a penetrare dalla vetrina nella metà inferiore smerigliata e in quella superiore decorata con il disegno di una palla otto nera che si imbucava in un bicchiere da cocktail. I riccioli ingrigiti e i baffoni del Mario danzavano dietro la FAEMA, macchina da caffè vintage un po’ come tutto nel suo locale. Il profumo di tostatura e i rumori famigliari di tazzine e piattini erano musica per le mie orecchie, mi scaldavano l’anima. «Non vedo parcheggiato il tuo rottame, te la sei fatta a piedi Gallo?» Era bello sentirsi chiamare così. «Brutto segno», disse, «quando avevo dodici anni, mio papà mi portava ai giardini pubblici e poi facevamo la gara a


19 chi arrivava a casa prima, io a piedi o lui col tram. Stavamo a Lambrate, mica dietro l’angolo, comunque ci divertivamo.» Sorrise per un attimo prima di guardarmi negli occhi tornando serio: «Ma erano altri tempi e tu non mi sembri uno che si è divertito troppo.» Anche se il Mario, da buon confessore, cercava di estorcermi qualche pensiero, c’era un patto al Blitz Bar: i problemi restavano fuori, oppure si risolvevano nella sala biliardo che era nel retro. Ma era troppo presto per vuotare il sacco, lo sapevamo entrambi, ogni cosa a suo tempo e seguendo il rituale stabilito dai soci del Blitz. «Va là, ho capito» mi disse, tirando fuori da sotto il ripiano in alluminio consumato due bicchierini da grappa. «Con cosa partiamo?» Eccoci qui, io e lui, a salutare un nuovo giorno come si deve, un giorno da dimenticare presto: il giorno di Lisa.


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7.

«Va a dà via al cü Gallo!» Povero Alfredo, a lui mancavano ancora cinque palle da imbucare, ammesso che ce l’avesse fatta, mentre la numero uno viaggiava lenta e precisa verso l’angolo del tappeto verde. I gemelli Garavaglia erano accucciati con le mani sulla sponda consumata del biliardo a seguire l’andatura della palla come due bambini. Era il loro momento di rivalsa, perché nessuno perdeva come loro, persino l’Alfredino ci faceva qualche cinquanta euro, sempre che non ci fossi io nei paraggi. Perché in fondo eravamo amici sì, ma amici da bar, e questo rendeva il nostro rapporto sincero ma agrodolce, soprattutto davanti ai soldi. In realtà il travaso era a senso unico: dai Garavaglia all’Alfredo e da lui a me. L’inganno stava nel non giocare mai contro i gemelli, troppo facile; invece, battere chi ripuliva a loro il portafogli, mi faceva guadagnare due tifosi da stadio impareggiabili. Non era cattiveria, lo chiamerei più pragmatismo. In tutto questo giochino tra soci, quello che rideva era il Mario. Ogni volta che sentiva il crescendo delle voci e degli ululati che accompagnavano la vittoria imminente, lui sapeva che era la mia e vedeva il conto in rosso andare a pareggio con il denaro degli altri. Anche quella volta il suo faccione spuntò dalla porta sorridente e sembrava impossibile che dai quei folti baffoni potesse spuntare il bianco splendente dei denti in un ghigno da mascalzone. Nessuno di noi due pensava neanche per un attimo di dissuadere i tre dall’avventurarsi in certe sfide, d’altra parte gli avremmo fatto un torto togliendogli lo svago quotidiano e il sogno di battere l’imbattibile. Palla in buca e boato da stadio: «Olé! Evvai!» Gesto dell’ombrello del Garauno: «Toh! Pirla d’un Belloni!» e a ruota il Garadue: «Faceva il figo, faceva!» Proprio perché i problemi veri rimanevano sempre fuori dal Blitz, al di là di poche informazioni acquisite nelle interminabili chiacchierate,


21 nessuno sapeva molto dell’altro. Una cosa era certa, di fortuna ne era girata poca o comunque, anche nel bene, le persone che si trovavano lì volevano far finta di poter essere diverse da com’erano nella vita vera, quella che stava fuori. Capitava, qualche volta, di incontrarli in giro, sempre nei paraggi di viale Tunisia, e mi sembravano grigi, gente qualunque, incolore. Mi infastidiva che loro pensassero lo stesso di me e anche la consapevolezza che quelle persone velate di tristezza fossero il meglio che avevo da quando lei non c’era stata più. C’erano state tre fasi che mi avevano portato a spostare i miei progetti dal costruire una famiglia con Lisa al diventare parte della famiglia del Blitz. Il primo approccio era stato casuale, da estraneo, da uno che faceva parte di un altro mondo, quello dei sani. Ci ero entrato come si va a fare visita ai malati in ospedale. Io ero a posto, loro no. La mia compagna se n’era andata, avevo voglia di bere qualcosa e leggere il giornale fuori dalla casa che me la ricordava, tutto qua. La seconda fase era stata la più fastidiosa, quando pensi che sei come loro ma fuori racconti che lì ci passi per caso, perché è vicino a casa. La terza è quella in cui termina la trasformazione, sei uno di loro, un poliziotto che dentro quel paese delle meraviglie non vale niente e allo stesso tempo vale tanto, tanto quanto loro che sono persone qualunque, potevi avere la vita che sognavi e invece hai gli amici del bar e non puoi più farne a meno. Il Mario, l’Alfredo Belloni, i gemelli Mino e Matteo Garavaglia erano malati da tempo. Il barista era un ex meccanico, vedovo: l’avevo capito, per così dire, sulla mia pelle il giorno in cui guardavo con insistenza, alle sue spalle, la foto di una bella ragazza con i capelli rossi e ricci che poteva avere una trentina d’anni, troppo adulta per essere sua figlia e troppo giovane per essere sua moglie. Era in posa da modella, una cosa completamente fuori luogo da tenere in un bar. Così mi ero lanciato in un commento: «Ogni riccio un capriccio, o no?» Lui mi aveva sbattuto il bicchiere sul tavolo, credevo finisse in mille pezzi, e mi aveva liquidato: «Beva e vada via, offro io, qui non è gradito.» Per mandarmi a cagare mi dava del lei. Alfredino invece era operaio, figlio di un camionista e di un’indossatrice, così diceva lui. Dal padre aveva ereditato il ventre e il riporto, dalla


22 madre invece aveva ottenuto in dono un’amica, un po’ matura, un po’ all’ultima spiaggia, comunque una da tenere più nascosta possibile. Infine i Garavaglia, figli di un gioielliere morto d’infarto, gemelli identici: magri, con gli stessi occhiali, lo stesso taglio di capelli, quello pulito come si dice a Milano, cioè rasato a tre millimetri. D’estate vestivano con i pantaloncini corti a gamba larga pieni di tasche e le camicie a mezza manica con la piega di stiratura che le faceva sembrare cartonate. D’inverno pantaloni pesanti e camicia, stavolta di flanella, in stile alpino. Identici, come se temessero di essere separati, volevano essere sicuri che, guardandosi allo specchio, avrebbero visto l’altro sentendosi più tranquilli. Erano due mezze tacche al Blitz, ma avevano la loro croce da portare, come tutti. Ed era una croce pesante quella di una madre malata di sclerosi multipla. Eppure scherzavano e ridevano sempre, reagivano così, impotenti e pieni di soldi che non potevano spendere perché incastrati dall’amore per la mamma. Odiavo doverli incrociare tutte le mattine, abitavano vicino a me, mentre spingevano la carrozzina con affetto e premura uniche. Accudire un malato in casa propria vuol dire avere coraggio e io non ne avevo per niente. Volevo poterli sfottere ogni volta che volevo, ma quando li vedevo così rispettosamente impegnati nella loro missione mi sentivo un verme. Le ore di quella giornata le avevo passate così, nei miei pensieri, nelle mie cose, le solite cose, ma non quelle dei poliziotti, bensì quelle del Blitz, che pulivano la mente aiutate dai bicchieri di bollicine e dagli stuzzichini con cui il Mario ci riforniva a oltranza. «Ne facciamo un’altra?» chiese l’Alfredino mentre stavo quasi per rimettere la stecca nella rastrelliera attaccata al muro. Guardai l’orologio, non il mio da polso, ma quello appeso al muro della sala, come se fosse l’unico segna tempo attendibile dopo il meridiano di Greenwich. «Se proprio ci tieni, l’oste è solo contento, vero?» Anche il Mario, dopo dodici ore dietro il bancone, ne aveva piene le palle, ma piuttosto di passare le ultime due da solo, ci avrebbe sopportato. «Come no! Tanto comincio a segnare, che qui, a furia di farvi la benzina, siete sotto un’altra volta.» Sventolava il bloc-notes facendo finta di leccare la punta della biro. I Gemelli si congedarono, l’ultima me la giocavo senza tifosi. «Noi andiamo che la Dolores finisce tra mezz’ora e la mamma deve mangiare.» Maledetti, anche se mi ricordavano le loro beghe non li avrei


23 risparmiati. «Bravi, bravi, ma la badante quando finisce il turno di giorno, quello di notte con chi lo comincia dei due? Perché se ve la giocate è facile che perdete entrambi e vince il vicino di casa!» Noi giù a ridere e loro a buttare in aria le braccia per mandarmi a cagare. «Va beh gente, sapete che vi dico?», disse il Mario mentre prendeva il gancio di ferro per abbassare la claire, «visto che il padrone sono io, per oggi ghe n’ù assé» che in dialetto meneghino voleva dire averne abbastanza. Si mise a leggere il giornale stravaccato su una fila di poltroncine con la seduta girevole mentre Alfredo spaccava. «Cià vediamo un po’ cosa raccontano qui» disse sfogliando rumorosamente una copia di quei quotidiani gratuiti che ti regalano per strada. Mugugnava mentre procedeva con la lettura e intanto la mia partita prometteva bene, anche se il Belloni teneva botta, ero in vantaggio di due palle. Ogni tanto, per renderci partecipi, pronunciava alcune parole, le più significative di ogni articolo: «Lorenteggio, anziana aggredita in pieno giorno» e altri rumori gutturali. «Insomma, come comincia a far caldo, la gente impazzisce… o no?» Quella domanda fatta al vento mi aveva disturbato mentre colpivo la bianca che, invece di fare il suo dovere e centrare la palla giusta, era finita per correre a vuoto sul tappeto verde. Eravamo pari, l’Alfredo era preso bene. «Tac! Bella questa, vero Gallo?!» rideva mentre passava in vantaggio a due colpi dalla fine. «Non hai più il fisico!» Sbuffavo puntellandomi con la stecca al pavimento mentre il Mario riprendeva la litania: «Lambrate, spaccio in parcheggio stazione. Corvetto… bah, solite cagate.» A quel punto mi era tremato il polso, altro colpo storto e occhiataccia al Mario. Perché mi doveva rovinare la giornata proprio adesso che avevo fatto tabula rasa? «Va beh dai, almeno all’ultima pagina una buona notizia c’è.» Attaccò a leggere: «In via Paolo Sarpi, la Chinatown Milanese, interrotto il traffico di biciclette che, giorno e notte attraversavano il tratto stradale fino al cimitero Monumentale. Gli inquirenti indagano su un presunto traffico di materiale tossico utilizzato per la fabbricazione di oggetti destinati alla vendita al pubblico… vedi! Lo dicevo io, osti! Ma da anni!» Bravo


24 Marietto, salta a piè pari piazzale Corvetto e concentrati sui cinesi che è meglio. Eravamo all’ultimo colpo, palle pari e solo la uno da spingere dentro per decidere la partita. Tiravo io e avevo dichiarato la buca d’angolo in alto a sinistra, colpo quasi dritto e l’Alfredino col cinquantino già in mano. Il Mario chiuse il giornale sbattendolo come un lenzuolo, era pronto anche lui al gran finale: «Prepara l’obolo, Belloni, mi sa che se perdi anche questa è la volta che ti spari un colpo in testa.» Quando la stecca scivolò tra il pollice e l’indice, per un attimo, il tappeto verde diventò asfalto grigio e la luce proiettata dalle lampade sussultò leggermente, come i lampioni della sera prima. L’ultima immagine che mi si disegnò davanti agli occhi fu la palla che rotolava su una macchia di sangue denso dentro cui era riverso il viso di Lisa. Le urla di giubilo dell’Alfredo mi fecero risvegliare da quell’allucinazione, avevo perso. «Fanculo, non me ne frega un cazzo» dissi con una rabbia insolita lanciando i soldi sul tavolo come si getta l’osso a un cane. Il Mario mi guardò torvo, con i pugni puntati sui fianchi e i gomiti all’infuori, il Mago di Oz sentiva puzza di bruciato, erano bastate alcune sue parole sparse qua e là per riportarmi sul sentiero del mondo reale. Ne avrei fatto volentieri a meno. Alfredino mi mandò a quel paese dandomi del permaloso: «Ma chi pensi di essere? Fenomeno!» Si era offeso e a modo suo mi provocava. Rischiava di finire male, ma non avevo voglia di fare casino. Il Mario mi seguì fino alla porta senza dire niente, mi sollevò la serranda quel tanto che bastava per farmi uscire e me la richiuse alle spalle a mo’ di rimprovero. Fuori era tutto asciutto, nell’aria solo un leggero odore di asfalto umido, rimasuglio della pioggia che probabilmente aveva smesso di scendere già da diverse ore. Alle sette di quella sera viale Tunisia era un fiume di macchine accavallate una sull’altra e in quel marasma la gente cercava di muoversi e divincolarsi per rincorrere una vita decente. Una nuotata alla storica Piscina Cozzi doveva essere un momento di svago dopo una giornata di lavoro, ma le persone in attesa del proprio turno sulla scalinata e i bambini scaricati dai genitori in fretta e furia erano carichi di un’angoscia tutta milanese che per chi arriva da fuori è pura follia.


25 Dalla parte opposta i clacson suonavano in lontananza il loro concerto all’incrocio con Corso Buenos Aires, la via dei turisti, il luna park del consumismo che di milanese non ha mai avuto niente. A sentire gli anziani ne parlano ancora oggi come del pianeta Marte, come se andarci a fare una passeggiata fosse roba da eletti. Troppo tardi, pensai, neanche col teletrasporto sarei arrivato in ufficio per l’inizio del turno, a meno che‌

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26

8.

Biondi era alla guida, io ero in coma. «Ispettore posso parlare?» I tassisti non parlano ai clienti che dormono. Socchiusi l’occhio sinistro e lo prese come un segno di assenso. «Oggi pomeriggio Denti l’ha cercata sul cellulare.» Come reazione feci roteare la mano sinistra, non volevo scocciature. «Gli ha girato il rapporto?» Mi rispose di sì. «E allora che se la veda lui, mi deve qualche favore, questa è l’occasione buona, chiuso.» Mi raggomitolai sul sedile del passeggero girandogli le spalle, speravo capisse che tutta la storia del giorno prima, per me, era un capitolo chiuso. Dopo qualche istante di silenzio riprese a parlare, come se avesse ignorato quasi tutto quello che avevo detto: «Sì, il rapporto l’ho fatto, ma dato che il caso lo seguirà lo Squalo, mi sono permesso di stilarlo oggi pomeriggio con la collega Polenghi.» Ma perché proprio io dovevo portarmi in giro uno preciso come Biondi? Infastidito mi rimisi a sedere composto, stavamo percorrendo viale Romagna, riconoscevo i filari di alberi che, in quell’avanzata e strana primavera piovosa, erano talmente rigogliosi da formare un tunnel naturale con i rami che si intrecciavano sopra la carreggiata. Non era Piazza del Duomo quella in cui eravamo diretti. «Biondi dove cazzo stiamo andando!?» chiesi pur sapendo che la Centrale Operativa si trovava da tutt’altra parte. Lui, come prima, continuava il suo discorso totalmente incurante delle mie reazioni. D’altra parte lo capivo, in quel momento aveva davanti uno straccio d’uomo che non chiudeva occhio da giorni e che non si lavava da almeno ventiquattro ore, con i vestiti sgualciti che mi si erano asciugati addosso dall’acquazzone della sera prima. In quel momento non era un sottoposto ma un assistente sociale che provava a riportare sulla retta via un individuo di mezza età sull’orlo dell’auto distruzione. «Stavo dicendo che Denti oggi l’ha chiamata per chiederle di trovarci all’Istituto di Medicina Legale col dottor Lupi, ma non l’ha trovata. Pare


27 che ci siano dei particolari sulle cause della morte della signorina Levi di cui vuole discutere con entrambi.» Apprezzai che non l’avesse chiamata Lisa, anche se mi trovava insopportabile rispettava la mia spudorata volontà di non farmi coinvolgere. Purtroppo, però, era più forte di lui, non riusciva ancora a prendere il nostro lavoro come tale, soprattutto aveva avuto modo di conoscere il Gallinari innamorato e questa, per me, sarebbe stata una disgrazia, ne ero certo. Parcheggiammo davanti allo stabile in stile ventennio, Biondi scese di corsa, io al rallentatore, sbattendo la portiera. «Perché se le do un ordine lei prende delle iniziative?» Provai a rassettarmi lisciandomi il soprabito con risultati indecorosi, così me lo tolsi e lo appallottolai buttandolo nel bagagliaio. Ero, come dicono le persone educate, di cattivo umore, manipolato come una marionetta da colleghi di grado inferiore. «Cazzo, Denti!» sbottai mentre superavo la guardiola dove un agente aveva appena fatto in tempo ad accennare un saluto e mi fiondai in uno dei tanti corridoi rivestiti di marmo che conduceva all’obitorio. «Cosa c’è da capire quando uno dice che questo caso ve lo prendete voi!» urlavo al nulla e la mia voce rimbombava tra quelle pareti di ghiaccio fino alle scale e poi giù nel seminterrato dove sapevo che avrei trovato lui e il dottore ad aspettarmi. Biondi me lo ero lasciato indietro di mezza rampa, ero determinato a chiudere la questione e appena li vidi lì, in piedi con le braccia conserte, calcai la mano sullo Squalo: «Quindi!? Hai capito o devo scrivertelo su carta bollata!? Di Lisa Levi io non ne voglio sapere niente! È chiaro!?» A un metro da noi sentivo il peso dello sguardo serio e bonario del dottor Lupi. Era parecchio tempo che non lo incontravo, ma ogni volta era come riprendere un film lungo una vita e non esagero, perché il destino aveva voluto che negli anni Ottanta fosse stato il medico della squadretta di calcio a sette dell’oratorio di Sesto Ulteriano dove cercavo, con scarsi risultati, di emulare i campioni del mio Milan: “Sei troppo buono Gallinari!” mi diceva sempre. Per un difensore non era una gran qualità quella di tirare indietro la gamba per non far male agli avversari, non lo ammettevo ma lo sentivo che il gioco duro non era roba per me. L’altra sua frase che immancabilmente mi risuonava nella memoria era “alto e molle!” una specie di urlo di battaglia che accompagnava ogni


28 rinvio del nostro portiere e con esso le risate di tutti: nostre, degli avversari e del pubblico. Insomma era sempre stato un uomo ironico e buono come il pane. Ai tempi era poco più che trentenne, non ce lo immaginavamo serio nel suo lavoro, anche perché raccontava aneddoti da pronto soccorso che ormai erano leggendari: “Ragazzi! Ma sapete che l’altra notte mi sono arrivati due sposini che sono rimasti incastrati?” E giù a ridere con lui, che poi spiegava nei dettagli come aveva risolto il tutto in maniera professionale: “Gli ho fatto una bella punturina a lui per farlo rilassare e via andare!” Dopo trent’anni, di quel buon tempo era rimasta solo una scia, come la coda di una cometa che attraversa quel periodo della vita e non la rivedi più. Le risate erano relegate a un paio di volte l’anno, quando ci concedevamo un grappino dei frati dell’Abazia di Chiaravalle che in quel momento non mi sarebbe dispiaciuto affatto. Il vocione da baritono del Lupi funzionò come sedativo, mentre Denti subiva la mia aggressione verbale senza muovere un muscolo. «Calma Gallinari, calma» disse appoggiandomi da buon amico una mano sulla spalla. «Non agitarti e poi guarda come sei conciato, va’ che occhi gialli. Dai sediamoci un attimo nello studio che ti spiego.» Mi accompagnava come si fa con un malato e dietro di noi Denti che procedeva con lo sguardo basso mentre Biondi si era tolto il cappello di ordinanza e si asciugava la fronte dal sudore: «Ispettore io la aspetto qui, serve qualcosa?» «No niente, tutto a posto, grazie Biondi» rispose Denti. «Se proprio, ci porti tre caffè, uno doppio.» Era il mio, senza dubbio. Lupi ci fece accomodare nel suo ufficio, si vedeva che, in qualche maniera, aveva cercato negli anni di rendere quel suo spazio meno asettico possibile, ma eravamo sottoterra e di norma in quegli ambienti si parlava di morti, quindi era stata un’impresa. Una grossa scrivania in noce, un tappeto in canapa con motivi tribali e tutto intorno alle pareti degli scaffali sempre in legno, strapieni di faldoni e carte ordinate secondo codici alfanumerici stampati su etichette applicate alle mensole. Insomma tutto poteva avere un senso a me ignoto, ma di sicuro lo scopo più evidente era quello di coprire il più possibile il marmo maculato che sapeva di cimitero. «Dai ragazzi, sediamoci che vi spiego perché vi ho cercato.»


29 Ragazzi ci chiamava, lui sulla soglia dei settanta e noi che in due rasentavamo il secolo. «Gallinari», attaccò lo Squalo senza giri di parole, «guarda che oggi non ti ho cercato per romperti i coglioni, ma perché, quando tu te ne sei andato, sono venute fuori delle cose…» sbuffava agitando la mano. Il dottore si era allontanato un attimo per recuperare gli occhiali e una cartella clinica. «Denti, fai giudizio» lo ammonì da lontano. Voleva essere lui a guidare il discorso, sapeva come prendermi e come pesare le parole. Si sedette di fronte a noi mettendoci davanti la documentazione: a quel punto ero indeciso se andarmene o rimanere per farmi trascinare dove non volevo. Denti era un tipo spiccio, i ritmi del medico legale erano lenti per i suoi gusti, così allungò la mano verso il referto dell’autopsia, ma quella di Lupi calò più veloce della sua, severa e pesante. Lo Squalo sbuffò rassegnato e saltò in piedi cominciando a passeggiare nervosamente per la stanza. «Roberto», disse il dottore, «con la fretta non andiamo da nessuna parte, lasciami spiegare.» Poi si rivolse a me: «La Lisa era una brava ragazza», la Lisa, con l’articolo davanti, il modo dei milanesi di chiamare le persone a cui ci si lega per qualche motivo, «questa è una disgrazia che proprio non si meritava, mi dispiace.» Di nuovo questa assurda commiserazione. «Lasciamo perdere i mi dispiace, al momento dovrei essere in Centrale, quindi stringiamo.» Ero asciutto e tranciante, come se si trattasse di un banale incidente stradale. La bontà di Pietro Lupi si era infranta contro il mio muro e siccome lui era uomo di campagna cambiò subito atteggiamento, se volevo fare il duro stavo giocando col fuoco. «Va bene!» alzò la voce, aprì la cartellina e sbatté sul tavolo le foto dei particolari del corpo di Lisa. Pensava di colpirmi, ma non abbassai neanche lo sguardo. Fece ruotare verso di me il foglio con l’esito delle analisi, ben consapevole che non era il mio pane. «Se non te ne frega un cazzo, almeno fai il professionista!» Si era agitato e, avendo già avuto negli anni qualche problemino cardiaco, cercò di respirare profondamente. «Dai Luigi, mi fai dire le parole alla mia età» disse più calmo chiamandomi per nome, era il suo modo di creare complicità. «Non ti voglio fare la morale, abbiamo tutti le spalle larghe, però ti chiedo di ascoltarmi… se vuoi.» Mi ero già alzato in piedi diretto alla porta, ci mancava solo che facessi venire un colpo a un amico. Era tutto sbagliato, non dovevo essere in quel vicolo la notte precedente e non dovevo essere lì in quel momento.


30 Denti non parlava e non si capacitava, per la seconda volta in ventiquattro ore allargò le braccia in senso di resa, con me non si poteva ragionare. Avrebbe potuto fare una telefonata al nostro capo e farmi richiamare dalla disciplinare, ma non era il suo modo. Il debito che aveva nei miei confronti era lavorativo, ma quando si parla di poliziotti, per poco che sia, si parla di una coltellata o peggio di una pallottola presa al posto di un collega. Con lui c’era da bilanciare un morto accidentale o innocente, come piace dire ai giornalisti quando parlano male di noi. In realtà non si era trattato di un innocente vero e proprio, ma di una vittima di una Milano sfigurata, in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri beh… Quindi questo ragazzotto, per salvare il padre dagli strozzini, faceva gli straordinari come spacciatore, ma non ce la faceva, questo lo avevamo scoperto dopo io e Biondi. I fatti, all’inizio, erano stati frutto del caso, il Denti che va a fare la spesa, il giovane che nello stesso supermercato mette il coltello alla gola di una donna e lo Squalo che lo fredda. Io ero in zona, ho qualche anno in più di servizio e giustificare una pallottola è diventato complicato, quindi mi esposi al posto suo. Alla fine venne fuori che la donna era la strozzina, ma i morti non ritornano e io pagai il conto per tutti. Poco male, con Roberto Denti c’era lealtà, non mi avrebbe mai obbligato a restare lì. Il vero problema era Biondi che, anche quella volta, sbucò dal nulla, era una sua specialità. Quando indagavamo sulla famosa strozzina mi aveva salvato la vita, sparandole un attimo prima che lei facesse la stessa cosa contro di me. Sulla soglia dello studio di Lupi, invece, si materializzò bloccandomi la via d’uscita con un vassoio carico di caffè. «Pardon ispettore. Quello doppio è nella tazza grande» indicò con il naso. Quel secondo di empasse diede al dottore l’occasione di lanciare l’ultimo disperato appello: «Luigi, credo che l’abbiano torturata.»

9.


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«Bruciature sotto le piante dei piedi, sui palmi delle mani e nell’interno coscia. Il colpo alla testa non è stato letale, forse era già morta o forse l’hanno stordita prima.» Scorrevo le foto con una stretta allo stomaco, tentavo di vedere un’altra persona, ma era lei, mi ricordavo troppo bene ogni parte del suo corpo. Biondi si lasciò cadere su una sedia, Denti si passò le mani sulla faccia, era impossibile per tutti gestire quel caso senza vedersi davanti la donna che mi aveva accompagnato per più di un anno, che aveva riso con loro alle classiche cene tra colleghi. Lupi proseguì: «Se può consolarci, non è stata violentata. Le bruciature, come vedi, sono carbonizzate e localizzate, proprio per questo ti dicevo che credo si tratti di accanimento, perché non possono essere accidentali.» Lo Squalo aggiunse le sue considerazioni: «Il fatto stesso che l’abbiate trovata lì per terra, nel vicolo, come se fosse stata vittima di una comune aggressione, conferma che la scena è stata costruita.» Poi di nuovo il dottore: «Sicuramente era già morta da un pezzo, non so cosa abbiano usato, ma per provocare quel tipo di lesioni…», si interruppe un attimo, forse per trattenere un gemito di tristezza, «penso abbiano usato la corrente.» Incredulo, paralizzato, con gli occhi sul referto avevo ascoltato tutto allontanandomi idealmente sempre di più dalla vittima. La persona che conoscevo io non faceva parte di quel mondo mafioso, non le si avvicinava nemmeno, e mi domandavo se le frequentazioni degli ultimi due anni, la sua nuova relazione o il suo nuovo lavoro, potessero aver influito a mettermi davanti agli occhi questa sconosciuta. Mi alzai seguito dagli sguardi di tutti e cominciai a bere il caffè, riflettevo e forse mi sentivo addirittura meglio, mi rasserenava l’idea di non poter essere minimamente utile alle indagini. «Denti, io non ti servo, anche se volessi è passato troppo tempo ed evidentemente sono cambiate troppe cose. Se mi chiedete di farmi venire in mente una pista da seguire, sinceramente non ce l’ho, bisogna partire da zero.» Roberto, una volta tanto, mi guardò con un minimo di comprensione, anche per lui l’esito dell’autopsia portava a conclusioni inverosimili. «Ho mandato alla scientifica i vestiti da analizzare, ho pensato che


32 potrebbero aver usato abiti non suoi, magari lasciando qualche impronta in giro, sui bottoni per esempio; e poi c’è il ragazzino.» Lupi non ne era al corrente e così lo aggiornai: «Potrebbe essere un testimone, ma non sappiamo cos’abbia effettivamente visto. A una prima impressione poteva sembrare autistico, ma forse era solo spaventato, fatto sta che non ha spiaccicato parola, ma è lui che ha attirato l’attenzione degli agenti.» «Jenny l’ha portato in una casa famiglia dall’assistente sociale, finché non capiamo chi è dobbiamo trattenerlo nella struttura di via Mc Mahon, ho chiesto a lei di provare a farci due chiacchiere domani. In ogni caso alla San Gaetano hanno uno psicologo che può dirci se soffre di qualche disturbo» disse Denti. «Sei in gamba Roby» dissi. «Se abbiamo finito, io e Biondi dobbiamo cominciare il turno.» «Ti terrò aggiornato, non si sa mai» disse lui mentre stringevo la mano a Lupi. «Ah dimenticavo, oggi pomeriggio abbiamo avvisato i famigliari e, come puoi immaginare, i genitori di Lisa erano sconvolti.» «Luigi, passa a dirgli una buona parola, ne hanno bisogno» quasi mi supplicò il dottore. Uscii dall’ufficio senza aggiungere altro, cosa avevo da dire a Gianni e Stefania? Anche con loro il rapporto si era interrotto da tempo, che spazio potevo occupare io in questo dramma famigliare? Ovviamente ci pensò Biondi a schiarirmi le idee sul posto che occupavo: «A proposito ispettore, Denti non lo ha detto, penso per non farla incazzare, ma…», mi arrestai come una locomotiva in corsa e Biondi per poco non mi investì da dietro, «Lisa era sposata.» Sposata? «Da qualche mese» tentennò. Molto bene, quindi un telegramma di condoglianze sarebbe bastato.


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10.

Il turno di notte era qualcosa che andava oltre il lavoro, era una fase della mia vita e mi ci ero buttato trovandomi perfettamente a mio agio. Avevo fatto tutto il possibile per modificare me stesso e quello che mi circondava eppure non bastava ancora. Maledetta Lisa, cosa vuoi ancora da me? Mentre la doccia fredda della Centrale Operativa mi sferzava il viso, con gli occhi chiusi la vedevo mentre giocherellava danzando sul marciapiede e mi sorrideva trascinandomi per le braccia mentre camminavamo in un pomeriggio autunnale. Era felice, eravamo entrambi felici e io mi sentivo indispensabile per lei, la sentivo aggrappata a me come un usignolo appollaiato su una quercia secolare. La testa mi cedette in avanti e quella specie di sogno si dissolse velocemente, non feci niente per trattenerlo, anzi, lo spinsi lontano più possibile. Un marito, si era persino sposata dopo aver rifiutato la mia proposta “non troverò mai un altro come te!” E invece lo aveva trovato, anche meglio di me evidentemente. «Fanculo» dissi tra me infilandomi un paio di jeans e una camicia asciutta. Il mio abbigliamento casual non era passato inosservato a Biondi che era abituato a vedermi sempre col solito gessato, ma il morale era ancora basso e, a parte una levata di sopracciglio, evitò commenti inutili. «Che giro abbiamo stanotte?» domandai. «Circonvallazione interna, si rimane in centro e se Dio vuole non dovrebbe più piovere per qualche giorno.» Ci mettemmo di pattuglia con la radio a basso volume, la città era silenziosa, anche in centro davanti al Duomo c’era poco movimento. L’eco di qualche bottiglia rotta davanti a Palazzo Reale era uno dei tanti piccoli sfregi che rovinavano Milano. Ogni volta che avvertivo queste piccole mancanze di rispetto di chicchessia nei confronti della mia città


34 ci restavo male, forse stavo davvero invecchiando, ma sentivo di avere ragione. Misi il braccio fuori dal finestrino abbassato, procedevamo a passo d’uomo su via Dante e mi venne in mente quante volte con Lisa avevamo fatto la passeggiata fino al Castello Sforzesco. Adorava fare compere in Vittorio Emanuele e ogni volta ci piaceva chiudere con quella bella camminata ed era un peccato che non l’avessimo mai fatta la sera tardi come in quel momento. Le luci del fontanone di Cairoli danzavano riflettendosi sulle mura e in parte si propagavano sugli alberi del Parco Sempione. Mi venne alla mente qualche foto che avevamo scattato proprio all’interno del polmone verde durante i mercatini di Natale. Bella Milano, non avrò mai paura di dire che questa città sa essere elegante e insieme a Lisa l’avevo vissuta in lungo e in largo. “Guardala con gli occhi giusti” mi diceva lei per convincermi che era tutto perfetto intorno a noi. Potevamo essere in qualsiasi posto, anche il più desolato del mondo, e lei ci trovava qualcosa di positivo. Stavo viaggiando pericolosamente nei ricordi di qualcosa che non sarebbe mai più stato e io non ero più quel tipo di persona, i miei occhi vedevano le cose con realismo: vedevo lo spaccio, i furti, i piccoli vandalismi e la criminalità organizzata e ora… ora lei, di nuovo, sdraiata in un vicolo con la testa insanguinata e tanto cambiata da non sembrare quasi più la stessa, esattamente come Milano che sembrava, ogni giorno di più, una bella donna vestita da puttana. A chi hai venduto l’anima Lisa? «Cosa facciamo adesso?» chiese Biondi. «Mica crederà che fosse coinvolta in qualche giro sbagliato?» Non credevo alle mie orecchie, ma perché insiste? Perché? «Non facciamo proprio un bel niente!» strillai. «Fermi la macchina al primo baracchino, ho sete.» Dopo aver girato intorno al parco, ci lasciammo l’Arco della Pace alle spalle e, a metà di Corso Sempione, accostammo vicino a un piccolo bar itinerante posizionato in uno spazio ricavato tra gli alberi che costeggiavano la strada a quattro corsie. La zona mi era molto famigliare e sembrava che, per qualche strana maledetta coincidenza, ogni cosa mi riportasse alla mente lei, come quel piccolo parco su una strada laterale dove, freschi di fidanzamento ci


35 eravamo seduti a chiacchierare e proprio lì, in un’estasi irripetibile, lei mi aveva chiesto se le avrei dato tanti bambini. Ci sedemmo su due sgabelli e ordinammo da bere a uno dei ragazzi che gestivano l’attività. Erano stati bravi, avevano trasformato una casetta in lamiera in una sorta di piccolo lounge bar low cost, così credo che si dica nello slang dei giovani nottambuli, e si potevano anche permettere un cameriere, un ragazzotto cinese, la zona ne era piena dato che via Paolo Sarpi non era lontana. «Ispettore, la verità è che sono preoccupato per i miei figli, per il futuro che li aspetta. Se le brave persone muoiono così, vuol dire che siamo tutti a rischio, o no?» Il filosofo Biondi o lo sopportavo o lo sopprimevo, ma dovevo tenermelo così. «Ha mai giocato a biliardo?» Rimase perplesso. «Sì, quel gioco con le palle colorate» lo scimmiottai. «Sì sì ci mancherebbe, lo so cos’è il biliardo, mio padre in Sicilia ci gioca a boccette.» «Ecco», ripresi, «una palla da biliardo la si può guardare da tante angolazioni, ma rimane sempre quello che è. Se per anni su quel tavolo ci giocano a carambola è una palla da carambola, se poi un giorno qualcuno ci gioca a boccette, diventa una palla da boccette.» Mi seguiva con attenzione per capire il senso del discorso, il termine di paragone a cui volevo arrivare, e gli stava scappando un sorriso. «Ah ho capito, ci sono, è un po’ come dire che le persone cambiano e in effetti, oggi come oggi, tra i terroristi e i serial killer, che per fortuna in Italia ce ne sono pochi, e quelli che non hanno più un soldo e si mettono a rubare… insomma c’è da sperare di crescere dei figli con la testa sulle spalle, coerenti, con i valori!» Potevamo bere solo acqua, per lo meno lui, io la birretta non me la negavo neanche in servizio, così ricambiai il suo sorriso e gli riempii il bicchiere. «Quello che volevo dire, Biondi, è che se un giorno due giocatori di stecca litigano e uno dei due si incazza di brutto, può prendere una bella numero otto e usarla come tira pugni. Ha mai visto uno zigomo spaccato con una palla da biliardo?» Il poveretto si ingozzò, non si aspettava un finale di storiella così crudo. Gli diedi due belle pacche sulla schiena. «Respiri, respiri, adesso ha capito? Ci sono tante palle che ti girano per le mani nella vita, il gioco lo decidi tu, i tuoi figli faranno le loro scelte e Lisa avrà fatto le sue, io non lo voglio sapere, sa perché? Perché quello che sono oggi, in parte è frutto di una sua decisione e sinceramente non mi piaccio molto.»


36 La lezioncina era finita, c’era afa nell’aria e le zanzare a quella tarda ora avevano già mangiato, quindi potevamo lavorare senza stress. «Biondi posso darti del tu?» «Ma certo! Io non mi sono mai permesso ma…» Lo stoppai subito: «Infatti tu non ti devi permettere. Comunque stai tranquillo, Denti è bravo e tenace più di me, non è più il mio tempo per la ex signorina Levi.» Salimmo in macchina e ricominciammo il giro.


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11.

Sognavo raramente e quando succedeva ero talmente sorpreso che mi sembrava tutto vero. Correvo affaticato, in mezzo a una campagna con l’erba alta e seccata dal sole, c’era una mano che si allungava verso il mio braccio, era questione di centimetri, sentivo i suoi passi dietro i miei, mi sarebbe scoppiato il cuore ma non mi sarei fatto prendere. Di fronte non vedevo altro che un campo sconfinato, scappavo più velocemente possibile ma i movimenti si rallentavano, come se mi muovessi in un ambiente liquido. Avevo paura, sapevo che mi stava raggiungendo, non volevo che le sue braccia mi bloccassero a mo’ di tenaglia, ma le sentivo già su di me. Mi buttai in avanti, in un gesto disperato, e rimasi sospeso, quasi immobile, e mi fu addosso. «Vieni! Avanti così! Piano adesso!» Le urla dei netturbini e un tonfo metallico rimbombarono sotto la finestra del mio appartamento. Avevo ancora i vestiti addosso e non ricordavo niente delle ultime otto ore, neanche come mi ero ritrovato nel letto a pancia in giù con un braccio penzolante oltre il materasso. Le lenzuola non avevano un buon odore e avevo la faccia mezza schiacciata sotto il peso della testa che mi pulsava. La luce filtrava dalle persiane, ma non mi sarei mai mosso da lì se non fosse stato per il mal di testa, mi sentivo le ossa rotte, svuotato di ogni energia. Rotolai sulla schiena, mi tastai il polso alla ricerca dell’orologio ma non c’era più. In una tasca dei pantaloni trovai il cellulare, era spento da giorni, non amavo la vita in tempo reale, lo vedevo ancora come un oggetto da utilizzare per le emergenze. Lo accesi e dopo pochi secondi il display si riempì con messaggi di chiamate perse: Biondi, Lupi, Denti innumerevoli volte e per ultimo un sms ricevuto un’ora prima dal Vice Questore: “Per tua disgrazia


38 dobbiamo vederci, te lo anticipo, ti chiamerà Dal Colle, quindi non spegnere il telefono.” Mi innervosisce essere prevedibile e detesto ancora di più l’arroganza di chi ti vuole dimostrare di conoscerti fin troppo bene. L’aspetto positivo della piccola incazzatura mattutina era che il dolore alle ossa passò in secondo piano, avevo bisogno di una tazza di caffè, così mi alzai, mi tolsi le scarpe per far prendere aria ai piedi e camminai in quella specie di campo minato che era il pavimento, fino alla finestra per dare luce alla stanza. Avevo ancora una vecchia versione di segreteria telefonica in buono stato, era appoggiata su uno schedario di metallo verde scuro che avevo recuperato in discarica ai tempi dell’ultimo trasloco. La spia rossa lampeggiava, memoria piena. Pigiai il tasto play e mi spostai nel cucinino di due metri quadri. Cercai, nella montagna di stoviglie sporche accumulate nel lavandino, la caffettiera e la misi sul fuoco. “Gallo sono Denti, ti ho chiamato venti volte sul cellulare, dove cazzo sei?” Questo era del giorno prima: “Ispettore parla Biondi, perdoni il disturbo, Denti la cerca” Ero circondato da gente insistente e fastidiosa. Il caffè era un vizio ereditato da mia madre, meglio quello che le sigarette o altro, e lo custodivo gelosamente come panacea di tutti i mali, soprattutto dello spirito. Il profumo di tostatura saliva a coprire il cattivo odore dell’immondizia e dei piatti da lavare. Mi erano rimaste un paio di fette di pane in cassetta, ci spalmai sopra del burro e del miele prelevato da un barattolo da chilo che avevo in casa da almeno un anno. «Colazione da Re» mi dissi. “Sì pronto buona sera Gallinari sono Ferrari, l’amministratore di condominio. Senta un po’, le ho spedito già un paio di raccomandatine…”, mi piaceva l’accento di un milanese doc, “… i vicini di casa, quelli che abitano sotto di lei, c’hanno le formiche che scendono dal muro del balcone. Dia un’occhiatina va’, che non voglio casini con l’Asl.” Voltai lo sguardo verso i tre sacchi neri che occupavano tutto lo spazio del terrazzino. «Sarà fatto, ma solo perché quelli sotto sono simpatici.» Un paio di registrazioni erano vuote, qualcuno aveva riattaccato alcuni secondi dopo l’entrata della segreteria, due telefonate a distanza di un’ora.


39 Mi tolsi i vestiti e rimasi in mutande, il termostato segnava già venticinque gradi e mezzo, forse mi sarei riaddormentato ma ero stordito, avevo la testa più appesantita del solito. Sedetti sulla sedia di fronte alla piccola scrivania nell’angolo, mi stropicciai gli occhi e soffocai uno sbadiglio. Il telefono di casa squillò ma non risposi. “Gallinari sono Dal Colle, sul cellulare ci rinuncio”, che goduria averlo sempre in silenzioso e fargli girare i coglioni, “la aspetto nel mio ufficio per le cinque di oggi pomeriggio, devo parlarle del caso Levi… puntualità per favore e guardi che Biondi non è il suo tassista, quindi veda di attivarsi.” Quanto adoravo quell’idiota del mio capo, ricambiavo la sua simpatia presentandomi sempre sistematicamente in ritardo. Non era sicuramente Biondi a lamentarsi, ma la benzina costava cara anche alla Polizia e per Dal Colle ogni occasione era buona per rompermi le palle, d’altra parte era un frustrato e da qualche parte doveva andare a parare. Io ero un menefreghista, ma quel minimo stipendio mi serviva, quindi evitavo di girare armato quando lui era nei paraggi per non cadere in strane tentazioni. La porta di casa era solo accostata e me ne accorsi perché un piacevole filo d’aria mi aveva sfiorato la pelle. Controllai la maniglia e la zona della serratura, le chiavi non erano inserite all’interno come al solito, potevo essere stato talmente stordito dalla stanchezza da averla lasciata aperta? Forse sì, dato che avevo ancora qualche capogiro. Sul battente, infilato nella fessura, c’era un biglietto piegato a metà, all’interno c’era un nome esotico, Penelope, e un numero di telefono. Dovevo farmi spiegare da Biondi come era finita la nottata, per me era buio pesto, l’ultimo ricordo si mescolava tra una chiamata per una rissa fuori da un locale in Corso Como e un ragazzotto che cercava di prendere le parti di un suo amico che aveva trovato per terra una borsetta. A questo punto, Penelope poteva essere il nome di una donna delle pulizie suggerita dal palazzo oppure qualcun’altra che si era creata delle false aspettative intorno al mio portafogli. Nell’aria cominciava ad aleggiare profumo di soffritto, cucina italiana ma la cuoca forse no. Mi affacciai dalla feritoia del piccolo bagno che somigliava di più a un posto di guardia nella torre di un castello.


40 Dava sul cortile interno del complesso di palazzi a mattoni rossi delle case popolari in cui mi ero rifugiato come un topo nel buco. Ero in una zona della periferia nord dove tutto sembrava fatto su misura. Probabilmente qualche associazione a delinquere di architetti, geometri e costruttori, negli anni Sessanta, aveva utilizzato unità di misura buone per i nani e i revisori si erano bendati gli occhi per non vedere. Non mi piaceva nulla di quel posto, né le persone, né l’ambiente, però era il luogo perfetto in cui mimetizzarmi, mescolato nel calderone del popolino. La reputazione di poliziotto mi aveva anticipato, mi conoscevano più persone lì dentro che negli uffici della Centrale Operativa e non si trattava di conoscenze proprio amichevoli. Di inviti a cena non ne avevo ricevuti e non me ne aspettavo, al contrario, chi mi incrociava si divideva in due categorie: chi l’aveva fatta grossa e mi evitava, oppure chi cercava una protezione sponsorizzata dalla legge per salvaguardare il proprio piccolo giro di introiti non eccessivamente legali. Ero controllato da tutti e da qualcuno in particolare. «Pino!» chiamai ad alta voce il figlio del custode, un tipo strano, l’avrebbero definito lo scemo del villaggio, però aveva un ruolo ben preciso in quel microcosmo. «Ueh capo!» rispose una voce dal basso. «Se avanza qualcosa chiama la prossima volta!» Il messaggio in codice aveva un nome, Penelope, ora sapevo chi mi aveva assistito e immaginavo si trattasse di una che non passava inosservata. Presi il cellulare, quanto tempo era che non lo usavo per chiamare qualcuno? «Pronto Biondi, mi senti?!» Sembravo un soldato in mutande nel bel mezzo dello sbarco in Normandia. «Ti aspetto fra un’ora», sapevo già che avrebbe risposto con una serie di ma e però, «non me ne frega un cazzo di quello che dice Dal Colle. A proposito», aggiunsi facendo un’associazione di idee particolarmente calzante, «stanotte mi hai fatto portare a casa da una mignotta?»


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12.

Quante volte si può azzerare il contachilometri della vita? Imbocchi una strada e la percorri senza sapere quanto è lunga, ma ci vai convinto che è la tua perché l’hai scelta, poi arrivi a un bivio e ricomincia tutto da capo. Una volta raccontai a Lisa alcune di queste fasi che appartenevano al mio passato ed era rimasta sorpresa: “Ma quante cose hai fatto?! Sembri una persona che ha già vissuto tante vite diverse!” Era molto più giovane di me e non poteva ancora capire che è proprio così che stanno le cose. Misi piede nell’ufficio di Dal Colle con mezz’ora di ritardo e mi trovai davanti, in carne e ossa, uno di quei bivi, ma potrei definirlo più una curva a gomito che avevo preso a tutta velocità. La Vice Questore Giulia Nardi andava presa così, col piede sull’acceleratore, ma già ai tempi non avevo né il motore né le gomme abbastanza nuove per tenere il passo ed ero finito fuori strada. Si era presa il posto dietro la scrivania del commissario e lui era chinato dietro di lei a scrutare delle carte. «È permesso?» chiesi. Lo sguardo di Dal Colle era come al solito infastidito ed emaciato. «Gallinari, finalmente» disse alzando gli occhi verso il pendolo attaccato al muro. «Forza, entri e chiuda la porta per cortesia.» Ovviamente, da buon arrivista, la presenza del suo diretto superiore lo metteva in ansia. «Signorina Nardi le presento l’ispettore Gallinari, perdoni il suo ritardo ma è uno dei nostri operativi del turno di notte, quindi per i suoi standard siamo un po’ fuori orario.» Si stava quasi prostrando come un Re Magio e Giulia sollevò lo sguardo divertito sopra gli occhiali per guardarmi. «Non si preoccupi Dal Colle, con l’ispettore ci siamo già incrociati qualche volta e mai con puntualità.» L’ultimo nostro incontro risaliva a qualche anno prima e non sapevo cosa aspettarmi, o meglio, pensavo di trovarmi di fronte una donna di ferro, fredda e spietata, come al solito pungente. Il suo sms mi aveva messo in guardia o cosa?


42 Fatto sta che, superato il momento di imbarazzo più mio che suo, si alzò dalla sedia e mi venne incontro porgendomi una calorosa stretta di mano. «Ne è passato di tempo» disse guardando ogni centimetro del mio viso. Era diventata affascinante, aveva ottenuto quello che voleva e da quel corpo ancora snello e atletico traspariva energia allo stato puro. «Abbastanza» le risposi. Il suo stile si era fatto più formale, ma vedevo ancora le tracce della mia ex moglie nascoste qua e là: stessi capelli scuri e mossi, trucco leggero, labbra sottili e sguardo fiero. Quella volpe di Dal Colle era talmente concentrato su se stesso da non sapere di questo regresso che riguardava me e Giulia. Ci avvicinammo a un tavolo a vetro col piano illuminato. «Innanzitutto mi dispiace averla fatta convocare per il caso Levi, mi hanno informato che siete stati legati per un certo periodo e immagino non sia un bel momento.» Mi dava del Lei, era dispiaciuta, l’avevano informata. Stava chiaramente recitando, si riferiva a questo, quindi, il suo messaggio del pomeriggio. «Sì, ma parliamo di due anni fa e, come ho già detto all’ispettore Denti, che segue il caso, non credo di poter essere minimamente di aiuto.» Dal Colle annuiva, figuriamoci, il primo sostenitore della mia inutilità sarebbe stato lui senza ombra di dubbio. «Per giunta», aggiunsi, «Lisa Levi si è nel frattempo sposata», Giulia mosse leggermente la testa, traduzione: “ma guarda”, «ha cambiato lavoro e probabilmente frequentazioni, rischierei addirittura di fuorviare le indagini.» Lei mi guardò di traverso corrucciando le sopracciglia per un attimo, mi voleva rimproverare in qualche modo, stava comunicando con i suoi tipici piccoli gesti. Prese un fascicolo alto una spanna e ne tirò fuori delle fotografie, erano tutte simili a quelle che mi aveva mostrato Lupi la sera prima, ma appartenevano a persone diverse. «Giovanni Didio, quindici anni, trovato nelle campagne di Prato nel gennaio 2014.» Con pollice e indice spostò sotto i miei occhi altri scatti: «Alice Acquani, quarantotto anni, trovata nello scantinato di un caseggiato alla periferia di Firenze ad aprile dello stesso anno.» E ancora: «Felice Guidi, quarant’anni, trovato in una cascina abbandonata nelle campagne della Maremma a dicembre, un bel regalo di Natale.» Dal Colle sudava, forse aveva già visto tutto almeno due volte, ma non era abituato a confrontarsi con la parte macabra del nostro lavoro.


43 La Vice Questore raccolse in un solo colpo tutte le istantanee e ne buttò altre sul tavolo: «Anno nuovo vita nuova: Alessandro Scarpi, cinquantun anni, trovato accasciato in una delle strade principali di Genova», stesse lesioni da bruciatura, «Paola Onofri, venticinque anni, trovata su un treno notturno arrivato alla Stazione Termini a Roma in pieno agosto e infine Paolo Werner, trentotto, camuffato da sciatore, lo hanno lasciato sulla pista più trafficata del Sestriere.» Altro colpo di mano e foto sparite nel raccoglitore. «Avete informato Denti?» chiesi. Alla mia domanda si mossero come due ballerini di tiptap. «Dovete parlarne con lui, non con me. Se avete una pista che parte da così lontano avrete anche un sacco di informazioni da passargli.» Rimasi in attesa di una conferma, di una spiegazione, ma quel silenzio era preoccupante e Giulia non lo poteva accettare: «In accordo col commissario abbiamo deciso di lasciare che il collega Denti lavori senza condizionamenti, come se l’indagine su Lisa Levi sia slegata da questi altri casi. Vogliamo, innanzitutto, arrivare a chi ha direttamente eseguito l’omicidio.» Perché risolvere un’equazione partendo dal risultato finale? «Ammesso anche che questa strategia porti a dei risultati, continuo a non capire perché sono qui.» Dal Colle prese malvolentieri la parola: «In Questura ritengono che la sua posizione possa essere strategica in quanto la morte di Lisa Levi chiude un cerchio che si è aperto all’incirca due anni fa, quando eravate ancora una coppia.» Santo cielo, quanta merda aveva dovuto ingoiare il mio capo per definirmi uno da posizione strategica? Scossi la testa, la storia cominciava a riempirsi di interrogativi: «Il marito», cercai gli occhi di Giulia che nel frattempo si distraeva col cellulare, «avete contattato il marito? Chi è? Cosa sa?» A quel punto tirò fuori due ritagli di giornale, erano articoli firmati da Lisa stampati su una delle testate emergenti più vendute in Italia e all’estero, ce l’aveva fatta anche lei quindi a sfondare, ma a che prezzo? «Il marito di Lisa è uno dei proprietari de Il Notiziario, di più non posso dirti, almeno finché non accetti di far parte di una squadra speciale.» Gli articoli dicevano: RIPARTE LA COOPERAZIONE TRA LE DUE COREE: DOPO CINQUE MESI DI INATTIVITÀ RIAPRE KAESONG


44 Scritto il 17 settembre 2013 Chiuso dallo scorso aprile, il parco industriale di Kaesong, considerato il simbolo della cooperazione economica tra le due Coree, ha ripreso ieri le sue attività. Realizzato nel 2004 all’interno dei confini nord-coreani e a circa dieci chilometri dalla frontiera, Kaesong è una fonte di reddito per il nord, ma è anche strategico per le industrie del sud. Gestito da 123 imprese sudcoreane, che impiegano 53 mila lavoratori del Nord, Kaesong è stato chiuso cinque mesi fa da Pyongyang in un clima di forti tensioni dovuto principalmente alle minacce nucleari lanciate dal regime del giovane Kim Jong-un. Secondo il ministero dell’Unificazione sudcoreano, circa 820 imprenditori, supervisori e lavoratori di 90 compagnie hanno superato questa settimana la frontiera per tornare in fabbrica, dove si sono presentati circa 32 mila operai del Nord. In questi giorni i lavori non saranno a pieno regime, ma si testerà lo stato dei macchinari inattivi da aprile. La sospensione delle attività, riporta l’agenzia di notizie sudcoreana Yonhap, è costata alle imprese di questo paese una cifra equivalente a 691 milioni di euro. Per evitare che la tensione militare incida nuovamente sulla vita di Kaesong, le due Coree hanno creato un comitato che supervisionerà l’attività imprenditoriale dell’impianto. Al fine di chiarire ogni dubbio sul futuro, la Corea del Nord ha anche invitato imprese straniere a installarsi a Kaesong. Costruita al termine degli accordi raggiunti al vertice intercoreano del 2000, la zona di Kaesong è stata considerata il simbolo della riconciliazione, della cooperazione e della riunificazione della penisola coreana e ora è ostaggio della crisi politica in corso da mesi. SEUL CHIUDE IL COMPLESSO INDUSTRIALE MISTO KAESONG Scritto il 10 febbraio 2016 Il ministero dell’Unificazione di Seul ha annunciato la chiusura definitiva dell’insediamento industriale, l’ultimo simbolo pratico dei tentativi di riconciliazione intercoreani: «Le attività del complesso non devono poter essere utilizzate per finanziare lo sviluppo di armi di


45 distruzione di massa in un momento in cui la comunità internazionale sta procedendo verso nuove sanzioni contro il Nord.» Già nell’aprile 2013 Kaesong era andato incontro a un fermo per circa quattro mesi, ma in quel caso su iniziativa del Nord, che protestava per le manovre militari congiunte tra le forze militari di Seul e Washington. Nell’accordo per la ripresa delle operazioni, le due parti avevano concordato di non effettuare più sospensioni in nessuna circostanza. In teoria, la chiusura del complesso toglie alla Cina una argomentazione per evitare di applicare sanzioni significative verso la Corea del Nord. Dall’atteggiamento di Pechino dipende gran parte dell’efficacia delle sanzioni internazionali verso Pyongyang, che il Consiglio di sicurezza sta discutendo su come rafforzare dopo il test nucleare del 6 gennaio e il lancio missilistico dei giorni scorsi. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

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