L'ultimo giorno di giugno, Elena Celio

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In uscita il 31/1/2018 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio fbbraio 2018 ( ,99 euro)

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ELENA CELIO

L’ULTIMO GIORNO DI GIUGNO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni

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L’ULTIMO GIORNO DI GIUGNO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-170-9 Copertina: Immagine Shutterstock

Prima edizione Gennaio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


L’ULTIMO GIORNO DI GIUGNO


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INTRODUZIONE

Era difficile sopportare me stessa nel repentino passaggio dall’euforia incontrollata alla tristezza infinita. Mi tormentavo ogni giorno perché avevo l’impressione di stare a sopravvivere. Restavo ferma e aspettavo, impaziente di cominciare a esistere. Era la sensazione dell’attesa prima del fischio di partenza. Non mi ero ancora resa conto che stavo già vivendo. E finché attendevo qualcosa che nessuno mi aveva assicurato che sarebbe arrivato, mi facevo confortare dalle parole. Bellissimi suoni intensi e inzuppati di significati più o meno visibili a occhio nudo, nascondigli perfetti per segreti difficili da scovare, legate alle loro origini e modellate dal tempo e dalla storia. C’era la sequenza di parole che ero io, vergognosamente io. E me l’aveva dedicata un mio grande amico una mattina di un ottobre lontano. Diceva: “e non succedeva mai niente di interessante. Niente. La gente era limitata e diffidente. Tutta uguale. E io dovevo


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vivere con queste teste di cazzo per il resto della mia vita. Pensavo” . Charles Bukowski. La seconda sequenza breve di suoni me l’aveva regalata un giorno di novembre la segretaria dello studio legale dove lavoravo, alla quale erano bastati solo pochi mesi per decifrarmi nei minimi particolari: “sono il tipo di persona che vorrebbe girare il mondo ma che al momento ha solo tre euro”. Sconosciuto. La terza era una poesia. E non me l’aveva mai dedicata nessuno. Rappresentava l’amore che avevo sempre desiderato e che non avevo mai avuto la fortuna di incontrare: “Il più bello dei mari è quello che non navigammo, il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto. Il più bello dei nostri giorni non lo abbiamo ancora vissuto. E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto.” Nazim Hikmet È così che iniziai a scrivere per trovare qualcosa, o forse soltanto me stessa.


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TEMPLES. KEEP IN THE DARK.

Se avessi potuto scegliere una vita differente, avrei saputo esattamente quale tipo di esistenza volere. Il denaro non mi avrebbe garantito la felicità, questo era chiaro e soltanto gli imbecilli la pensavano diversamente. Tuttavia, avrei avuto una lista ben definita di caratteristiche apparentemente frivole che mi avrebbero garantito una certa serenità. Che non avrebbero avuto nulla a che fare con la disperata felicità che ogni essere umano cerca incessantemente, ma che mi avrebbero certamente alleggerito il carico di questa vita “misericordiosa” che già verso i trent’anni trovavo pesante e paradossale. Da ragazza, avevo iniziato a cercare di capire che tipo di donna sarei voluta diventare. Immaginavo perfino che tipo di vestiti avrei voluto indossare, un giorno, fra qualche anno. Avevo avuto l’imprudenza ostile di fare tutto quello che mi risultava difficile, come se le cose semplici fossero troppo noiose per una come me. Quando mi concentravo tenacemente a pensare cosa sarebbe stato il mio futuro, ero quasi certa che avrebbe comportato tantissima gioia e una soddisfazione profonda.


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Anche se tutti mi additavano come una catastrofica pessimista, dentro di me ero solare e sorridevo sempre, soprattutto quando non c’era nulla di cui ridere. Appena mi indirizzai verso il Tribunale, per fare quei giri di cancelleria che ogni praticante conosceva bene, il sole che illuminava il mio cammino venne parzialmente oscurato da una nuvola nera e carica di pioggia. Indossavo le scarpe basse che ero solita portare e che non avevano nulla di professionale, né tanto meno di femminile. Avevo cercato di insistere con me stessa per riuscire a infilare quelle calzature con il tacco medio-alto che restavano sempre all’ultimo ripiano della scarpiera (e che mi avrebbero resa certamente più apprezzabile agli occhi maschili), ma ricadevo quasi sempre su quelle ballerine con la punta ammaccata e la suola semi aperta. Non portavo mai l’ombrello con me, neppure in quel periodo dell’anno in cui le piogge arrivavano all’improvviso e inaspettatamente scendevano acquazzoni tanto piacevoli quanto poderosi. Come durante quella mattina di giugno in cui la nuvola nera aveva oscurato il cielo e io avevo accelerato il passo, sapendo che le mie fidate ballerine non sarebbero sopravvissute a un’altra pozza d’acqua. Entrai dall’ingresso principale del tribunale, indisturbata e senza subire controlli, che non erano mai stati previsti in


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quel luogo dove nessuna personalità di spicco aveva mai messo piede. Il palazzo di giustizia si trovava in un vecchio edificio costruito negli anni venti, dove aveva risieduto una certa nobildonna francese avvezza agli incontri extraconiugali. Probabilmente l’unica personalità straniera e di una certa levatura sociale che aveva scelto di intrattenere rapporti con la piccola città. Mi piaceva immaginare le attuali stanze dei giudici come le camere da letto di quella signora che avrei voluto incontrare in uno di quei corridoi, e le aule di giustizia come le sale da pranzo della villa antica, che manteneva qua e là qualche ricordo dello stile liberty da cui traeva origine. Viveva in me un certo dualismo che mi faceva provare, da un lato, una forte ammirazione per quelle donne rivoluzionarie e anticonformiste che vivevano circondate da tanti uomini bellissimi, e dall’altro, la consapevolezza che non sarei mai stata a mio agio fra troppe braccia maschili. Mentre percorrevo il corridoio frequentato da una strana moltitudine di persone, vidi che nell’anticamera della stanza principale c’erano parecchi poliziotti e diversi personaggi ombrosi che camminavano a gruppetti di due o tre persone, attendendo l’arrivo dei giudici della Corte. Si trattava di un processo per omicidio che vedeva come imputato un uomo dallo sguardo vuoto. Incrociò i miei


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occhi dalla fessura della porta dove restava in attesa di presenziare alla prima udienza di comparizione delle parti, ammanettato, e seduto su una panchina di legno accanto alle Forze dell’Ordine. Lo capii guardando il cartellone delle udienze affisso al muro davanti a me, dove il suo delitto padroneggiava tra quelli meno gravi di furto, tentata violenza sessuale e ricettazione. Nonostante fosse una piccola cittadina, in quel luogo così apparentemente desolato, avvolto dall’afa estiva già durante la primavera e dalla nebbia melanconica già prima dell’inverno, si verificavano quotidianamente una serie di reati piuttosto interessanti per noi praticanti. Mi resi conto che il clima così fastidioso e la calma apparente fomentavano gli animi irrequieti che in quelle zone parevano essere piuttosto numerosi. Era stando in quel posto bieco e un po’ desolante che noi praticanti potevamo assistere a innumerevoli violenze in famiglia, tentati stupri, furti e lesioni gravi che rappresentavano un po’ il carattere del luogo o, come disse una volta un mio professore soggiogato dal cinismo, “il piatto tipico del paese”. Era osservando la gente alquanto discutibile con cui avevo iniziato a rapportarmi che capii che dalle persone non ci si doveva aspettare poi molto.


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Mi era bastato poco più di un anno dalla laurea in giurisprudenza per rivedere la mia scala dei valori della moralità umana. Quelli che commettevano un furto non erano cattivi come quelli che picchiavano qualcuno, che giustificavo sistematicamente nel caso in cui fossero stati preventivamente importunati dalla vittima. Quelli che distruggevano qualcosa che apparteneva a qualcun altro non mi facevano neppure timore, quelli che spacciavano, al più, mi provocavano un sorriso di compassione e quelli che commettevano un omicidio generalmente mi tormentavano meno di chi picchiava una donna. Ero oramai ammaestrata a confrontarmi con i delinquenti tipo della provincia, che frequentavano abitualmente lo studio legale dove avevo trovato posto a sedere. Ero finita in quell’ufficio della piccola cittadina dopo essermi laureata senza lode e senza soddisfazione nella facoltà di giurisprudenza di una delle università più rinomate del paese. Al termine di quel caotico, lungo e devastante percorso di studi, ero arrivata alla conclusione che non avrei mai voluto fare l’avvocato, che non avevo nulla a che fare con quel mondo e che disprezzavo assolutamente tutti quelli che ne facevano parte. Per questo motivo, e nonostante avessi avuto occasione di lavorare per alcuni importanti studi della città dove avevo


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studiato, scelsi di stare dalle mie parti e, secondo alcuni, buttai sul cesso un’occasione importante, come ero solita fare. La verità è che la mia primordiale vocazione verso il mondo giuridico era stata offuscata dalla realtà delle cose e nel tentativo quotidiano di trovare un’alternativa, andavo semplicemente avanti, con la disperazione di chi cerca una via di fuga. Nelle udienze di fronte al tribunale monocratico della piccola provincia dove avevo scelto di svolgere il mio periodo obbligatorio di pratica forense, provavo sempre una sorta di imbarazzo per chi vi doveva patrocinare. Gli avvocati che si sentivano importanti erano, nella maggior parte dei casi, poco avvezzi alla tecnica della parola. Erano, per lo più, in estrema difficoltà quando si trattava di utilizzare alcuni congiuntivi, e, alle volte, anche il passato remoto destava qualche perplessità. Molti di loro si pavoneggiavano tra i corridoi del tribunale accompagnando la propria valigetta verso una meta imprecisa. Alcune avvocatesse avevano svariati problemi a camminare su quelle scarpe costose e di certo scomode (ma di tendenza), altre sembrava stessero andando a un party fuori città, e gli avvocati, poveri polli, tentavano disperatamente di darsi un tono che scompariva appena iniziavano a parlare.


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Io guardavo tutto dal basso, generalmente seduta in un angolo della stanza o in fondo all’aula di giustizia. Alle volte pareva un mondo surreale, un po’ pacchiano, vivace e certamente divertente (per una che non doveva essere giudicata). Il mio punto di osservazione mi consentiva sempre di vedere senza farmi notare e di sorridere nascondendomi la bocca, per non essere troppo presuntuosa (o troppo poco modesta). Era un luogo pieno zeppo di stimoli per chiunque avesse voluto raccontare la storia dell’umanità con l’uso della satira e della perversione leggera. Cercavo di sopportare il tempo guardandomi attorno. I miei genitori, ignari di quanto mi piacesse osservare, insistevano ormai da anni dicendomi che avrei dovuto continuare a testa bassa il mio periodo di gavetta obbligatoria, nel frattempo studiare, battermi, e alla fine riuscire a superare quei famigerati e venduti concorsi statali utili per diventare magistrato o giudice, se non addirittura Presidente della Repubblica (secondo la visione contorta di mio padre per cui avevo perso già molteplici occasioni per «buttarmi in politica»). Il mio titolare o domina (per chi è del mestiere) era una giovane avvocatessa dalle idee apparentemente chiare, che un po’ mi affascinava e un po’ mi tormentava. Su di lei giravano molte storie provinciali romanzate e condite con una varietà straordinaria di aneddoti (per lo


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più palesemente irreali) che si erano moltiplicati man mano che la voce si era sparsa. In verità, mi aiutò molto a comprendere la mia strada e mi insegnò qualcosa di un mestiere, lasciandomi libera di sbagliare. Mi destò spesso anche una certa tenerezza e un inaspettato affetto per la sua dolcezza inconsapevole. Nonostante tutto e soprattutto quello sforzo immane che era la costrizione di fare senza scegliere quello che avrei voluto fare, lei aveva avuto un ruolo importante nella mia vita di quegli anni, in cui cambiai profondamente. *** Sarebbe stato sicuramente più utile sedermi tra il pubblico di quell’udienza che vedeva come imputato quel tizio dallo sguardo vuoto. Avrei potuto ascoltare almeno una parte di quel procedimento piuttosto che andarmene in giro a fare file e depositare carte, ma sapevo che questo mi avrebbe pregiudicata agli occhi della mia titolare e, memore dell’importanza di terminare il percorso di pratica forense senza troppi intoppi, decisi di mettere da parte la mia timida curiosità verso il diritto penale e di attendere il mio turno alla cancelleria dei decreti ingiuntivi. Era nelle interminabili file degli uffici pubblici che si palesavano gli esseri umani in loco.


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Tra sconosciuti ci si raccontava qualsiasi cosa, ci si lamentava di ogni circostanza irragionevole della propria esistenza, si litigava a causa del caldo o di quello che aveva approfittato dell’incertezza del vicino per perfezionare un sorpasso, si insultava il proprio capo, si flirtava con il più piacente e in certi casi si confessava un tradimento (mi capitò all’ufficio separazioni). La tizia prima di me indossava una graziosa camicetta blu elettrico senza maniche, che le faceva risaltare il colore chiaro della pelle. Sbuffava e si sventolava la faccia con l’atto di precetto che avrebbe dovuto depositare di lì a chissà quanto tempo. Il tizio vicino a lei aveva una camicia azzurrina impregnata a tratti dall’alone del sudore che gli fuoriusciva dalla pelle che tuttavia, emanava un piacevole odore di muschio bianco. Un profumo piuttosto femminile per un uomo con gli indumenti sempre più inzuppati. Oltre a loro, un’altra praticante come me, che conoscevo bene perché aveva frequentato il mio stesso liceo, la mia stessa facoltà e la scuola obbligatoria per aspiranti avvocati che ci teneva occupate ogni venerdì pomeriggio da un anno a questa parte. Mara, così si chiamava, era dotata di quella sobria presunzione tipica di chi avrebbe fatto carriera in quel mondo così difficile da gestire. Credo che se fosse vissuta, avrebbe potuto difendere qualche istituto bancario senza alcuna remora né


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disprezzo, o addirittura sarebbe potuta diventare un pubblico ministero, di quelli alquanto devoti alle inchieste anticorruzione e piuttosto intransigenti. Poco oltre Carlo, un cancelliere simpatico che non aveva voglia di far nulla, che si divertiva invitando alla pazienza e alla tranquillità chi restava ad aspettare, offrendo loro una caramella o un cioccolatino. Fuori, la pioggia aveva iniziato a scendere senza lasciare spazio alle persone di spostarsi da una parte all’altra della strada. Io guardavo le mie povere scarpe, consapevole che avrei dovuto chiedere loro uno sforzo sovraumano per non scollarsi definitivamente, e ogni tanto controllavo dalla finestra, sperando che il temporale si placasse. Sotto ai miei occhi, una giovane donna mi osservava, o meglio scrutava le mie ballerine quasi fosse mossa da compassione. Era avvolta da un velo scuro che le copriva i capelli, come usavano portare le donne musulmane, ma, a differenza di loro, era vestita con abiti occidentali, un paio di jeans e una t-shirt rossa comunista come quelle che indossavano i giovani liceali che si divertivano a manifestare per qualsiasi futile motivo. La ragazza aveva i tratti delle donne mediorientali. Le labbra carnose e gli occhi grandi lasciavano poco spazio al resto del viso dalla carnagione olivastra, senza un filo di


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trucco e, nonostante questo, priva delle imperfezioni tipiche della pelle. Restava a fissarmi senza un minimo di imbarazzo. «Avanti il prossimo». Il cancelliere urlava invitando la fila a una certa dinamicità, come se avessimo avuto bisogno di essere messi sull’attenti per evitare quell’assopimento fisiologico che colpiva chiunque avesse dovuto attendere per lungo tempo. «Ho detto avanti. Ci muoviamo?» esortava di nuovo il funzionario. «Sto arrivando!» diceva con tono infastidito un signore in giacca e cravatta colpevole di aver fatto cadere sul pavimento i documenti che teneva in mano. «Un momento per cortesia, mi è scivolato il fascicolo» rispondeva. «Chiudiamo tra venti minuti» rimbeccava di nuovo il cancelliere. La cosa che più m’impressionava di tutta quella burocrazia era la maleducazione assolutamente gratuita della gente. Specialmente di tutti quei personaggi che lavoravano agli sportelli pubblici. Certo, non era sempre così, ma una delle cose che i c.d. dominus erano tenuti a insegnare ai loro praticanti era mantenere la testa alta durante gli insulti che provenivano per lo più dai funzionari.


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In quelle circostanze, non era importante quale fosse l’atteggiamento osservato dal neolaureato in legge, non era fondamentale essere servizievole o scegliere la strada dell’arroganza, l’offesa sarebbe arrivata comunque e la prontezza di risposta, qualora vi fosse stata, sarebbe stata motivo d’orgoglio per lo studio legale del praticante avvocato. Il dominus (o la domina) lo avrebbe accolto a braccia aperte, come se si trattasse dello svezzamento, di un battesimo, del primo bacio o della perdita della verginità e gli avrebbe garantito parole di conforto quali: «sono fiero di te, sei portato per questo mestiere». Non ho mai compreso la logica perversa di quel mondo contorto, e più mi infilavo nelle dinamiche umane e professionali di quell’ambiente di “esperti di diritto”, più ne uscivo confusa nelle mie certezze. «Allora? Noi abbiamo del lavoro da fare». Il tizio allo sportello era particolarmente infastidito durante quella mattina di inizio estate e le persone in attesa non stavano assistendo ad alcuna scena differente rispetto alla quotidianità del mondo giuridico. Appena quello iniziò a borbottare animatamente, quasi tutti coloro che aspettavano si misero a sbuffare altrettanto platealmente e, vista la netta maggioranza degli arroganti che attendevano con aria di sfida, il funzionario decise di smetterla e di continuare a testa bassa quello che faceva ogni mattina da vent’anni a questa parte.


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Era così che avevo vissuto il mio percorso di pratica forense. Quell’intervallo di tempo tra la laurea e il giorno dell’esame di stato (che in fin dei conti durava due anni e avrebbe garantito solo a un numero esiguo di giovani, più o meno capaci, di divenire avvocati). Quel periodo di attesa che avrebbe dovuto essere il naturale inserimento nel mondo del lavoro (secondo l’idea alquanto utopistica di un parlamentare che probabilmente aveva studiato filosofia). Quei lunghi mesi, anni, persi e funzionali soltanto al mero sfruttamento legalizzato e obbligatorio, che consisteva nel dare l’opportunità a qualsiasi studio legale di dotarsi di una segretaria tutto fare, a tempo pieno e indeterminato, per giunta gratuita e per forza di cose servizievole. Quell’anno e mezzo (che avrebbe potuto, e dovuto, essere molto più lungo) rappresentava il mio primo atto di totale subordinazione nei confronti di qualcuno e per volere di qualcun altro. Probabilmente e se tutto non fosse accaduto, non sarebbe stata la mia ultima esperienza di assoggettamento totale, ma in quegli anni sentivo più forte una certa propensione alla rivoluzione.


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LED ZEPPELIN. ROCK AND ROLL.

Di quel giugno piovoso ricordo che tutti i miei compaesani erano impegnati ed emozionati dalla nazionale di calcio. Era un appuntamento imperdibile che non aveva mai smesso di restare importante, nonostante qualcuno avesse tentato di screditare quello sport particolarmente stupido (e sfido chiunque a dire il contrario). Eravamo un popolo di intenditori di calcio che faceva parte della nostra tradizione e che diventava spesso molto più importante di qualsiasi altra discussione. Non era soltanto una competizione sportiva, ma anche un momento per evadere dalla quotidianità e vagare con l’immaginazione. In effetti, passavo le giornate a pensare come avrei vissuto se fossi stata la fidanzata, la moglie, la compagna o l’amante di uno di quei calciatori vergognosamente ricchi che vedevo ogni sera, almeno per un mese intero, alla tv. Quella dei campionati di calcio era un’altra occasione che adoperavo con me stessa per immaginare una vita completamente diversa da quella che mi ritrovavo a vivere (era una sorta di frizzante toccasana per molte donne


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giovani o meno giovani, che non si limitavano a guardare il match alla tv, come gli uomini). Decidevo, durante la prima partita degli Europei o dei Mondiali, quale dei giocatori avrebbe potuto essere il mio amore immaginario durante quel mese di gare. Lo decidevo, e passavo i giorni successivi a immedesimarmi così tanto in quella vita irreale, che riuscivo perfino a percepire la voce del mio ipotetico fidanzato, marito, amante, anche se non lo avevo mai sentito parlare. Ero tremendamente attratta da questa tipologia di pensieri un po’ stupidi, alquanto adolescenziali e per lo più imbarazzanti (spesso mi ritrovavo a ridere da sola). Sin da bambina, avevo maturato una tale abilità mentale per cui, in certi momenti, la fantasia diventava realtà e la realtà diventava fantastica per volere della mia fantasia. Ero certa che un giorno sarei impazzita. Per ora, ero consapevole che se avessi voluto passeggiare mano nella mano con uno di quei calciatori belli e immoralmente pieni di denaro avrei dovuto quantomeno avere il culo sulle cervicali e le tette in gola. Di certo avrei dovuto appendere al chiodo le mie scarpe basse, rotte e prive di femminilità per sostituirle con dei tacchi a spillo invivibili e provocanti. In verità ero consapevole e affezionata ai miei difetti fisici, che alle volte diventavano insopportabili e altre volte definivo come meravigliose diversità naturali.


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La mia bellezza dipendeva, tra l’altro, dal momento della giornata in cui mi guardavo allo specchio. Quando mi vedevo disperatamente grassa o quando mi trovavo inspiegabilmente bassa e tozza, non ero certamente affascinante come quando mi trovavo carina e con un bellissimo viso. Appartenevo a quella categoria di donne che, quando faceva caldo, sudava eccessivamente e quando si presentava il momento meno opportuno, vedeva spuntare sulla fronte spaziosa un brufolo evidente, che non poteva essere nascosto neppure dal miglior correttore in commercio. Quella tipologia di ragazze che non sarebbero state notate dal bel calciatore che, il più delle volte, avrebbe preferito una seducente trentenne spigolosa, priva di cellulite e smagliature sulle cosce. Con il tempo, il mio intollerante ma discreto rapporto con il corpo divenne più pacifico, e una delle cose che più di tutte volevo era raggiungere quella sicurezza personale che mi avrebbe permesso di uscire di casa magari struccata, magari provata da una pelle grassosa, magari con qualche chilo in più e forse accaldata o sudata, ma senza quel timore di essere notata, senza quella leggera e insopportabile vergogna, e quel bisogno di nascondermi il viso con i capelli che facevo scivolare in avanti e che mi prendeva di frequente.


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Lavoravo ogni giorno su me stessa per imparare a essere me stessa senza la preoccupazione di essere osservata, e per riuscire ad acquisire quella sana dose di menefreghismo che da sempre rappresentava la mia massima aspirazione verso la più totale libertà, che era una sensazione meravigliosa. Mentre mi preoccupavo di raggiungere quel tanto desiderato benessere interiore, usavo quel giugno pieno di competizioni sportive per evadere dalla quotidianità che mi assillava. E quel tormentone calcistico mi permetteva di vedere l’irreale, finché attendevo di fronte alla cancelleria dei decreti ingiuntivi. *** ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


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