In uscita il 28/6/2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2019 ( ,99 euro)
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LINDA LERCARI
L’UNICO SESSO
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ L’UNICO SESSO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-321-5 Copertina: immagine Shutterstock.com
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A Mauro e Clarisa, si chiude un cerchio A Sandro per le emozioni in scatola A Monia la Guardiamarina Alla SKL nel suo eterno duello A Furio, mio scudo
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L’UNICO SESSO
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CAPITOLO 1 ALLENAMENTO
Mi allaccio le protezioni e, come al solito, stringo troppo intorno alla testa. Lo stesso errore sempre. Però il timore che si slacci durante il Gioco è troppo alto e non posso rischiare. Il sangue pulsa doloramene attorno alle tempie e prevedo un mal di testa lancinante. Sospiro con un moto di nervosismo, non imparerò mai a sistemare la protezione sul viso. Passa Sam e mi brontola qualcosa con quella voce strascicata. Un vecchio biascicone che sembra aver passato tutta la vita fra gli spogliatoi e le piste del Gioco. Ha un’età così indefinita, che fra le tante rughe della scura pelle incartapecorita, potrebbe nascondersi anche il ricordo di quando il Gioco aveva un altro nome, di quando di sport ce n’erano tanti e si praticavano all’aperto. Sorrido, pensando per un istante alle leggende dell’infanzia. Racconti degli anziani di terreni coperti d’erba e scaldati da un sole a volte persino troppo caldo. Si giocava fuori in calzoncini e maglietta.
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Un brivido mi corre lungo la spina dorsale. Erba? Parola leggendaria ricca di promesse e del tutto sconosciuta. Calore? Scuoto la testa. Fuori lo strato di permafrost si estende ovunque, senza soluzione di continuità, e nuvole di piombo strappano la voglia di uscire persino dal cuore più avventuroso. Nessuno esce, se non per un motivo più che valido, e certo non per giocare. Osservo Sam e quei solchi sulla fronte. No, nessuno è così vecchio. «Stringilo di più quel casco, David! Così il sangue al cervello smette di arrivare del tutto, ed eviti di entrare in pista. Aahahah!» si tiene il pancione con entrambe le mani tozze e irrompe in una fragorosa risata. Il suono chiassoso rimbomba negli spogliatoi, ma nessuno sembra farvi troppo caso. Sam riesce a notare le mie cinghie, ha ragione, stavolta ho esagerato. Devo allentarle. Il problema è che non sono ancora un vero professionista. Vorrei bruciare le tappe, ma non è possibile e il rischio di morire è sempre alto: il Gioco è bello per questo. La tensione è tale che non mi rendo conto di quanto riesca a tirare le protezioni e finisco spesso col ritrovarmi segni rossastri sulla pelle. Sono davvero immaturo, uno sciocco. Qui, alla Fucina degli Eroi, sono quello più determinato, ma anche il più emotivo. Inizia l’allenamento. Dieci contro dieci. Un paio di secoli fa il Gioco si chiamava hockey e spesso le piste erano artificiali. Buffo. L’uomo antico aveva inventato
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delle macchine per creare il ghiaccio. Se solo avesse immaginato questo presente gelido, si sarebbe ben guardato dall’anticipare i tempi. Spesso mi perdo in queste favole per ragazzini, una parte di me ama sognare, ma non so neppure esattamente cosa. Ho potuto vedere dei film del mondo di prima, ma le immagini spiegano poco dell’odore, della consistenza, della temperatura. Per quanto mi riguarda, i film sono poco più che sogni a occhi aperti nei quali, ogni tanto, mi piace perdermi. Respiro forte, sono agitato anche se so che non mi farò troppo male. L’idea è quella di spingere un puck in una delle due porte poste ai lati del perimetro, ma non siamo realmente due squadre. In una prima fase i deboli aiutano i compagni più forti dello stesso colore a sopraffare la maggior parte degli avversari, ma esite un solo vincitore: colui che riesce a segnare, quindi diventa una sorta di gioco al massacro in cui, nella seconda fase, tutti possono essere contro tutti: emerge un solo campione. Le prime edizioni del Gioco vedevano due singoli contendenti, ma il pubblico si annoiava. C’era poca azione e gli scambi erano limitati. Col tempo sono aumentati i partecipanti, sino a creare le regole attuali. Venti giocatori scelti per varie abilità. Alcuni di loro non emergeranno mai come campioni, ma saranno sempre preziosi per spazzare via il grosso dei contendenti, per lottare e spargere quella quantità di sangue che, sul ghiaccio ben levigato, dona sempre un grande effetto sugli spettatori.
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Comincia la fase di riscaldamento. Una trentina di giri, muovendo ritmicamente braccia e gambe per sciogliere le articolazioni, preparando così i muscoli dei polpacci e degli avambracci. Abbiamo dei pesanti bracciali a caviglie e polsi, che non sono previsti durante il Gioco ufficiale, ma necessari per irrobustirci. Il padrone della scuola passa accanto alla pista. È un uomo esile e pallido. Ride raramente e noi pensiamo che eviti di farlo per via dei due denti d’oro, lussuosi e orribili, che sostituiscono gli incisivi. Ricco e con pochi scrupoli, gestisce La Fucina degli Eroi con grande profitto. Fa un cenno al coach che annuisce. L’allenatore sceglie a caso dieci di noi e li fa sdraiare in ordine sparso in mezzo alla pista. Sudati come sono avranno dei problemi, ma anche questo è esercizio, dobbiamo sempre fronteggiare momenti d’imprevisto raffreddamento; quando saremo caduti nessuno verrà ad aiutarci, saremo soli, dovremo cercare di non essere inermi o bloccati. Ci viene detto di saltare i nostri compagni. Eseguiamo senza problemi, atterrando nei centimetri liberi fra un corpo e l’altro. Dopo è il nostro turno e sento il suono del pattino troppo vicino al viso. Rob, che oggi indossa il mio stesso colore, ha perso l’equilibrio rischiando di ferirmi. Il casco con visiera sarebbe stato in grado di proteggermi sufficientemente? Il terrore di sempre. I pattini non sono i soli rasoi affilati di cui disponiamo: il nostro bastone si direbbe il figlio bastardo di un Bō, di una
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mazza da hockey e di una falce. Piuttosto lungo presenta sì la classica “L” per sospingere il puck, ma termina con una lama, e il suo scopo è principalmente quello di ferire. I primi tempi ci hanno fatto allenare con lame finte, in legno, adesso invece, semplicemente smussate: dobbiamo capire che possiamo essere morsi dal metallo, che il Gioco può essere mortale. Partita di allenamento. Ormai siamo caldi, possiamo cominciare. Parte la musica: grande e importante elemento del Gioco! Una musica forte, terribile, che di volta in volta il Campione sceglie per darsi la carica, per farsi acclamare dai fans. Il volume è sempre altissimo: deve coprire almeno in parte le urla isteriche del pubblico. Potremmo farne a meno, ma l’allenamento deve essere completo, dobbiamo abituarci a quel misto di berci e melodie, senza farci distrarre. Non è facile concentrarsi con tutto questo frastuono, ma l’adrenalina è al massimo. Ogni sessione di Gioco dura quaranta minuti standard, e proclama un solo vincitore in base al numero di volte in cui riesce a segnare in porta. Bonus vengono assegnati per ferite e abbandono degli avversari. L’uccisione di un giocatore equivale a un tiro in porta. Dopo il lancio del puck cominciamo a spintonare verso metà campo, ora non ci sono più compagni: atterro Rock con un pugno al volto e sbatto Marin a terra con una testata. Di fronte a me si para un ragazzino dei quartieri Sud e lo falcio con la lama smussata: la maschera si scalfisce, e il suo stupore mi
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concede quei due secondi per scartarlo. Il puck è lontano, ma non importa, nessuno lo sta tenendo, siamo troppo presi a massacrarci. La pista è grande, il doppio delle vecchie, leggendarie, piste da hockey, alcuni cercano di allontanarsi dalla mischia, vorrebbero riprendere fiato, è il momento buono per colpirli alle spalle. Nel Gioco tutto è permesso. Mi si presenta una buona occasione: adesso faccio meta, penso. Ed è l’ultimo pensiero che mi attraversa la mente prima di ricevere un colpo tremendo che mi spegne del tutto.
Quando rinvengo nello spogliatoio, vengo a sapere che nessuno ha vinto. L’unica meta è stata portata fuori tempo massimo: invalidata. L’allenatore non è contento e ci urla di tutto. Vogliamo forse tornare a essere cittadini comuni? A lavorare nelle miniere di ghiaccio? O nei laboratori di produzione alimentare? Vite buttate nei cunicoli sotterranei gelati, alla continua ricerca ed estrazione di metalli, oppure immersi nei miasmi chimici per creare quelle pappette tossiche che chiamiamo cibo? Il pensiero della sbobba mi attorciglia le budella. Ho fame, nonostante la botta e il dolore ho una gran fame, buon segno: sono pieno di vita. I rimproveri continuano, ricordandoci che se vogliamo essere delle femminucce, delle “mezze pippe” è adesso che dobbiamo rinunciare, una volta diventati professionisti non si potrà più
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tornare indietro. «Oh, no! Voi volete la gloria, la fama! E i privilegi dei campioni! Il denaro! Beh, signori, dovete sudare! O tornare a fare gli spalagelo come i vostri genitori.» Il tono con cui parla delle nostre famiglie è chiaro. O vinciamo, o torniamo nella feccia dalla quale proveniamo. Se potessi piangerei, ma ormai sono un uomo e devo stringere i denti e tener duro. Mi lavo, la doccia stasera è particolarmente fredda, forse una punizione, forse l’impianto è di nuovo guasto, e vado a letto. Lascio impronte mollicce che subito si confondo fra le altre decine. Il pavimento è subdolo, scivoloso, ma noi siamo abituati, il nostro equilibrio è raffinato.
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CAPITOLO 2 TELEVISORE
Passo davanti al cubicolo del custode. Sam mi fa cenno di entrare. «Coraggio, David! Hai buone qualità, ce la farai!» sorride con quella sua boccona grassa e scura, gli occhi nocciola sono due pozze bonarie. Caro, vecchio, Sam, che pulisce i cessi e passa lo straccio e non ha un pensiero al mondo. Osservo lo squallido monolocale e mi rendo conto di una cosa stranissima, possibile che non ci avessi mai fatto caso? Una rete cedevole, un materasso smollato, vernice che cade a pezzi e qualche sedia. Un tavolaccio con un piatto vuoto: la sbobba non è ancora stata distribuita. Manca qualcosa. «Sam! Ma tu non hai un televisore.» L’anziano omone fa spallucce. «Già! Devo comprarne un altro ma non ho mai tempo.» Sta mentendo e anche male. Lo Stato regala i televisori a chi non ne possiede. Tutti devono averne uno nella propria
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abitazione, per quanto misera che sia. L’intrattenimento televisivo è la grande risorsa, trasmettere le partite del Gioco per chi non può recarsi negli stadi è la valvola di sfogo principale per il popolo. Persino nella nostra camerata ci sono ben otto apparecchi: vecchi, malandati, ma funzionanti. Passiamo il poco tempo libero guardando i programmi offerti e il gelo sembra meno pungente quando procaci ballerine sculettano al suono delle marcette di tendenza. Saluto Sam. C’è qualcosa di strano in lui, non me ne ero mai accorto, e questa faccenda del televisore è troppo bizzarra. Il sudore rappreso è nauseante, restiamo sotto il getto della doccia a lungo, cercando di rilassarci e togliere l’odore di fatica e il ricordo delle botte. La nostra pelle è maculata da lividi violacei o giallastri. Gli unici desideri sono una zuppa bollente e il sonno. Il refettorio è squallido quanto le camerate e mi sono sempre chiesto se sia per mancanza di fondi o per indurirci i cuori. Le razioni sono abbondanti, nonostante il sapore sia quasi inesistente, non che a casa si mangiasse poi tanto meglio. Una vocetta garrula predomina sopra il bisbiglio di noi ragazzi. Ci voltiamo quasi all’unisono per ammirare la soubrette del momento, Yvette, una moretta dalla capigliatura cotonata e dalle suadenti labbra dipinte di rosso. La donna sta commentando un fatto di cronaca e ride di gusto, facendo sobbalzare il generoso seno, trattenuto a stento da un vestitino di lamè rosa. Un applauso all’eroica resistenza dei ferretti a balconcino che riescono a trattenere quel peso smisurato.
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Il presentatore sogghigna a sua volta. Un uomo sulla cinquantina con capelli bianchissimi e con vistose lenti a contatto viola. Sono molto di moda ultimamente. I ricchi le indossano per proteggersi dal riverbero della neve. Nonostante la mancanza di sole, gli occhi dolgono se rimangono troppo esposti all’esterno. Quelle costosissime lenti si possono indossare tutto il giorno comodamente, senza doversele togliere negli ambienti chiusi. Ne vorrei un paio, forse un giorno potrò permettermele. Viene trasmessa una reclame nota per il suo jingle accattivante, e senza neppure rendercene conto ci mettiamo a canticchiarlo mentre sorbiamo grosse cucchiaiate di minestra. Gomma da masticare Icy all’estratto di menta: il vero sapore del gelo. L’unica che mantiene l’igiene orale in ogni situazione. Ballerini muscolosi masticano vistosamente, balzando sullo schermo sulle note della pubblicità. L’atmosfera è gioiosa e tranquillizzante. Ci viene servita una porzione di pudding marrone. Il gusto è dolciastro e ci sentiamo decisamente meglio. Lo stomaco sta lavorando di gran lena per digerire e la stanchezza sta vincendo. Andiamo verso le brande accompagnati dall’eco di un dibattito politico. Il televisore in sala mensa verrà spento solo quando anche gli inservienti termineranno il lavoro: è la regola. Appoggio la testa sul cuscino e un ricordo vago si fa strada nella memoria. Mio padre non amava guardare i programmi. Che termine usava? Ah, sì, ipnotici. Ecco. Diceva che la
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televisione era ipnotica. Aveva suggerito a mia madre di spegnere quell’apparecchio infernale, e di lasciarlo sulla mensola freddo e inerte, ma lei si era opposta. Le piacevano “Mille e uno modi per cucinare il granulare proteico” e “Ogni massaia lo sa” e non perdeva mai il film del sabato sera, qualche pellicola ripescata dai polverosi magazzini dell’industria cinematografica. Sam non ha il televisore. Il pensiero quasi mi sveglia, ma sono sfinito. Mentre mi addormento sogno il giorno in cui diventerò un campione. Poso la testa sul cuscino rattoppato e mi stringo nelle coperte sintetche. Mi hanno detto che una volta – ma quale volta? La volta di cosa? C’è mai stato un passato che non fosse questo presente? – esisteva un tessuto chiamato lana, capace di donare calore e protezione al solo contatto. Lascio perdere le leggende e penso a un futuro radioso, in cui verrò ripreso dalle telecamere e sarò pagato per pubblicizzare attrezzature sportive.
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CAPITOLO 3 FUORI
Sarà banale, lo ammetto, ma spero di diventare forte e famoso come Morte Bianca, la più grande campionessa mai esistita. Già, perchè nel Gioco si combatte indiscriminatamente donne contro uomini, anche questo fa parte del grande spettacolo. Da qualche settimana non parlo con Sam. Ci sono stati grandi cambiamenti, o precisamente, troppe morti durante il Gioco. Alcuni campioni, come Gelo Nero e Acciaio Freddo, hanno dato una svolta decisiva ai combattimenti, guadagnando bonus su bonus attraverso una montagna di cadaveri. La folla è sempre più in delirio e il ghiaccio è sempre zuppo di sangue. L’odore di morte e escrementi ha invaso per giorni ogni gradinata dello stadio. I campioni non si sono limitati a eliminare gli avversari, li hanno tranciati, sbudellati. Una scena, penso, rimarrà nella storia del Gioco: Gelo Nero che segna, lanciando il puck e un pezzo di intestino rimasto incastrato nella lama. La scia rossa che delimita la traiettoria, lo schifo, la gloria.
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Presto passeremo al livello dei professionisti per pura mancanza numerica. Ora le cose si sono fatte maledettamente serie. Adesso sì che mi stringo le protezioni sino quasi a farmi mancare la circolazione nelle vene. La preparazione si è fatta più dura e l’allenatore ci guarda con occhi famelici. In città ci sono tre scuole ufficiali del Gioco, e la nostra è la più prestigiosa. Più volte siamo stati sfidati dagli altri studenti, ma abbiamo sempre ignorato gli inviti, sino a oggi. Non eravamo ancora pronti, adesso lo siamo. L’ordine secco di preparare le sacche con l’attrezzatura viene eseguito rapidamente, e ci affolliamo davanti all’imbocco sotterraneo della metropolitana. Destinazione: La Factory. Tutto il territorio urbano è collegato da una fitta rete di cunicoli e binari, le fermate si trovano sotto i palazzi più grandi e le persone si muovono in stretti corridoi fra un edificio e l’altro. Telecamere ovunque controllano che nessuno sosti per troppo tempo nei condotti pedonali o che li danneggi. La polizia è rapida e interviene sempre in modo cruento. Attendiamo qualche minuto. Niente. Una scritta al neon tremola l’annuncio “fuori servizio”. Mio padre mi aveva raccontato che un tempo quelle parole venivano accompagnate da “ci scusiamo per il disagio”, ma era un’altra epoca, le scuse sono per i deboli. L’allenatore impreca qualche Dio sconosciuto e, spero, sordo, poi ci apostrofa. «Forza, donniciole! È una bella giornata, andremo a piedi.»
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Sussurri di sconcerto si levano, ma ormai la condanna è stata pronunciata: andremo fuori. Corriamo a vestirci: stivali imbottiti e con una spessa suola scolpita e zigrinata; calzoni termici e giubbotti. Occhiali con lenti scure, tenuti da una fascetta elastica. Una fila di pupazzi spaesati. «Lasciate l’attrezzatura, ci daranno quella di scorta.» Un debole “ma” dalla bocca di Rob viene subito falciato. «Niente ma. Non possiamo camminare con tutta quella roba, pregate che vi diano un paio di pattini decenti e una lama non arrugginita. Coraggio! In fondo è solo un incontro amichevole!» Venti pensieri unici di braccia fratturate e gambe ingessate, si affacciano contemporaneamente. Usciamo. L’aria è immobile, neppure una brezza leggera: è vero, una giornata bellissima. Senza il vento, che di solito sferza tagliando la faccia, camminare sullo strato subdolo di permafrost è quasi un piacere. Il cielo color cemento ci opprime, ma non più delle solite luci al neon. Il freddo morde i pochi centimetri di pelle scoperti. Camminiamo in fila, in silenzio, ascoltando lo scricchiolio del ghiaccio che si rompe al nostro passaggio. Per divertirmi faccio qualche nuvoletta col fiato, ma è da stupidi e smetto subito. L’ossigeno è così gelido che brucia la gola e resto quasi in apnea. Respirare col naso, tenendo nelle
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narici un paio di filtri, è la cosa più saggia. Peccato. La fatica si fa sentire dopo cinque chilometri. Ne mancano altrettanti per arrivare, ma abbiamo sete, le mani sono intorpidite, un leggero strato di cristalli si è formato sulla parte bassa dei calzoni, appesantendoli e, ironia della sorte, abbiamo le gambe in fiamme. Nonostante l’allenamento i muscoli non sono abituati a lunghe marce, e rischiamo un versamento di acido lattico. Ci rifugiamo in un locale di sicurezza. Ce ne sono molti sparsi per la città. Farsi cogliere alla sprovvista, quando cala la notte e le temperature precipitano, è morte certa e l’unica speranza è di trovare un rifugio vicino. Ne approfittiamo. Ci sono poche sedie, e l’ambiente è solo uno stanzone riscaldato, ma ci buttiamo a terra esausti. Qualcuno passa una borraccia. Bere all’esterno era troppo pericoloso. Cerchiamo di riprendere le forze, mastichiamo qualche barretta zuccherata. Il ricordo di escursioni scolastiche ci fa ridere, ma non siamo più bambini e non stiamo andando a vedere Monte Trash, protetti dalla maestra in un comodo torpedone cingolato. Un paio di bestemmie ci riportano al presente, ci alziamo e riprendiamo la marcia. Faccio rapidamente due calcoli: dovremo fermarci per la notte nella scuola avversaria, non sarà possibile tornare indietro in tempo. Guardo verso l’alto e il riverbero mi ferisce un poco, la luce filtra fra lo smog e bacia gli audaci come noi. Il martellare ritmico di alcune fabbriche ci accompagna quasi scandendo i nostri passi, non c’è altra anima viva che possiamo scorgere. Un deserto biancastro e lattiginoso, che sappiamo
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essere vivo solo grazie ai rumori delle industrie e ai cicalini dei palazzi. Mordendo frammenti di pulviscolo ghiacciato, mi metto a contare i passi. Uno, due, cento, mille. Desidero solo arrivare e togliermi questi vestiti opprimenti, neppure l’incontro mi interessa piÚ.
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CAPITOLO 4 ROB
Robert non è mai stato bravo con l’equilibrio, ma ha una tale massa che gli permette di abbattere gli avversari come birilli. Salta poco volentieri, non scarta quasi mai, ma siamo noi a spostarci per evitarne i colpi. Un metro e novanta per centodieci chili, capelli biondi e occhi verdi, risata fragorosa e mente ottusa. Nato nei quartieri del Nord, genitori addetti al recupero relitti marini, il padre ha già perso tre dita della mano e la madre ha subìto danni permanenti a causa di un’embolia durante un’immersione. Lavorano ancora, lei ride sempre e lui ha una protesi meccanica. Rob ha deciso che non farà la loro stessa fine. Meglio averlo come amico. Nessuno dei nostri avversari è così grande e grosso, e lo guardano come se vedessero un gigante delle leggende. Se ci penso bene, le ultime generazioni, compresa la mia, sono venute su abbastanza minute, come se il Mondo sapesse che è più facile sostentare esseri piccoli.
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Rob è un dinosauro in mezzo a tanti mammiferi, e non sa quanto questo paragone sia azzeccato. Prendiamo le mazze meno usurate, calziamo i pattini cercando di affilare le lame. Nessuno si è dato la briga di farlo per noi mentre ci attendavano. Ogni sistema è buono per vincere al Gioco, questa è una realtà con la quale dobbiamo fare i conti costantemente. La mia protezione ha una crepa fra casco e volto. La paura mi assale come un globo di fuliggine fra gola e stomaco. Prendo del nastro adesivo telato e faccio parecchi giri. Mi ridono contro e mi chiedono se voglio fare l’idraulico o il Giocatore. Li ignoro. Rob interviene dando un paio di pacche sulle spalle dei nostri ospiti. Le manone calano come massi, stendendone un paio. Rialzandosi ci promettono vendetta, ci faranno mordere il ghiaccio. «Se avrete ancora i denti…» aggiungono. Venti contro venti. Siamo tutti in pista. Lo spazio è minimo e le possibiltà di scontro decuplicate. Musica Pop. Per un istante restiamo interdetti. Giusto, nelle loro fila ci sono anche ragazze, non certo meno feroci, ma dai gusti musicali differenti. Il ritmo diventa bizzarro, fra scoppiettii e trilli, mentre cominciamo a studiarci. È una delle loro ad agire per prima; efficace, precisa, stende uno dei nostri colpendolo con l’impugnatura del bastone dritta nello stomaco. Il puck è suo e si butta a testa bassa verso la porta, urlando le stesse parole della canzone trasmessa.
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Tutt’intorno non c’è strategia, la mischia è selvaggia. Il roteare delle lame taglia le protezioni, addenta le carni. Sono solo escoriazioni, ma il dolore ci ricorda cosa dovremo affrontare una volta professionisti. Mi lancio all’inseguimento del puck, incurante dei due idioti che mi hanno canzonato negli spogliatoi e che ora mi stanno alle calcagna. Salto e atterro con un gomito fra le scapole della ragazza, che si affloscia come un sacco vuoto. Uno spiraglio nella massa, forse riesco a fare meta. Se avessi gli occhi anche sulla schiena potrei assistere, ma sono proiettato in avanti e non vedo Rob che mi copre la fuga, non lo vedo accerchiato dai due avversari, no, dai due nemici, che si è fatto poc’anzi. Mentre lancio il puck in porta non posso salvare il gigante del Nord che viene attaccato. Basta poco per fargli perdere l’equilibrio. Mentre tenta di ritrovare l’assetto, una lama alla gola e una ai tendini delle caviglie: rimane per un istante stupito nel vedere il suo stesso sangue sgorgare a fiotti. Sedici anni si riversano rossastri sulla pista. Urlo per la gioia di aver segnato, mi volto e vedo il compagno cadere in ginocchio in una pozza cremisi. Avremmo dovuto giocare con armi smussate. Nessuno doveva rimanere ferito. Qualcosa dentro di me si spegne. Pietà? Paura? Non lo so. La voce diventa un ruggito animale e non attendo che l’arbitro dichiari il mio punto. Con una forza che non pensavo di avere, raggiungo i due che stanno ancora ridendo, salto e uso le uniche lame affilate che
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possiedo. Un pattino si conficca in un casco e faccio pressione sino a che non sento il rumore secco del cranio. Resto incastrato, ma cadendo a terra colpisco con la mazza l’altro, trascinandolo con me. Stesi al suolo, con una gamba immobilizzata riesco ad afferrargli la testa e gliela giro di scatto. Sento l’osso del collo che si spezza. La scena sarebbe ridicola nel suo insieme: resto steso stringendo fra le braccia il corpo inerte di uno, mentre la testa sfasciata dell’altro mi blocca il pattino. Il gioco si ferma, si fischia l’ammonizione. Mi giro. Rob è morto, viva Rob.
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CAPITOLO 5 CHI BEN COMINCIA
Tutto diventa irreale, vedo la gente muoversi al rallentatore. La musica cessa eppure ne percepisco ancora l’eco ovattato. Vengo sollevato e strattonato. Quando il pattino si stacca dalla testa della vittima, una sorta di filamento grigio con pezzetti biancastri rimane attaccato alla lama. Quindi l’idiota aveva un cervello? Incredibile! Chi urla contro di me? L’allenatore? L’arbitro? Tutti? Non è importante. Sono molto stanco e vorrei solo riposare. La caviglia mi duole a causa dello sforzo con cui ho impresso il piede nel casco dell’avversario. È stato stupido da parte sua indossarne uno a modello pentolare, se fosse stato rotondo sarei scivolato senza nuocergli. Prendendo nota mentale di indossare, in futuro, solo protezioni sferiche per il cranio, vengo portato negli spogliatoi. Comincio a percepire una distinzione nel tafferuglio: alcuni stanno invocando il mio nome con rabbia, altri incitano la vittoria. Abbiamo vinto? Sembrerebbe di sì, ma a che prezzo?
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Doveva essere un incontro amichevole. Seduto su una panca sono circondato dagli adulti, i due allenatori, l’arbitro e un paio di finanziatori della scuola. I ragazzi sono rimasti fuori, giusto il tempo per una delle avversarie più agguerrite – quella che ho tramortito – di sputarmi in faccia e poi le porte si sono chiuse sugli schiamazzi. «Cosa credevi di fare?» È il mio mentore a parlare, il tono esasperato. Non ho tempo di replicare. Mentre cerco le parole giuste, parole che non arriverebbero comunque mai, fisso il pavimento e vedo gocce di sudore stillarmi dai capelli e cadere sulle scarpe. «Ci dovete risarcire!» Una richiesta asciutta, non parliamo di vite umane, solo di elementi sui quali si è investito e il cui guadagno è sfumato troppo resto. Senza guardarli sento la risposta dura, precisa. «I vostri erano armati, non erano queste le regole.» Posso percepire l’alzata di spalle degli altri senza neppure alzare lo sguardo. A nessuno interessa un dettaglio così stupido. Si gioca e basta. Siamo ragazzini, e allora? Presto saremo comunque mandati sulle piste vere, tanto vale abituarsi. So che nella loro testa ci sono questi argomenti, ma non si prendono neppure la briga di esporli. «Dacci il ragazzo: ha stoffa, ne faremo un campione.» «Avete ucciso uno dei miei migliori elementi e ora volete
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l’altro. Non se ne parla!» Potrei piangere per Rob, disperarmi per quella situazione orribile, invece sorrido. L’allenatore ha detto che sono uno dei più bravi. Io! Trattengo a stento la gioia e sento in bocca il sapore salato di un sangue non mio. È l’anima del gigante del Nord che mi avverte che siamo solo pedine, ma non lo posso ascoltare, la vanagloria mi ottenerba il giudizio. Le contrattazioni sulla mia persona vanno avanti, ma non le ascolto. Rimango immobile come se fossi una statua di sudore e carne. Nelle orecchie la musica Pop non cessa il ritmo martellante e mi rivedo bambino, sei anni prima, a firmare la richiesta di arruolamento. Era stato un periodo duro per la mia famiglia. I miei genitori erano entrambi operai, impiegati nella fabbrica di alghe in scatola. Più fortunati di quelli che dovevano raccoglierle nelle gelide coltivazioni del porto, non avevano a che fare con la crosta ghiacciata del mare o le profondità bluastre e spettrali, ma restavano alla catena di montaggio l’uno a pigiare i pezzi di alga che fuoriuscivano dal barattolo, l’altra a sistemare le confezioni sigillate, venti pezzi per scatolone. L’inquinamento stava salendo a ritmi vertiginosi e molte produzioni morivano prima di raggiungere la maturità per il raccolto. La fabbrica era stata costretta a diminuire la produzione e a porre in atto una serie di licenziamenti a raffica. Mio padre, da un giorno all’altro, si era ritrovato a casa a guardare il soffitto marcio d’umidità e mia madre cominciò a svolgere due lavori per lo stesso salario: inscatolamento e
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passaggio sul nastro. C’era un macchinario traditore che si chiudeva a ghigliottina per spingere i barattoli pronti verso la sterilizzazione. La stanchezza gioca brutti scherzi e le ore in più erano diventate insostenibili, anche per un fisico robusto come il suo. Quando ci chiamarono dall’ospedale per comunicare che era stata ricoverata d’urgenza e che le speranze erano poche, mio padre riattaccò lentamente, poi ci guardò. Eravamo tre fratelli, di sei, quattro, e due anni. Sorrise. Vorrei dire che era sempre stato un uomo leale e onesto, ma posso affermare solo una cosa: era un vigliacco. Ci fece vestire con gli abiti migliori, prendendo tutto il tempo necessario. Ci parlò con calma di quanto stava accadendo, e che la mamma avrebbe voluto che fossimo eleganti. Parole impresse a fuoco nella memoria. Uscimmo in un pomeriggio terribile, con un vento che cominciò ben presto a congelarci i capelli e a schiaffeggiarci la pelle del volto. Faceva freddo, troppo freddo. Mio padre ci teneva per mano, ma non stavamo andando verso l’ospedale. Mio fratello più piccolo si teneva al petto paterno e gli vidi chiudere gli occhi. Pensai che dormisse, solo adesso, da grande, ho capito che stava già morendo assiderato. Arrivammo al porto quasi per magia, senza stivali e cappotti, solo con giacche leggere e le scarpe che portavamo dentro casa, eravamo riusciti per attraversare ben tre isolati. La pelle del piccolo era vagamente bluastra, ma allora non ci feci caso. Battendo i denti restammo un istante a guardare dall’alto del
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molo quel mare orrendo, nero di gelo e di morte, nel quale solo qualche vegetale si ostinava a vivere, ma del tutto privo di pesci o di altre creature. Il tonfo sordo mi fece voltare giusto in tempo per vedere mio padre che tentava di spingere anche me giù dal pontile, come aveva appena fatto con mio fratello di quattro anni. Scartai. Il primo scarto, ciò che avrebbe sempre aiutato per la futura carriera nel Gioco. Mio padre si piegò, mi fissò per un istante, sorrise – giuro che sorrise – e poi si lasciò cadere tenendo ancora l’altro figlio stretto al petto. Non sono mai andato a vedere il cadavere di mia madre. Appena le autorità me lo hanno permesso, due mesi dopo l’accaduto, mi sono arruolato nel Gioco. Dei miei fratelli ho un pallido ricordo, ma so ancora descrivere i volti di chi mi ha dato la vita. Lei era una donnina piccola e grassottella, robusti polpacci le permettevano grandi camminate, ed era abituata alla fatica. Ci amava, certo, ma amava ancora di più mio padre, per il quale aveva sempre un occhio di riguardo e un boccone in più. Lui era taciturno e gentile, sorrideva di rado e ci accarezzava la testa con fare bonario; debole d’indole e pensieroso, prediligeva la lettura dei libri ammuffiti che riusciva di tanto in tanto a scovare in qualche bancarella. Lei invece canticchiava i motivetti della pubblicità e cercava di riprodurre le ricette dei programmi televisivi. Si erano conosciuti all’ufficio di collocamento, quando entrambi erano stati assunti dalla fabbrica di inscatolamento, senza sapere che quella sarebbe stata la loro tomba. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
CAPITOLO 1. ALLENAMENTO ..................................................... 7 CAPITOLO 2. TELEVISORE ........................................................ 15 CAPITOLO 3. FUORI .................................................................. 19 CAPITOLO 4. ROB ..................................................................... 25 CAPITOLO 5. CHI BEN COMINCIA .............................................. 29 CAPITOLO 6. CEDUTO .............................................................. 35 CAPITOLO 7. SOLO UN GIOCO?................................................. 41 CAPITOLO 8. PRIMO INGAGGIO ................................................. 45 CAPITOLO 9. ALLO SPECCHIO ................................................... 51 CAPITOLO 10. PROFESSIONISTI................................................. 55 CAPITOLO 11. SAM .................................................................. 61 CAPITOLO 12. CUNICOLI .......................................................... 67 CAPITOLO 13. TERRA CAVA..................................................... 73 CAPITOLO 14. AL LAVORO ....................................................... 83 CAPITOLO 15. IL SERPENTE PIUMATO ...................................... 87
CAPITOLO 16. INCONTRI .......................................................... 95 CAPITOLO 17. COLLEGHI ....................................................... 105 CAPITOLO 18. LUPO ............................................................... 113 CAPITOLO 19. PICCOLA GUERRA E GRANDE GELO ................ 121 CAPITOLO 20. PER FARE UNA FRITTATA ................................. 129 CAPITOLO 21. L’UNICO SESSO ................................................ 137
AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.