In uscita il 22/7/2016 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine agosto e inizio settembre 2016 ( ,99 euro)
AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
ENZO D’ANDREA
L’UOMO CHE
VENDEVA PALLONCINI
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/
L’UOMO CHE VENDEVA PALLONCINI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-013-9 Copertina: “Ombre” di Enzo D’Andrea (2016)
Prima edizione Luglio 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Al sogno e alla realtà , alle amicizie, al ricordo di tante estati fa, oggi nebuloso film che porterò sempre con me.
5
Avvertenze per l’uso
Questa sembrerà una favola. Una favola nera, o quantomeno grigio scura. Per quanto sia difficile crederci, si tratta tuttavia di una storia vera. Il confine tra la realtà e la finzione, o meglio tra il credibile e l’incredibile, è labile come un foglio di sottilissima carta velina. Si tratta di un confine vago, una linea di difficile collocazione; individuarla è compito arduo anche per me che mi accingo a raccontare questa strana vicenda. Tanto che sarei tentato di rinunciare, limitandomi a narrare la storia come se iniziasse con un C’era una volta… Eppure - ahimè - anche questo è impossibile, perché è tanta la realtà presente nei fatti che accaddero; di favola quindi non si tratta, almeno nel senso comune cui siamo abituati. La cosa migliore, credo, sia restare sospesi nel limbo tra il tangibile e l’astratto. Come se ci si dovesse affidare al solo istinto. «Ma almeno, c’è il lieto fine?» qualcuno si potrebbe chiedere. Sì, certo. C’è pure quello. Ma soprattutto esiste una lezione. Una lezione di vita. Un modo per capire che le cose non sono per forza come crediamo o come pensiamo debbano essere. Esiste una realtà reale ma al contempo tante realtà parallele nelle quali non si riesce a entrare, neppure a procedere in punta di piedi. Ecco, forse la chiave dell’arcano è proprio questa: sono entrato in una di queste realtà parallele e solo per volontà di una Entità Superiore posso oggi raccontarlo. Forse era necessario che un giorno qualcuno potesse testimoniare uno dei molteplici aspetti della lotta del bene contro il male. E poi perché mai dovremmo riuscire a spiegarci sempre tutto ciò che ci accade? La spiegazione a tutti i costi lasciamola agli esperimenti scientifici. Il resto rischia di diventare solo un inutile arrampicarsi sugli specchi. La verità assoluta non esiste o esiste solo quella che ci può fare più comodo e la maggior parte dei nostri simili condivide. Io a questa storia ci credo. Devo crederci per forza; l’ho vissuta in prima persona. Potrà crederci chi la leggerà?
7
1984. In qualche posto al sud. D’estate.
C’è fresco lì dentro. Fuori il sole soffoca persino i pensieri, anche se è appena l’inizio di giugno. Ma dentro no. Tra le mura il fresco si sente, eccome. Eppure è un fresco che non sa di buono, come se ci fosse qualcosa in attesa. O addirittura in agguato. Ed è il suo gelido fiato a raffreddare l’ambiente. Il ragazzo scruta ogni dove perché gli viene naturale farlo. Solo facendo così si sente più sicuro. In ogni anfratto egli cerca la forma, il colore, persino l’odore. Certo, l’odore. Rancido come quello che emanano i vecchi malati o il latte andato a male, pungente come l’ammoniaca, così stordente che forse sarebbe meglio andarsene al più presto. Già, al più presto. Ma cosa fanno gli altri? Vanno via? E allora è il momento giusto per seguirli. Via, via insieme a loro. Tanto più che quel luogo mette angoscia, anche se non dovrebbe perché in apparenza non c’è nulla di male. Già, in apparenza. Un bagliore, uno scintillio di stella morente che squarcia il velo di buio falso, tendenzioso. Lì in qualche punto qualcosa ha rivelato la propria presenza. Lo scintillio è durato un’infinitesima frazione di secondo, ma è stato un tempo sufficiente a catturare l’attenzione del ragazzo. L’occhio ha percepito il bagliore e quel poco è bastato a scatenare la curiosità. E con la curiosità, inizia la ricerca. Tempo non ce n’è, occorre fare in fretta. Passi furtivi, concitati, pupille sgranate a sezionare ogni frammento di luce residua. La spasmodica esplorazione si conclude quando il giovane raccoglie qualcosa da terra. L’oggetto appena raccolto scivola nelle sue mani, mentre un fremito percorre l’esile corpo; egli sente dentro di sé un fervore, una voglia di scoprire che di certo già gli appartiene perché in genere i ragazzi sono fat-
8 ti così. Sono curiosi, incoscienti, non ammettono né se né ma quando c’è qualcosa che effettivamente gli interessa. Eppure il fervore appare d’improvviso centuplicato, milluplicato senza una ragione apparente. E in preda a tal desiderio il ragazzo chiude il pugno intorno all’oggetto, portando via con sé la curiosa scoperta. Potrebbe trattarsi di una cosa da niente, di un semplice passatempo. E se non lo fosse?
9
Roma, novembre 2010 Raccontare è un dovere, crederci una scelta
Ho cominciato a ricordare così, si direbbe di punto in bianco, proprio come quando un mattino ti guardi allo specchio e scopri che sei diventato grande e magari il giorno prima una tale assurdità nemmeno la pensavi. È accaduto di domenica. Alcuni giorni fa. Una fredda mattinata di novembre, uno di quei momenti in cui ti accorgi che l’autunno sta iniziando a fare sul serio. Ed era ora, dopo una parentesi d’estate durata una quindicina di giorni. Pur vivendo a Roma, a volte lascio la città per brevi periodi in cerca di ristoro lontano dal vivere caotico, cervellotico, asfissiante e vengo a rintanarmi nella campagna romana. Sto scrivendo queste pagine nella mia piccola casa situata nei pressi della Marcigliana 1; è stata costruita a fine milleottocento e più volte ristrutturata col passare degli anni. Era una campagna strana e leggera quella che mi apparve quel mattino, appena sveglio, in mezzo a colline che sembrano morbidi seni di giunonica donna che dorme, punteggiate di sambuchi e olmi secolari. Avvertivo la solita lieve apatia delle domeniche autunnali, quando il torpore te lo porti addosso sulla pelle anche ore dopo che sei sceso dal letto e sei uscito di casa. Figuriamoci a restarci, in casa. Il dolce far niente addormenta il fervore della settimana di lavoro appena trascorsa, anche se diventi ben presto cosciente di aver poche ore per rilassare mente corpo e anima prima di ricominciare. Il sole timido ancora non si era deciso a far capolino tra le nuvole, e il cielo si era tinto di un colore grigio chiaro uniforme, inoffensivo e nient’affatto scialbo. Ricordo di aver pensato che quel colore liquido fosse meglio della cupa tenebrosità di un cielo fatto di nuvole scure, minacciose; un cielo tetro mi lascia pavido e incerto, come se mi fossi appena risvegliato da un incubo. E fu proprio ciò che immaginai quel mattino.
Zona dell’Agro Romano situata a Nord di Roma, tra la Salaria e la Nomentana.
1
10 La parola incubo mi venne in mente così, senza volerlo. Eppure, per quel che conosco di me stesso, tanto casuale non dovette essere perché da quella parola prese spunto una sensazione strana, di qualcosa da ricostruire, come fosse il primo pilastro di un ponte che collegava me a un determinato punto del mio passato. Ora, mentre scrivo, sento sibilare all’esterno un vento crescente, ribelle. Mi distrae per un attimo, prima che riesca a riprendere la concentrazione. Ho origini lucane, ma vivo da quasi vent’anni a Roma. Mi ci trasferii per frequentare l’università e vi sono rimasto anche dopo la laurea. Che lavoro faccio? Scrivo. A volte tanto a volte poco, secondo il gettito incostante della mia chiamiamola così, con un pizzico di presunzione - creatività. Il mio vero nome non ha importanza, tanto pubblico sotto pseudonimo. Diciamo che mi chiamo Massimo e non sono sposato. Non avendo una famiglia cui badare, occupo il mio tempo libero dedicandomi al volontariato. Una cosa, quando scrivo, mi è indispensabile: sentire la storia che racconto, in ogni momento. Sono convinto che per scrivere una bella storia, farla apprezzare dai lettori e fargliela entrare dentro, occorre che sia io per primo a sentirmela dentro e viverla dalla prima all’ultima parola. Purtroppo la scrittura non è sempre una bestia facile da domare, tantomeno è agevole conviverci. A volte appare un dono divino e a volte diviene un fardello insopportabile. Anche se da molto tempo ne avvertivo leggere avvisaglie, fu quella domenica mattina che mi resi conto che sarebbe successo, come le cose inevitabili, inesorabili, a cui non sfuggirai perché tutti ci sono passati prima di te. E quel giorno mi sono reso conto che non riuscivo più a scrivere nulla. Ogni parola appena abbozzata era seguita da un vuoto assoluto, come se mi avessero buttato addosso un panno usato per coprire un mobile malridotto e fosse il buio totale. Da giorni il cestino traboccava di incipit scartati, la testa era un tumulto di idee appena abbozzate e creazioni incompiute che poi sono finite tutte per scoppiare come bolle di sapone, lasciandomi l’amaro in bocca e lo sconforto del dover iniziare tutto da capo. Capita a tutti gli scrittori. È vero, ma quando succede a te fa molto più male. Poi di colpo, quello stesso mattino, la scintilla. All’inizio fu la parola “incubo”, come già ho detto. Il mio cervello ha cominciato a lavorare in preda a una frenesia che non avevo da tempo.
11 Mi sono alzato e ho iniziato a frugare dappertutto alla ricerca di qualcosa che sospettavo aver perduto. Eppure in quel momento più che mai mi serviva, come linfa vitale. Alla fine, in un vecchio mobile dove io stesso dovevo averlo riposto tempo addietro, ho ritrovato l’oggetto del mio desiderio. Al solo vederlo, stringerlo tra le dita, nella mia mente si è innescato un fenomeno di sovrapposizione di immagini e frammenti, un fiume in piena che mi ha investito con irruenza devastante. Quello fu un violento ritorno al passato che per fortuna non mi ha travolto come temevo, bensì mi ha fornito l’idea per scappare dalla crisi; apparve come una soluzione alla mia - come dire? - inefficienza narrativa. Ed è stato così che, forse, ho trovato il modo per uscirne fuori: mettere a nudo me stesso. Parlare della mia esistenza passata e, per una volta, non di quelle degli altri. Ed è da quel mattino che mi ci sto arrovellando sopra per ricordare tutto. Certo, per quanto sia la mia vita, non si tratta di una cosa semplice. Anzi, direi che si tratta di un vero e proprio appuntamento al buio. Però nel mio caso “buio” rappresenta ben più che un semplice disagio visivo; è un puro stato mentale. Uno stato che ha radici nel mio passato, in avvenimenti che mi porto dentro da anni e che ho tenuto per me. Questo qualcosa non è mai stato rimosso; esso rappresenta un processo che ha in modo inevitabile contribuito a formare l’uomo che sono. È giusto o sbagliato che il passato ritorni? È giusto rimestare nei propri ricordi, alla ricerca di qualcosa che abbiamo messo da parte? Di domande simili me ne sarò poste a bizzeffe, in questi giorni, senza approdare a nulla. Mi sono infine persuaso che esiste pur sempre un buon motivo per riportare a galla le vicende del passato, se ciò può avere un senso e uno scopo. Come minatori che uno dopo l’altro risalgono in superficie con visi neri che li fanno apparire tutti uguali, nei giorni scorsi sono iniziati ad affiorare dal mio io più recondito i primi ricordi. Frammenti sempre più grandi di un particolare momento della mia vita, anche fatti non piacevoli che però mi hanno fatto crescere. La mia diverrà soprattutto la testimonianza di cose non belle, di eventi che per certo non augurerei a nessuno. Ma non è detto che tutto sia da prendere così come appare, quindi non tutto ciò che appare negativo lo è per davvero. Nel contempo sarà infatti un tuffo in un’epoca che non c’è più e che mi ha visto crescere, e già ne avverto il malinconico retrogusto. E oggi, mentre sto battendo queste righe alla tastiera, il senso e lo scopo di tutto ciò che avvenne sono davanti ai miei occhi; andando avanti mi convinco sempre più che potrebbe essere una buona idea, quella di rivelare ad altri il mio passato.
12 Almeno, a chi avrà la pazienza di seguirmi. Ora che il meccanismo è innescato, le parole escono da sole. In parte hanno la forma e i colori di quell’oggetto. Un oggetto che oggi osservo con serenità, ma che un tempo mi spaventò. Difficile, per chi non c’era, immaginare quanto.
13
Fermi all’imbocco della strada
Poteva essere un’estate come tutte le altre. Invece quella fu l’estate in cui iniziai a crescere, trovandomi incredulo e spaesato in una realtà del tutto diversa da quella che credevo mi circondasse. Più di quanto possa sembrare, si cresce soprattutto a causa di episodi che segnano la nostra vita, anziché per un processo graduale e progressivo di cui quasi mai ci si rende conto. Su un vecchio libro si troverebbe scritto che correva l’anno 1984, ma a dire il vero quell’anno non aveva affatto l’apparenza di correre via. Dalle mie parti, in Basilicata, si cercava una piccola rinascita; la nostra regione implorava il ritorno alla normalità dopo una serie di forti tremori della terra che avevano incrinato certezze e speranze, scosso grandi e piccoli uomini. Un ricordo che doveva rimanere tale perché nonostante tutto la vita va avanti. Il paese in cui sono nato è appollaiato su una pittoresca distesa di monti e colline, in mezzo a brulle lande argillose e vive distese d’erba punteggiate da macchie alberate e veri e propri boschi. Un gruppo di case e palazzi inerpicati sulle ripe scoscese, accatastati gli uni sugli altri a gravare sulle pendici irregolari e frastagliate da mille torrenti; un equilibrio sempre instabile, frane presenti da tempo immemorabile, di certo da prima che l’uomo muovesse il primo passo su quella terra insieme vittima e colpevole. Da alcuni punti si scorge la sagoma del campanile della chiesa maggiore, in altri vedi spuntare la delicata sagoma di una piccola chiesetta solitaria posta alla sommità del colle più alto, in una sorta di punto senza ritorno al confine tra terra e cielo. Come a dire che chi arriva lassù sa che potrebbe parlare con Dio e soltanto con Lui. Il paese sembra accucciato lì da molto tempo, come fosse sempre appartenuto a quei luoghi. Case grandi e piccole che si intersecano e fondono insieme, separate solo da stretti vicoli e anguste scalinate; comignoli fumanti durante inverni sempre uguali, tetti asciutti e bagnati a seconda dei capricci del cielo sovrastante. Metri e metri di corde di canapa e di filo metallico su cui ondeggiava e forse ancor oggi ondeggia al vento ogni tipo di biancheria stesa ad asciugare, voci e movenze di attività quotidiane, mentre il tutto tendeva a tacere verso sera, quando l’impulso delle attività scemava, lasciando libero sfogo solo a una
14 gioventù che cercava di assaporare gli ultimi scampoli di vita prima dell’avvento di una nuova, placida notte. Tutto cominciò da quelle parti, in una soleggiata e calda mattina di giugno. C’erano quattro ragazzini fermi all’imbocco della strada, proprio nel punto in cui una irregolare colata di cemento collegava in modo trasversale le chiaccule 2 della strett’la 3 alla via nova 4 asfaltata, giusto in curva; in quel punto immettersi nella circolazione era molto pericoloso. Uno di quei ragazzini ero io. Me lo ricordo con nostalgia il ragazzino che fui, anche a distanza di anni. Proprio l’altro giorno stringevo tra le dita le - poche - foto di quando avevo poco più di una decina d’anni, dei cimeli ormai perché all’epoca non era come oggi, che si riescono a scattare decine di istantanee al giorno senza spendere. Allora si comprava un rullino, e per vedere come erano venute le foto occorreva aspettare lo sviluppo della pellicola; per quel motivo molti prendevano in mano la macchina fotografica solo per occasioni speciali. Ero un ragazzo smilzo, non particolarmente bello ma neppure brutto; un tipo insomma. Di quelli che si fanno guardare. Avevo da poco preso l’abitudine di ravviarmi i capelli all’indietro, solo che essendo spesso tagliati troppo lunghi veniva fuori una sorta di banana che non si teneva a bada manco con quintali di gel. Le cose andavano meglio quando decidevo di farmeli tagliare più corti. Avevo un volto semplice, un profilo delicato e un’espressione all’apparenza sbarazzina, ma in realtà ero timido e introverso. Come ogni estate ce ne andavamo a bighellonare in bici appena fuori paese, e quel punto diventava un passaggio obbligato. Seguivo i miei amici di sempre, ovunque essi andassero. Mimmo, Salvatore e Michele mi trascinavano nelle loro avventure dentro un mondo per me tutto da scoprire. Qualche pelo faceva capolino sotto il mio naso in un accenno di baffo primordiale, tanto che più di qualcuno dei grandi mi invitava ironico ad andare già dal barbiere dicendo: vatt’ a taglià ‘sta paliscina! 5. I primi tempi avevo paura a pedalare lungo la carrabile a causa di un episodio all’apparenza insignificante che mi aveva però scosso. Un giorno, durante una partitella negli angusti spazi tra le palazzine in cui abitavamo, un pal-
2
strade. 3 4 5
Pietre lisce e rozzamente squadrate per la pavimentazione delle Vicolo. Sostantivo a volte utilizzato per indicare la strada rotabile. “Taglia questi peli scuri che sembrano peli di muffa!”
15 lone di cuoio tirato in modo maldestro da un compagno di gioco prese una traiettoria sbagliata e superò un cumulo di sabbia di un cantiere lì vicino. All’epoca c’erano cantieri sparsi un po’ ovunque con misure di sicurezza a dir poco risibili, così che noi ragazzini potevamo scavalcare i cancelli di legno, rubare improbabili materiali da far diventare ancor più improbabili armi finte, strumenti di gioco e tortura, o semplici portafortuna di nessun valore. In quell’occasione il pallone rotolò e andò a finire nella strada sottostante proprio mentre passava un autobus della linea extraurbana. Non facemmo in tempo a scendere per recuperarlo, ci limitammo a pregare e a sperare che evitasse l’impatto. Malgrado le nostre preghiere, il pallone di cuoio terminò la sua esistenza sotto a una di quelle mastodontiche ruote e schiattò con un botto tremendo. Lo scarpone, reo di aver effettuato il tiro sbagliato, non tornò più dalle nostre parti in quanto il proprietario del pallone lo rincorse per gonfiarlo di botte. A parte questo, sembrerà sciocco, ma fu proprio l’infelice sorte del pallone a rendermi timoroso di andare per strada con la bici, almeno le prime volte che lo feci. Ben presto però superai anche quella paura. Eravamo fermi all’imbocco della strada, indecisi sul da farsi. «Dove ce ne andiamo?» chiese qualcuno. Era stato Michele a parlare. Michele aveva all’epoca quindici anni, due vispi occhi neri ed era scuro di capelli e carnagione. Basso e mingherlino, era agile e molto bravo a giocare a calcio; se cercavi di acchiapparlo ti sgusciava via dalle mani e si arrampicava ovunque con facilità. Era un’anguilla col corredo genetico di un gatto. I suoi erano rientrati in Italia alla fine degli anni sessanta, dopo una ventina d’anni trascorsi a lavorare nelle fabbriche della Svizzera, luoghi certo meno pittoreschi dei paesaggi alpini che si vedono nelle cartoline. In ogni modo, tra quelle verdi montagne era nato Michele, pochi mesi prima che i suoi genitori decidessero di rientrare. Nel mio gruppo il maggiore era Mimmo, un ragazzo così robusto che per la sua forza si faceva rispettare anche da quelli più grandi. Due guance rosse e un ribelle ciuffetto di capelli neri che spostava di continuo, erano i particolari segni del suo viso. Chiudeva il quartetto mio cugino Salvatore, quattordici anni; poco più di me, che li avrei compiuti a breve. Io e Salvatore eravamo fisicamente agli antipodi: lui robusto e tozzo, io mingherlino e gracile. Ma non bisognava farsi ingannare; io ero sì minuto, ma anche un tutto nervi, e quindi un osso duro se mi facevano arrabbiare sul serio.
16 Salvatore e io siamo figli di due fratelli che abitavano in due palazzine limitrofe, costruite all’inizio degli anni settanta. Mio cugino da ragazzo era ricciolino e belloccio, e spesso aveva qualcuna che gli ronzava intorno. Fin da piccoli eravamo usi a trascorrere insieme ore e ore. Il tempo volava via come nuvole spinte dal vento impetuoso, e spesso il nostro era un disperato intento di andare d’accordo. Perché se c’era una cosa che balzava subito all’occhio erano i nostri continui litigi; sciarrarm’ 6, per dirla nel mio dialetto d’origine, perché io ero di certo cap’tuost’ 7, ma lui lo era almeno quanto me. Strano a dirsi però, dopo ogni litigio andavamo d’accordo più di prima, come se ci fosse impedito tenere il muso per troppo tempo. In fondo a Salvatore gli volevo un gran bene e anche Salvatore doveva volermene, perché spesso mi difendeva da quelli troppo grossi per le mie forze. Noi ragazzi eravamo cresciuti in un circondario di case e palazzi costruiti a uno sputo gli uni dagli altri, tanto che a dividerli era solo una stradina pavimentata in porfido, la cui larghezza era due metri e mezzo, tre al massimo: il nostro primo, angusto campo di gioco. Quante le serate trascorse a giocare a nascondino, le interminabili gare con le biglie nella sabbia o con le macchinine di metallo della Hot Wheels 8? Quante le battaglie con i soldatini di plastica, alcuni più grandi altri minuscoli, o con i più costosi Playmobil 9, che se non altro avevano il merito di essere tutti della stessa taglia. «Venite dietro di me, che vi faccio vedere una cosa importante» propose Mimmo. Era lui il capo spirituale del gruppo, non solo perché era il più grande. Mimmo era anche il più maturo, se di maturità si può parlare a quell’età. L’aveva forgiato così la sua famiglia perché, essendo l’ultimo di otto figli, doveva per forza obbedire e lasciare da parte il gioco, se necessario. Essendo il più forte della banda, Mimmo faceva sempre da incontestabile paciere nei litigi altrui; si arrabbiava di rado, ma quando succedeva erano guai. Esplodeva in un turbinio di sardun’ 10, e allora dove coglieva coglieva.
Litigavamo. Testa dura. 8 Linea di modellini di automobili di metallo molto in voga negli anni ‘70 e ‘80, di proprietà della casa statunitense Mattel. 9 Celebre marchio di giocattoli della Geobra Brandstätter, immesso sul mercato a partire dal 1974. I playmobil riproducono ambienti e personaggi in plastica con parti mobili e sono tuttora in commercio. 10 Ceffoni. 6 7
17 Accettammo quindi il suo invito. Egli fu il primo a lanciarsi per strada; una dopo l’altra le nostre bici si incolonnarono per prendere velocità nel rettilineo. Come a volte accadeva, mi trovai di molto distanziato dalle loro bici, così fui costretto a urlargli dietro: «Ragazzi, aspettate, cazzo!» Salvatore girandosi seccato sbraitò: «E tu muoviti, non dormire!» Nessuno accennò a rallentare. Compresi che avrei dovuto fare affidamento solo sulle mie forze e, nonostante facesse già caldo, mi impegnai ad aumentare il ritmo della pedalata. Così li raggiunsi. La scuola era appena terminata e andavamo in giro già dal primo mattino con addosso una maglietta a maniche corte, roba poco costosa, un jeans blu intenso o sbiadito, scarpette da ginnastica già “da battaglia” o scarpe nuove che da battaglia divenivano in pochi giorni di uso smodato. Macinavamo chilometri su biciclette tappezzate di adesivi, col nastro colorato che fissavamo ai raggi delle ruote per renderle pittoresche, ciondoli e moschettoni penzolanti dal manubrio, in modo che ci illudevamo di cavalcare delle Harley Davidson, sfrecciando come se avessimo un motore vero e non le spingessimo con l’irruenza delle nostre pedalate. Spesso andavamo a perlustrare le campagne circostanti il paese. Percorrevamo lunghi tratti in mezzo alla prima vegetazione selvatica dell’estate, quella dei primi caldi, quando cominciava il pericolo che vi si annidassero r’ sierp’ 11 in agguato. A volte ci imbattevamo in casolari abbandonati, di cui magari era rimasto solo il perimetro murario con l’erba alta che gli faceva da contorno, mentre laddove una volta c’era il tetto spuntavano fuori piante e addirittura veri e propri tronchi di albero. In altre occasioni ci si spingeva in un torrente - che in dialetto chiamavamo l’aimàra 12 - alla ricerca di oggetti abbandonati. D’estate c’erano fastidiosi nugoli di zanzare, moscerini e - se era agosto tafani. Quel giorno l’aria del primo mattino carezzava i nostri volti mentre pedalavamo spensierati. Era già aria calda, ma in bici la calura si sentiva meno. Aspirando il profumo del polline e dell’erba fresca nascitura, giungemmo a un viottolo che scendeva giù, quasi all’aimàra. Mimmo, dopo aver rallentato, fece cenno a noialtri di seguirlo.
11 12
I serpenti. La fiumarella.
18 Ci buttammo tutti giù per la discesa a ruota libera, sobbalzando su fossi e spuntoni di roccia che facevano capolino dallo sterrato. Bastava una distrazione e, a quella velocità si finiva di sicuro tacce al’irie 13. A un certo punto, dopo una curva abbastanza ampia, spuntò un casolare affiancato da un’altra costruzione più piccola. Mimmo e Michele, che erano in testa, si fermarono. Subito dopo facemmo altrettanto anche io e mio cugino. Abbandonammo le bici al margine del sentiero e ci inoltrammo nella marea d’erba alta, rigogliosa e punteggiata qua e là di fiorellini bianchi, gialli e rossi. «Là dentro ci ho trovato bella roba ieri sera, tornando dalla campagna» disse Mimmo indicando il rudere. Senza aggiungere altro si avviò a balzi verso l’ingresso. Che cosa ci fosse andato a fare lì dentro la sera prima non glielo chiesi neppure, pur essendo curioso. Com’era suo costume, Mimmo mi avrebbe intimato di farmi gli affaracci miei. La costruzione, abbandonata da chissà quanti anni, era stata realizzata con mattoni, pietra e malta in un miscuglio che più eterogeneo non poteva essere. Nonostante ciò l’insieme appariva solido e duraturo. La porta era un pezzo uniforme di legno senza grandi pretese stilistiche, sul quale restavano sporadici frammenti di una vernice azzurrina; il legno era mezzo marcio e in alcuni punti era stato asportato, forse da qualcuno che ci aveva preceduti tempo addietro penetrando nella casupola. Sgangherato e tenuto su solo da qualche chiodo piantato qua e là, quel pezzo di legno si era comunque incastrato tra le guide. Mimmo fece forza con le mani e piazzò qualche pedata ben assestata, fino a quando la porta cedette con uno schianto e sollevando un gran polverone di terriccio misto a briciole di legno. Svanito il polverone, il nostro amico si insinuò nello spazio creatosi quando la porta aveva ceduto. Noialtri, curiosi, lo seguimmo intrufolandoci all’interno della costruzione. Nessuno fiatò. Appena fummo dentro avvertii il contrasto tra la feroce luminosità dello spazio aperto e l’oscurità annichilente che invece dominava in quel rudere. Fu solo dopo alcuni secondi che gli occhi si abituarono, favoriti da un po’ di luce che trapelava dalle fenditure negli scuri delle finestre e da qualche buco che ornava il malandato tetto. Quei timidi spiragli mitigavano la tenebra. Abituatomi all’oscurità, notai che l’ambiente non era unico, bensì separato dal successivo mediante un muro interno su cui c’era un’altra apertura; della porta che doveva esserci un tempo non vi era più traccia, se si escludevano i montanti. 13
A gambe all’aria.
19 «Seguitemi!» ripeté perentorio Mimmo che sembrava, anzi era in preda a una certa euforia. Senza indugio lo seguimmo nell’altra “stanza”. Per terra era pieno di erbacce, calcinacci, oggetti vari e - dulcis in fundo l’ambiente aveva un odore aspro e pungente; comprendemmo che il locale doveva essere sovente punto di ristoro per vesciche e intestini altrui, e ancor più spesso luogo di rifugio di cani randagi o altre bestie selvatiche. C’era di che scappare via a gambe levate, ad aver lo stomaco delicato. Noi però non ci formalizzammo più di tanto. In un angolo, vicino a un bidoncino di lamiera, c’erano due scatoloni di cartone chiusi. Mimmo vi si approssimò, ne aprì uno e disse rivolgendosi a noi: «Guardate un po’ che c’è qui…» Noi tre ci avvicinammo e restammo stupiti; lo scatolone era pieno di pacchetti di sigarette. Ce n’erano di svariate marche: Marlboro, Chesterfield, Camel, Muratti. «Pigliamocene un paio a cranio e il resto lo lasciamo qua, per sicurezza…» suggerì Mimmo. Michele e Salvatore annuirono, e Mimmo a quel punto non si fece pregare nel lanciare a quei due un paio di pacchetti a testa. Il bello fu che nessuno si pose il problema di chi ce li aveva portati lì, in quel tugurio. C’erano e tanto a noi bastava. Al più, l’importante era non farsi beccare da chi aveva nascosto quella roba. Anche Mimmo ne prese un paio. Guardando me, domandò con un sorriso ironico: «E tu, Massimo… non ne vuoi uno?» Sembrava conoscere già la risposta. Tutti loro erano convinti che fossi il cacasotto del gruppo, e in effetti provavo disagio anche nel doverlo nascondere, un pacchetto di sigarette. «Boh, non lo so…» risposi, tentato di accettare. «Lascia stare, meglio di no. Non importa» aggiunsi infine, vinto dal mio timore. Mimmo iniziò a ridere e a sfottermi. «Ma quando crescerai, cazzone?» E giù di nuovo a ridere insieme agli altri. Io ci rimasi male, come accadeva ogni volta che mi prendevano in giro. Soprattutto quando loro giocavano a fare i grandi e a me toccava sempre il ruolo del pivello. Ma Mimmo non era cattivo per davvero - almeno questo ho sempre pensato - e fece un cenno come per dire che non me la dovevo prendere più di tanto. «Vabbuò… vuol dire che quando fumiamo te ne pigli una da me e ti fai due tiri. Almeno questo lo puoi fare, o no?»
20 «Certo che sì… lo faccio quando mi pare! Ma sono io che non voglio, che cosa credi?» mi difesi, irritato ma consapevole che il mio amico aveva in parte ragione. A quel punto Mimmo guardò gli altri due, poi tornò a fissare di nuovo me. Sorrise di nuovo e chiuse la disputa dicendo: «Fai come cazzo vuoi. A noi sai quanto ce ne frega?» Non gli risposi, mordendomi un labbro. Dopo aver chiuso il primo scatolone, Mimmo ci mise sopra un sasso per tener fermi i lembi. Quindi aprì l’altro. «Dopo la gioia per il fisico, anche quella per lo spirito!» ci disse prima che potessimo spiarne il contenuto. Affondò una mano nello scatolone e ne tirò fuori un malloppo di giornaletti di varie dimensioni. Bastò qualche occhiata per capire che si trattava di giornaletti pornografici. Gli altri si accucciarono per terra e presero a sfogliarne voracemente le pagine. Io riuscii a sbirciare qualcosa, e nel rapido scorrere delle pagine rimasi colpito da un insieme di corpi nudi, aggrovigliati, donne e uomini in posizioni assurde e con le parti intime in bella mostra. La curiosità divenne sconcerto e infine mutò in disgusto. Non dissi nulla per non esser preso di nuovo in giro, magari bollato come anormale. Forse non ero ancora pronto per quelle immagini, forse non lo sarei stato mai. Quelle figure erano troppo degradanti per rappresentare davvero un qualcosa che, come avrei scoperto in seguito, può essere bellissimo soprattutto se associato all’amore vero. Trascorsero alcuni minuti prima che i miei amici si decidessero a staccare gli occhi da tutto quell’arsenale. Mimmo ripose i giornaletti dove li aveva presi, e senza aggiungere altro ci fece cenno di seguirlo all’esterno del rudere. Mentre stavo per accodarmi, la mia attenzione fu catturata da un bagliore improvviso in qualche punto là per terra; come era possibile una cosa del genere lì dentro, quasi al buio? Vidi del pulviscolo illuminato da un raggio di sole che penetrava all’interno, e compresi che quel fascio di luce, fattosi strada nell’oscurità, aveva colpito qualcosa facendolo luccicare per un istante. Mi avvicinai incuriosito al punto dal quale mi era parso provenisse il bagliore. In effetti là per terra c’era qualcosa. Chinatomi, allungai una mano per raccogliere un oggetto metallico raffigurante un teschio. Era impolverato, per cui lo ripulii per osservarlo meglio; nei vuoti delle orbite recava incastonate due pietruzze colorate, una verde e una celeste, mentre all’altezza della bocca era collocata una terza pietruzza, quest’ultima di colore violaceo.
21 L’oggetto era di ottima fattura e aveva all’estremità superiore una piccola protuberanza a cui erano agganciati tre piccoli anelli d’oro, probabilmente ciò che restava della catena che lo reggeva. Incuriosito da quella strana effigie presi tra le mani il ciondolo e lo infilai in tasca con un rapido movimento, come un tremendo segreto da nascondere. Non potevo sapere quanto quella scoperta avrebbe influenzato la mia vita. Mi affrettai a raggiungere gli altri fuori della casupola. Loro stavano già andando a recuperare le bici e non si erano accorti del mio ritardo, né mi chiesero nulla quando se ne accorsero, per cui non dovetti fornire spiegazioni. «Ragazzi, saliamo sopra, in paese» propose Mimmo. Concordando con la proposta, iniziammo a pedalare per affrontare la salita più faticosa dell’intero percorso. La salita si dimostrò così dura da sudare anche il sangue, su per un tratto impervio che costeggiava pareti di sabbia e conglomerato rossastro; sopra a quelle zone spoglie penzolavano lembi di suolo nei quali affondava le radici una vegetazione selvatica e rigogliosa, di colore verde intenso. Io pedalavo senza rendermi conto di quel che facevo. Mi sentivo pervaso da un desiderio irrefrenabile e non vedevo l’ora di fermarmi in un posto appartato per studiare con calma lo strano oggetto che avevo raccolto e che mi aveva subito incuriosito, colpito, affascinato. Il sudore usciva a fiotti per la calura e per lo sforzo, colava dalle fronti e inzuppava magliette e jeans che si appiccicavano subito alla pelle. Quando fummo sulla sommità, posta al termine del tratto più duro, si spalancò davanti a noi un ampio pianoro, e fu in quel punto che avvistai una fontana; probabilmente l’avevano vista anche gli altri, ma fui io il primo a parlare. Non ce la facevo più e gridai agli altri: «Uagliù 14! La fontana, la fontana! Aspettate, fermatevi che voglio bere!» Gli altri colsero al volo la mia invocazione, anche perché dimostrarono di avere la mia stessa esigenza. Io fui solo il più lesto a manifestarla ad alta voce. Raggiungemmo la fontana facendo a spallate e urtandoci con la tipica irruenza dei ragazzini, inzaccherandoci le scarpe e i jeans nella fanghiglia che si era formata nei pressi della vasca. Ci attaccammo a turno al cannello metallico come cuccioli di una lupa alle sue mammelle; sentimmo dentro un piacere smisurato, quando l’acqua fresca scese a fiotti nei nostri gargarozzi. Bevemmo fino a sentirci scoppiare. Fu solo per il dolore all’addome che ci convincemmo a staccarci, pieni come otri; in effetti bevendo altra acqua non avremmo avuto la forza di dare nemmeno un altro colpo di pedale. 14
Ragazzi.
22 Gli altri approfittarono della sosta per accostarsi ai cespugli e pisciare beatamente; io mi appartai e infilai una mano in tasca. Dopo averlo tirato fuori, osservai curioso quello strano ciondolo. Alla luce del sole notai che era veramente splendido, ma allo stesso tempo sibillino. Sentivo che doveva avere un significato ma, nonostante la mia sfrenata fantasia, ignoravo quale potesse essere. Quel coso mi ricordò le sembianze dei mostri contro cui combattevano i vari Goldrake, Mazinga Z o Jeeg Robot. I miei coetanei capiranno cosa intendo. Le tre pietruzze assumevano sfumature cangianti a ogni minimo movimento del ciondolo, un balenare repentino di colori e riflessi come se fosse un oggetto animato: una sensazione inquietante ma al contempo attraente. Che fosse il simbolo di un’entità sovrannaturale? Mentre osservavo affascinato quel gioco di colori, qualcuno mi diede uno spintone. Era stato quell’impiastro di Michele il quale, incuriosito dal mio atteggiamento, mi disse: «Che cazzo stai guardando? Fammi vedere…» Colto alla sprovvista, chiusi di scatto le dita attorno al ciondolo tenendolo ben stretto nel pugno. Non soddisfatto, nascosi il pugno stesso dietro alle spalle. «Niente…» riuscii a balbettare. Ovviamente il mio comportamento produsse l’esatto contrario di ciò che auspicavo. Michele ebbe la conferma che volevo nascondere qualcosa. «O-hò, ragazzi» urlò agli altri due «questo non vuole far vedere che cosa ha trovato!» Tra noi non esistevano segreti, perciò fui costretto a mostrarlo, seppur a malincuore. Anche i miei amici furono colpiti dalla particolarità dell’oggetto; curiosamente notai che quando se lo passarono di mano in mano quel piccolo ciondolo non emise alcun riflesso, al contrario di ciò che mi era parso quando in mano ce l’avevo io. Certo poteva essere un caso, un dettaglio; ma tale dettaglio non fece che accrescere la mia curiosità. Mimmo osservò scettico l’oggetto che in quel momento giaceva nel palmo della sua mano. Fece spallucce e me lo restituì con noncuranza, dicendomi: «Per me lo puoi pure buttare! Non vale niente!» Io quasi glielo strappai di mano, stringendolo gelosamente e rimettendolo al sicuro in tasca. «Che me ne fotte? L’ho trovato e me lo tengo» gli risposi piccato. Mimmo esplose in una beffarda risata, trovando subito appoggio in Michele e in mio cugino.
23 Mi indispettii non poco, tanto da esser tentato di scappare via. Mimmo tuttavia prevenne ogni mia mossa minimizzando il tutto con una pacca sulle spalle e dicendomi: «Ma vafangul’ tu e il tuo ciondolo…» Per molti una frase del genere sarebbe potuta suonare offensiva, ma tra noi era normale anche un tale atteggiamento; significava che per lui la faccenda era conclusa e che non dovevo prendermela più di tanto. Quello era spesso il modo di fare di Mimmo e c’era poco da discutere perché anche in tali piccole cose, in certi dettagli, si scopriva la pasta di cui egli era fatto, il carisma che ne faceva il leader della nostra banda; a volte si litigava, volavano insulti e schiaffi e pugni, ma alla fine ci si ritrovava più uniti di prima. Eravamo fatti così. Dei ragazzi. Solo dei ragazzi ingenui. Ognuno prese la propria bicicletta e ci mettemmo a pedalare in silenzio, che la strada da fare era ancora tanta e serviva fiato per l’ultimo sforzo sulla ripida salita. Era quasi l’una e a casa ci aspettava un bel piatto di maccheroni fumanti, sommersi da un caldo, cremoso e odoroso sugo di pomodoro.
24
Ma dove finiva il sogno?
Per quel pomeriggio restammo d’accordo di vederci sotto casa. Si era deciso per una fumata nel nostro rifugio un po’ fuori paese e io non potevo non aggregarmi. Altrimenti, che razza di banda sarebbe stata, la nostra? Come molti nostri coetanei, anche noi ci divertivamo con ciò che si trovava per strada. Trascorrendo molto del nostro tempo in giro, cercavamo di scongiurare la noia con ogni mezzo, e spesso ci riuscivamo. L’anno precedente avevamo costruito un rifugio tutto nostro utilizzando piccole assi di legno, colla e un bel po’ di chiodi. Ogni estate ci mettevamo alla sfrenata ricerca di legname da costruzione e chiodi; questi ultimi poi andavano bene anche storti perché a raddrizzarli ci pensavamo noi con qualche colpo di martello nei casi meno gravi oppure, quando ci saltava il ticchio di salire su fino alla ferrovia, li portavamo appresso chiusi in una scatola di scarpe. Mentre uno restava a fare la guardia per avvisare se arrivava il treno, gli altri piazzavano i chiodi in fila sui binari; poi ci nascondevamo tra i cespugli in modo da non farci vedere, incuranti delle spine che si aggrappavano a ogni lembo del nostro corpo come amanti ancora insoddisfatte. Qualcuno aveva sparso la voce che così facendo le ruote del treno avrebbero raddrizzato i chiodi rendendoli come se fossero appena usciti da un negozio di ferramenta. In realtà spesso i chiodi schizzavano via come proiettili impazziti, e allora tutti giù per evitare di essere infilzati. Le rare volte che riuscivamo a recuperarne qualcuno, essi erano schiacciati fino a somigliare a delle piccole lame, diventando inservibili per i nostri scopi. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto cominciammo a intuire che forse quello non era il sistema migliore, e di certo non faceva al caso nostro. Cercammo allora di imparare come raddrizzarli a colpi di martello. Le capanne di legno che costruivamo erano capolavori di architettura adolescenziale, rifugi dove noi novelli Huckleberry Finn e Tom Sawyer giocavamo a carte, sfogliavamo fumetti o giornaletti vietati, mangiavamo chili di ciliege, pere, fragole o mazzuocc’l’ 15 rubati nei campi altrui.
15
Pannocchie di granoturco.
25 E ogni tanto, quando si riusciva a trovarne, ci si provava a fumare in santa pace qualche sigaretta. Quel giorno, subito dopo pranzo, salutai la mamma e uscii di casa, intenzionato a fare il perdigiorno per le viuzze del quartiere; i vicoli erano silenziosi, le case come sonnolenti monoliti nell’aria che stagnava afosa dopo la mattinata di intenso sole. Mentre percorrevo quelle viuzze di cui padroneggiavo ogni rientranza, ogni incrocio, dalle mura circostanti mi giungeva il rumoreggiare di pentolame e piatti che le massaie lavavano sotto l’acqua scrosciante del rubinetto. Voci femminili canticchiavano, spensierate e leggere. Radioline diffondevano le canzoni del momento, come Fotoromanza della Nannini o Sound like a melody degli Alphaville, che da qualche mese andavano fortissimo, molto gettonati nel malandato juke-box del bar del quartiere. Passando sotto le finestre aperte per far fronte alla calura, sentivo le voci della gente intenta a chiacchierare; non solo questo notai, ma anche un gradevole profumo di caffè che come ti sfiorava rapido spariva, lasciandoti in bocca la voglia di assaporarlo. Ma solo quella, purtroppo. Camminando a caso giunsi nei pressi di una vecchia costruzione disabitata. Era una casupola che spesso osservavo da lontano, entrandovi solo di rado. Qualche volta diventava un mio temporaneo rifugio, se mi sorprendeva per strada un improvviso acquazzone. A pochi metri da essa, accatastati l’uno sull’altro, grossi blocchi di pietra erano ciò che restava di un vecchio tugurio, abbattuto perché ormai ridotto a un ammasso instabile dal terremoto di quasi quattro anni prima. Salii sopra al cumulo più alto, attento a non perdere l’equilibrio. In lontananza spiccava la sagoma delle colline circostanti, la linea verde scuro dei boschi e i colori più chiari dei campi coltivati, sparuti gruppi di case e il cielo sempre più blu, di un blu così intenso che veniva voglia di spiccarvi il volo, magari cantando a squarciagola il famoso brano di Rino Gaetano. Scesi dal cumulo di pietre ed entrai nella vecchia casupola. Diedi un’occhiata agli interstizi del muro, nei punti in cui la malta era sgretolata e vi si rifugiavano i ragni; mi divertivo a dar loro la caccia fin da quando ero alto poco più d’uno sgabello. Li aspettavo con un certo sadismo, per bruciacchiarli con la fiamma di un cerino o di un accendino. Però si trattava di una incombenza da sbrigare alla piena luce del sole, non certo nel chiaroscuro della casupola. Rinunciai alla mia vecchia passione e mi accucciai sul pavimento di pietra, ricoperto da un soffice tappeto fatto d’erba e paglia; poggiate le spalle al muro, mi sentii fremere dall’ardore.
26 Finalmente solo, potei gustarmi la vista di quello strano oggetto, rigirarmelo tra le dita nel tentativo di comprendere perché esercitasse su di me un tale indecifrabile fascino, per quale motivo fosse diventato un chiodo fisso dall’istante in cui me ne ero impadronito. Estrassi dalla tasca il ciondolo. Lo girai e rigirai; era veramente un oggetto affascinante. Non si trattava comunque di un giocattolo e non sembrava neppure un ornamento pacchiano, bensì un amuleto di grande valore. Quel ciondolo era infatti piuttosto appariscente, anche se il suo fascino non sembrava essere legato al solo aspetto esteriore. Aveva qualcos’altro; un misterioso magnetismo, un sentore arcano e indefinibile. Ancora oggi, pur avendo in parte perso la freschezza delle sensazioni di allora, non credo ci siano parole calzanti per definire con esattezza come quel gingillo apparisse ai miei occhi. Ecco, forse strano è la parola che si avvicina a descrivere la sensazione che provavo. Strano nella nostra lingua è un termine che dice tutto e allo stesso tempo non dice niente. Però, quando si avverte l’esigenza di catalogare qualcosa o qualcuno che esula dalla sfera delle cose comprensibili, lo si tira fuori dal cilindro come un coniglio che salva il numero del prestigiatore. Sentivo che si trattava di un oggetto particolare, non comune. La mia mente ne era presa, ipnotizzata senza che me ne rendessi conto, senza averne piena coscienza. Al buio le piccole pietre si distinguevano a malapena dal resto. Del tutto normale, vista la scarsa luce presente in quel piccolo ambiente. Eppure, nonostante non riuscissi a distinguerne con precisione ogni dettaglio, quel coso mi sembrava terribilmente vivo. Chissà chi lo aveva perduto? Quella era l’unica cosa che non mi lasciava dubbi: un oggetto del genere poteva solo esser stato smarrito, non di certo buttato via come una scarpa vecchia. Doveva essersi staccato da una catena che serviva per portarlo appeso al collo, come un monile. All’improvviso, mentre rimuginavo, mi accorsi che il ciondolo cominciava a riscaldarsi. Non so come spiegarlo a parole; una sensazione che solo provandola in prima persona la si sarebbe potuta afferrare. Le pietruzze assunsero colori più vivi, più intensi. Il monile passò quasi all’istante dal freddo al caldo, fino a sembrarmi sul punto di prendere fuoco. E così facendo l’oggetto raggiunse davvero una temperatura tale da scottarmi le dita. Le pietruzze a quel punto si illuminarono. Lo mollai di scatto e lanciai un urlo.
27 Un urlo che mi venne dalle visceri, un misto di dolore e spavento. Il ciondolo rimbalzò per terra fermandosi a una certa distanza dai miei piedi. Non mi fu difficile, riacquistata la calma, individuare dove fosse finito. Pur essendo immerso nella quasi totale oscurità, l’oggetto risaltava nettamente grazie all’intensa luce che emanava. Infatti le pietruzze apparivano come minuscole lampadine accese. Restai fermo dove mi trovavo, senza perderlo di vista nemmeno per un istante. Sentii improvviso nell’aria uno strano odore, simile a quello dell’incenso ma molto più forte, un’essenza che mi mordeva alla gola. All’inizio non ci feci caso, distratto com’ero dalla vista delle piccole pietre illuminate. Mi accorsi troppo tardi di quello strano odore e, soprattutto, dell’effetto che stava avendo su di me. Dopo pochi istanti cominciai ad avvertire un crescente mal di testa sommato a una sensazione di disagio e di vertigine. Persi in pochi istanti ogni contatto col mondo reale. Di quello stato di semi incoscienza in cui caddi oggi non ricordo altro. Solo un barlume di immagini senza senso, foschia allo stato puro. Probabilmente mi persi in un sonno profondo, una catalessi indotta da quel qualcosa che si trovava a poca distanza da me. Anche adesso, dopo tanti anni, mi resta in mente solo quell’inizio; fu l’unica cosa chiara in una coltre di nubi indissolubili. Quel giorno feci la conoscenza con un fenomeno assurdo, mai vissuto prima; ebbi il primo impatto con ciò che ho sempre identificato come il sogno. Eppure mi sono rimasti impressi i dettagli all’apparenza più insignificanti, come se avessi letto un libro o visto più volte lo stesso film, fino a memorizzarne forma e contenuti. Ricordo quello che sognai, pur essendo stravagante come lo è la maggioranza dei sogni. So che può succedere di vedere in sogno qualcuno che si conosce solo di vista o che a malapena si saluta, senza condividere nulla più che l’abitare nella stessa città; oppure di sognare fatti di cui si è a conoscenza solo in modo superficiale. Mi è capitato tante volte nella vita e altrettante volte ho sentito raccontare di cose simili. Ma a quell’età mi era un po’ difficile capire. Soprattutto perché il protagonista del mio sogno era un perfetto sconosciuto. Tutto quanto sognai e accadde in seguito non mi riuscì mai di capirlo a fondo; nel modo più assoluto, era impossibile stabilire un confine netto, definire con esattezza dove terminava il sogno e dove cominciava la realtà.
28 E poi che senso poteva mai avere quella visione per un ragazzino di appena quattordici anni?
29
L’uomo che vendeva palloncini
Provo una sorta di cupa agitazione che mi impedisce di star fermo sulla sedia. Appoggio le mani sul tavolino e cerco di darmi il giusto slancio nell’alzarmi. Una volta in piedi, le gambe mi tremano. L’attacco di panico per fortuna passa subito; così riesco a comprendere a cosa sia dovuto l’improvviso malessere. È il ricordo di quelle vertigini a farmi sentire così. Rimestare nei meandri della memoria ha riportato fuori non solo le scene vissute, ma anche le forti sensazioni provate. Ho avvertito per qualche secondo le stesse paure che a quel tempo mi attanagliarono il cuore. Le storie ai confini della realtà, quelle che riescono a inchiodare milioni di spettatori allo schermo televisivo, spesso sembrano davvero incredibili, ma ci sono comunque dei punti e dei particolari che le rendono possibili, verosimili, realistiche. Quando ero piccino, se per caso trasmettevano alla TV un film dell’orrore e io - contro il volere dei miei genitori - ancor più per caso ne guardavo uno spezzone, la notte non riuscivo a lasciarmi andare nelle braccia di Morfeo. Mi ci voleva la luce accesa e tutta la pazienza di mia madre per farmi prendere sonno. Avevo paura anche ad accostarmi alla porta di una stanza buia o ad attraversare il corridoio immerso nella penombra. Ecco, quella paura è proprio la sensazione che provo in questi istanti. Una paura atavica che, ben lungi dall’essere scomparsa, è tornata a galla insieme ai ricordi. Il paragone potrà sembrare forte, ma sembra come quando si ottura uno scarico fognario e in superficie risale di tutto, liquami e porcherie varie. Penso sia in questi casi, ossia quando il paranormale si affaccia sul reale, sulla nostra vita quotidiana, che in ognuno di noi scatta la paura dell’ignoto. Allora cominciamo a renderci conto che quelle cose non sono poi così incredibili, e che situazioni analoghe potrebbero veder coinvolti proprio noi, nel momento e nel modo che meno ci aspettiamo. Per fortuna si tratta solo di una sensazione, di un malessere passeggero. Trascorso qualche minuto comincio infatti a sentirmi meglio. Il disagio sta svanendo.
30 La brutta sensazione è stata risucchiata dal remoto anfratto da cui proveniva, sono di nuovo sereno e ho voglia di raccontare. Sta prevalendo quel senso di nostalgia per i tempi andati che credo ognuno di noi viva prima o poi nell’età adulta. Davanti ai miei occhi prendono forma immagini e ricordi, cose del tutto particolari perché sono memorie oniriche. Sto riportando alla luce proprio il sogno che feci. E mi ricordo tutti i dettagli, come se stessi leggendone la descrizione sulle pagine di un libro scritto dalla sapiente penna di un narratore d’altri tempi. *** L’uomo che vendeva palloncini, a pochi metri dalla piazza, era un tipo che a vederlo non l’avresti detto potesse venderne perché aveva l’aspetto di un pirata moderno, mezzo burbero e mezzo sprezzante. In una piccola creatura avrebbe potuto incutere un certo timore al solo guardarlo negli occhi, ma anche per come si muoveva e gesticolava. Eppure un tale cristiano vendeva qualcosa che era quanto di più vicino al desiderio di un bambino; era un dispensatore di sogni; azionava un insufflatore meccanico di elio che su richiesta gonfiava teneri e sottili involucri di lattice colorato. Il lattice si dilatava sotto la spinta del gas e gli involucri assumevano così le forme per cui erano plasmati, accattivanti e attrattive al punto giusto. Quelle forme, fissate al nostro mondo di esseri terreni tramite volgarissimi spaghi, erano tentate di volare verso l’alto; ma erano al tempo stesso vincolate affinché non accedessero all’azzurro del cielo e non lo tappezzassero per intero come tante bolle colorate. Erano semplici oggetti di svago che inducevano a incontenibile pianto i bambini che affollavano la piazza in quel giorno di festa atteso così a lungo dopo mesi di freddo, pioggia e neve e, soprattutto, noiosissima scuola. Erano quelli i momenti decisivi; o la mamma cedeva e metteva mano al borsellino che custodiva e - prestando attenzione a non farselo sgraffignare dalle zingare che quando meno te l’aspettavi spuntavano dalla folla - pagava il fetentissimo venditore, accontentando il bimbo che smetteva all’istante di frignare, oppure… apriti cielo: il bambino avrebbe cominciato a piangere, urlare e disperarsi facendo scendere giù tutte le pazienze di questo e di qualche altro mondo, caso mai fosse esistito. Agli occhi di un adulto il venditore era quel che si sarebbe potuto definire un bell’uomo: capelli lunghi ricci nerissimi intrecciati e inanellati l’un l’altro come fossero inestricabili capricci divini, raccolti all’indietro in una coda da gitano; magari non giovanissimo, ma reso attraente dal colore bru-
31 nito della pelle e da due baffetti scuri e sottili da attore d’altri tempi, come il Douglas Fairbanks 16 del Ladro di Baghdad. La pelle era solcata da qualche ruga appena accennata che non ne scalfiva il fascino; due occhi vispi e furbi, uno celeste l’altro verde - stranezze della genetica - cesellati alla perfezione e contornati da un lievissimo alone nerastro, quasi fossero stati truccati all’uopo da un’abile mano. Le labbra carnose avevano un colore che sembrava rosso, ma a uno sguardo più attento apparivano forti tonalità di viola. L’uomo portava al collo un fazzoletto colorato che all’occorrenza poteva diventare un copricapo per ripararsi dal sole. Egli indossava inoltre una camicia di colore rosso, con le maniche arrotolate a mostrare i muscolosi avambracci ricolmi di tatuaggi su gran parte dello spazio utile, un paio di jeans un po’ sdruciti, quasi ad arte; da una tasca fuoriusciva una catena dorata che andava a terminare la propria corsa in uno dei passanti per la cintura. Chissà cosa c’era all’interno della tasca? Forse delle chiavi oppure un orologio da taschino, uno di quei cipollotti dei tempi passati, ma ancora così belli da guardare e carezzare anche nell’epoca degli orologi al quarzo. Infine, a cesellare l’aspetto zingaresco, un pendente di madreperla all’orecchio sinistro. L’uomo sorrideva a tutti, soprattutto alle belle signore cui faceva una strizzatina d’occhi come se fosse sempre pronto a iniziare un discorso galante. Quando il pianto disperato di un bimbo costringeva la giovane madre ad avvicinarsi al venditore, era sempre buona l’occasione per scambiare qualche parola, saggiare il terreno, purché la donna non fosse accompagnata da presenza maschile. La piazza a quell’ora era affollata e ovunque regnava un frastuono di suoni, colori e vociare allegro. La gente proveniva numerosa dalle campagne intorno al paese, confluendovi per la festa del Santo Patrono che da centinaia di anni si ripeteva con scene all’apparenza immutabili; cambiavano i festeggianti, ma il festeggiato era sempre lo stesso. Era l’occasione per trovarsi in mezzo alla folla e vedere gente nuova; i signori e le signore di mezz’età riscoprivano il piacere di fermarsi a chiacchierare cu lu cumbàre 17 o la cummàra 18, che sembrava non si vedessero da anni e invece si erano salutati in modo spiccio appena il giorno prima.
Douglas Fairbanks (1883-1939, vero nome Julius Ullman) fu un attore statunitense celebre per i personaggi senza macchia e senza paura che interpretò all’epoca del cinema muto. 17 Compare, in senso generico per indicare amicizia stretta. 18 Comare, in senso generico per indicare amicizia stretta. 16
32 La festa era un’altra cosa rispetto ai giorni normali. Il tempo in quell’occasione si dilatava ed era un peccato non fermarsi a parlare con i conoscenti. Ragazzine imbellettate spiavano nei gruppetti di ragazzi più grandi alla ricerca del bello di turno, sognando di conoscerlo e magari di farsi vedere in giro con lui. I bambini erano la vera anima della festa. Ne spuntavano dappertutto, gironzolavano in gruppetti, un attimo compatti e solidali come operai in sciopero e un attimo dopo sparpagliati come fossero bestie allo sbando e intenti a curiosare tra le merci in mostra. Orologi da polso, occhiali da sole, radio e braccialetti intrecciati, armi giocattolo e magliette taroccate delle più importanti squadre di calcio o dei divi della musica pop, cassette musicali rigorosamente pirata o l’ultimo robot dei cartoni animati giapponesi. Tanti i bambini tenuti per mano dalle mamme con gran fatica; i bimbi, seccati e impazienti quando queste si fermavano con qualche conoscente, scrutavano con occhio attento e capriccioso la bancarella di turno. Qualcosa da quella bancarella dovevano portare via, fosse un giocattolo, delle noccioline o delle caramelle, gommose con o senza zucchero in superficie, oppure quelle sfuse, variamente colorate che l’ambulante ti metteva nel sacchetto con una paletta color argento, con un movimento che sembrava volesse spalare tutto il bancone, salvo poi arrendersi a prelevare minori quantitativi dietro esplicita richiesta del genitore pagante. In mezzo a quella folla avvertivi di tutto: voci, colori ma anche odori. C’era il forte e pregnante tanfo del sudore di chi aveva appena terminato di seguire la processione e, accaldato e stanco, consumava un rapido e frugale pasto con focaccia impepata, provolone e prosciutto crudo. Dopo aver mangiato sarebbe risalito in paese per prendere il treno o farsi dare un passaggio in auto per tornare a casa qualora fosse residente appena fuori dal centro abitato; oppure ancora avrebbe prolungato la propria permanenza in paese durante quel giorno di festa acquistando un paio di scarpe nuove, una cintura elegante per ben figurare allo sposalizio del mese successivo o andare a prendere un fragrante mustazzuolo 19 con lo zucchero da presentare in tavola una volta tornato a casa. C’era il profumo della bella donna che, grazie al caldo appena arrivato in quel giorno di metà giugno, sfoggiava la mise elegante scollata a rendere pubblica la vista del morbido e abbondante petto, in moto perpetuo tra ansimi e ondeggiamenti vari. Su quel petto si incollavano e a esso ambivano molti occhi di uomo, giovane e - spesso - ragazzino, con indicibili desideri repressi. 19
Dolci tradizionali ricoperti di glassa di zucchero.
33 In TV andava di moda la donna magra, magari piena solo nei punti giusti, ma in mezzo alla gente comune la bella donna doveva essere prosperosa, avere più rotondità di una rotonda e fregarsene di qualche chilo di troppo. C’era in giro anche un bel po’ di gente anziana, rigorosamente nel vestito per tutte le stagioni. Il continuo uso e la fedeltà che il proprietario riservava all’abito era palese dallo stato di usura, ma soprattutto dall’odore che spandeva ai quattro venti per deliziare il naso dei presenti. Altra cosa che colpiva erano le donne in costume tradizionale, quando cercavano i soldi per pagare qualcosa che avevano acquistato alle bancarelle o quando si fermavano per iatarsi 20 il naso. Allora la mano spariva abile e temeraria in mezzo alle fagocitanti pieghe e ai mille svolazzi della gonna; qualche secondo di frugare appassionato, sapiente e preciso, e ne fuoriusciva l’agognato oggetto della ricerca. La folla si muoveva talora solidale, talora disaggregata, tanto che lungo la strada, sui cubetti di porfido che la tappezzavano nel frequentatissimo tratto tra la piazza principale e il viale della stazione, si creavano dei vuoti indicibili e subito dopo ancor più indicibili accumuli di eterogenea umanità. Gente di ogni età e di ogni risma che si incrociava, pedinava e strusciava, in un amalgama che avrebbe fatto impazzire un pittore, se solo quel pittore avesse coltivato la folle idea di ritrarre tale marasma festaiolo. L’uomo dei palloncini osservava il passeggio della gente. Ogni tanto si parava la mano davanti agli occhi per proteggersi dalla luce del sole, e nel farlo faceva scintillare l’armamentario di bracciali e pendenti. Sorridendo quando gli saltava il ticchio di farlo, gridava ai quattro venti la frase di rito: «Bambini, piangete! Così la mamma vi compra il palloncino!» Sotto il sole che arroventava l’aria, minuscole goccioline di sudore imperlavano la fronte e il colorito volto dell’uomo, rendendone la pelle lucida come una levigata superficie metallica. Nonostante le apparenze, il suo impeto era del tutto provvisorio. Pronunciate quelle parole, egli osservava intorno a sé con sguardo furtivo e tornava in uno stato di apparente apatia piena di nulla, se non del suo caratteristico aspetto fuori dal comune.
20
Soffiarsi.
34
Era vigilia di festa
Quando mi risvegliai ero in preda a una forte confusione. La testa girava come la ruota di un lunapark, intense vertigini ancora mi provocavano brividi e instabilità, tanto che se mi fossi trovato in piedi sarei di sicuro caduto a terra come una pera cotta. D’istinto alzai il braccio sinistro e cercai di metterlo in piena luce per vedere che ora si era fatta. Erano le cinque; avevo dormito almeno due ore, se non oltre. Faticai a riprendermi, sconvolto non tanto dal sogno in sé ma da come era accaduto il tutto. Per terra, davanti ai miei piedi, giaceva il ciondolo. Completamente inerte. Le pietruzze avevano la propria colorazione naturale. Non vi era traccia di quanto successo. Ma era davvero successo ciò che a me sembrava di ricordare? O mi trovavo in quel limbo di memoria in cui si confondono fatti davvero accaduti con altri solo immaginati? E se in realtà avessi sognato tutto, anche la strana metamorfosi del ciondolo? Allungai timoroso la mano fino a toccare l’oggetto con la punta delle dita. Il contatto con quella fredda superficie mi rassicurò. Almeno quella era reale e sembrava del tutto normale. Afferrai il ciondolo. L’avvicinai al naso e lo annusai. Niente. Non si sentiva nient’altro che il naturale, acre odore del metallo. Scoppiai a ridere, forse per una reazione isterica alla paura; mi convinsi di aver sognato tutto. L’aver annusato il ciondolo, constatando che si trattava né più né meno di ciò che avevo trovato nel rudere, mi rassicurò. Tornai alla realtà, ricordandomi all’improvviso l’appuntamento con gli amici. Era già tardi. Balzai in piedi e uscii dall’oscura casupola correndo per i vicoli fino a raggiungere la strada carrabile. Il rifugio della banda si trovava nei pressi di una vecchia fontana di recente ristrutturata, nota in paese come la fundanedda 21, a circa un chilometro da dove abitavo.
21
La fontanella.
35 Visto che tardavo all’appuntamento, pensai che i miei amici dovevano avermi cercato a casa e poi nei dintorni; seccandosi ad aspettarmi oltre, dovevano essersi incamminati sulla strada per il rifugio. Avranno pensato che tanto prima o poi, come era capitato altre volte, li avrei raggiunti. Così ragionando, mi misi in cammino a passo svelto, favorito dal caldo meno opprimente di quell’ora del pomeriggio. Dopo una decina di minuti buoni spesi a camminare lesto, giunsi presso la stradina sterrata che conduceva alla fontana. Erba incolta, rovi e fiorellini crescevano ovunque, in un silenzio bucolico in cui l’unico rumore era il familiare gorgoglio dell’acqua della fontana. Mi avvicinai per bere, salendo con i piedi sopra al bordo di marmo che scoprii viscido per l’acqua che lo bagnava in abbondanza. Facendo attenzione a non scivolare, afferrai saldamente il cannello, portando a termine la complicata manovra per bere la fresca acqua che ne sgorgava. Quando fui sazio mi raddrizzai, allontanando con le mani torme di moscerini, mosche e zanzare. Solo allora mi resi conto di come quel luogo pullulasse letteralmente di insetti appiccicosi come la melassa, anche perché eccitati dal caldo e dall’umidità. Mi asciugai la bocca con il dorso della mano e saltai giù dal bordo della vasca. Proseguii lungo il sentiero. Al mio passaggio alcune mosche, disturbate nelle proprie faccende, si dileguarono impazzite in indemoniate spirali di volo; formavano nugoli così densi che dovetti schiaffeggiare l’aria come un invasato per disperderle. Mi inoltrai per un breve tratto in mezzo all’erba alta. A un certo punto riuscii a scorgere, nei pressi di un vecchio albero d’ulivo e seminascosta in un verde mare di erba selvatica, la familiare sagoma della nostra capanna. La rudimentale costruzione era volutamente posizionata in un luogo fuorimano, per evitare che ragazzi più grandi di noi la scoprissero e per sfregio ce la rovinassero. L’avevamo tirata su l’anno prima, almeno nella struttura, apportando poi aggiunte e modifiche e sistemandola ogni volta che avevamo a tiro il materiale che ci serviva. Era soprattutto Mimmo che si interessava al completamento dell’opera, reperendo roba come vecchie lamiere in alluminio, pannelli in lana di vetro o lana di roccia per isolare il tetto, stucco e altre cose che si procurava in giro. Lo stesso Mimmo era spesso alla ricerca di vecchie maniglie, ma sembrava non essere ancora riuscito a trovarne una di proprio gradimento.
36 In quel periodo ci arrangiavamo con rudimentali appigli fatti col fil di ferro, attorcigliato ripetutamente e protetto con del nastro isolante. Che dire, non proprio la cassaforte della Banca d’Italia, ma… a noi bastava quello. Nell’ultimo inverno la capanna, che non potevamo abitare col freddo che faceva, aveva retto anche al peso della neve. Era pronta all’uso per quell’estate. Arrivato nei pressi della capanna, vidi le bici dei miei amici abbandonate nell’erba. Da un’apertura, nella parte alta della parete di legno, fuoriusciva del fumo. Bussai e senza attendere risposta feci un verso particolare - oggi nemmeno lo ricordo. Era il segnale concordato per farsi riconoscere. I ragazzi mi aprirono. Quei tre avevano iniziato a fumare da un bel po’ e dovevano essersi così concentrati da non rendersi conto che si era creata una cappa, densa e pesante, che rendeva irrespirabile l’aria all’interno. Appena entrato in quella caligine fui colto da un violento attacco di tosse, tanto che gli altri scoppiarono a ridere. «Madonna, che nebbione!» protestai smuovendo l’aria con le mani, anche se si trattava di uno sforzo del tutto inutile. I ragazzi parvero realizzare solo allora che ci si vedeva a malapena l’un l’altro, e si diedero da fare per ristabilire un minimo di respirabilità. Spalancarono tutte le aperture, dando modo all’aria pura di penetrare all’interno. Quando si poté di nuovo respirare, mi sedetti anch’io in mezzo a loro. Appena ci fummo tutti accomodati, stropicciandoci gli occhi arrossati per la lunga esposizione al fumo, Mimmo fu il primo a parlare, e le sue parole furono una sorta di rimprovero. «Ma dove cazzo ti eri cacciato? Ti abbiamo cercato per mare e per terra!» Avrei voluto dirgli la verità, ma mordendomi la lingua per paura di non esser creduto, ne inventai una sul momento. «Ero uscito per farmi un giro, ma mi sono addormentato in una di quelle casette abbandonate, vicino a dove abitiamo noi.» «Azz… allora è vero che dormi sempre…» venne puntuale la sparata di Michele. Scoppiarono a ridere, gli stronzi. Io, indispettito, non trovai di meglio che spintonare Michele, il quale prontamente fece altrettanto e pure con maggior violenza. Proprio quando, al colmo della rabbia, stavo per mollargli un pugno giusto sul naso, Mimmo si alzò e ci fu subito addosso. Afferrò il mio pugno e prese Michele per il collo della maglietta. Ci tenne fermi per un secondo, e convinse entrambi a deporre le armi.
37 «Nun facit’ i cazzun’ 22» disse deciso. Più delle sue parole, poté lo sguardo. Salvatore abbozzò un sorriso, ma la fermezza di Mimmo mise a tacere pure lui. E chi si metteva contro Mimmo? Capimmo che si trattava di un ultimatum. D’altra parte se uno si sente capo deve fare il capo, e Mimmo era l’unico in grado di farlo, meglio di chiunque tra noialtri. Si mise a sedere tra me e Michele, che ci evitavamo con lo sguardo nell’attesa che la rabbia sbollisse. Salvatore tirò fuori le carte da gioco e cominciammo una partitella. Facevamo sempre così, quando ci riunivamo là dentro per parlare di qualcosa. L’argomento della discussione era la programmata perlustrazione di una vecchia marmeria poco fuori del paese, abbandonata dagli anni sessanta. L’intento ufficiale era quello di recuperare un po’ di materiale che poteva servire, ma in realtà l’obiettivo era un altro. Circolavano strane voci su quella costruzione. Si diceva in giro che di notte, all’improvviso, le vetrate si illuminassero di fioche luci che poi svanivano altrettanto repentinamente. Chi vi si era avvicinato di notte aveva notato anche strani fruscii e rumori tutt’intorno, prima di darsela a gambe spaventato. C’erano tanti e tali elementi da stuzzicare a puntino menti curiose come le nostre. E ben presto avevamo deciso di dimostrare il nostro coraggio agli altri, trascorrendo là dentro una notte intera. Fino ad allora avevamo tentennato. C’era stato l’autunno, poi l’inverno con quel dannato gelo. Al massimo si sarebbe potuto fare d’estate. E l’estate era infatti arrivata e non si poteva rimandare oltre. Anche perché ne andava del nostro onore. E per ragazzi della nostra età, la considerazione degli altri era una cosa molto importante. Come tener nascosta la bravata ai nostri genitori, era un problema che avremmo affrontato e risolto, prima o poi. La cosa fondamentale era portare a termine l’impresa, l’unico pensiero che ci intrigava. Mimmo riassunse ciò che avremmo dovuto fare di lì a pochi giorni. «Allora, siamo d’accordo?» disse all’indirizzo di tutti. Ci guardammo in volto e annuimmo, concordi. Mimmo ci osservò uno dopo l’altro come un generale che squadra i soldati prima della battaglia e cercò segni di paura nei nostri occhi. Che a dirla così sembra una cosa sciocca, ma per noi era un affare tremendamente serio. Michele e Salvatore non mostrarono cedimento. 22
Non fate gli scemi.
38 A quel punto lo sguardo di Mimmo si posò su di me. «Massimì, manchi solo tu. Allora, ci stai?» mi chiese con calma e decisione. Io arrossii. Quel modo di fissarmi pesava come un macigno da cui non potevo liberarmi. Sostenni il suo sguardo ripensando in un attimo a tutti i dubbi che mi ero fatto venire in precedenza. Diedi un colpo di spugna sulle incertezze rispondendo con fermezza: «Sì, ci sto.» Mimmo sorrise soddisfatto. Finimmo la partita che il sole era quasi tramontato, poi prendemmo le biciclette per tornare in paese. Io che ne ero sprovvisto montai sul portapacchi di quella di Michele, col quale nel frattempo era venuto meno ogni dissapore. La sua bici era la più grande e potevo viaggiarci più comodo. Mentre il vento mi carezzava il volto durante il tragitto, rimossi la strana avventura del pomeriggio. L’aria intorno a noi era pregna dell’odore dell’erba, dell’umore liquido e di quel denso profumo di vita vegetale che segna la fine della primavera e il passaggio all’estate. Sentivo una gran voglia di prepararmi all’uscita serale, buttarmi nella folla e divertirmi come e quanto era più che giusto per uno della mia età. Non sapevo che, seppur la mia fosse una legittima speranza, sarei rimasto spensierato ancora per poco. Dopo esserci dati una ripulita senza cenare - nei giorni di festa mangiavamo fuori di casa - ci ritrovammo per strada. Era la vigilia della festa del patrono. Tutto un paese in preda alla frenesia che saturava quelle giornate, dai primi chiarori dell’alba fino agli ultimi svogliati sussulti della notte. Le arcate delle illuminazioni erano disseminate in vari punti del corso principale, però erano limitate alla parte più alta del paese. Solo di rado, in base alla disponibilità economica del comitato che organizzava i festeggiamenti, qualche decorazione luminosa giungeva presso le nostre case. Ci incamminammo lungo certe scalinate che si inerpicavano tortuose, costeggiate ai lati da imponenti mura realizzate con pietrame a vista, di colore bianco e grigio, spesso ricoperte da una patina di muschio. Le pietre erano state messe in fila una dopo l’altra con millimetrica precisione a opera di mani sapienti; in altri tempi quello dei manovali e dei muratori non era un lavoro come un altro, bensì vera e propria dedizione. La certosina pazienza che ci mettevano faceva dei loro sforzi un qualcosa di più grande del semplice guadagnarsi il pane. Disseminate nelle pareti c’erano feritoie spesso riempite di erba e terriccio, ma che in origine servivano per lo sfogo delle acque che percolavano nel sottosuolo.
39 Lungo le mura cascava fogliame di vario tipo ed edera selvatica che conferiva al tutto un aspetto selvaggio e agreste. Spesso ragazzi più grandi di noi si inoltravano nei vicoli per potersi imboscare con un’amichetta, lontano da occhi indiscreti. Poi sarebbe andata come doveva andare; se lei ci stava, bene. Altrimenti, almeno si evitava una figura di merda davanti ad altra gente. Il nostro obiettivo era quello di trovare un posto poco frequentato. Non ci era necessario per convegni amorosi, piuttosto per lasciarsi andare al piacere proibito di fumare una sigaretta in santa pace all’aperto. Quella sera anche io decisi di farmene una. Ci fermammo in una zona buia, dove arrivava a malapena il cono di luce di un lampione lì vicino; con gesti sicuri Mimmo usò il suo accendino per appiccare il fuoco a tutte le torce 23. Iniziammo a fumare le sigarette che avevamo sgraffignato laggiù al rudere, e che erano ormai nostra proprietà. Non ero avvezzo a fumare e si notò subito. Un improvviso pizzicore mi colse alle narici, un bruciore fastidioso agli occhi e un impellente stimolo a tossire. «Non la respirare se ti dà fastidio» mi sgridò Mimmo. Scorsi appena il suo volto tra le abbondanti lacrime che mi annegavano la vista; cercai di seguire il suo consiglio e ripresi a tirare dalla sigaretta senza inghiottirne il fumo. Fumavo con una certa goffaggine, ma così facendo il disgusto si attenuò. Alleggerimmo le vesciche negli angoli bui che, a giudicare dall’odore, non dovevamo essere i soli a prediligere per i nostri fabbisogni idraulici. Sbrigata l’incombenza ci mettemmo in cammino per la parte alta del paese, laddove era il culmine della festa. In mezzo a vicoli e scalinate, nella frescura della sera, le falene pullulavano intorno ai cappelli di metallo dell’illuminazione pubblica. Con rumori sordi vi andavano a sbattere contro a ripetizione con una sorta di cocciutaggine, come fossero in preda a istinti suicidi. Giunti sulla strada principale, il vociare della folla a passeggio ci colse come un caldo vento sonoro. La gente ci passava davanti, di fianco e alle spalle in un via vai continuo. «Ragazzi, ci mangiamo prima un panino e poi saliamo su all’autoscontro. D’accordo?» propose Mimmo. «Azz’, come no… ho una fame che tra poco prendo a morsi la gente…» rispose Michele entusiasta.
23
accese.
Sostantivo con cui a volte tra ragazzi si chiamavano le sigarette
40 Durante le sere di festa inventavamo dei passatempi, a volte molto sciocchi. Me ne viene in mente uno in particolare, un esempio di pepata ingenuità. Non c’entra nulla, lo comprendo, ma in un tale riflusso di nostalgia è venuto fuori anche questo ricordo. Lo scopo del gioco oggi mi fa sorridere: vinceva chi toccava quanti più sederi di femmine fosse possibile. Ovvio che gli obiettivi fossero donne e ragazze ben fatte, con mercanzia buona e ben esposta. Ci avvicinavamo alle vittime, soprattutto se in gruppo, e col palmo della mano andavamo a strizzar loro il didietro per poi dileguarci come furetti e sparire nella folla. Appena si sentivano toccare nelle parti intime, le ragazze esplodevano contro di noi tutta una serie di improperi e parolacce sfoderando un lessico più da cantina che da rappresentanti del gentil sesso, ma noi nel frattempo eravamo già al sicuro. Certo non doveva essere il massimo sentirsi toccare il sedere, soprattutto se il gesto veniva compiuto con la passione e la tenacia di un ragazzino alle prime armi. Che io ricordi, nessuno dei nostri fu mai beccato, tantomeno io che mi guardavo bene dall’eccedere con i palpeggiamenti. Le mie vittime vennero sfiorate solo da lievi strusci di mano, sempre quando mi trovavo così vicino da far apparire il tutto come un contatto accidentale. Oggi mi sembra una cosa molto sciocca, ma non riesco a reprimere un soffio di nostalgia e a non sorridere della beata ingenuità dei nostri primi pruriti sessuali. All’epoca dei fatti qualcuno che conoscevo aveva già avuto le prime esperienze e, pur senza andare fino in fondo, aveva avuto modo di cogliere la prima mela, per dirla alla Branduardi. Io non avevo ancora avuto certe esperienze, e avrei dovuto attendere del tempo prima di sperimentarne l’effetto. Salendo lungo il corso, le suole delle scarpe facevano crocchiare innumerevoli bucce di noccioline e di castagne che cospargevano i cubetti di porfido. A tratti arrivava all’orecchio la musica del mangianastri dei marocchini: tutte cassette rigorosamente non originali, s’intende, roba che andava da Nino D’Angelo alle mazurke, da Claudio Baglioni alle tarantelle. Messe in fila uno dopo l’altro come i carri nelle carovane dei pionieri del vecchio west, decine di rosticcerie ambulanti sostavano lungo il viale della stazione. L’aria era già in gran parte intrisa dall’odore di carne o porchetta arrosto, la gente maneggiava panini caldi e croccanti per una rapida e succulenta cenetta. Più si era vicini ai camion, più martellante si faceva il rumore dei gruppi elettrogeni e rivoltante il puzzo del fumo che sprigionavano.
41 Nei pressi avevano piazzato anche una macchinetta per chi amava tirare i pugni. Sì, proprio quelle che oggi si trovano in giro solo di rado, ma a quei tempi molto diffuse. Sul bordo metallico c’era scritto “Picchia duro!” e la struttura era dipinta con colori vivaci e ricolma di lampadine colorate. Un gruppo di bulli, in maglietta o in canottiera per mostrare bicipiti poderosi o presunti tali, sostava davanti al macchinario. Aspettavano il turno per sfoderare la propria potenza, magari a rischio di slogarsi un polso. Ogni tentativo suscitava ammirazione o prese in giro, secondo l’esito. Intorno ai grandi, torme di ragazzini. Quante volte noi piccoli uomini abbiamo sognato di tirare pugni così forti da sentire la voce elettronica che ci dava del Superman. Tra quelli vicino al punching-ball riconobbi Angelo, un ragazzo intorno alla ventina. Se ne stava in silenzio, poco discosto dagli altri. I capelli corvini tirati all’indietro e sommersi di gel, una sigaretta spenta penzolante all’angolo della bocca e l’immancabile pacchetto nel risvolto di una manica della maglietta bianca che gli aderiva tenace alla muscolatura. Dalle maniche spuntavano infine due notevoli bicipiti. Angelo era bello, su questo c’erano pochi dubbi. Faceva il manovale, e la sua pelle era scura e bruciata dal sole, con una tonalità bronzea che non sbiadiva mai, neanche a lavarla dieci, cento volte. Quando non era al lavoro gironzolava solitario a bordo della sua moto Gilera, con l’aria di chi sa il fatto suo; aveva bracciali di cuoio ai polsi, mani grandi che stringevano saldamente il manubrio e un’inseparabile catena d’oro al collo. Nonostante l’aria da duro, Angelo non era un tipo che se l’andava a cercare. Se veniva coinvolto in una rissa, era sempre perché era stato provocato. La prima volta che lo incontrai stavo recandomi a scuola; notai quel tipo che era impegnato in una discussione animata con altre persone. Ben presto la situazione precipitò e volarono schiaffi, pugni e calci. Angelo si fece rispettare, ancor prima che qualcuno si decidesse a dividere i contendenti. Quando si allontanò, lo seguii. Si fermò a sciacquarsi il sangue su un labbro presso una fontana, e lì si accorse che lo stavo seguendo. «Che hai da guardare, muccus’ 24?» Il suo tono fu tale che mi spaventai e scappai via senza dire nulla. Lo vidi altre volte, ma non mostrò di ricordarsi di me. Non riuscivo a smettere però di ammirarlo, anche se non me ne spiegavo la ragione, visto il modo in cui mi aveva trattato. 24
Moccioso.
42 Finché una volta fui io a trovarmi accerchiato da ragazzi più grandi, ed ero solo. Sentivo già il dolore del pestaggio, pur non avendo fatto nulla per meritarmelo. Se non ricordo male, la causa fu una ragazza che evidentemente piaceva a uno dei miei avversari e con cui mi ero permesso di scambiare due parole. Quando le cose stavano mettendosi al peggio, spuntò non so da dove proprio Angelo, che con due scapaccioni mise in fuga il gruppo. «Tutto a posto, muccus’?» mi disse, etichettandomi con quel nomignolo che aveva usato la volta precedente. Io lo fissavo senza riuscire a dirgli neppure grazie. Angelo colse il mio imbarazzo e chiuse il nostro breve incontro con un “non ti mettere mai più contro quelli là”. Raccolsi lo zaino da terra, ammutolito. Lo vidi allontanarsi dopo essersi acceso una sigaretta come se nulla fosse accaduto. A parte quelle due battute, non ebbi modo di scambiarci altre parole. Eppure, suo malgrado, egli ebbe il suo ruolo nella storia che sto raccontando. Angelo era così. Un tipo taciturno, schivo e anche per questo - mistero della psiche femminile - attraeva molte ragazze. Incarnava un po’ quello spirito del bello e tenebroso di cui è disseminato il cinema, un tipo alla James Dean o alla Marlon Brando. Solo che Angelo non era un attore di Hollywood ma una persona vera, incontestabilmente reale. Ne aveva cambiate molte di ragazze lui, ma in quel periodo faceva coppia fissa con una certa Lucia. Una bella ragazza, anch’essa mora, uno splendido volto e due tette che sembravano dei siluri, un didietro e due gambe da far girare la testa a chiunque. Volendo per forza di cose dar retta a quello che si sentiva in giro, Lucia non era proprio uno stinco di santo. Si vociferava che le sue belle battaglie le aveva fatte e continuava a farne, pur essendo ufficialmente la ragazza di Angelo. Fatti loro, a me che importava? Era bella, ma io ero troppo piccolo per lei. Lucia non mi avrebbe calcolato nemmeno di striscio. Sorrisi pensando che, se mai Angelo avesse scoperto la sua ragazza con un altro, sarebbe successo un mezzo macello. Io e i miei amici prendemmo dunque dei panini e alcune birre, sedendoci sul basso muretto che cingeva la villa comunale. Consumammo la frugale cena in mezzo a decine di persone impegnate a fare altrettanto. Ronzavano tutt’intorno milioni di falene, mosche e moscerini, zanzare e altri insetti volanti attratti dai potenti neon che illuminavano a giorno le rosticcerie ambulanti.
43 Fatti fuori i panini, ci esibimmo in un rutto all’unisono senza la benché minima preoccupazione per il galateo e andammo laddove si erano piazzate le giostre, percorrendo un tratto cosparso di bottiglie, pallottole di carta stagnola e vaschette di plastica semivuote, sporche di salse varie. I baracconi delle giostre li posizionavano sempre sulla collina dell’Annunciazione, un po’ più in su di dove ci trovavamo in quel momento. Per arrivarci facemmo una discreta salita che terminava in una serie di scale; a stomaco pieno e con tutta la birra che avevamo ingollato, arrivammo in cima col fiato corto e le gambe pesanti. L’aria rimbombava della musica ad alto volume pompata da potenti altoparlanti; un suono corposo e sfrigolante fuoriusciva da gracchianti diffusori. Ciò che più di tutto ci attraeva era la pista delle auto-scontro. A poca distanza sorgevano le ultime palazzine del paese. La zona era circondata da filari di frondosi pioppi neri e olmi centenari. Tirava una leggera brezza; la si avvertiva soprattutto dietro alle spalle, dove le magliette erano appiccicate alla pelle madida di sudore. La musica era così forte che per parlarsi si doveva urlare. Mimmo raccolse i nostri soldi e andò a comprare tutti i gettoni che la somma gli permetteva. Avrebbe anche potuto essere fortunato perché a volte ci scappava qualche giro omaggio, se il proprietario era in vena. Quando Mimmo tornò, capimmo dalla sua espressione che non era la serata giusta. Comunque ci precipitammo decisi in mezzo alla pista, pronti per la conquista delle vetture preferite. Io e Michele formammo la prima coppia e montammo su un bolide rosso vermiglio con una fascia laterale bianca. Mimmo e Salvatore montarono su quella successiva, nera come la notte se si escludevano due fiammate color oro sui fianchi. Appena partita la musica, le macchine si misero in movimento. Io mi affidai alla guida di Michele, il quale cominciò a smanettare frenetico. Sulla pista si scatenò una bolgia, una ridda degli inferi con un susseguirsi di urti più o meno leciti. Chi ti veniva addosso in modo accidentale, chi lo faceva di proposito, magari cogliendo al volo il pretesto per litigare. Michele guidava come un ossesso facendo compiere alla vettura perigliosi volteggi, le nostre teste erano esaltate dalla musica a tutto volume e urlavamo come pazzi. La cosa peggiore che potesse capitare erano gli urti laterali, perché con un sì e con un no ti ritrovavi fuori della vettura e poteva andare a finire male. Consumato l’ultimo gettone e finita la somma a disposizione, a malincuore scendemmo e guadagnammo il bordo pista prima che nuove orde di barbari motorizzati ci mandassero gambe all’aria.
44 Mimmo e Salvatore adocchiarono due ragazze piuttosto carine, riuscendo ad approcciarle con una certa intraprendenza. Io e Michele, che in barba ai migliori propositi eravamo impacciati quando si trattava di concretizzare, non riuscimmo infatti a combinare nulla. I nostri due amici si allontanarono con le ragazze, facendo cenno che semmai ci saremmo rivisti più tardi. Restammo solo io e Michele, fermi come due cretini a osservare le auto sulla pista che cozzavano l’una contro l’altra. Un divertimento ahimè finito per quella sera, almeno per quanto ci riguardava. A un certo punto Michele si allontanò per orinare. Rimasto da solo, l’unica cosa che mi restava da fare era fissare annoiato la gente che mi stava intorno. Seccato, scesi dal bordo della pista e cominciai a camminare senza meta in mezzo all’erba, in attesa del ritorno di Michele. Senza rendermene conto mi allontanai per un bel tratto. Dal punto in cui mi trovavo avevo sott’occhio gran parte della villa comunale sottostante. E lì la mia attenzione fu attratta da due persone abbracciate che si stavano baciando, e anche con un certo trasporto. Niente si strano, all’apparenza. Ma quel che vidi mi incuriosì più di quanto si possa supporre; ebbi non so come la certezza che non era un puro caso che ci fossi lì proprio io a osservare quella coppia, in quel preciso momento della serata. Senza che riuscissi a spiegarmene il perché, era scoccata la scintilla. Desideroso di saperne di più, iniziai a spiarli. Lo feci pur sapendo che non avrei dovuto impicciarmi di cose che non mi riguardavano. L’uomo stringeva e palpava con movimenti frenetici il corpo della ragazza. Lei, d’altro canto, sembrava consenziente. Temetti che si accorgessero di me. Mi appiattii dietro al tronco di un albero, tanto che di me spuntava fuori solo la testa. Non riuscivo a distogliere lo sguardo, calamitato com’ero sulla scena, vittima di un crescente e inspiegabile interesse; in quel modo bastarono poche occhiate per farmi un’idea della straordinaria bellezza della donna. Ma non furono solo le fattezze di lei ad attrarmi; mi accorsi anche, con stupore, che ella era molto giovane e che non mi era affatto sconosciuta. E come no? Era Lucia! Come non riconoscere una ragazza così bella che mi toglieva il sonno la notte e ogni volta che mi veniva in mente faceva smuovere qualcosa nel basso ventre, una sorta di fuoco caldo e brulicante che impiegava molto tempo per sopirsi? Non mi ero ancora riavuto dalla sorpresa, quando successe un fatto inaspettato.
45 La ragazza sembrò aver cambiato idea e cercò di divincolarsi, come se l’uomo le avesse fatto delle proposte più spinte di quanto lei fosse disposta a concedere. Ebbi l’impressione che stesse per scoppiare un litigio, condito da urla e parolacce, ma non successe nulla del genere. Lucia si divincolò con uno strattone e indietreggiò di alcuni passi, quindi si fermò e restò in silenzio, ansante. Lo sconosciuto, con mia meraviglia, si mise a ridere. Il suo mi parve infatti un atteggiamento immotivato, ma non mi sbagliavo; quella che giungeva alle mie orecchie, un sibilo tagliente che turbava l’inquieto silenzio di quell’angolo di paese, era proprio una risata, una risata grassa e strafottente. Lo sconosciuto assunse un atteggiamento di scherno nei confronti di Lucia, la quale rimaneva ferma, immobile, come se fosse indecisa se restare lì a farsi umiliare o scappare via. Spostandomi leggermente riuscii a vedere meglio il volto dello sconosciuto. Non ebbi alcun sentore di conoscerlo, né poteva essere altrimenti. Si avvicinò a Lucia, la quale si irrigidì aspettandosi forse di essere picchiata; fu quella anche la mia impressione, ma per fortuna non accadde quanto temevo. L’uomo disse delle cose alla ragazza - ero troppo lontano per riuscire a sentire quello che le diceva, ma non mi sembrarono dei complimenti - dopodiché estrasse da una tasca quello che non tardai a identificare come un portafoglio. Ne tolse alcuni pezzi di carta - banconote supposi - e gliele lanciò contro sprezzante. Compiuta tale azione proruppe in un’altra risata rauca, allontanandosi nell’oscurità come se nulla fosse successo. Lucia restò immobile, rigida e impuntata sui tacchi come un pulcino bagnato e tremante dal freddo, il che faceva un’insolita tenerezza pensando a quanto era invece bella e spavalda quando la si incontrava per strada. La ragazza non badò ai soldi che l’uomo le aveva lanciato. Anzi, cominciò a singhiozzare coprendosi il viso con le mani. Ebbi come l’impressione che si fosse finalmente resa conto di aver commesso una cosa sgradevole, e di essersi fermata a un passo dall’errore finale. Infatti l’unica cosa che fece Lucia fu quella di scappare via da quel luogo, dileguandosi nell’oscurità di una strada laterale. Quando già non riuscivo più a vederla, ancora mi giungeva il rumore dei suoi tacchi che avanzavano veloci sul selciato. La scena non era durata che pochi secondi, ma quel brevissimo tempo mi sembrò un’eternità. A quella età non potevo capire cosa possa spingere delle persone a comportarsi così, a compiere determinate azioni. In un primo momento affiorò una sorta di sentimento rabbioso.
46 Lucia era la ragazza di Angelo. La mia ammirazione nei suoi confronti derivava dall’esito dei miei precedenti incontri con lui, in particolare il secondo; sentii che con quel suo tradire il proprio ragazzo, Lucia aveva un tradito un po’ anche me. Mi sentii geloso per conto di un altro, anche se a pensarci bene forse non era solo per quello. Lucia piaceva tanto anche a me, quindi può darsi che quel moto di gelosia fosse un qualcosa di mio. Comunque stessero le cose, il risentimento causato dalla gelosia venne sostituito da un’altra sensazione. Che definirei insolita. Nella mia mente erano rimasti impressi, quasi li avessi fotografati, l’inconsueto abbigliamento dell’uomo e il suo aspetto in genere. Non ricordo bene quale fosse la molla che mi spingeva a farlo, ma misi ben presto da parte le mie considerazioni personali su Lucia per cercare di capire per quale motivo mi sentivo tanto attrarre da quello strano tipo. Iniziai a rimuginarci sopra intensamente, in quanto qualcosa mi diceva che quell’uomo io l’avevo già visto. Era il contesto che mi sfuggiva, ma dentro di me aveva preso fissa dimora la strana sensazione che fosse importante ricordarmi dove avevo già visto quel volto. Non solo. La sensazione non era semplicemente strana. Aveva il sapore di un non so che di spiacevole, un profondo senso di disagio il cui significato avrei compreso solo più tardi, in tutti i tragici risvolti. Mi sentii come quando ci rendiamo conto di esser preoccupati e di cattivo umore, ma non riusciamo a risalire alla causa. O meglio che la causa è sì nota, ma sul momento ci sfugge. Dopo un tempo indefinito, a furia di sforzarmi, finalmente riuscii a metter a fuoco quel volto, a identificare lo sconosciuto con l’uomo che avevo visto in sogno: il venditore di palloncini. Non che potessi esserne sicuro al cento per cento. In fondo ero lontano e c’era poca luce, potevo benissimo sbagliarmi. Nondimeno, una vocina dentro mi miagolava che lo sconosciuto visto in compagnia di Lucia altri non era se non l’uomo che avevo sognato. Quando realizzai la situazione fui colto dai brividi e un’irrazionale paura si impossessò di me; come facevo ad aver visto in sogno una persona che non mi era mai apparsa prima? Mai in vita mia, per quanto breve fosse stata fino ad allora, avevo provato un così forte sentore di malessere. Difficile descriverlo. Quello che provai mi si stava appiccicando addosso come una seconda pelle senza che riuscissi a comprenderne il motivo. Mi sentii spaesato e sgomento, a fronte di un fatto così insolito.
47 Ricordo poco altro di quegli istanti, e col senno di poi posso dire che quella sensazione spiacevole non fu altro che la prima di una serie di stranezze che seguirono il sogno che avevo fatto. In cuor mio riuscii infine a metter da parte quei pensieri. Dovetti sforzarmi di concentrare l’attenzione su qualcosa di piacevole. Allora prevalse la morbosa curiosità su quell’incontro particolare, tra Lucia e lo sconosciuto; curiosità che mi aveva spinto a comportarmi come una vecchia pettegola. Pensai che di coraggio ne aveva, Lucia. Oggi la chiamerei sfacciataggine, dato che quello fu senza dubbio un atteggiamento squallido. Il suo ragazzo era in giro e sarebbe potuto capitare da quelle parti in qualunque momento a bordo della sua moto, cogliendola sul fatto. Il paese era piccolo dopotutto, la cosa non era affatto improbabile. Tutti i miei interrogativi rimasero senza risposta, come era plausibile aspettarsi. All’improvviso mi resi conto che ero ancora lì, solo e al buio. Ebbi paura che lo sconosciuto mi comparisse davanti all’improvviso nell’oscurità, e potesse intuire che avevo visto tutto. Incalzato dal nuovo timore, mi rialzai di scatto; scrollai dai jeans terriccio e sterpaglie e mi affrettai ad allontanarmi. Tornando verso le giostre, mi voltai indietro più volte nella direzione in cui lo avevo visto scomparire. Mi si rizzarono i peli in tutto il corpo per l’incontenibile preoccupazione di sentirmi afferrare da una mano animata da cattive intenzioni; ebbi, a più riprese, paura di esser stato scoperto. Anche se ero già distante dal punto in cui mi ero accovacciato, il timore di vederlo spuntare fuori all’improvviso non accennava a diminuire. Velocemente guadagnai la strada, coprendo con una lesta sgambata la distanza che mi separava dal punto in cui di certo aspettava Michele. Non vedevo l’ora di tornare subito in mezzo alla folla, al sicuro. Il mio amico non era ancora sul posto, ma vi giunse qualche secondo dopo il mio arrivo. Trovandomi già lì, Michele non parve neppure sospettare che mi ero allontanato; non dovetti perciò fornirgli spiegazioni. Decisi ancora una volta di tenere per me tutto ciò che avrei potuto raccontare e, in altre situazioni, avrei sicuramente rivelato. La vocina interiore che mi faceva compagnia da un po’ di tempo mi disse che era ancora troppo presto per farlo. Dopo qualche minuto, stufi di attendere il ritorno di Mimmo e Salvatore, tornammo verso il paese. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD