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MILOS FABBRI
LA BELLEZZA OVUNQUE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA BELLEZZA OVUNQUE Titolo originale: “Rule number 2: Honour” Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-330-7 Copertina: immagine Shutterstock.com
E si amarono l’un l’altro sospesi su un filo di neve. Maxence Fermine
PRIMA PARTE
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28 FEBBRAIO 2018
Sto tornando a casa. Mi chiamo Antonio, sono nato a Faenza nel settembre 1956, e a seconda del giorno e del luogo in cui ci incontreremo, vi farete un’idea di me. Ho sessantuno anni e non so voi, ma io mi conosco, c’è voluto tempo, certo. Tanti anni fa mia moglie mi diceva: «Almeno io lo ammetto, me ne rendo conto, ma tu? Quand’è che diventi consapevole di come sei? Di quello che fai? Di come ti comporti?» Ecco, io in quelle occasioni restavo zitto. Sapevo ogni volta se avevo ragione oppure se avevo fatto una cazzata, ma perché dirglielo? Tanto per lei ero uno stronzo. «Sì, dentro di te, se scavi bene, trovi un uomo dolce e buono» diceva, ma ero comunque un tipo scontroso, violento, maschilista… “Vaffanculo”, pensavo io nel mio silenzio “certo, lo so che i nostri figli cresceranno con qualche problema per colpa nostra, lo so che ho un carattere brusco, è il mio, cazzo!”. Ma lei da quel silenzio ha sempre recepito inconsapevolezza. Beata ignoranza. Ero un esaltato? Certo. E quindi? La mia esaltazione è stata la mia salvezza, la mia fortuna, altrimenti avrei rischiato di spegnermi tanti anni fa. Ma questa forza è stata anche quella che ha distrutto la donna che viveva insieme a me, il nostro rapporto. Decisi di abbandonarla quasi trent’anni fa ma, come mi promisi, realizzai questo proposito solo due mesi addietro.
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Non so cosa mi aspettassi dalla vita quando ero giovane, non penso che un giovane si possa aspettare granché, lui ha già tutto, nonostante non ne sia cosciente. Ma da adulto qualche idea ce l’avevo, ero pregno di desideri, e questa è stata una delle mie rovine. Ho partorito troppi desideri in una vita sola. Troppa voglia di ottenere tutto quando il tutto non serve a nulla. Ma sono stato anche bravo a trovare nella vita ciò di cui bisogna veramente godere. Sapevo che la bellezza era dappertutto, e vi assicuro che l’ho vista con i miei occhi, l’ho sentita, l’ho gustata, l’ho toccata, l’ho percepita attraverso ogni battito del mio cuore. Tutto questo, però, non è bastato ad acquietare il mio animo in burrasca. Sono stato un uomo tormentato e lo sono tuttora. Ma cerco la pace, anche se ti faccio la guerra. Ho bisogno di un abbraccio che mi trattenga nonostante io mi dimeni, un abbraccio che mi regga finché, esausto, non scompaia tutta la rabbia che c’è in me. Ora sto tornando a casa da lei, e in lei cercherò di costruire una zattera che mi possa far approdare alle sponde della mia coscienza e trovarci una nuova vita, più rigogliosa. Sono a Patrasso. Mentre mi sto recando al porto per prendere il biglietto che mi riporterà a casa, decido di fermarmi in una libreria, una di quelle che in Italia quasi non esistono più. Vende soprattutto libri usati. Dopo essere entrato, annunciato dal tintinnio dei campanelli appesi alla parete, faccio un sorriso alla commessa, che dopo alcuni secondi riabbassa lo sguardo tornando alle sue faccende. Cammino fra gli scaffali, guardo fra le ceste colme di libri, ne prendo qualcuno in mano e lo sfoglio. Poi d’un tratto il mio sguardo viene catturato da un libro che conosco bene: “E tu, che animale sei?”. È un libro italiano, me l’aveva regalato Giovanna quando c’eravamo conosciuti, aveva un significato particolare per noi.
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Lo prendo in mano e lo apro, c’è una lunga dedica. Quando vedo la firma, il mio cuore salta un battito.
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15 GIUGNO 1991
«Tu sei marcio…» «Sì. Ma te sei l’infezione che mi provoca il marcio!» appoggiai il bicchiere sul tavolo. «Dai, bevi un altro po’…» «Non è il bere che mi rende più scontroso, aggressivo o violento; sei tu. Il fatto che se non mi scolo una bottiglia di vino riesca a sopportarti un po’ meglio, non dimostra che questo sia il problema, ma che non devo stare con te!» Giovanna continuava a lavare i piatti senza guardarmi. «Tu sei il problema, non il bere» continuai senza più freni «tu sei il problema, non i nostri figli. Tu sei il problema, non la mancanza di soldi. Tu sei il problema, perché io non riesco più a essere felice se mi sei vicina.» Giuseppe continuava a disegnare il gufo sopra l’albero, fingendo di non sentire. La sua mano si muoveva lenta sopra il foglio, lui non è che non capisse, semplicemente gli dispiaceva. Samuele incollava un foglio sull’altro, ripiegandoli in modo da ottenere una scatola, lui quasi se ne fregava. Erano molto diversi fra loro, nonostante fossero nati a distanza di poco, solo un anno e mezzo, nonostante avessero lo stesso padre e la stessa madre: ma la loro diversità non era certo motivo di distanza, loro si volevano bene. Mi allontanai dalla cucina e rimasi fermo ad ascoltare il battito accelerato del mio cuore. Cercai di accarezzarlo col respiro, di raggiungerlo col suono rauco della mia voce. Mi sentivo sconfitto, avevo troppe ferite aperte e mi sfilacciavo da ognuna di esse. Mi sembrava impossibile poter ricucire la trama del nostro
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rapporto. Nemmeno Aracne, questa volta, avrebbe potuto vincere la sfida. «Ma perché litigate sempre?» Giuseppe era troppo vicino al mio volto, e troppo piccolo e innocente per non farmi sprofondare in un baratro senza fine: la colpa. Lo presi in braccio, gli diedi un bacio e gli sorrisi. Mi aggrappavo ai miei figli come un naufrago a una trave in mare aperto. «Non pensarci, io e la mamma ci vogliamo bene… è che… non pensarci. Ti voglio tanto bene.» Giuseppe mi sorrise e si divincolò per scendere. Andai in bagno e mi sciacquai la faccia, mi osservai allo specchio mentre mi asciugavo. Ripiegai l’asciugamano e lo infilai nel termo arredo. Perché non riuscivo a far funzionare le cose? Per quanto ci provassi, m’impegnassi, gli ingranaggi del mio amore erano sempre sgranati, ed era sempre stato così, sembrava impossibile per il mio cuore segnare l’ora giusta per più di un giorno intero. Decisi, guardando quel volto immobile, che non avrei potuto continuare così, ma amavo troppo i miei figli per allontanarmi da quel luogo. Ero arrabbiato con Giovanna, mi stava rendendo un uomo più brutto. Decisi, distendendo i muscoli di quel volto che ancora apprezzavo, che appena i figli fossero stati abbastanza grandi me ne sarei andato. Al momento giusto me ne andrò e tornerò a sorridere. Squillò il telefono. Sentii Giovanna rispondere: «Sì, adesso te lo passo, ciao» mi chiamò: «è Paolo» disse con voce scocciata, guardandomi di sfuggita negli occhi. Le presi la cornetta dalla mano e continuai a guardarla mentre tornava in cucina. «Ohilà! Che si dice?»
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Giovanna mi passò a fianco e uscì in terrazza per fumarsi una sigaretta. «Ho deciso Paolo, me ne vado…» «Ah sì? E dove vai?» mi chiese divertito. «Fra dieci anni me ne vado, abbandono tutti.» Sentii il mio più caro amico farsi una sonora risata dall’altra parte del ricevitore. «Fra dieci anni, eh? E se poi le cose si sistemano, torni felice e ti dimentichi di tutto?» Rimasi pochi secondi a rifletterci. «No! Tropo male, troppo dolore. Anche se capitasse me ne andrò.» Giovanna rientrò. «Ok. C’è da festeggiare la vittoria! Ci vediamo al rione domani?» mi chiese. «Ci vediamo domani» gli risposi. Durante la notte, nel silenzio ovattato dal mio solito sordo dolore, ripensai a quello che mi aveva detto Paolo. Le cose col tempo si sarebbero potute sistemare, ma io non volevo più vivere con la donna che mi aveva gettato addosso così tanto odio. Non mi riconoscevo quasi più. Venivo insultato tutti i giorni, le grida che Giovanna mi rivolgeva avevano ricoperto il mio animo come la neve su di un prato ancora verde. Ma se le cose migliorassero? Forse fra otto anni avremo imparato ad andare d’accordo e non vorrò più vivere senza mia moglie. Forse mi dimenticherò tutto il male, il dolore. Ma io non voglio dimenticare. Mi alzai dal letto e andai nello studio. La casa era avvolta nell’oscurità, linee di luce entravano dalle tapparelle illuminate dai lampioni. Accesi la lampada adagiata sulla scrivania e presi dal cassetto un piccolo pezzo di carta. Formulai più volte la frase
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nello scrittoio della mia mente, poi la penna iniziò a lasciare tracce del suo passaggio. Misi il foglio in una busta e la busta nel cassetto. Ecco, ora non me ne sarei dimenticato, e se mai fosse successo me ne sarei ricordato un giorno, rileggendo quel promemoria. Guardai fuori attraverso i buchi della tapparella, aveva cominciato a piovere. Tornai a letto e mi sdraiai accanto a quella donna che tanto mi odiava.
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5 GENNAIO 2018
Ho sempre voluto bene a mio nonno, era una persona speciale, non un eroe come quelli nei cartoni, ma… come il comandante di un galeone pirata. Sapeva rinfrescarmi sotto l’ombra delle sue vele e, quando volevo nascondermi, trovavo riparo fra i suoi ricordi. Mi raccontava un sacco di storie, mio nonno. Non mi sarei mai aspettato tutto questo. Non avevo mai sentito i miei nonni litigare, alzare la voce fra loro, anzi, mi sembrava che si volessero un gran bene. Mia nonna cucinava, lavava, puliva la casa; mio nonno leggeva molto e stava spesso alla finestra a guardare fuori. Si tenevano per mano quando passeggiavamo tutti insieme, si accarezzavano, sorridevano. Secondo me si volevano bene. «Tanti anni fa me lo sarei aspettato, ma ora…» la nonna era al telefono, io la stavo ascoltando appoggiato alla porta «stavamo bene, non capisco cosa sia successo…» Quando si voltò verso l’entrata mi vide, mi sorrise, salutò la sua amica e, avvicinandosi, mi spettinò i capelli. «Che cosa fai, mi spii?» «No. Ti aiuto, nonna?» Eravamo in cucina, pronti per preparare il pranzo. Io presi le uova dal frigo, la nonna fece un grande vulcano bianco sopra l’asse per la pasta. «Sai, a volte un forte trauma aiuta…» «Che cos’è un trauma, nonna?» Mi guardò sorridendo, sembrava essersi dimenticata che io ero lì.
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«Un trauma è… una cosa brutta. Lo sai, vero, che il tuo babbo aveva un fratellino?» Lo avevo sentito dire, ma in realtà nessuno me ne aveva mai parlato per bene. Sapevo che era morto pochi anni dopo la nascita, niente di più. La mamma me ne aveva parlato una volta sola, mi disse che era morto di una rara malattia. «Sì, nonna.» «Si chiamava Samuele.» Io ero un bambino piccolo, ma intuivo un sacco di cose. Forse ero un po’ magico. Intuivo che in quel momento la nonna si stava lasciando andare ai ricordi, forse per via della partenza del nonno. La nonna era vecchia e non voleva restare da sola. Non si aspettava che il nonno se ne andasse. La guardai rompere le uova dentro il vulcano e iniziare a impastare. Io tenevo i gomiti sul tavolo e le mani sul viso. Era inverno, ma il calore del sole entrava abbondante attraverso le finestre. Vidi la mia manina stampata sul vetro e pensai a quante volte mi sgridavano per quel motivo. Era bello. Io guardavo fuori appoggiandomi al vetro, macchiandolo del mio respiro, e la mamma mi sgridava dicendo che aveva appena pulito. Era come un gioco, niente di cattivo. «Dopo la sua scomparsa» riprese la nonna, era stata in silenzio talmente tanti minuti che pensai che non avesse più voglia di parlarne e invece continuò: «io e il nonno abbiamo avuto un periodo sereno, quasi felice.» «Ma come, vi era appena morto un figlio…» mi bloccai colpito dal suo sguardo. Avevo detto qualcosa di sbagliato. Distese i muscoli e continuò. «Siamo stati tanto male per quel motivo, ma ci siamo avvicinati molto. Samuele è morto dal freddo e decidemmo, in quei giorni, che in questa casa non sarebbe più mancato il calore.» Avevo paura di chiederle come fosse morto. E non chiesi nulla.
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«Finalmente io e mio marito riuscimmo a comunicare di più, meglio, e a essere, per quanto possibile, felici.» Iniziò a stendere la pasta col mattarello. Dopo alcuni minuti, invece che una grossa palla pronta a rotolarsene via, sull’asse c’era un grande sole. Un sole che metteva fame. Arrotolò la pasta e mi passò il coltello. «Dai taglia, prepariamo le tagliatelle.» Mi alzai sulla sedia. Quando avevo quasi finito suonarono alla porta, era il mio babbo. Nel pomeriggio, dopo aver aiutato a sparecchiare, decisi di perlustrare lo studio del nonno, volevo trovare qualcosa, un indizio, un ricordo. La nonna aveva lasciato tutto come l’aveva trovato. Lei non aveva cercato niente, non era una brava detective. Quando la luce del sole è coperta da nuvoloni grigi e senti i tuoni sempre più vicini, ti vai ad affacciare alla finestra, guardi il cielo e pensi: fra un po’ arriva il temporale. Poi vedi il primo lampo, seguito di poco dal tuono, ed ecco scendere un forte scroscio di pioggia: il temporale è arrivato. Ma a volte non è così. Stai raccogliendo fiori, preparandone un bel mazzetto da portare alla mamma, quando all’improvviso ti accorgi di un forte vento. In pochi minuti il cielo si copre e inizia a piovere, e tu corri via, cercando un riparo. Mi dispiaceva per la nonna, ma nonostante io fossi un mago, quella volta non sapevo come far riapparire il nonno. Entrai nello studio del nonno come si entra in chiesa. Mi piaceva l’odore di quella stanza. Mi chiusi la porta alle spalle e guardai verso la finestra, la tapparella era alzata per metà. Feci due passi in avanti poi chiusi gli occhi e mi concentrai.
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Vidi mio nonno in piedi di fianco alla scrivania, lo vidi prendere un pezzo di carta e annotarci qualcosa per poi richiuderlo nel cassetto. Cercai di concentrarmi ancora di più, ero stanco. Vidi mio nonno avvicinarsi alla libreria e prendere un libro. Riaprii gli occhi esausto. Mi avvicinai alla scrivania e mi sedetti. Dopo alcuni minuti andai alla libreria. Iniziai a far scorrere il palmo della mano lungo i ripiani dal basso verso l’alto, finché trovai quel libro. Sentii il babbo parlare con la nonna, non c’erano novità. La possibilità che il nonno avesse avuto un incidente era stata scartata pochi giorni dopo la sua scomparsa. Prima di andarsene si era preparato uno zaino con qualche vestito – mancavano dall’armadio – aveva prelevato una somma consistente di denaro – che mancava dal conto corrente, così avevo sentito dire al babbo – e inoltre, indizio principale, aveva navigato su Internet cercando un volo fra più compagnie aeree. Il nonno, con molta probabilità, era fuggito in Grecia. Tolsi un libro dallo scaffale, guardai la copertina e mi concentrai sul titolo. Facevo ancora fatica a leggere, ma stavo diventando bravo. Un al-trrro gi-ro di giiiooo-ssstra. Era tutto azzurro con un signore che s’intravedeva fra il nulla e un muro. Tiiiz-ia… stavo cercando di leggere un’altra parola quando cadde a terra un foglio che era stato infilato fra le pagine. Lo raccolsi. Lo guardai, cercai di leggerlo, ma non ci riuscii. Doveva essere un appunto del nonno riguardante quel libro. Avevo visto molte volte il nonno evidenziare lunghe frasi, cerchiare parole e prendere nota su piccoli fogli. Il libro era molto grosso, gli ci saranno voluti un sacco di giorni per leggerlo tutto. Mio padre entrò.
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«Cosa fai, cucciolino?» mi guardava sereno, poi fece scorrere lo sguardo lungo il perimetro della stanza. Sembrava un bambino di fronte a immensi scheletri di dinosauro. «Guarda, babbo, è uscito questo!» glielo porsi allungando la mano. «Cos’è?» mi chiese mentre lo prendeva. Gli diede un’occhiata, lo vidi sorridere, ma di quel sorriso che faceva spesso quando la mamma lo rimproverava. Si sedette e mi chiamò sbattendosi il palmo della mano sulla coscia. Mi avvicinai e aspettai che mi mettesse sulle sue gambe. «È un biglietto del nonno.» «Cosa c’è scritto?» «Anche se fra dieci anni le cose saranno cambiate» iniziò a leggere «anche se starò bene con lei, me ne andrò» il mio babbo mi guardò dubbioso, non capivo se sul fatto di continuare a leggere o su altro, ma poi proseguì. «Mi ha fatto troppo male. Appena le condizioni sono giuste, vattene, anche se adesso stai bene, vattene. Ricordati di Frankenstein.» Rimanemmo in silenzio. «Chi è Frankenstein?» Mi raccontò la storia del dottor Frankenstein, uno studioso che coltivava il sogno di creare un essere umano più intelligente, dotato di salute perfetta e lunga vita. «L’ambizioso dottore, aiutato dal fedele servo gobbo Fritz, inizia a recuperare resti di cadaveri umani da cimiteri, per cimentarsi nel folle progetto. Frankenstein, usando l’elettricità dei fulmini di una tempesta, porta in vita la creatura fatta da parti di cadaveri. Ma il cervello utilizzato è di un omicida, così il mostro risulta particolarmente cattivo e aggressivo…» «Ma cosa c’entra col nonno?» domandai, interrompendo quell’assurda storia.
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«Cosa c’entra col nonno?» ripeté mio padre, come fosse la domanda più scontata del mondo. Era come chiedere a uno sposo sull’altare: vuoi tu prendere Anna come tua sposa e amarla e onorarla finché morte non vi separi? Se sono qui, un motivo ci sarà, risponderebbe lui, ma preso dall’enfasi dice semplicemente sì! «Il nonno aveva deciso questa fuga molti anni fa, forse se n’era dimenticato» disse tutto d’un tratto il mio babbo. «La storia di Frankenstein è un esempio che mi faceva spesso. Nel film il dottore a un certo punto della storia si chiuse dentro una stanza da solo col mostro, dicendo alle persone che erano fuori che non avrebbero dovuto aprire per nessun motivo, nemmeno se lui li avesse implorati, nemmeno se li avesse convinti dicendogli che l’esperimento era finito.» Mi guardò distratto, non avevo capito proprio tutto, forse quasi niente, ma non volevo sembrare stupido. Rimasi in silenzio. «Aveva deciso che un giorno se ne sarebbe andato. E così ha fatto» si alzò, mi sembrava arrabbiato. Senza aggiungere altro uscì dalla stanza e mi lasciò lì, solo. Ripresi il libro da cui era uscito quel frammento di vita, poi rimisi il foglio all’interno delle pagine, chiusi e rilessi il titolo: Un altro giro di giostra. Forse era adatto ai bambini. Il nonno se n’era andato, come la neve sotto il sole, come gli insetti che catturavo nel suo orto: le lacrime dal viso, il sorriso dalla bocca, le sbucciature dalle ginocchia; e io ero qui, nel suo studio, col suo libro in mano, certo che lo avrei rivisto. E la nonna? Possibile che lei gli avesse fatto così tanto male da averlo spinto ad andare via per sempre? Mio padre rientrò nella stanza. Mi si avvicinò e s’inginocchiò di fronte a me. Lo faceva spesso, o meglio, lo faceva quando voleva dirmi qualcosa d’importante e si metteva alla mia stessa altezza. Forse lui lo capiva il nonno, forse anche lui voleva fuggire, forse un giorno mi avrebbe lasciato. Quante volte l’avevo sentito
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litigare con la mamma, quante volte li sentivo dire che non volevano più stare insieme. «Ma tu, babbo, non te ne vai, vero?» «Non ti lascerei mai» mi disse guardandomi. «Nemmeno quando sarò grande, vero?» Mi sorrise. «Quando sarai grande, sarai tu ad andartene.» «No, io non ti lascerò mai» e lo strinsi forte fra le mie braccia.
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26 NOVEMBRE 2017
Non credevo a me stesso: avevo mantenuto la promessa. Sentivo un leggero senso di vertigine, non avevo bevuto alcolici, forse era dovuto al sangue che tornava a fluire con più vitalità lungo il corpo, da troppi anni atrofizzato. Guardavo i campi scorrere fuori dal finestrino. Linee perfette che delimitavano gli appezzamenti da coltivare. C’era chi si sedeva sul campo seminato, pregando per un buon raccolto, e c’era chi lavorava la propria terra sudando per il buon raccolto, che non era detto arrivasse. Mi si accavallavano interrogativi, sensazioni. Guardavo la gente attorno a me pensando che intuissero il mio stato d’animo, ma in realtà ognuno era perso dietro i fatti suoi. Ogni albero nella foresta si allunga il più possibile cercando la luce. C’era Sonia come possibile alternativa alla mia sconfitta. C’era Sonia da poter amare, finalmente, dopo tanti anni, dopo tanto dolore. Erano trascorsi tanti e tanti anni dall’ultimo incontro. Eravamo stati amanti, ma come succede in tutte le storie più belle, ci eravamo dovuti separare. No! Sonia non era una possibilità, non per ora, almeno. Avevo paura, ma sentivo qualcosa di nuovo, e quel qualcosa bastava, per ora, a rendermi felice. Certo che pensavo anche a lei, Giovanna era tutta la mia vita, ma non più il mio futuro. Tutte le violenze subìte, gli insulti, gli inganni, mi si erano appiccicati addosso: zucchero filato tra le dita.
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Ne ero smagato, era ora di lavarlo via. Sapevo benissimo che non potevo riversare su di lei tutte le colpe, ma ne avevo le palle piene e troppe volte non me le volle svuotare. Che m’insultasse quanto volesse. Volevo cercare in quell’ultimo spicchio di vita di togliermi l’odore di marcio che mi si era impregnato addosso. Avrei riaperto con la mia solitudine ogni ferita, l’avrei pulita con il pianto dell’abbandono e disinfettata con l’accettazione. “Mi staranno cercando sicuramente”, pensavo mentre il treno rallentava per fermarsi alla stazione di Bologna “ma presto se ne faranno una ragione e si dimenticheranno di me”. Vidi un topolino sgattaiolare fra i binari, aspettai che scendesse un gruppo di persone, poi feci quei tre gradini come ipnotizzato. Tutto mi appariva un po’ ovattato, mi sentivo uno spettatore seduto in platea a osservare. Guardai un senzatetto seduto a terra ricoperto da stracci. Un cane gli stava a fianco con il muso appoggiato alla gamba. Di fronte a lui un bicchiere grande della Coca-Cola e un biglietto scritto su di un cartoncino. SONO UN POVERO INNAMORATO CHE È STATO ABBANDONATO NON CHIEDO LA VOSTRA CARITÀ MA LA SUA BONTÀ Grazie e che Dio vi protegga Stavo camminando verso l’uscita della stazione, l’indomani mattina avrei avuto un aereo da prendere. Non sapevo ancora dove avrei dormito, avrei lasciato che il pomeriggio scorresse. Mi sarei fatto trasportare da quel vento fresco che mi accarezzava il viso. «Antonio?»
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Mi s’irrigidirono i muscoli, il cuore perse qualche battito. Non avevo paura di essere stato scoperto, avevo riconosciuto quella voce. Ero come in caduta libera, con la vita che mi scorreva davanti. Ecco la mia esecuzione, un plotone di soldati mi puntava il fucile, attendendo l’ordine. Reagisci dissi fra me, mi voltai a guardarla, ma non funzionò. Il sangue mi fluì troppo velocemente alla parte superiore del corpo, ebbi un senso di vertigine. «Ciao! Ma sei te allora? Quanto è passato? Almeno quattro anni. Ti trovo bene, sei da solo?» si guardò attorno, poi rimase in silenzio qualche secondo. Mi abbracciò e mi diede due baci sulle guance. Ripresi il mio solito colorito e cercai di far uscire qualche parola. «Ciao Rosa.» Sentivo che quell’incontro avrebbe portato solo guai. Ogni volta che nella mia vita avevo rincontrato Rosa, non era accaduto nulla di buono, almeno non alle persone che mi erano accanto. E nemmeno a me, col senno di poi. Rosa non era come la mantide religiosa, che si mangia il partner durante l’accoppiamento, ma come una lucciola Photuris, che attira i maschi con segnali luminosi… e prima che lui abbia la possibilità di compiere il proprio dovere è divorato. La conoscevo, la conoscevo bene Rosa. Per mia fortuna non ero stato divorato, ma lei aveva piazzato più di una volta molto esplosivo tra le fondamenta dei miei rapporti. Rosa era raggiante, i capelli biondi le scendevano lisci fino alle spalle, il viso era paffuto e le guance arrossate. Era in abbigliamento sportivo. La trovai ancora attraente, seppur non notassi più in lei quel bagliore seduttivo. O forse ero io che ero cambiato. «Sto fuggendo» risposi dopo aver ritrovato la mia solita verve. Lei non disse nulla a riguardo.
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«Se hai un po’ di tempo possiamo farci una passeggiata» Rosa si guardò alle spalle «stavo aspettando una persona… ma ha avuto un contrattempo e non arriverà più. Andiamo?» Le porte della stazione si aprirono e noi uscimmo. «Ma vivi qui?» «Sì, da sei anni, che coincidenza, tu decidi di fuggire e ti vieni a nascondere qui.» Non era così, ma lasciai stare. Percorremmo il viale alberato, che dalla stazione ci avrebbe portato a casa sua, raccontandoci un po’ di noi. I figli, la moglie, la mia famiglia, mentre lei era ancora sola. Aveva da poco compiuto cinquantasei anni e in tutto questo tempo non era riuscita a costruirsi niente di duraturo. «Ci ho provato, cosa credi. Ho vissuto per otto anni con Alberto, qui a Bologna, ma poi le cose sono cambiate, mi ero invaghita di un nigeriano» mi guardò aspettando la mia battuta. «Ti piace il cazzo grosso!» dissi quasi per farla contenta. «Sei sempre lo stesso. Sei anche bello come un tempo.» Avevo i capelli bianchi. Li portavo corti ma non rasati, visto che ne avevo ancora molti, nessuna stempiatura. La barba ben curata, come sempre, non troppo folta e bianca. Mi piacevo. Spesso Giovanna mi riempiva di complimenti, a me poco graditi. Pensai a lei, sentii un improvviso senso di vuoto, cercai di distogliere i pensieri. «Anche tu non sei niente male.» Abitava in un piccolo appartamento vicino alla Montagnola. Non era ben arredato e non c’era molto che lasciasse trasparire l’anima di chi l’abitava. «Arrivo subito, mettiti comodo.» Guardai un po’ in giro, i tempi andati iniziarono a trotterellarmi nella mente. Mi sedetti sul divano e mi lasciai andare al ricordo di quando avevo ventitré anni.
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Era un sabato sera quando entrai nella casa del peccato. Rosa mi si avvicinò e mi diede due baci sulla guancia. Attraversai la cucina e uscii nel giardino che dava sul retro. Qualcuno si era già gettato in piscina. Io non sentivo abbastanza caldo da esserne invogliato. Desideravo solo portarmi a letto Rosa, ma lei sembrava intenzionata a scoparsi tutta Faenza e zone limitrofe, tranne me. Non ricordavo molto della serata se non il finale. Se ne andarono tutti, era tardi, ma io rimasi a dormire da lei. Prima di andarsene a letto mi preparò il divano, mettendoci semplicemente un lenzuolo e un cuscino. Mi misi seduto e la invitai a sedersi accanto a me, poi le chiesi se potevo darle un bacio. «Sì» mi rispose. Mi avvicinai a lei e feci per sbottonarle i pantaloni. «Che fai?» «Mi hai detto che posso, ti do un bacio.» Il suo sguardo indugiò sui miei occhi. Capii, in quei pochi secondi, che potevo osare e le tolsi i pantaloni, sprofondando in quel desiderio che mi toglieva il fiato. Mi spogliai senza smettere di leccarla e quando cercai di penetrarla si alzò e si rivestì. Quella volta, come molte altre successive, ne sentii l’odore, ma non ci feci mai l’amore. Adesso, con trentotto anni in più, non volevo cadere nella sua ragnatela. Mi chiamò dall’altra stanza. Mi alzai e la raggiunsi. I suoi capelli erano meno lunghi d’un tempo, ma riuscivano comunque a raggiungere il mio petto. Sentivo il suo peso salire e scendere, le stringevo entrambi i seni. Facemmo l’amore, le venni dentro. Poi ci pulimmo e andammo in bagno. «Allora dove stai andando?»
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«Lontano.» «E la tua famiglia?» «Sono grandi ormai.» «E tua moglie?» Non risposi. «Perché te ne stai andando?» «Sono stanco.» «Vuoi dormire qui?» Non in quel senso, ma lasciai perdere. «Non so.» «Non sai cosa? Dormi qui, domattina facciamo l’amore e poi parti…» Le sorrisi, mi avvicinai al suo corpo ancora nudo e le strinsi forte i capezzoli.
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5 GENNAIO 2018
La mamma ci aveva raggiunti per la cena. Guardai i miei genitori abbracciarsi e baciarsi. Chissà se loro erano veramente felici di stare insieme. La mamma capì subito, dalla mia eccitazione, che era successo qualcosa. «Allora, non mi raccontate niente? Ci sono novità?» Il suo sguardo saltellò tra me e il babbo. Lo acchiappai io. «Ho trovato un biglietto… del nonno.» La mamma rimase in silenzio, sembrava interessata, ma non fece domande. Si voltò verso la nonna, stava mettendo le polpette in tavola. Poco dopo la scomparsa del nonno avevo sentito parlare la mamma con la nonna. L’aveva rassicurata dicendole che sarebbe tornato presto, che non c’era da preoccuparsi. «A sessant’anni non te ne vai da casa» le aveva risposto la nonna. «Lo conosci tuo marito, è impulsivo.» «Era cambiato, Anna, non litigavamo più da tempo, c’era serenità» la nonna fece una lunga pausa «lo sai che ormai erano più di dodici anni che non beveva più. Pochi mesi fa abbiamo litigato, non succedeva da tantissimo. Penso avesse bevuto. Non capisco cosa gli sia successo. Perché se ne sia andato» la nonna si mise a piangere. «Parla di un certo Frankenstein…» dissi alla mamma «il nonno voleva chiudersi nella stanza e non farsi aprire finché…» guardai il mio babbo «com’era, babbo?» «Ma cosa stai farfugliando?» mi chiese la mamma. «Il biglietto che abbiamo trovato» cercò di spiegare mio padre alla mamma «è stato scritto tanti anni fa, non è recente, è un
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promemoria di chissà quanto tempo. C’è scritto che se ne sarebbe dovuto andare anche se le cose fra lui e…» guardò la nonna per un attimo «sarebbero andate meglio.» «Ma è assurdo, non ha senso» la mamma era incredula. Ci sedemmo a tavola restando in silenzio. «Ma dove pensi che sia andato?» chiese mamma rivolta a suo marito. «Ci ho pensato molto, ho guardato sul computer i siti visitati dal nonno. Mi sono fatto un’idea, comunque dopo cena andiamo a trovare un suo vecchio amico» mi guardò e mi fece l’occhiolino. «Pensi sia andato da Daniele, vero?» chiese la nonna al babbo. «Penso di sì!» «Chi è Daniele?» chiesi io. «Un amico del nonno che ora vive molto lontano da qui, in Grecia» fece la mamma. Le ricerche per sapere dov’era finito il nonno toccavano a noi perché la polizia, dopo aver accertato che non avesse avuto incidenti, ci disse che non c’erano indizi per ipotizzare una scomparsa forzata. «Con tutta probabilità se n’è andato di sua spontanea volontà, e in questo caso noi non possiamo fare nulla» ci disse il maresciallo dei carabinieri. I miei nonni ora mi sembravano come le albicocche nel cesto della frutta, sopra belle e sotto ammuffite. Il nonno aveva cercato di nascondere la ruggine dando più mani di vernice fresca, ma col tempo era riemersa. Quei silenzi, quel chiudersi sempre più in se stesso, avevano portato il nonno a vivere a strati, come una cipolla, e più si andava a fondo, più si piangeva. «Diego» sentii chiamarmi da mio padre «andiamo a prepararci.» «Dove andiamo, babbo?» «Da quell’amico del nonno. Cerchiamo di capire se abbiamo ragione, almeno sapremo dov’è il nonno.»
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Mi aiutò a indossare il giubbotto. «Diego… questo amico del nonno…» mi infilò il cappello «è un po’… stravagante. Andai a casa sua tanti anni fa. Vedrai che ti piacerà. Dai andiamo» mi guardò, e io, come ogni volta in cui mi guardava in quel modo, mi sentii come su di un ponte di neve, con la paura di precipitare, ma con la consapevolezza che lì, al mio fianco, c’era il mio babbo. Quando suonammo il campanello e la porta si aprì, esitai, le gambe mi si erano bloccate. Mio padre mi spinse avanti dolcemente, mi mossi. «Vieni, non ti preoccupare» e mi sorrise. Non credevo ai miei occhi. Quello che vedevo superava l’immaginazione di un bambino di sei anni. Mio padre non disse nulla, mi strinse la mano e cercò di entrare, facendosi spazio. Il signore che ci aveva accolto in casa era della stessa età del nonno, però aveva i capelli più bianchi e più radi. Era pasciuto, e la sua voce, che ci invitò a entrare, era roca e dolce. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da terra, ogni spazio di quella stanza era ricoperto da lettere in cartoncino colorato. C’erano delle A, delle N, delle R, montagne di lettere dappertutto. Non era solo qualche lettera ritagliata e poi buttata a terra, c’era più di un metro di carta che ricopriva la stanza. Per muoversi bisognava seguire un sentiero. «Scusate il disordine, ma in questi giorni sono un po’ impegnato. C’è qualcosa di meraviglioso là fuori e io mi alzo ogni mattina col proposito di catturarlo.» «Ah. Com’è andata oggi?» chiese il mio babbo.
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«Non male, sono riuscito a vedere un’alba, ma mi è fuggita. Lungo viale Roma sono rimasto sotto a un albero aspettando che cadesse l’unica foglia rimasta sui rami.» Infilò la mano nella tasca della giacca e ne tirò fuori una foglia che mi pareva secca. «Un bambino mi ha guardato, sorriso e salutato. Quell’attimo l’ho catturato. Guardate.» Prese dal mucchio di carta delle lettere, e formò la parola sorriso. «E mi sono innamorato due volte. Non potete capire, quell’odore meraviglioso si mescolava al nero dei suoi capelli, degli occhi. La sua bocca si apriva ogni secondo manifestando allegria e gioia.» «E l’altra?» chiesi, ricevendo lo sguardo serio di mio padre. «L’altra cosa?» «L’altra di cui si è innamorato.» «L’altra non è una donna, è una sensazione che sono riuscito a catturare nel pomeriggio. Mi sono innamorato della felicità. E sono riuscito a catturarne tanta. Guarda.» Prese altre lettere e scrisse felicità. «E domani esco con tutta questa felicità in tasca e ne distribuisco un po’ in giro. Ma ditemi, che parola cercate?» «Mio padre è scomparso» disse mio padre «non sappiamo dove cercarlo, abbiamo trovato questo biglietto fra le sue cose.» Gli porse il foglio. Pensai che quel signore dovesse essere molto amico del mio nonno, altrimenti il babbo non gli avrebbe mai fatto vedere quel foglio. Lui lo lesse poi lo riconsegnò. Lo vidi cercare delle lettere fra il mucchio vicino a lui. V-I-T-A e poi P-E-R-D-O-N-O. «Non pensavo che l’avrebbe fatto davvero, sono passati anni da quando me ne parlò.» P-A-S-S-A-T-O.
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«Non penso che tornerà, posso dirti però che non era più convinto di quella decisione. Lui ama tua madre. Non pensavo che l’avrebbe fatto» concluse. «Sai se è andato in Grecia?» «Probabile. Sarà andato a trovare Daniele. Io…» disse guardando negli occhi mio padre «lo lascerei stare, non cercatelo, non chiamatelo… la solitudine può far bene. Se vuol tornare, tornerà.» «Non potrebbe essere tutto falso?» lo dissi a me stesso, ma a voce alta. Alzai lo sguardo. Mi stavano osservando. «Cosa intendi?» mi chiese l’amico del nonno. «Pensavo… potrebbe essere che tutto ciò a cui teniamo di più, a cui ci aggrappiamo con forza, che tutto… sia finto? Tutto sbagliato?» «Questo bambino è straordinario, quanti anni hai?» «Sei.» «A cose ti riferisci, esattamente, quando dici che tutto potrebbe essere finto?» Mi piaceva la follia di quest’uomo disposto ad ascoltare la follia di un bambino. «Parli d’insegnamenti o comportamenti?» «Parlo di realtà! L’immaginazione è favolosa, la realtà fa schifo.» «Ullallà, che argomento interessante.» «Sì, ma noi dobbiamo andare» disse il mio babbo guardandomi serio. «E comunque non sono d’accordo, Diego» continuò mio padre «e questi discorsi mi sembrano un po’ impegnativi per un bambino di sei anni.» «Vedi, la tua realtà è che un bambino di sei anni non possa capire certe cose, ma nella fantasia, anche nella tua, sei disposto ad accettare un bambino con superpoteri, un po’ magico.» Rimanemmo qualche istante in silenzio. «Dove vuoi arrivare, Diego?»
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«Voglio una guerra tra l’immaginazione e il mondo reale.» Paolo scoppiò in una sonora risata, io rimasi serio. «Una battaglia fra realtà e fantasia.» «Esatto!» «È certamente un argomento affascinante: sogno, fantasia, immaginazione; ancor prima della realtà.» «Cioè?» «Hanno tutti e tre una cosa in comune: la visualizzazione… la fantasia non è un mondo parallelo a quello della nostra esistenza quotidiana. La fantasia non è astratta: la si può sentire, annusare, vedere, gustare.» «Cioè?» «Cioè, mio caro bambino, il mondo non è fatto solo da ciò che si può vedere…» «Dobbiamo andare» fu la conclusione di mio padre. «Solo un’ultima cosa ti voglio dire, saggio bambino. Sai perché il nonno se n’è andato? Sai perché nessuno riesce a capire nessun altro? Sai perché continuiamo a odiare e non capire chi ci sta vicino?» Si era fatto buio, mi accorsi che la luce della stanza era accesa, ma non mi ero accorto di quando fosse stata accesa, né da chi. «Perché non conosciamo la mappa delle persone. Noi vediamo il tracciato di chi ci sta vicino tramite la nostra mappa, non la sua, e questo fa la differenza.» Uscimmo storditi da quello strano appartamento. Mio padre era silenzioso, adesso sapevamo dov’era il nonno. Ma la mia immaginazione aveva preso il sopravvento su qualunque altro evento. E tutto questo non colmava il vuoto nel nostro animo. ),1( $17(35,0$ &RQWQXD
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