ILARIA VITALI
LA CASA AI CONFINI DEL TEMPO
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LA CASA AI CONFINI DEL TEMPO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-460-4 In copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Ottobre 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
Questa storia è frutto di fantasia. Parla del meticoloso mandala profano disegnato dal caso. Parla di acqua e di aquiloni, di coincidenze mute e di coincidenze parlanti. Ogni riferimento a fatti, luoghi e persone realmente esistenti o esistite è da ritenersi una coincidenza muta.
Alla palla rossa di Maria Petrova
Lancette d’orologio, io vi odio Vinicio Capossela
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1 Da un po’ di tempo succede che le cose mi parlano
Da un po’ di tempo succede che le cose mi parlano. Non lo dico tanto per dire, è proprio così. Le cose mi parlano. Stamattina, per esempio, quando mi sono svegliata la caffettiera annegava in una pozza di liquido nero. Sembrava perdesse sangue da non so quale buco invisibile. Io ho provato a far finta di niente. L’ho pulita e rimessa al suo posto. Niente. Continuava a sanguinare lo stesso. Era chiaro che volesse parlarmi di un suo malessere. Ma quale? Di cosa può soffrire una caffettiera? Era successo anche a casa, prima che io e mamma partissimo. E poi, appena arrivate qui, c’è stato il fatto del vaso di tulipani, quello che nonna aveva messo sul ripiano del mobile in sala da pranzo, vicino alle statuine delle pastorelle che si vantano di saper cambiare colore quando cambia il tempo, ma che in realtà restano sempre azzurrine. Veramente scarse come meteorologhe, le pastorelle. Roba da riportarle indietro a chi te le ha vendute. Ma sicuramente erano un regalo. Di quelli orribili che ti fanno per Natale e devi pure far finta che ti piacciano. Comunque, stavo dicendo: il vaso di tulipani. Io lo volevo disegnare con quei colori nuovi che mi hanno regalato, quelli nell’astuccio rosso, ma non ho fatto neanche in tempo a scrivere il mio nome per intero sulla prima pagina del quaderno. Ero alla seconda “e” di “Zoe Merlante” quando ho sentito il tonfo. Un at-
6 timo dopo, il vaso di tulipani non c’era più. Mi sono alzata piano, pianissimo, dalla sedia. Ho guardato giù, oltre il tavolo. I tulipani annaspavano in mezzo ai frantumi di vetro come pesci fuori dalla palla trasparente, mentre l’acqua disegnava sul pavimento lunghe dita liquide che puntavano dritte ai miei piedi. È inutile trovare scuse, dire che il peso dei fiori ha sbilanciato il vaso verso il basso o magari che sono state le pastorelle lì di fianco a dargli una bella gomitata per prendersi tutto lo spazio sul ripiano del mobile. Prima di tutto, le pastorelle sono troppo pigre per fare una cosa simile. E poi io lo so cos’è successo per davvero, al vaso. Si è suicidato. È così. Inutile far finta di niente. Ora, quello che mi chiedo è: perché suicidarsi proprio davanti a me? Non poteva scegliersene un altro, di testimone? Poteva farlo davanti a mamma, per esempio, o davanti ai nonni, che sono i padroni di casa e quindi hanno pure una certa responsabilità nei confronti dei loro tulipani. Oppure davanti a nessuno, che tanto alla gente non interessa poi molto il suicidio di un vaso di fiori, non è roba che mettono sulle prime pagine dei giornali, ecco. E invece no. Il vaso ha scelto me, proprio me. Mi strofino il lobo dell’orecchio destro, come faccio sempre quando sono assorbita da un pensiero. Mi aiuta a concentrarmi. Ma questa volta non arrivo a nessuna spiegazione plausibile. Non riesco proprio a capire cosa volesse dirmi quel vaso. Comunque, il fatto delle cose che mi parlano succede da qualche mese. Da quando ho compiuto undici anni, per la precisione. Di notte, per esempio, sento strani rumori. Lo so che sono loro. È legno che scricchiola, muro che crepa. Il tavolo vuole tornare albero e il cemento sabbia di mare. Di mattina mi sveglio e i tappeti non sono più al loro posto. Se ne vanno in giro sul pavimento credendosi pesci sul fondo dell’oceano. Non si spostano di chilometri, altrimenti se ne accorgerebbero tutti e sarebbe troppo facile. No, loro si spostano solo di qualche centimetro. Non vogliono destare sospetti. Scivolano ogni giorno un po’ di più verso de-
7 stra, come se la casa fosse in discesa. Sono movimenti leggerissimi, i loro. Quasi invisibili. Oltre a me, nessuno si accorge di tutto questo. Nessuno si scompone. A tutti sembra normale che la caffettiera sanguini, che di notte le poltrone se ne vadano a spasso e i tappeti scivolino verso destra. Gli adulti alzano le spalle e non ci pensano minimamente. Anzi, ogni volta che ho cercato di parlarne con un adulto, quello si è fatto proprio una risata. Il vaso di tulipani si suicida? A nonna, mentre raccoglieva i frantumi con la scopa, non sembrava per niente strano. Proprio per niente. “Ognuno ha diritto di scegliere di che morte morire” ha dichiarato, ramazzando vetri avanti e indietro. Le dispiaceva solo che i tulipani avessero scelto di affondare l’acceleratore verso il pavimento proprio dentro a quel bel pezzo di cristalleria. Io, però, continuo a tormentarmi il lobo dell’orecchio. Sono certa che quel vaso volesse dirmi qualcosa. Ma cosa?
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2 Piatto. Tutto piatto
Piatto. Tutto piatto. Non si vede una collina nel raggio di chilometri qui intorno al Grande Fiume. Non per niente la chiamano Pianura Padana. Ora, io non pretendo di trovarmi di fronte le Alpi innevate ogni volta che mi sveglio. E nemmeno di girare la maniglia della porta e di traslocare di colpo, che so, sui picchi di una scogliera frustata dall’oceano. Ma almeno vorrei vedere uno straccio di collina, l’ombra di un rilievo, ecco. Un minuscolo avvallamento qua e là. Invece niente. La Pianura Padana è irremovibile da questo punto di vista. Rifiuta di cedere terreno alla più piccola altura. Accetta solo distese di campi di grano, granturco e risaie. Al massimo qualche timido papavero. E acqua. Di quella ce n’è in abbondanza. Ce n’è per terra e per aria, te la ritrovi anche dentro ai polmoni quando respiri. Ma quanto alle colline, quelle rimangono fuori dalla porta. L’unica cosa positiva qui, in mezzo ai campi, è che il sole non fa fatica a tramontare come in città, dove s’impiglia sempre negli spigoli di qualche palazzo o rimane incastrato nella strettoia di una strada. Qui ha tutto l’orizzonte a disposizione. E ne approfitta. Va giù lento, lentissimo, pregustandosi il tuffo nell’aria blu che c’è dietro alla terra. Scende talmente piano che un sacco di persone vengono da tutte le parti d’Italia, piazzano un cavalletto e lo fotografano mentre rotola giù al rallentatore. Lui fa il ruffiano,
9 rimane un po’ sospeso sopra la crosta terrestre, poi arrossisce per la vergogna e si nasconde in fretta dentro al blu. Io e mamma siamo arrivate con il tramonto di ieri sera, a respirare l’aria già respirata l’estate scorsa. Veniamo qui a casa dei nonni tutti gli anni, ma questa è la prima volta da quando papà non vive più con noi. Quest’anno siamo venute prima del solito perché mamma dice che nonno non sta bene. A me pare che stia benissimo. Non era neanche a casa quando siamo arrivate. Si è presentato solo all’ora di cena, con il cappello di paglia accovacciato sulla testa come un animale paziente e Barabau, animale paziente pure lui, che gli scodinzolava dietro. Ogni estate che passa, nonno è un po’ più abbronzato e un po’ più gobbo. Se ne sta sempre in giro lungo il fiume, viene a casa solo per mangiare e per dormire. La casa è un parallelepipedo lungo. Lunghissimo. Era una vecchia casa colonica seduta in mezzo ai campi come un pascià. Una volta ci abitavano tutti i fratelli di nonno, le famiglie stavano in fila una dietro l’altra come dentro ai vagoni di un treno immobile. Oggi solo tre di quei vagoni sono abitati. I miei nonni abitano nel primo, quello più vicino alla strada. Nella locomotiva, insomma. Strada, poi, è una parola grossa, passeranno al massimo dieci macchine al giorno. La città è lontana chilometri e chilometri. A star qui ci si potrebbe anche convincere che non esiste. «Che palle.» È il mio vicino di casa, Lorenzo, che lo dice. È anche lui dai nonni per l’estate. Sono anni che non lo vedo. L’ultima volta aveva un buco al posto degli incisivi e una mamma bellissima. Adesso invece i denti ce li ha, è la mamma che è scomparsa. La sua famiglia è tagliata a metà come la mia, solo allo specchio: da lui c’è solo la parte maschile. Lorenzo abita in un’altra città, più grande della mia, e per questo fa lo spocchioso come tutti quelli che abitano nelle città grandi. Raddoppia persino le consonanti delle parole, quando parla. Dice “Arroma” invece di “A Roma”.
10 «Si chiama raddoppiamento sintattico» mi spiega Carlo che è suo padre e che insegna linguistica all’università «è un fenomeno che colpisce tutti gli italiani, dalle Marche in giù» sorride «non c’entra la grandezza della città.» Il papà di Lorenzo è una persona che butta dolcezza dalle labbra a ogni parola che dice. Te la spalma addosso come il burro e dopo sembra che la vita scivoli via meglio. Mi piace starlo ad ascoltare mentre spalma. Un’altra cosa che mi piace di Carlo è che mi parla come parlerebbe a qualsiasi altra persona. A qualsiasi adulto, voglio dire. Non sono mica in tanti a fare così. Anzi, di solito si rivolgono a me parlando al rallentatore, come se fossi straniera. Esagerano l’espressione della faccia, storcono la bocca in maniera ridicola e la voce gli diventa di colpo più acuta. Tutto questo impegno per dire cose stupidissime, tipo: “Ce l’hai il fidanzato?”. Ma Carlo no. Carlo butta dolcezza dalle labbra e mi parla come fa con gli adulti. A volte guarda mamma che cammina e la dolcezza gli finisce tutta nello sguardo. Se sta parlando si distrae e devo riportargli alle labbra l’ultima parola che ha pronunciato. Di solito, dopo che mamma è passata, lui non si ricorda più cosa stava dicendo e dobbiamo ricominciare tutto da capo. Mamma fa questo effetto agli uomini. Una volta, quando c’era papà, mi dava fastidio. Ma adesso no, mi fa quasi piacere. Per un attimo provo a immaginare che mamma e Carlo si mettano insieme. Si sposino, magari. Mi piacerebbe avere Carlo come papà. Un papà di recupero, è vero, non quello originale, ma pur sempre un papà. Lui verrebbe ad abitare a casa nostra, con tutti i suoi libri. O forse andremmo noi da lui. Dovrei cambiare casa, città. Imparare a parlare con il raddoppiamento sintattico. Poi mi viene in mente che diventerei la sorella di Lorenzo. Bleah. Cancello tutto.
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3 Estate 1992. Anno dell’Europa Unita
Estate 1992. Anno dell’Europa Unita, delle mie, delle tue vacanze. Così canta alla radio quel tipo che si chiama come il mio vicino di casa. Io, caro Lorenzo, le vacanze le passerò qui, sul delta del Grande Fiume, mangerò tortelli di zucca e dormirò in una casa che sembra un treno. Nella locomotiva, per la precisione. A guardarla bene, pare proprio che la casa dei nonni abbia girato il mondo per davvero; dappertutto ci sono ricordi di viaggio. Souvenir, li chiamano. Che sarebbero poi cartoline orrende, orologi di legno della Val di Fassa e quadretti pasticciati con i colori a olio di spiagge più o meno lontane. Insomma, un sacco di cianfrusaglie insensate. Nonna, però, un senso ha cercato di darglielo. A lei piace molto catalogare le cose e in casa sua, anche se non sembra, tutto ruota secondo un ordine preciso. Comprese le lancette degli orologi della Val di Fassa. In sala da pranzo, sul primo ripiano del mobile in noce, ci sono le statuine delle pastorelle che predicono il tempo, ma che in realtà non fanno niente dalla mattina alla sera. Delle vere scansafatiche. Vicino alla comunità delle pastorelle nullafacenti, c’è una sfilza di palle di vetro che se le giri fanno cadere la neve su San Marco o sulla torre di Pisa, a seconda del bisogno. Ora che non ci sono più i tulipani, quello lì è il piano dedicato alla meteorologia. Sopra, invece, c’è il ripiano commemorativo. Ci sono le foto dei
12 matrimoni dei figli dei nonni che non fanno niente neanche loro, come le pastorelle. Se ne stanno lì, immobili, incastrati nelle loro cornici d’argento. C’è anche quella di mamma e papà. Mamma la gira sempre, ogni volta che ci passa davanti. Poi passa nonna, che la rigira nel verso giusto. Dentro a quella foto, mamma è un gambo di fiore nella neve. Ha la faccia verdolina perché era emozionata, ma a parte questo il resto è tutto bianco. Bianca lei, bianco intorno perché era Natale e c’era la neve. Sembra che tremi anche un po’. Di freddo, penso. Papà invece non trema, perché è vestito di blu invece che di bianco. Sorride. Le cornici raccontano la nostra storia, proseguono dritte fino alla fine del ripiano e anche più in là. Nonna ha pensato bene di continuare la sua collezione oltre il legno, agganciando le foto al muro. Una striscia d’immagini schizza come un razzo lanciato dal mobile e fa tutto il giro della stanza. Nell’ultima cornice ci sono io. Mi hanno messa sotto vetro di profilo, appoggiata alla balaustra di una strada a picco sul mare. Sto per vomitare. Non sto scherzando, è proprio così. È che soffro la macchina, soprattutto d’estate. Papà si doveva sempre fermare per farmi scendere a prendere aria. Ma tanto vomitavo lo stesso. Se non altro non in macchina, ma ai piedi di una balaustra a picco sul mare. È lì che hanno scattato la foto, prima che vomitassi. Mamma adora quella foto. Dice che ho un’aria melanconica e romantica. Si vede che prima di vomitare si diventa un po’ sentimentali. Comunque, in realtà, dalla foto non si vede che stavo per vomitare. Lo sappiamo solo io e la balaustra. E anche mamma, naturalmente, anche se lei l’ha rimosso e insiste con la storia del romanticismo. Mi rendo conto che le foto sono un po’ traditrici, fingono di documentare un certo momento, ma poi dicono quello che vogliono loro. Attaccate alla vetrina di nonna, ci sono anche un sacco di cartoline inviate dai quattro angoli del pianeta. Da chi, non si sa. Però intanto sono lì, sotto lo sguardo delle pastorelle che non sanno fare le previsioni meteorologiche e, invece di vergognarsi, se la ridono. Lì vicino ci sono anche due gatti di porcellana bruttissimi
13 che stanno a guardarsi tutto il giorno, a parte dopo che sono passata io, che li giro di spalle, come fa mamma con la foto del suo matrimonio. A me piacciono molto i gatti, ma questi qui sono un vero insulto alla specie felina. Lorenzo ha una gatta in carne e ossa che va abbastanza d’accordo con Barabau. Si chiama Pralina. È nera, sovrappeso e molto pigra. È sempre a corto di fiato. Lo sforzo più grande che fa nella sua giornata è passare dalla gattaiola per uscire di casa. Per riprendersi dalla fatica si arrotola come una ciambella ai piedi di Carlo e se la dorme per una mezz’oretta. I gatti selvatici dei dintorni la prendono sicuramente in giro. Per questo Pralina sta sempre con noi e non si allontana più di dieci passi dal binario della casa-treno. Carlo mi ha spiegato che la gattaiola è un’invenzione di un certo Signor Newton. Questo Newton era un grande scienziato che se ne stava spaparanzato in giardino ad aspettare che gli cadessero le mele sulla testa, come ci hanno spiegato a scuola. Una mela dopo l’altra, gli è venuta in mente un’idea incredibile e ha messo sulla carta tutta una teoria che si chiama così: Gravitazione Universale. Ma l’invenzione più importante di Newton non è questa, no. È un’altra, che porta un nome diverso: la gattaiola. La storia dice così, che il Signor Newton aveva una gatta che si chiamava Marion. Marion era bellissima, ma aveva il problema che hanno tutti i gatti: quando sono dentro, vogliono andare fuori e quando sono fuori, vogliono tornare dentro. Siccome Newton era impegnato con le sue mele in giardino e si era stancato di passare il tempo ad aprire e chiudere, un bel giorno ha preso le misure di Marion e ha fatto nella porta un buco della stessa grandezza. Ci ha messo anche uno sportellino, in modo che Marion potesse andare e venire a suo piacimento passandoci dentro. Altro che Gravitazione Universale. Mentre io e mamma finiamo di svuotare il portabagagli del poco che abbiamo portato con noi, dalla porticina di Newton sguscia fuori un baffo di Pralina + un orecchio di Pralina + quattro zampe
14 di Pralina = una Pralina tutta intera. Anche questa volta ci è passata, ma ha il fiato corto quasi come le sue zampe. Evita il nostro sguardo, probabilmente si vergogna un po’. Una volta sgusciava dentro e fuori abbastanza bene, ma quest’anno ci passa a fatica. Se continua a mangiare così, dovranno allargare la porta di Newton. Lo dico a Carlo, perché mi sembra un problema scientifico abbastanza serio, che potrebbe avere conseguenze scardinanti su tutto il sistema newtoniano, compresa la Gravitazione Universale. Lui si mette a ridere. Io insisto che deve fare un discorso serio a Pralina per convincerla a dimagrire. La mia stanza è al piano di sopra, con la finestra che dà sul retro, e cioè sull’orto e non sul viale. È piccola. Anzi, piccolissima. Ci stanno a malapena un armadio e un letto a castello, incastrati come i pezzi di un puzzle. Non so davvero come siano riusciti a farli passare dalla porta. Secondo me, hanno piantato dei semi nel pavimento e li hanno annaffiati ogni giorno finché non hanno raggiunto le dimensioni attuali. L’armadio e il letto sono fioriti lì dentro e lì resteranno finché non appassiranno. Ogni estate, quando arriviamo qui, mamma mi misura e fa una tacca sul muro con un pennarello rosa. Io mi sottopongo a questo rituale barbaro sperando che si sbrighi. Dal punto di vista dell’altezza non sono un granché. Mamma invece è tutta fiera di ogni centimetro che riesco a strappare alla forza di gravità del Signor Newton grazie ai corsi di ginnastica ritmica e lo annota sul muro con il suo pennarello - che, sono certa, ha comprato apposta per l’occasione - scrivendoci di fianco, ogni volta, la mia età. Finito il rituale, lei se ne va soddisfatta a disfare le valigie e io posso finalmente mettere a posto le mie cose e strofinarmi il lobo dell’orecchio in santa pace. Di fianco al nostro binario, a una trentina di passi dopo l’orto, c’è un’altra casa-treno quasi uguale alla nostra, a parte per il fatto che cade a pezzi. Le altre estati era disabitata, ma quest’anno no. È arrivata una famiglia. Numerosa. Numerosissima. Non vivono dentro alla casa, però. Se ne stanno fuori, accampati nello spiazzo dentro a tre enormi roulotte. Non so bene da dove vengano, ma
15 parlano una lingua strana, tutta consonanti. Carlo dice che è una lingua antica. Antichissima. Una lingua che viene dall’India e che ha attraversato tutto il mondo. Non so se parlano anche italiano. Nonna ha detto che facevano parte di un circo che poi è fallito, e da allora fanno un po’ quello che capita. Suonano nelle feste di paese, raccolgono il rame nelle case e lo rivendono, roba così. «A me non fanno paura. E poi sono contenta che la casa di fronte non sia più vuota.» Nonna è così. In paese la chiamano “l’anticonformista”, che vuol dire che è una che fa quello che le pare e non le interessa cosa pensano gli altri. Gli altri, infatti, non la pensano come lei. Stanno raccogliendo firme per mandarli via. Sulla striscia di terra dell’argine, qualcuno ha attaccato un cartello sopra il tronco di un’acacia. Sopra c’è scritto: “Vietata la sosta ai nomadi”. A me piace starli a guardare e finché sono qui li guarderò. Sembra un circo anche ora che non lo è più. Sono tanti, tantissimi. Decine di persone di ogni età. Gli uomini hanno capelli lunghi e lucenti, e collane d’oro che gli pendono dal collo. Le donne, al collo, di solito hanno dei bambini. Di sera, capita che fanno fiamme di fuoco dalle labbra e musica da una specie di fisarmonica. C’è un ragazzino che ha più o meno la mia età. Si chiama Mujo. Cammina sul palmo delle mani come fosse la pianta dei piedi. Anch’io lo so fare. Solo per qualche passo, però, poi perdo l’equilibrio. Mi alleno contro il muro. Prendo la spinta, appoggio le dita a qualche centimetro dalla parete, ruoto le gambe e ce le appoggio contro. Mi guardo le mani, le dita allargate sul marciapiede, vedo il mondo a testa in giù. L’erba sopra e il cielo sotto, gli alberi appesi al contrario, Barabau che scodinzola a rovescio, mamma a piedi per aria che mi ordina di scendere che mi fa male, nonno che cammina con il cappello di paglia sottosopra. Poi mi va il sangue alla testa, torno giù. Mamma dice:
16 ÂŤFinalmente.Âť Vedo il mondo come prima.
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4 Qualcosa sta per succedere
Qualcosa sta per succedere. Lo so. Me lo dice ogni cosa. Lo dice il vaso di tulipani che si suicida, lo dice il sole ruffiano che non vuole mai tramontare, lo dicono i rami dei tigli che cinguettano nell’aria. Qualcosa sta per succedere. Ma cosa? Questo i rami dei tigli non lo vogliono dire e a me il futuro spaventa un po’. Il futuro è una creatura dispettosa che si materializza nel presente e di nascosto allunga una gamba per farti lo sgambetto, così gli cadi addosso. E non ci si può fare niente. Anche se magari tu ci stavi benissimo nel tuo presente e non avevi nessuna voglia di veder spuntare uno con la faccia da futuro. Tutto quello che si può fare è cadergli addosso e basta. Al massimo, se sei stato previdente, hai buttato di là un cuscino per attutire la caduta, quando eri ancora nel presente. Il mio cuscino si chiama “verticale contro il muro”. Voglio rafforzare i muscoli di braccia e gambe, voglio imparare a camminare anche con le mani, guadagnare un equilibrio incrollabile a prova di sgambetto. Bisogna essere sempre pronti, il futuro è più svelto di quello che vogliono far credere gli orologi. Mi alleno ogni giorno contro il muro che guarda l’orto. Dall’altro lato, sento le donne di casa che parlottano a bassa voce. Pensano che io non le senta, ma questa è una casa-treno e i binari sono
18 conduttori, l’ho letto in un libro. Basta appoggiare un orecchio per sentire affiorare i rumori a chilometri e chilometri di distanza. A testa in giù, contro il muro della casa, sento mamma che dice che è preoccupata per me, che da quando è successo quello che è successo sono diventata taciturna. Che non rido più come prima e ci sono dei pomeriggi che rimango immobile per ore. Non sa perché lo faccio. Ne ha parlato anche con un dottore, dice, e quello le ha spiegato che a volte succede ai ragazzini troppo sensibili, ma che per dire di più doveva farmi un test e stabilire a quale tipo psicologico appartenessi. Pare che siamo tutti classificati in una serie di tipi psicologici, delle specie di scatole in cui ci si può infilare dentro il mondo intero. E non sono neanche tante, a dire la verità. Sono appena dodici. Sei miliardi di persone, secondo i medici, si possono ficcare per comodità in una dozzina di scatole. Quelli “estroversi”, con funzione dominante “il sentimento” e funzione d’appoggio “la sensazione”; quelli “introversi”, con tendenza “giudicante” e funzione inferiore “il sentimento” e così via. Così, mamma mi ha portata a fare il test. Il dottore doveva essere vecchissimo, infatti aveva tutti i capelli bianchi. Mi ha fatto un sacco di domande come in un quiz televisivo, solo che qui non si vinceva niente. Si è segnato tutte le risposte su un pezzo di carta, poi è scomparso nella stanza di fianco e alla fine è tornato indietro con il verdetto: la mia scatola è la ITN. Vuol dire che ho un orientamento “introverso”, con funzione dominante “il pensiero” e con funzione d’appoggio “l’intuizione”. Appollaiata sul bordo della sedia, mamma ha ascoltato il dottore con occhi rotondi e attenti da gufo, come se stesse ricevendo la più grande delle rivelazioni. Io li guardavo, prima lui, poi lei, poi di nuovo lui, come per dire “E allora?”. Che ero introversa, ve lo potevo dire anch’io, sai che rivelazione… che bisogno c’era di farmi visitare da questo signore vecchissimo con il camice, che a occhio e croce doveva esserci costato più o meno quanto la libreria del salotto? E lo dico sfruttando la mia funzione d’appoggio (che sarebbe l’intuizione).
19 A dire il vero, mi sono un po’ offesa che mamma avesse dovuto aver bisogno di quel dottore vecchissimo per capire a quale tipo psicologico appartenessi. Pensavo che mi conoscesse meglio di chiunque altro sulla terra. Evidentemente mi sbagliavo. Chi ha grandi intuizioni, prende anche grosse cantonate. Alla fine della visita, un’infermiera mi ha riaccompagnata nella sala d’aspetto, mentre il dottore diceva qualcosa sottovoce a mamma, che in cambio di tutto quel bisbigliare gli staccava un sonoro assegno. Io e mamma ci siamo ritrovate in silenzio alla fermata dell’autobus. Eravamo tutte e due un po’ agitate. Lei per la rivelazione che pensava di aver ricevuto seduta sul bordo di quella sedia, io perché non mi va di farmi guardare troppo dentro, visto che appartengo al tipo psicologico ITN. Quando siamo arrivate a casa, per calmarsi, mamma è andata a tritare sedano-carote-cipolla da far sfrigolare in padella e io mi sono seduta nella mia stanza, di fianco all’orso bianco che mi ha regalato nonna un dicembre di qualche anno fa. Questa non è proprio la mia stanza. Voglio dire, non è quella di prima. Io e mamma ci siamo trasferite qui dopo che papà se n’è andato. Non avevamo più bisogno di tutte quelle stanze, ha detto mamma. Era papà che aveva le manie di grandezza e voleva vivere in un castello. Che esagerazione! A noi due bastava molto meno, ha dichiarato. E poi, non avevo voglia di vedere il mondo, di partire all’avventura? A me l’idea di vedere il mondo non dispiaceva e così abbiamo riempito tre valigie e venti scatoloni e siamo partite all’avventura. In realtà, tutto il mondo che ho visto è stata l’erba del prato che ci separava dalla nuova casa. All’inizio Mamma era partita con idee da spregiudicata viaggiatrice, passava le serate a sfogliare i depliant di tutte le compagnie aeree in attività. Dopo qualche giorno, però, l’aereo si era trasformato in un treno. Poi il treno in un pullman. Il pullman in una macchina. Era passata una settimana e mamma non era più sicura di voler cambiare città. E, a dire la ve-
20 rità, anche traslocare in un altro quartiere le sembrava un pochino esagerato. Però restava il fatto che non poteva continuare a vivere nella nostra casa. Così, abbiamo attraversato l’erba del prato e siamo andate a vivere dall’altra parte del parco. E questa era la mia nuova stanza, dopo la traversata. Dalla finestra potevo vedere lo stesso mondo di prima, solo a rovescio. La traversata, è così che dice mamma. Non parla mai di quello che è successo con papà. La nostra vita si divide in prima della traversata e dopo la traversata. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Quel giorno, il giorno del medico che infilava il mondo nelle scatole, me lo ricordo bene. Mi ricordo che lo sfrigolio del soffritto di mamma mi è entrato fin dentro alle narici e che l’orso bianco di fianco a me si è accasciato su un lato e mi è mancato un po’ il respiro. Per calmarmi ho guardato fuori dalla finestra. C’era sempre il solito pezzetto di strada, il solito spigolo di palazzo e il solito prato. Erano gli stessi di ieri, gli stessi di prima. Per loro non era cambiato niente, niente aveva importanza. Giù in fondo, sotto alla finestra, l’erba era così tranquilla. È così che ho incominciato. Per calmarmi ho deciso di fare come lei, di copiare l’erba. Con il tempo sono diventata bravissima. Lo faccio ancora, ogni tanto. Adesso no. Adesso sono impegnata con la verticale contro il muro sul binario della casa-treno. Braccia tese sopra la testa, sguardo in avanti, spinta e hop: sono a testa in giù. Mamma, comunque, questa cosa di copiare l’erba per tranquillizzarsi non l’ha mica capita. E non l’ha presa per niente bene. Ma lei fa sempre così. Di una piccola cosa senza importanza ne fa una montagna, proprio qui, nella Pianura Padana. Papà lo diceva sempre che si divertiva a complicare le cose. Ma poi, tanto, le passa. Come noi, papà ha deciso di attraversare anche lui qualche cosa. Ha fatto la sua traversata. Adesso vive dall’altra parte del fiume. Chissà cosa starà facendo in questo momento. Immagino la sua
21 nuova casa. Deve essere grande, profumata, luminosissima. Deve essere piena di specchi e di stucchi, che a essere sincera non so bene cosa siano, ma hanno l’aria di essere qualcosa di bello e sicuramente papà ce li ha. Ha anche un enorme salotto con tre divani bianchi e un gatto nero come Pralina che passeggia sul bordo della finestra, ma più magro e aristocratico. Un gatto, insomma, che non avrebbe problemi a sgusciare dentro e fuori da qualunque porta di Newton. In fondo al corridoio ci sono due stanze da letto, una per lui e una per me. E forse ce ne sarà anche un’altra, per la donna con cui vive adesso, ma al momento quella stanza non la vedo. No, no. Sono sicura, in fondo al corridoio ci sono solo due stanze da letto e sono certa che una sia la mia. Papà mi ha già invitato ad andare da lui. Appena avrà finito di riempire di specchi e di stucchi la sua casa, ha detto. Giuro. L’ha detto l’ultima volta che l’ho visto. Ecco, sento il sangue che mi va alla testa. La verticale, sicuramente. Scendo dal muro e riporto i piedi contro terra.
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5 Nonno ha una casa galleggiante sul fiume
Nonno ha una casa galleggiante sul fiume. Non proprio una casa. Diciamo una stanza. Una casa grande come una stanza, ecco. Qui intorno ce ne sono tante più o meno grandi della sua. C’è chi dentro ci ha fatto addirittura un ristorante. Ma quella di nonno è solo un’officina per gli attrezzi. Lì dentro ci tiene di tutto. Martelli, chiodi, viti, pinze, tenaglie e poi pezzi di legno, di stoffa, di carta. È lì che ripara le biciclette e costruisce gli aquiloni. Ne fa di nuovi tutte le estati. Prende la carta e la incolla sui bastoncini sottili che formano l’armatura. Poi si mette fuori a pescare, intanto che la colla asciuga. Non si può dire che forma prenderà l’aquilone fino a quando non è finito. Questa settimana ne ha fatto uno a forma di aeroplano. È bello. Ha un corpo giallo e grassottello. Ali verdi. C’è persino l’elica e in fondo una ghirlanda di colori che dondolerà nel vento. Batto le mani, non vedo l’ora di vederlo in azione. Sull’altra sponda del fiume scorgo Mujo, il ragazzino della casa di fronte. Guarda l’aquilone anche lui, incuriosito. Nonno sorride soddisfatto, infila l’indice in bocca e lo sputa fuori per testare l’aria. Le cicale si strofinano le ali. A parte questo, non si muove una foglia. Alziamo le spalle per scacciare la delusione, come fanno le cicale per scacciare il caldo. Pazienza. Recupero la bicicletta per tornare alla casa-treno. Nonno si schiaccia una zanzara sul collo con il palmo e si siede a pescare. Pesca anche Mujo,
23 dall’altra parte del fiume. Prima di salire sulla sella, riesco a intercettare un sorriso che gli passa sulla faccia leggero come una farfalla e sono quasi certa che quel sorriso sia per me. Aspettiamo tutti il giorno in cui si alzerà il vento. Nonna, invece, di aquiloni non ne vuole sapere. Dice che ci sarebbero tanti lavoretti da fare nella casa vera, quella sulla terraferma, e invece nonno se ne sta sempre in quella maledetta casa galleggiante, dove lei non può nemmeno entrare. Nonno non vuole che vada a fare pulizia alla casa sul fiume, dice che poi non riesce più a trovare le sue cose. Lei comunque è ben contenta di non entrarci. Gli aquiloni non la riguardano. Lei si occupa solo di oche, galline e conigli. Le galline sono pigrissime, anche peggio di Pralina, le oche invece sono delle veggenti; riconoscono la sua voce anche a distanza di cento passi, anche dietro agli alberi. Appena la sentono girare la maniglia della porta, incominciano a fare una gran confusione. Secondo me hanno dei poteri paranormali. Nonna apre la porticina di casa loro, che sarebbe un recinto speciale molto più grande di quello delle galline, e loro partono in fila indiana verso il fiume. Sono molto ordinate. I conigli invece vivono dentro a delle stanzette sollevate da terra, all’altezza del mio naso. La settimana scorsa ne sono nati di nuovi. Nonna me ne mette in mano uno minuscolo, morbidissimo. Sembra di toccare un batuffolo di cotone. Lui trema, però. Il cuore gli batte forte, sembra debba schizzargli fuori dal petto da un momento all’altro. Lo accarezzo per tranquillizzarlo, ma trema ancora di più. Sensazione orribile, essere qualcuno di cui avere paura. Non voglio più tenerlo in mano. Dico a nonna di riprendersi il coniglio, ma lui non vuole essere catturato dalle mani grandi di nonna, trema più che mai. Il cuore gli batte veloce, sempre più veloce, finché un liquido caldo mi scroscia tra le dita, giallo.
24 Nonna riesce a rimettere il coniglio nella gabbia. Io torno alla casa-treno tenendo le mani bagnate e appiccicose lontane dal corpo.
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6 Quest’estate è talmente strana che ho deciso
Quest’estate è talmente strana che ho deciso di segnarmi da qualche parte le cose che succedono. Siccome non ho portato con me il diario, scriverò tutto sopra dei fogli volanti, qualunque pezzo di carta andrà bene, non ha importanza. Per non perderli, li infilerò dentro a quel salvadanaio a forma di maialino trasparente che mi ha regalato nonna un dicembre di qualche anno fa. Finora ha sempre avuto la pancia vuota, ma a partire da oggi gliela riempirò di carta. Diventerà un salvapensieri. Prometto che non tralascerò niente. Giuro. Neanche le cose che agli adulti non sembrano importanti. Soprattutto le cose che agli adulti non sembrano importanti. Perché stamattina è successo di nuovo: le cose vogliono parlarmi. Non c’è alcun dubbio. Questa volta è stato il turno delle chiavi. Hanno pensato bene di chiuderci dentro durante la notte per poi darsela a gambe. Al nostro risveglio non c’era più traccia di loro. Come se non fossero mai esistite. Nonno ha impugnato la maniglia per uscire e per poco non dà una testata contro il legno dello stipite. La porta di solito è già aperta quando si alza, ma questa mattina nessuno era ancora uscito. Lui si è grattato un po’ i capelli brizzolati, ha provato di nuovo. La maniglia andava su e giù senza nessuna intenzione di aprire il passaggio. Allora si è chinato per cercare le chiavi. Prima sul ta-
26 volo, sulla credenza, sul divano. Poi sotto al tavolo, sotto alla credenza, sotto al divano. A dire la verità, ci siamo chinati tutti sotto al tavolo, sotto alla credenza, sotto al divano. Abbiamo messo sottosopra la casa. Niente. Cercato nei posti in cui uno non cercherebbe mai. Ancora niente. Provato a immedesimarci in un mazzo di chiavi per immaginare dove potesse essersi nascosto. Niente lo stesso. Io ho sbirciato nel buco della serratura, che sembrava saperne più di quanto non desse a vedere. Le chiavi ci tengono in ostaggio, ho pensato. Tra poco una lettera scritta con ritagli di giornale scivolerà sotto alla fessura della porta e ci chiederanno un riscatto in cambio della libertà. Poi nonna si è battuta il palmo della mano sulla fronte, come quando ci si ricorda improvvisamente di una cosa che sembrava impossibile da dimenticare. È andata con passo sicuro fino al bordo del tavolo, ha impugnato la borsetta e ne ha estratto il mazzo di chiavi, che luccicava e tintinnava più che mai, come per prenderci in giro. Se avesse potuto, si sarebbe anche messo a ridere. Ma siccome non poteva perché era un mazzo di chiavi, si è limitato a luccicare e tintinnare. «Devo averle messe nella borsa ieri sera quando ho chiuso la porta, così, senza pensare» ha detto lei. Si è strofinata una tempia con due dita. «Infatti non me lo ricordo.» Le chiavi sono tornate in fretta al loro posto - e cioè quello spione del buco della serratura - e la porta ha deciso di lasciarci uscire. Tutti sono ritornati alle loro occupazioni. Abbiamo pranzato alla solita ora, mentre la televisione parlava del viaggio del Papa in una città lontanissima dell’Africa, e poi dell’assedio di una città vicinissima, che si chiama Sarajevo. Nessuno ha più pensato alla faccenda delle chiavi traditrici. Tranne me. Io lo so che anche questa volta è successo qualcosa di strano, qualcosa a cui nessuno ha dato importanza. Le chiavi volevano mettermi in guardia sull’arrivo imminente dello sgambetto del futuro.
27 Mentre tutti fanno la siesta dopo pranzo, esco. Manovro con cautela l’impugnatura della porta, come se si trattasse della cloche di un’astronave capace di traghettarmi in un’altra dimensione. Invece no. Fuori il mondo è come prima. Non c’è niente di strano. È un mondo innocuo, un mondo che dorme nel primo pomeriggio. Dorme la gallina nel pollaio, dorme Barabau sotto al tiglio. Dormono tutti, uomini e animali. A parte le cicale, che continuano a strofinarsi le ali per il caldo. Faccio qualche passo costeggiando il binario della casa-treno in punta di piedi come se la terra fosse diventata un tappeto di uova. Giro gli occhi intorno come farebbe un agente segreto, se avessi l’impermeabile solleverei anche il bavero. Acqua, fuochino, fuoco… acqua. Il mondo continua a starsene zitto. Nessun indizio. Continuo la mia indagine silenziosa, finché una rollata di ruote sul cemento del marciapiede la interrompe; non è il futuro che stavo aspettando, è solo Lorenzo che arriva a tutta velocità sopra lo skateboard. I capelli sudati gli fanno una colla nera sulla fronte. È preoccupato. «È vero che siete rimasti chiusi dentro tutta la mattina?» Lo guardo con attenzione, valuto se è il caso di dirgli delle chiavi che ci volevano tenere prigionieri e di tutte le altre cose strane che succedono da un po’ di tempo. Non lo so se capirebbe. Tasto il terreno. «Lorenzo, a te è mai capitato di vedere cose che gli altri non vedono?» Lui sgrana gli occhi. «Intendi UFO o roba così?» Scuoto la testa. «No, intendo altre cose.» «Quali cose?» Lo guardo intensamente.
28 «E se ti dicessi che io vedo cose che nessun altro vede?» «Cioè, hai delle visioni?» «No, no, macché! Vedo quello che poi vedranno anche gli altri, solo che… insomma, sì, che lo vedo prima.» «Vuoi dire che sei una veggente?» Scuoto la testa per la seconda volta. «Non si tratta di leggere nel futuro. E comunque è un futuro molto ravvicinato, che confina con il presente, capisci?» Lorenzo mi guarda con gli occhi, il naso e la bocca di uno che non ha capito. Provo a spiegarmi meglio improvvisando un esempio. «Sei mai stato a teatro? Ecco, immagina di startene seduto in una bella poltrona di velluto rosso. Ci sei?» «Ci sono.» «Stai lì seduto e ti godi lo spettacolo sul palcoscenico, giusto?» «Giusto.» «Diciamo che io sono seduta lì, di fianco a te.» «Mmh mmh.» «Anch’io vedo lo spettacolo sul palcoscenico.» «Certo.» «Solo che io riesco a vedere anche un pochino quello che succede dietro le quinte. Non lo vedo bene come quello che succede sul palco. Lo intuisco. Intravedo che lì dietro ci sono gli attori e le scenografie del prossimo atto, quello che poi vedrai anche tu, quello che vedranno tutti. Hai capito?» Lorenzo scuote la testa. Ecco, appunto. «Mi spieghi come fai a vedere dietro le quinte, se sei seduta lì di fianco a me?» «Era solo un esempio, Lorenzo!» Lui aggrotta le sopracciglia, s’intestardisce. «E perché io che sono seduto di fianco a te non riesco a vedere dietro le quinte?» È proprio quello che vorrei sapere, Lorenzo: perché gli altri non vedono le cose che ai miei occhi sono così lampanti. Io, per e-
29 sempio, che papà se ne sarebbe andato l’avevo capito da prima. Da prima che me lo dicesse mamma, in ogni caso. Sapevo che sarebbe successo, quello che non sapevo era quando. Se solo avessi potuto prevederlo! Invece una mattina mi sono svegliata e lui non c’era più. Per un po’ di giorni mamma ha fatto finta di niente, messo delle scuse. Papà non tornava perché era in viaggio per lavoro, aveva dovuto trattenersi da qualche parte. Ma tornava, comunque, non dovevo avere dubbi in proposito. Se non mi aveva salutato prima di andare via, era proprio perché sapeva di tornare presto. Io la guardavo piangere in cucina, mentre tritava carote e non cipolle. Poi, un giorno, mi ha messo un braccio intorno alle spalle e mi ha spiegato che papà non sarebbe più tornato. Che era andato a vivere in un’altra città, con un’altra donna. Ma che io non dovevo preoccuparmi. Che lui mi voleva bene come prima. Anzi, un po’ di più. Io la ascoltavo spiegarmi quello che sapevo già. Dovevo avere una faccia un po’ strana, perché alla fine lei mi guardava con le sopracciglia aggrottate, stupita che l’avessi presa così bene. Così ho fatto finta di disperarmi, come se avessi appena scoperto quello che era successo. E soprattutto ho incominciato a piangere, per permettere di piangere anche a lei. È passato quasi un anno da allora. E anche oggi sento sulla punta delle dita quel formicolio strano che mi dice che qualcosa sta per succedere. Loro, i grandi, non si accorgono di niente, ma io è come se sentissi in sottofondo il ticchettio che annuncia una bomba. Non so ancora di che bomba si tratti, ma una cosa la so di certo: esploderà. Mi strofino il lobo dell’orecchio con ostinazione, mentre davanti a me Lorenzo continua a parlare a vanvera. È rimasto fermo sul binario della storia delle poltrone del teatro, mentre la mia mente deragliava altrove. Si sente messo in discussione perché non riesce a vedere dietro le quinte delle cose e quindi incomincia a fare il duro. Fa schizzare in aria lo skate saltandoci sopra con un piede, lo recupera al volo con il palmo della mano. Parla e parla,
30 mette insieme un sacco di cose che non c’entrano e conclude con un: «Guarda che tu non sei più furba di me e io ci vedo bene quanto te, cara.» Faccio di sì con la testa per tranquillizzarlo. «Certo, lo penso anch’io. Tu ci vedi bene quanto me…» Mi guarda, le braccia ciondolanti. «E allora perché non vedo anch’io dietro le quinte?» «Probabilmente» dico «perché non t’interessa. E non interessa nemmeno agli altri. Quando la gente è seduta su una bella poltrona di velluto rosso, si gode lo spettacolo e basta.» «Mi sembra giusto» conferma Lorenzo soddisfatto, mentre riposiziona a terra lo skate «si gode lo spettacolo.» «Già» sospiro «si gode lo spettacolo.» «Quindi non hai dei poteri paranormali?» Scuoto la testa per la terza volta. «No.» «Peccato.» Un piede dietro l’altro, Lorenzo sale sullo skate e slitta veloce verso l’ultimo vagone della casa. Lo guardo allontanarsi. Meglio non dirgli dei tulipani, chissà cosa capirebbe. Io, però, continuo le mie indagini segrete senza farne parola con nessuno. Prima la caffettiera. Poi il vaso di fiori. E adesso anche le chiavi. Se solo riuscissi a capire quale scena si prepara dietro le quinte…
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7 Mentre aspetto la prossima mossa dei teatranti
Mentre aspetto la prossima mossa dei teatranti dietro al sipario, mi alleno alla verticale contro il muro dietro alla casa. Tendo i muscoli di braccia e gambe. Voglio essere preparata, qualunque cosa succeda. Misuro bene lo spazio per l’appoggio delle dieci dita, alzo le braccia sopra la testa, prendo la spinta e hop, sono a testa in giù, gambe contro il muro. Voglio imparare a cambiare punto di vista, essere preparata ai mutamenti delle cose. Voglio imparare ad accettare il mondo anche quando è sottosopra, come in questo momento. Guardo di fronte a me. Dopo l’orto, vedo Mujo, il ragazzino della casa-treno sul binario di fronte. Mi fa segno di aspettare. Prende la spinta e si mette anche lui sulle mani, senza muro. Da lontano ci sorridiamo. Chissà se a rovescio siamo noi o il resto del mondo. Il sangue incomincia ad andarmi alla testa e non so se sia colpa della verticale o del sorriso di Mujo. Per riprendermi, abbasso gli occhi sulle mani aperte sul grigio del marciapiede, sui capelli che accarezzano il cemento. Quando rialzo lo sguardo, Mujo non c’è più. Ci sono due uomini che scendono da una macchina dei carabinieri, invece. Sono in divisa, hanno i pantaloni con la striscia rossa che si arrampica dal bacino alle caviglie. Li guardo a testa in giù. Parlottano con mamma, ma da qui non si sente cosa
32 dicono. Le consegnano una busta gialla cicciottella. Torno piedi contro terra. Faccio appena in tempo a vedere le ruote della macchina che fanno manovra sulla ghiaia del viale prima di scomparire sulla strada. Mi chiedo cosa ci sia dentro a quella busta e perché l’abbiano consegnata proprio a mamma. «Zoe?» Lorenzo mi chiama. Chiede se voglio giocare a campana, ha già disegnato le caselle con i gessetti sul marciapiede. Saltiamo dentro a quel mondo finché mamma e nonna mi raggiungono con le loro biciclette. Stasera andiamo in paese, dove gli abitanti trovano sempre qualche motivo per festeggiare qualcosa in modo da avere una scusa per giocare a briscola o a tombola, e mangiare salsiccia o tortelli di zucca. L’altra sera festeggiavano perché era il giorno di un santo. E poi è venuta la sagra dell’anatra. E quella del pane. Questa sera, mi pare che i festeggiati siano i volontari della Croce Rossa, ma non ne sono sicura. Quando arriviamo nella piazza, ci sono un sacco di furgoncini bianchi, in fila uno dietro l’altro, con sopra la scritta “AZNALUBMA”. A me ha sempre fatto ridere questa cosa della scritta al contrario. Con papà, a volte, giocavamo a rovesciare anche altre parole. AIRECCITSAP. ETNAFELE. EOZ. Funziona anche con le frasi. ENEB OILGOV IT. Papà diceva che ero molto brava in quel gioco. Che dopo un po’ mi diventava quasi naturale. Come la verticale contro il muro a testa in giù. Si vede, papà, che nel rovescio delle cose ho dovuto imparare a sentirmi a mio agio. Chiamo mamma col suo nome al contrario, per ridere, ma lei fa appena l’ombra di un sorriso guardando da un’altra parte. Questa sera mamma è molto strana. Nella piazzetta del paese le chiedo cosa volevano i carabinieri e cosa c’era dentro a quella busta gialla che le hanno appoggiato tra le dita, ma non mi sente per la confusione dell’orchestrina. Non importa, glielo chiederò domani. Al ritorno vado a trovare nonno alla casa galleggiante. La notte è umida. Lui sta incurvando le steccature di un nuovo aquilone alla luce di una lanterna aggredita dalle farfalle notturne. Lo guardo addomesticare il legno. Nell’aria che respiro
33 ci sono puntini luminosi come stelle, che brillano a intermittenza. Chiedo cosa sono. «Lucciole.» FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...