La casa rossa

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In uscita il 29/4/2016 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2016 (4,99 euro)

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PAOLO BRANDI

LA CASA ROSSA

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LA CASA ROSSA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-980-7 Copertina: immagine di Alessandra MKF

Prima edizione Aprile 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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CAPITOLO 1

Accovacciato sul ponte di un grosso sambuco, diretto alle isole Dahlak, osservo i quattro figli di mio cugino addossati al parapetto della barca. Il più grande ha dodici anni, la piccola cinque. Fin dalla partenza non mi hanno staccato gli occhi di dosso. Tiro fuori uno di quei sorrisi larghi che vogliono dire: “tranquilli ragazzi, va tutto bene”. Da quando, sette giorni fa, sono arrivato in questo lembo d’Africa, i bambini controllano ogni mio movimento. Deve fargli uno strano effetto il cugino venuto dall’Italia che mastica senza sosta foglie di Qat, al riparo di un paio di Ray-Ban neri. Il sapore acidulo della pianta miracolosa fa breccia nella gola: è meglio, molto meglio delle migliaia di sigarette che quotidianamente ho scaricato nei polmoni. Quelle mi hanno regalato una bronchite cronica, il Qat invece mi galvanizza il cervello e smorza le fitte della cervicale, una persecuzione da quando sono nato. In faccia l’alito caldo del Mar Rosso: è secco come la costa pietrosa, come il vento che gonfia le vele. Gli unici rumori sono il cigolio dell’albero maestro teso dalla brezza e lo sciabordare dell’acqua tagliata in due dalla prua. Questo viaggio me l’ha voluto regalare mio cugino Isaias, un ringraziamento per avergli trovato i finanziamenti destinati a costruire un’ala dell’ospedale di Massaua, dove lui fa il medico. Se sapesse da dove vengono quei soldi, probabilmente, mi sarei scordata la gita in barca. Non li avrebbe rifiutati, questo è certo, però l’avrei visto arricciare il naso come quando si è costretti a buttar giù una medicina amara. Di una cosa però sono sicuro: se avesse conosciuto tutta la storia, il mio nome non sarebbe mai stato inciso nella targa di bronzo che ricorda “a imperitura memoria” i benefattori dell’ospedale. Isaias è convinto che tutto quel ben di dio sia frutto di donazioni, raccolte grazie alle mie amicizie. Si sbaglia. Quei 421.750 euro hanno tutt’altra origine.


4 Niente di preoccupante, non traffico droga e non gestisco bordelli sulla Costa del Sol, però quel gruzzolo mi è arrivato nelle tasche attraverso un percorso accidentato, una vicenda che merita di essere raccontata. Il giorno che apposi la firma sul bonifico per trasferirli a Isaias era come se avessi scritto l’ultima parola di un romanzo. Mi ero proposto di non tornarci sopra. Quello che è fatto è fatto. Eppure il ricordo di quegli avvenimenti non mi abbandona, in molti si sarebbero comportati in maniera diversa dalla mia. Io ho scelto la strada della serenità d’animo. Spero solo che un giorno non abbia da pentirmene. Tutto è cominciato quando mi offrirono di prendere in affitto un vecchio casello idraulico a ridosso del canale di bonifica, nel bel mezzo della pianura che inizia oltre la periferia sud della città. Un luogo incantevole, rimasi stupito per tanta fortuna: sul davanti, il trifoglio degradava dolcemente verso una fila di salici e intorno si allargava una campagna di terra grassa. Potevo finalmente realizzare un sogno: addormentarmi accarezzato dal rumore dell’acqua. Il rio è vicino, tanto vicino da sentirlo gorgogliare perfino nella stagione calda, quando le sorgenti inaridiscono e la corrente diventa debole. La buona sorte mi ripagava di tutta la merda che, per colpa di Floriana, la mia ex moglie, avevo ingoiato nei mesi precedenti. Quella donna era diventata insopportabile, odiosa, perfino razzista quando mi ricordava che il mio sangue, per metà africano, si portava dietro la maledizione dei figli di Cam. «Sei inaffidabile, non offri certezze. Sul lavoro non combini niente e tutto quello che guadagni lo spendi con le puttane.» Se ne era andata riempiendo una montagna di valige ed io mi sono ritrovato con niente in mano e la testa ingombra di pensieri. Dopo la sua partenza, l’appartamento in centro somigliava sempre più a una galera, avvertivo la sgradevole sensazione di finire schiacciato tra le pareti, come succede a una carcassa d’auto nella pressa dello sfasciacarrozze. È questo il motivo per cui decisi di prendermi una pausa, incaricando l’immobiliare del geometra Topini di trovare una casa in campagna. Non stavo bene, la mia pancia debordava dalla cintura per il troppo bere e anche i polmoni reclamavano maggior rispetto, stanchi delle trenta sigarette al giorno che avevo ripreso a fumare.


5 Dopo la rottura con Floriana non avevo nessuna voglia di frequentare i soliti posti, vedere le stesse facce. Conoscevo un sacco di gente, ma avevo pochi amici e anche quelli che si definivano tali si limitavano a battermi una mano sulla spalla e poi, appena svoltavo l’angolo, mi prendevano per il culo. S’inventavano battute feroci sul fatto che mia moglie mi avesse lasciato per un cuoco, confabulavano sull’autorevolezza di certi mestoli e sul piacere che può dare un matterello di legno. Siano maledetti i cuochi, sono una specie di cui diffidare. Alcuni assomigliano a maghi incorporei, diafani come la merda che ti rifilano sul piatto spacciandola per un’opera d’arte. Altri, insieme alla carne rossa, rosolano allo spiedo le signore. A me è capitato tra i piedi un rappresentante del secondo tipo: barbetta rada, capelli a spazzola e sguardo da furbetto. Si chiamava, anzi si chiama Vincenzo Cozzolino, detto “o’Palummu”, cioè palombo, per la sua esperienza nel cucinare quel pesce in tutti i modi immaginabili. Non capisco perché da qualche tempo i cucinieri siano diventati gli idoli delle donne: li preferiscono agli istruttori palestrati e ai piloti d’aereo. È uno dei misteri gaudiosi di un’epoca in cui un giocatore di cricket guadagna più di un premio Nobel. Gli ultimi mesi con Floriana erano stati davvero duri, litigavamo per niente. Ce la metteva tutta per farmi sentire inutile. Non solo secondo lei guadagnavo poco e quel poco lo dissipavo in locali di dubbia fama, ma non sapevo nemmeno cucinare il “palombo a scapece”, cosa che, invece, il suo cuoco faceva a occhi chiusi. In questi casi sarebbe stata corretta una sola risposta: “vadano a farsi fottere il palombo, i pomodori, i pinoli e, insieme a loro, cuochi, camerieri e sguatteri. E già che ci siamo si uniscano alla compagnia i cultori della cucina regionale, del cibo lento e dell’agricoltura a chilometro zero”. Invece me ne stavo zitto. Io non so usare le padelle, ma so fare altre cose: indagare nella vita delle persone, spiare gli amplessi, frugare nella spazzatura a mani nude, trovare indizi e bere litri di caffè per restare sveglio. È troppo poco? La mia vita non sarà il massimo, ma non tutti sono capaci di seguire un uomo senza farsi notare, specialmente in una strada semideserta in una città dove il novanta per cento delle persone sono bianche e i neri come me rappresentano una rarità.


6 «Sei un incapace, un fallito», mi gridava la mia dolce metà e poi usciva zoccolando su tacchi che somigliavano a colli di giraffa; pensavo andasse da qualche amica a scaricare la rabbia e invece raggiungeva “o’Palummu” al ristorante. In quel periodo il mio sfogo divenne scrivere qualunque cosa mi passasse per la testa. Un pessimo surrogato alla masturbazione, poiché ti lascia sempre con l’idea di avere abbandonato qualche riflessione a metà. Appuntavo i pensieri più trucidi, sopra un foglio di carta patinata, dove l’inchiostro della stilografica non attaccava bene. Dopo un po’ il lucido della pagina si riempiva di segni incomprensibili sovrapposti gli uni agli altri. Alla fine della giornata il foglio diventava un intreccio così fitto che all’occhio di un profano appariva una macchia d’azzurro. Invece, lì dentro c’era un bel po’ dell’umore nero che trasudava dalla mia anima incazzata. Un giorno Floriana mi domandò cosa fosse quella pagina piena di ghirigori. «Sono idee che scrivo di corsa quando cerco l’ispirazione per risolvere qualche caso.» Non potevo certo risponderle che elencavo con dovizia di particolari i modi in cui mi sarebbe piaciuto torturarla: ferri roventi, tratti di corda, bollitura, scorticamento, impalamento. Mia moglie mi guardò con compatimento. «Ho capito», disse. Lo so quello che voleva dire con quella sentenza. Si premurava di comunicarmi, in maniera subliminale: “ho capito che non capisci un cazzo”. Tra noi due era lei ad aver perso la testa. Rincretinita da quel cuoco barbuto con le mani da macellaio. I miei pensieri, per quanto insani, erano molto più dignitosi dei tranci di pesce che il signor Palombo stendeva sopra il tavolaccio della cucina, facendoli a pezzi a colpi di mannaia. Quando le crepe nel tubo della nostra vita diventarono così grandi da farci passare una pantegana, lei prese il largo ed io passai almeno una settimana a insultarla a mezza voce. Aggiornando continuamente la mia lista di efferatezze, condite questa volta con immagini ricavate dai fumetti erotici giapponesi. Trascorsi sei giorni a imbrattare una risma di fogli, il settimo decisi di riposarmi e me ne andai a zonzo. Non fu una bella esperienza. Ero convinto che tutti, per colpa di mia moglie, mi guardassero beffardi,


7 nessuno escluso, compresa la prostituta che mi accolse in un appartamentino sopra il centro commerciale. Il suo sguardo acquoso non mi piacque per niente. «Cos’hai?» chiesi sgarbato. «Niente», mi rispose con accento spagnolo. «Mi guardavi strano.» «No, tutto a posto», replicò alzando leggermente il tono. Provai ad accarezzarla sorridendo ebete. «Stai calma ragazza, racconta a papà cosa t’è successo.» «Vaffanculo, è morta mia sorella la scorsa settimana, ecco perché sono triste.» Avevo scambiato la sua angoscia per ironia. Era arrivato il momento di cambiare aria. Dovevo rimanere per qualche tempo da solo per consentire a quella macchina delicata che risponde al nome di cervello di resettarsi. L’unico “compagno” che decisi di trascinarmi dietro era il fottuto computer pieno di file aperti su storie minimali, le uniche che ancora mi permettevano di mettere insieme il pranzo con la cena. Con l’agente immobiliare ero stato chiaro. «Voglio un posto in campagna, isolato, ma che mi permetta di arrivare in tempi brevi in città. Nel mio lavoro ogni minuto può fare la differenza tra vittoria e sconfitta.» Talvolta mi chiedo se le cose che faccio siano davvero così importanti da giustificare una tensione continua. Provo una certa nausea quando penso alla professione che ho scelto. Più passano gli anni e più mi sento un mercante di schiavi, con una differenza: io non vendo uomini, ma traffico sentimenti, metto a nudo paure, vizi e ipocrisie che lubrificano come olio minerale i meccanismi dell’esistenza. È un’attività da spurgatore di fosse biologiche che non ammette errori. Non posso rischiare di sversare il liquame sulla strada, per questo ci vuole una mente sgombra, ferma come la mano di un chirurgo. Quella casa tra i campi rappresentava un asilo ideale per stoppare le mie angosce. La solitudine in questi casi aiuta molto di più di una sniffata di coca. Impossibile però diventare un eremita, il mio lavoro oscilla tra pazienti attese seguite da azioni rapide. Per questo non mi è consentito allontanarmi troppo dalla città. Per vivere devo accettare il suo puzzo da cloaca che impesta il cielo fin quasi alla stratosfera.


8 Il titolare dell’agenzia immobiliare, il geometra Gianluca Topini, non mi deluse. Chi me l’aveva consigliato aveva avuto ragione. «È il migliore», mi rivelò un amico ingegnere e lui non venne meno alle attese. L’incarico non era facile. Nelle campagne imperversavano stormi di cavallette tedesche e olandesi, pronte a mettere le zampe su qualsiasi abitazione. Compravano di tutto: vecchie bicocche zeppe d’ortiche e ville perfettamente restaurate. Trovare una casa in affitto diventava un’impresa titanica. Gianluca però nel suo campo non possedeva rivali. Cinquantenne, brizzolato, forse un po’ eccentrico, ma fornito di una dote indispensabile per far bene il suo mestiere: un’innata propensione a farsi i cazzi degli altri. Conosce tutto quello che si può sapere su immobili, terreni, case e regolamenti urbanistici nel raggio di cento chilometri, un velocista puro. Mentre i suoi colleghi arrancano Topini ha già tagliato il traguardo da un pezzo, e li guarda arrivare sorseggiando una bibita ghiacciata. Quando squillò il cellulare e sul display vidi il suo nome, rimasi sorpreso, non mi aspettavo che chiamasse tanto presto. «Buongiorno signor Lavezzi, credo di avere tra le mani l’abitazione che fa per lei. Due bagni, due camere, uno studio e un terrazzo, oltre ovviamente al soggiorno e alla cucina. In più c’è anche la piscina, una dodici metri per otto che con questo caldo non fa scomodo.» «Quanto è lontana?» La faccenda della distanza mi ossessionava. «Dalla casa al raccordo ci saranno circa cinque chilometri di strada bianca, una volta arrivato alla bretella autostradale in mezz’ora può raggiungere tranquillamente l’ufficio. Se invece avesse bisogno della farmacia, o del panettiere, il paese di Monte Legnone è a un quarto d’ora.» «Come ha fatto a trovare un’occasione così ghiotta?» domandai mentre accendevo l’ennesima sigaretta della giornata. Dall’altra parte del cellulare percepii uno squittio da ragazzina in calore. «Se fosse un cliente qualsiasi le direi che si tratta di abilità, ma a lei non posso mentire, tanto prima o poi scoprirebbe la verità. È stato un vero colpo di fortuna, un mio amico era andato a fare una passeggiata ed ha visto il cartello affittasi appeso al cancello. Mi ha chiamato per avere qualche informazione. Strano a dirsi, ma non ne sapevo niente. Ho subito preso contatto con i proprietari, un’anziana coppia di Milano. Mi hanno spiegato che quell’avviso era esposto solo da un paio di giorni.


9 Comunque è un’ottima opportunità, si tratta di un edificio di fine Ottocento, ristrutturato di recente, i proprietari lo utilizzavano fino all’anno scorso come casa per le vacanze. La signora mi ha spiegato che il marito ha avuto un brutto incidente e non si muove quasi più. L’affitto è onesto, mi faccia sapere.» Il motivo per il quale Topini mi giudichi un tipo speciale è un mistero, forse perché quando la prima volta ci siamo visti gli ho parlato a lungo del mio lavoro, una professione che incanta quelli che credono che fare l’investigatore privato sia un’avventura ininterrotta. Si sbagliano. Io mi limito a sorvegliare, ascoltare conversazioni, fotografare, redigere rapporti e alla fine chiedere il conto. In vita mia non ho mai estratto la pistola dalla fondina. La porto sempre con me, è vero, funziona come la coperta di Linus; mi dà sicurezza, ma non credo che sarei capace di sparare a un uomo, però, non avendo mai provato, non ne sono sicuro. Potrebbe perfino piacermi. Qualcuno pensa a me come a un Toby Peters o un Continental Op di provincia, non è così. La mia vita non possiede nulla di spericolato. Tante persone che incontro mi sorridono complici, come dire “sappiamo tutto: avventure, whiskey, belle donne, vita notturna”. Mi viene da ridere, episodi memorabili non ne ho mai vissuti. In quanto al whiskey e alle donne c’è del vero, l’unica differenza è che la gente crede che i barman mi offrano una bottiglia a sera e le donne mi caschino tra le braccia. Leggende. Liquori e femmine li ho quasi sempre pagati, qualche volta anche più di quello che valevano. Intorno agli investigatori fioriscono tante storie. All’inizio ho incolpato il cinema e quei romanzi che celebrano gli eroi in bianco e nero dei noir, uomini cinici e senza paura. Poi sono arrivato a un’altra conclusione: ciò che faccio per campare è circonfuso da un’aureola, simile a quella dei santi i quali, una volta collocati sull’altare, acquisiscono in automatico il diritto/dovere di fare miracoli. Allo stesso modo la gente ritiene che io sia in grado di scoprire chissà quali segreti facendoli emergere dai nidi di ragno in cui la gente li ha nascosti, ripulendo, con un getto a pressione, i buchi della vita da tutte le schifezze. Invece sono solo un burocrate che rastrella notizie e le mette in fila fino a ricavarne una sequenza logica. Adesso però non era il momento di riaprire una discussione sul mio lavoro.


10 Il geometra dall’altro capo del filo aspettava una risposta, l’offerta sembrava buona. «Vengo a vedere il posto oggi, nel tardo pomeriggio può andare bene?» «D’accordo, ci vediamo alle sei», rispose Gianluca. L’edificio appariva in ottimo stato. Un tempo serviva come alloggio per il personale adibito alla sorveglianza dei canali, poi, una volta dismesso, era stato venduto all’asta. La camera al primo piano aveva un balconcino orientato verso est, una bella vista sulla pianura e in lontananza la corona dei monti. Proprio di fronte: il canale. «Non c’è pericolo di alluvioni?» chiesi impensierito. Il geometra scrutò in basso. «Dovrebbe venire il diluivo universale. A monte ci sono gli scolmatori, è impossibile che l’acqua possa tracimare, almeno in questo punto. L’unico problema è la nebbia in inverno. Qualche volta viene su così fitta che non si distingue niente.» Quella risposta non mi piacque. Odio la nebbia, forse perché una caligine densa sul porto di Genova fu il biglietto da visita dell’Italia il giorno che arrivai dall’Africa. Piangevo per il distacco e le mie lacrime di bambino si confusero con quelle migliaia di goccioline sospese a mezz’aria. Da allora detesto l’appiccicosa umidità della foschia, quando ci sono dentro la mia ragione si appanna come farebbero i vetri di una macchina. Per me le brume non hanno niente di romantico, evocano solo incidenti stradali e sirene d’ambulanza. Fermai lo sguardo oltre la fila di alberi piantati a guardia degli argini e a qualche centinaio di metri, sull’altra riva del canale, vidi una casa diroccata. Le finestre prive d’infissi osservavano il mondo con orbite scarnificate. Un ponticello di ferro imbullonato univa le due sponde, abbastanza largo da consentire il passaggio di una macchina. Quella scoperta mi mise di cattivo umore, chiunque poteva attraversare e arrivare sotto le mie finestre. «Non avevo notato quell’edificio», dissi indispettito. Il geometra si voltò nella direzione che gli indicavo. «Niente paura», affermò con un sorriso sforzato. «Da lì non verrà nessuno a darle fastidio, è abbandonata da un sacco di tempo, è una vecchia abitazione di contadini.» «Non è in vendita?» I ruderi da ristrutturare andavano a ruba, era strano che nessuno avesse messo gli occhi sulla catapecchia.


11 «No, appartiene a un grosso possidente della zona, il signor Adelmo Baiocchi, il proprietario dell’azienda agricola del Cerreto. Tutto quello che vede qua attorno è roba sua», spiegò l’agente immobiliare. «Un tipo che compra, non vende.» Lasciai cadere il discorso, l’importante era che in quella casa non ci stesse nessuno, non desideravo dei vicini, anche i più amabili alla lunga diventano dei grandi scassa palle. Terminai alla svelta le pratiche per l’affitto, così, dopo venti giorni, esattamente un sabato di metà settembre, mi trasferii nel vecchio Casello. La prima notte scivolò via tranquilla, circondato da un silenzio corposo, tanto denso da formare una gelatina impermeabile. Tutto il contrario di quello che accadeva in città. Dalle finestre del mio appartamento in centro entrava un brusio incessante e, se si esclude l’intervallo dall’una alle cinque del mattino, il frastuono della strada arrivava fin dentro il letto. Qui era tutto diverso: a parte il mormorio dell’acqua, non sentivo altro. Il secondo giorno, passata da poco mezzanotte, mi venne voglia di affacciarmi; in lontananza, sulle colline immerse nel buio, s’indovinavano le luci delle case sparse. Più in basso, lontani, i lampioni del raccordo si riflettevano in cielo. Per il resto, fin dove l’occhio poteva spaziare non si vedeva altro, soltanto ogni tanto i fari di qualche macchina fendevano l’aria. Le tenebre di solito mettono paura, non a me, io ho già sperimentato l’immersione totale nell’oscurità, è successo tanti anni fa, quando vivevo lontano da qui. Sono nato a Massaua sulla costa del Corno d’Africa, babbo italiano e madre eritrea. Per dieci anni la mia vita è trascorsa in quella città di case bianche affacciate sul mare. Ma non è lì che ho imparato a convivere col nero della notte. Massaua non è mai avvolta nell’oscurità, il candore dei suoi edifici riflette come uno specchio lo scintillio della luna e anche se non ci sono fanali sul litorale è come se migliaia di lucciole danzassero nell’aria. Capitava però che abbandonassi la città per accompagnare mio padre a caccia nell’entroterra: è stato in quelle occasioni che ho provato l’esperienza delle notti senza luce. Qui non sappiamo più cos’è la vera notte, perfino in cima a una montagna arriva il riflesso di miliardi di watt.


12 Nell’altopiano eritreo è diverso, il buio è completo, totale, lo puoi quasi toccare con la punta dei polpastrelli; però, nonostante quella temporanea cecità, non ti senti solo, ti fanno compagnia migliaia di stelle. Le stesse stelle ci sarebbero anche qui, purtroppo non riusciamo più a vederle, abolite dai bagliori stroboscopici che contornano la nostra esistenza. Da bambino restavo incantato a guardare il firmamento fin quando non arrivava la voce rauca del babbo: «Niccolò, vieni a dormire.» Niccolò. L’origine di questo nome si spiega con una particolare passione di mio padre. Lui di mestiere faceva il tecnico di laboratorio in una scuola professionale di Massaua, preparava provette, conduceva piccoli esperimenti e insegnava ai ragazzi come si realizza un circuito elettrico. Un lavoro che lo divertiva, ma non lo entusiasmava. I suoi grandi amori erano tre: mia madre, la caccia e la pittura. Col tempo si era convinto di essere un artista. Sinceramente non ritengo che valesse molto, ci metteva tanta volontà e una discreta tecnica, ma i pittori veri sono un’altra cosa. Ho conservato qualcuno dei suoi quadri, figure religiose sullo stile delle icone copte, santi a cavallo e madonne dal volto bizantino. Nella pittura sta la ragione del mio nome. Un omaggio a un certo Niccolò Brancaleone di Venezia, conosciuto in Etiopia come Merqoreyos Afrengi che, in un anno imprecisato tra il Quattrocento e il Cinquecento, venne a dipingere nell’impero del Negus. Perché un artista sia arrivato in quello che allora era un punto vuoto nelle carte geografiche, resta un enigma. Forse anche lui era rimasto incantato dal cielo dell’altopiano, oppure aveva una buona ragione per scappare. A me quel Niccolò ha creato qualche problema, i miei amici d’infanzia non riuscivano a pronunciarlo e lo storpiavano in mille modi, alla fine invece di Niccolò ero diventato per tutti Haimanot, il nome del padre di mia madre. Solo in Italia ho ricominciato a chiamarmi così. Adesso, affacciato al terrazzino del Casello idraulico, ritrovo un po’ del sapore dell’Africa. Il buio e il silenzio mi fanno stare bene. Il mio dormiveglia è dolce, assai diverso da quello che fino a ieri si frapponeva tra me e il riposo. In città non riuscivo a prendere sonno e galleggiavo nei pensieri, stavo per ore a rimuginare su mia moglie e sul cuoco. “Chissà cosa faranno? Lui cucinerà degli enormi piatti di palombo,


13 carico di spezie, e poi con la pancia piena faranno l’amore, miagolando come gatti”. Nonostante le morti raffinate che avevo augurato a Floriana non riuscivo a dimenticarla, potevo fare a meno del suo viso, ma non delle sue zampe voluminose che mi stringevano i fianchi. Il mondo è curioso, di lei riuscivo a focalizzare solo le cosce. Ero geloso, follemente geloso, del piacere che in quel momento davano a o’Palummu. Ripensando alla burrosa consistenza delle sue forme mi procuravo degli strappi dolorosi nell’anima. È complicato curare questo tipo di ferite, vanno medicate con dosi massicce di palestra, viaggi o puttane, secondo i gusti. In caso contrario l’infezione rischia di allargarsi, dall’animo il contagio passa alle viscere, ti comprime il cuore e quando arriva ai neuroni sei finito. Mentre dormi schizzi dal cuscino pensando di soffocare e ti ritrovi seduto sul letto, il sonno se ne va, inghiottito dal gorgo delle preoccupazioni che girano, girano su se stesse senza mai trovare il modo di placarsi. Qui al Casello mi sentivo rinfrancato, avevo perfino riscoperto l’aroma del caffè filtrato dalla vecchia moka. Un piacere cui avevo rinunciato da tempo, era più semplice un espresso mentre, seduto al tavolino del bar, sfogliavo il quotidiano sportivo. Adesso mi rendo conto che sbagliavo a giudicare la preparazione della caffettiera una perdita di tempo. Ero stupido, barattavo cinque presunti minuti di libertà, quanti ce ne vuole per guardare il giornale, con il piacere di godere in santa pace un buon caffè. Quello preparato al bar nella maggior parte dei casi aveva un sapore asprigno e lasciava in bocca un gusto acre che rimaneva sulla lingua per almeno mezz’ora. E poi davanti al bancone c’era sempre chi parlava troppo forte. Una signora dai capelli tinti di giallo e dalla voce sgraziata che concionava su qualunque argomento era il mio tormento mattutino. Le sue parole rimbalzavano tra le pareti come una pallina di gomma e immancabilmente un paio di quei ragionamenti finivano dentro la mia tazzina, rendendo il caffè ancora più sgradevole. Adesso, invece, apro le imposte della camera, guardo l’acqua nel canale e le spighe di mazzasorda piegarsi leggermente al fluire della corrente e non mi pesa aspettare che il bollitore faccia il suo mestiere.


14 In questi giorni di pace la finestra sul mondo è diventata lo schermo del computer. Sto tirando le fila di alcune indagini che mi hanno commissionato alcuni mesi fa. Il bello è che posso farlo tranquillamente da qui senza mettere il culo in macchina e filare in ufficio. Per gestire le pratiche quotidiane basta e avanza Adelina, la mia segretaria. Sta con me da quando ho aperto l’attività, me la caldeggiò un prozio al quale non potevo dire di no, anche perché mi aveva anticipato i soldi per l’affitto delle due stanze dove avevo sistemato l’agenzia. Ho scoperto diversi anni dopo il motivo dell’interesse di quel lontano parente per quella ragazza decisamente bruttina. Il vecchio porco da anni era l’amante della madre e non escludo che un’indagine genetica alla fine individuerebbe qualche affinità tra i miei cromosomi e quelli della segretaria. A onor del vero devo dire che Adelina mi fece subito un’ottima impressione, professionalmente non era male, batteva a macchina senza nemmeno guardare i tasti, stenografava e s’intendeva un po’ anche di fotografia. Ma al di là delle sue capacità mi colpirono molto di più il tailleur spiegazzato e i capelli cotonati che facevano da ghirlanda a due occhioni sporgenti. Aveva vent’anni e ne dimostrava almeno il doppio, quando apriva bocca poi era anche peggio, possedeva una voce roca, senza un minimo di grazia, un merlo indiano a paragone sembrava un flauto dolce. In parecchi tra i miei conoscenti se la sarebbero levata di torno alla svelta per prendere una ragazzotta dalle poppe esplosive e dai fianchi in carne. Io no. Una segretaria come Adelina rappresentava una benedizione del cielo, era brava e al contempo brutta da far paura. Quei globi oculari non avrebbero incantato nemmeno un domatore di scimmie. Tutto questo mi dava la fondata certezza che si sarebbe dedicata anima e corpo al lavoro. Ho avuto ragione. Non s’è mai sposata e in tutti questi anni ha svolto puntualmente i compiti che le ho affidato, peraltro dimostrando grande comprensione quando, nei momenti difficili, sono stato costretto a differirle lo stipendio di un paio di mesi. Possiede, in più, una singolare attitudine a cogliere le novità. Quando sono arrivati i computer a sostituire macchine per scrivere e archivi di carta è diventata bravissima a utilizzare quegli attrezzi. Ha seguito un milione di corsi di aggiornamento e tiene il passo di tutte le innovazioni. Lo posso dire con certezza: nell’utilizzo del PC è in grado di metter sotto parecchi smanettoni di vent’anni.


15 Nei momenti liberi s’è messa a studiare il tedesco, facendosi aiutare da una vecchia signora austriaca che abita nel suo stesso palazzo. Quando le ho domandato: «Perché proprio il tedesco?» mi ha risposto: «Perché l’inglese e lo spagnolo li avevo già studiati a scuola.» Mi scoccia ammetterlo, ma è lei il propellente che mi consente di tirare avanti l’attività, se avessi fatto affidamento soltanto sulle mie forze, avrei chiuso i battenti da un bel po’, facendo così un bel regalo alla concorrenza. Già, la concorrenza… In città convivevano, fino a qualche tempo fa, due agenzie investigative: la mia e quella del dottor Amedeo Serpa, un ex funzionario di polizia. Un ometto segaligno e calvo, col naso adunco e le mani lunghe, congedato in anticipo dal corpo dopo che un’indagine interna aveva messo sotto la lente d’ingrandimento alcune sue frequentazioni poco raccomandabili: piccoli spacciatori, prostitute e allibratori. Niente di grave. All’ispettore Serpa piaceva ogni tanto sporcarsi le dita di marmellata, lo facevano in parecchi, a cominciare dal suo capo che chiudeva tutti e due gli occhi sui traffici di rifiuti di una ditta chimica importante. Si sa come vanno queste cose, il capo ebbe una promozione e lui il fiato sul collo degli ispettori del ministero. Per questo aveva preferito prendere il largo piuttosto che affrontare l’inchiesta. «Tanto», come mi disse una volta, «qualcosa avrebbero tirato fuori dal cilindro. Non è facile trovare un cane che in vita sua non abbia mai avuto le pulci.» Con Amedeo non posso dire di essere amico, però lo rispetto, anche se nuota nelle chiaviche insieme ai ratti. Ho sempre avuto simpatia per gli animali schifati da tutti: topi, ofidi, ragni. In parecchi lo evitavano. Io, al contrario, se lo incontravo, ci bevevo un goccetto insieme. Immagino che riempirsi di alcool sia stata una delle poche soddisfazioni che gli erano rimaste: la prostatite lo massacrava e anche la vista andava giù. Strizzava gli occhi peggio di un toporagno sotto la luce del sole. Serpa è un nome strano. Un giorno Amedeo mi spiegò di avere origini lusitane e vantò una lontana parentela con un certo António de Serpa Pimentel, un politico portoghese dell’Ottocento. Secondo la sua ricostruzione, che reputo completamente inventata, un suo trisavolo fuggì, oltre cento anni fa, dalla natia Coimbra a Napoli e da lì in Calabria a causa delle idee liberal-massoniche che professava.


16 Tutte cazzate. Ammesso che abbia degli avi in Portogallo è più verosimile che siano scappati perché implicati in qualche attività losca. Questo spiegherebbe la propensione genetica di Amedeo per certe compagnie, brutte abitudini che ha conservato anche da investigatore. Qualcuno mi ha giurato che spaccia perfino un po’ di droga e si concede il lusso di fare da pappa a un paio di puttane. Nonostante la rivalità professionale, mi è capitato solo una volta di litigare di brutto con lui. Accadde nel corso di un’indagine su di un caso d’infedeltà coniugale. Una situazione singolare, dove sia la moglie sia il marito sospettavano un reciproco tradimento. Erano in ballo un mucchio di soldi e ognuno dei due desiderava tutelarsi con un bel dossier. Amedeo ed io iniziammo le indagini in parallelo, l’uno all’insaputa dell’altro. A me affidò l’incarico la donna, a lui il marito. Il signore in questione era un architetto piuttosto noto, fratello minore del deputato locale. Dalle nostre ricerche venne fuori un quadretto non troppo idilliaco, entrambi avevano qualche peccatuccio sulla coscienza. La mia cliente si faceva sbattere da un autista di scuolabus detto lo “stallone di Pescaia”. Pescaia è un quartiere della città, il termine stallone ovviamente non aveva alcun riferimento con il noto attore. Il marito invece si concedeva qualche svago in un club gay. In quel caso, la discussione con Amedeo prese una brutta piega, perché mi accusò di aver dato in pasto al quotidiano locale la notizia delle abitudini del suo cliente. Era falso. Non mi sarei mai permesso di fare una cosa del genere. L’estensore dell’articolo, un giornalista tra i più paraculi mai apparsi sulla terra, era arrivato a scoprire le inclinazioni dell’architetto per vie traverse e, a dirla tutta, a lui non interessavano un fico secco le sue preferenze sessuali, il cronista puntava al bersaglio grosso, cioè al fratello deputato che, proprio in quei giorni, era intervenuto in parlamento tuonando contro le norme sui diritti civili per le coppie omosessuali. Quella volta Amedeo fece uno sbaglio, mi chiamò “negro di merda”. In effetti, da mia madre ho ereditato un po’ di pelle scura ma non proprio nera, però sufficientemente olivastra per distinguermi a prima vista da un bianco caucasico. In compenso, mio padre mi ha lasciato cento ottantatré centimetri di altezza e ottantadue chili di buoni muscoli. È finita che ho sbattuto al muro quella specie di sorcio alzandolo per il cravattino. Amedeo non è proprio un cuor di leone, appena s’è sentito


17 sollevare ha subito cambiato atteggiamento. Da allora ha iniziato a pagare lui le bevute. Non posso dire di essergli affezionato, tuttavia, tra le merde che mi circondano, è stato l’unico a mostrami una solidarietà sincera quando mia moglie se n’è andata con lo chef. Forse perché era passato anche lui da una brutta separazione. Quando lasciò la polizia, la moglie, una donnetta cicciottella figlia di un viceprefetto, lo mollò su due piedi. La signora non resse l’onta di quelle dimissioni tornandosene al paese natale, un grosso borgo del Salento. Di lei si erano perse le tracce fino a quando arrivò la notizia che l’ex moglie del Serpa era morta in un incidente d’auto, spiaccicata contro un TIR sulla Salerno-Reggio Calabria. Vi giuro che non ho mai visto un uomo disperato quanto Amedeo in quei giorni. Dopo tutto quel tempo, e nonostante il calcio in culo, ancora l’amava, una conferma che i topi di fogna possiedono un cuore. Nella solitudine del Casello anch’io mi sento più buono, vedo le cose in modo diverso. Mia moglie, Amedeo, gli amici e i clienti, le rotture di palle si scontornano come le immagini di una vecchia fotografia che a poco a poco perde la grana. Sfumare i ricordi è una buona medicina per superare le difficoltà che fiaccano l’anima ed è quello che sto facendo, in barba ai medici che volevano riempirmi il gozzo di pasticche: quelle rosse per dormire, quelle rosa per sognare, quelle verdi per mangiare, quelle azzurre per scopare. Le ho buttate tutte nel cesso e al loro posto mi concedo ogni mattina un tuffo in piscina, bevo il caffè, sto sopra la tazza del WC un’ora e alla fine mi siedo su una poltrona di vimini riparato da un ombrellone. Non penso a niente fino a quando riaccendo il telefonino e inizio a trafficare col computer. In quel preciso istante riattraverso il confine e la realtà mi ripiomba in testa con tutta la sua pesantezza. Testa piegata e spalle curve, come se calzassi un cappello di ferro. Adelina chiama verso le dieci, roba di poco conto, qualche pettegolezzo e niente di più. È un periodo morto, tra settembre e ottobre c’è sempre un calo del lavoro, poi man mano che si avvicinano le feste natalizie si registra un’impennata, seguono due/tre settimane di fermo e quando la primavera spunta all’orizzonte ripartono gli incarichi. Mi occupo di un sacco di cose: investigazioni prematrimoniali, infedeltà coniugali, identificazione e rintraccio testimoni, informazioni personali,


18 slealtà di dipendenti, assenteismo, doppiezza dei soci, furto d’informazioni, relazioni su clienti e fornitori. “Troppa roba” potrebbe pensare qualcuno, ma qui non siamo in una grande città, dove ci si può permettere il lusso della specializzazione. Da noi bisogna saper fare di tutto per non morire di fame. L’ultimo caso, per esempio, riguardava un furto di metalli preziosi in un’azienda orafa della città. Il titolare si era accorto che, da circa un anno, sparivano circa 600 grammi di oro ogni quaranta, cinquanta giorni. Nonostante i controlli non era venuto a capo di niente, si era rivolto a me sperando che riuscissi a scoprire qualcosa. Ci riflettei sopra, i dati evidenti erano due: la scomparsa del metallo era cadenzata e l’oro sottratto aveva più o meno lo stesso peso. Un caso curioso. Se io avessi avuto la possibilità di portarmi via partite maggiori non mi sarei limitato a sei miseri etti, esisteva dunque un motivo per cui il ladro fosse così parsimonioso. Mi feci consegnare i registri d’ingresso. Esclusi da subito i dipendenti, se il malandrino si trovava tra loro, non avrebbe avuto senso la ciclicità nei furti, più facile che il furbacchione se ne stesse mimetizzato tra quelli che per vari motivi frequentavano la fabbrica. Il mio interesse si appuntò su due di loro che circa ogni due mesi si presentavano al cancello dell’azienda. Un informatico addetto all’aggiornamento dei computer e un tecnico che controllava i filtri del camino destinati ad abbattere le emissioni dei fumi. Come tutti, all’uscita erano sottoposti al controllo con il metal detector, ma in nessuna occasione avevano destato sospetti. Uno dei due, lo sentivo, era il ladro. Il problema stava nel capire come quel furfante riuscisse a far uscire il metallo senza essere scoperto. Provai a seguire i sospetti fuori dalla ditta, niente da fare. Conducevano una vita regolare. Niente vizi o strane frequentazioni, nemmeno una spesa fuori del normale. Niente di niente che potesse far dubitare della loro onestà. Mi riguardai cento volte il filmato delle telecamere d’ingresso, si vedeva l’informatico con il portatile a tracolla e l’altro con la cassetta degli attrezzi. Parlai con l’addetto alla sicurezza. «Buongiorno Candela», si chiamava proprio così Vincenzo Candela. «Buongiorno signor Lavezzi.» Non aveva la faccia sveglia, anzi tradiva una certa lentezza. Come fosse arrivato lì me lo spiegò il proprietario dell’azienda quando confessò che si trattava del marito di una sua cugina che, avendo lavorato per diversi


19 anni come guardia penitenziaria, si era guadagnato senza troppa fatica i galloni di responsabile della sorveglianza. «Chiunque esce è sottoposto alle ispezioni col metal vero?» chiesi immaginando già la risposta. «Certamente, non sfugge nessuno», replicò mettendosi sull’attenti. «Anche gli esterni addetti alle manutenzioni?» Mi dette un’occhiata poco amichevole, sospettava che mettessi in dubbio la sua competenza. «Più di tutti.» «Anche ventiquattrore, porta attrezzi, cestini della merenda?» replicai. «Mi prende per il culo?» Si stava scaldando, a nessuno era consentito demolire la sua professionalità, conquistata nei più rinomati penitenziari italiani. «Faccio questo mestiere da anni, quando ero all’Asinara, mi chiamavano la lince perché controllavo tutto, perfino la mollica del pane. Certo che ispeziono anche le valigette…» e qui ebbe una pausa, come se all’improvviso un’immagine sbiadita gli fosse tornata di colpo alla mente. «Cazzo», esclamò battendosi la mano sulla fronte. «Non proprio tutte», abbassò la voce, «non passo più al metal detector il computer del tecnico informatico, il signor Chiesa.» «E perché?» «Perché la prima volta che ci provai lo strumento prese a suonare. Chiesa mi spiegò che alcune parti dei circuiti sono fatte di metalli pregiati, per questo l’attrezzo rilevava qualcosa di anomalo. Aprì il portatile e, in effetti, dentro non c’era niente, a parte i circuiti e un mucchio di fili. Aggiunse che il metal detector poteva danneggiare i programmi installati, un po’ come troppe radiografie fanno male alle persone, per cui in futuro era bene evitare di esporre il pc a quello stress. C’era il rischio di fare un bel po’ di guai che alla fine qualcuno avrebbe dovuto ripagare.» Che imbecille! Adesso iniziavo a capire. Fu sufficiente un semplice controllo per scoprire il gioco che l’informatico aveva messo in piedi. Con la complicità di un caporeparto nascondeva nel computer le lamine d’oro e poi se ne usciva tranquillo dalla porta principale e quel cretino di Candela lo faceva passare con tanto di scappellatura finale. Caso risolto. Oggi, dopo aver fatto la solita nuotata in piscina, ho rimesso in fila le tessere di un’altra storia, molto più brutta di quella che ha visto come protagonisti l’informatico e il caporeparto.


20 Tutto iniziò quando una signora venne in ufficio dicendomi che il suo bambino di tre anni non riusciva a dormire. «Forse ha sbagliato indirizzo», le risposi. «Il pediatra è al piano di sotto.» Non intendevo prenderla in giro, volevo solo essere gentile. Quella invece prese cappello. «Se sono qui, è perché avevo bisogno di un poliziotto privato non di un dottore.» Rimasi sorpreso, non riuscivo proprio a comprendere il nesso tra l’insonnia del bimbo e la necessità di un’indagine. La donna riprese: «Da qualche mese sono stata assunta come commessa in un negozio, mio marito invece è autista per conto di una ditta di spedizioni. Stiamo fuori tutto il giorno, un bel problema visto che abbiamo un bambino piccolo. Le alternative non erano molte, o rinunciavo al lavoro oppure trovavo una babysitter, rimettendoci metà dello stipendio. Per fortuna la nonna paterna si è offerta di guardare il bambino. Nei giorni di libertà invece sono io che accudisco mio figlio e ho notato un atteggiamento strano. Quando sta con me il bambino non dorme neppure un minuto, tutto il contrario di quello che accade con la nonna, almeno da quello che dice lei.» «Sarà agitato perché ha la madre vicino, non vedendola spesso può darsi che sia eccitato, e non so dargli torto», azzardai guardando la donna che, rivestita di un abitino leggero, lasciava trasparire un corpo invitante. «Non dica stupidaggini.» Malgrado il rimprovero la signora sembrò apprezzare il complimento, lo capii da come si aggiustò il bottone della scollatura, mostrando per un secondo il reggiseno nero. La donna continuò: «L’altro giorno Marcolino non prendeva sonno, l’ho portato con me in salotto, il bambino ha notato sopra una mensola la scatola gialla di un potente sonnifero e ha cercato di prenderla, allungava le manine chiamando per nome la nonna.» «Continuo a non capire», replicai mentre tentavo disperatamente di sbirciare dentro il decolté. «Sono convinta», affermò la donna, «che la madre di mio marito utilizzi quel farmaco per far addormentare il piccolo.» Rimasi confuso. «Mi pare davvero grossa.» La suocera doveva starle parecchio sulle palle per tirar fuori un’accusa di quel tipo. «Lei non conosce quella vecchia, è capace di questo e altro. Il pomeriggio trasmettono la sua serie tv preferita. Quella stronza sarebbe


21 capace di ammazzare qualcuno pur di non essere interrotta», dichiarò con freddezza. «Se è così vedrò di scoprirlo», risposi esitante. «È giusto levarsi ogni dubbio.» Nonostante l’apparente stranezza del caso era pur sempre lavoro e per di più avrei avuto la possibilità di rivedere la bella signora. Il problema era che non sapevo proprio da che parte iniziare, non potevo certo interrogare il frugoletto per farmi dire la verità, né riempire la nonna di cazzotti per costringerla a confessare che dopava il nipotino. Mi venne in aiuto Adelina, la mia meravigliosa segretaria. Mi consigliò di inserire in un oggetto del bambino un micro registratore audio e video in modo da poter verificare la situazione. La mamma ci procurò un orsetto di pezza nel quale sistemai la microcamera. Adelina mi ha spedito due giorni fa il file con il filmato. La madre aveva ragione, la nonnina ogni pomeriggio faceva ingollare al bambino una pillolina e quello, tempo due secondi, andava giù disteso, narcotizzato come un figlio dei fiori dopo un trip di acido. Domani convocherò i genitori e gli farò vedere la sequenza, m’immagino che almeno il padre non sarà contento. Voleranno schiaffoni e parole grosse, ma la cosa non mi riguarda, l’importante è che onorino la parcella, se poi la signora mi volesse lasciare anche il suo numero di cellulare, ne sarei ben felice, ma al di là di qualche sorrisetto non credo che riuscirei a strapparle altro. Questo è il mio lavoro, qualche volta le mie indagini procurano dolore, distruggono la fiducia e sfasciano famiglie. Non ci posso far niente, io non procuro il male, mi limito a farlo emergere. La sua schiuma schifosa non mi tocca, la soffio via e tiro avanti.


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CAPITOLO 2

Adesso finisco la relazione sull’allegra famigliola, poi vado a prepararmi la cena. Insalata proteica con fagioli e cipollotto, da qualche tempo non provo più gusto a mangiare carne. Credo sia colpa dell’età, col tempo si perdono alcuni appetiti, a me è andato via quello per la bistecca. A differenza di altri mi è rimasto il piacere delle donne, forse perché da giovane ne ho avute poche. Durante la mia adolescenza, primi anni Settanta, era insolito trovare in giro una persona di colore. La gente mi guardava come una bestia rara, additandomi da lontano. Qualcuno pensava che fossi arrivato con la carovana del circo equestre, a cavallo di un leone. Venivo classificato nella categoria dell’esotico, un po’ come succedeva alle giraffe o ai rinoceronti dello zoo. Non direi che si trattasse di discriminazione, in quell’atteggiamento non c’era la cattiveria che adesso alligna per le strade. La gente mi scrutava per curiosità, gli ultimi neri che qualcuno aveva visto erano quelli al seguito degli inglesi, durante la guerra. Oggi le cose sono cambiate. Adesso, che perfino nei viottoli puoi incontrare un africano, un cingalese, un albanese, è germogliata l’erba maligna del razzismo. Un’intolleranza cattiva, dura, senza un briciolo di misericordia che nemmeno la Chiesa, con tutti i suoi richiami alla fratellanza, riesce ad arginare. Nessuno, nemmeno quelli che vanno a messa tutti i giorni, si sente fratello dei neri che pisciano sulle panchine dei giardini, degli zingari che rubano nelle case o dei cinesi che s’infilano in ogni pertugio e riescono, non si sa come, a tirarci su un guadagno. Benché ormai abiti in questa città da quasi quarant’anni questo nuovo/vecchio razzismo me lo sento scivolare addosso, appiccicoso quanto un chewing gum masticato a lungo. L’unica cosa che mi salva, rispetto ai tanti disgraziati che incontro sotto i portici della stazione, è la carta di credito, quella non la rifiuta nessuno. È il passaporto transnazionale per la civiltà dei consumi. Un talismano che mi permette di comprare quello che voglio al supermarket, farmi un


23 giro all’acqua-park e rifornirmi di contanti al bancomat per poi spenderli allegramente con qualche puttana. Cibo, divertimento e sesso. Il denaro è il passe-partout che apre ogni porta; anche se tu avessi le antenne in cima alla testa e una strana sfumatura verde sull’epidermide nessuno ti farebbe mai obiezioni. I commessi ti direbbero grazie e qualcuno affermerebbe con sicurezza che sei un tipo “originale ma simpatico”. Basta guardarsi in giro per trovare conferma di questa tesi che qualche anima bella si ostina a definire cinica: agli sceicchi pieni di soldi si spalancano le porte del paradiso, agli africani che scappano sui barconi c’è chi vorrebbe sparare. Non è un problema di pelle, ma di contante. In molti casi quelli che organizzano rivolte contro i neri sono gli stessi che si mettono a novanta gradi davanti ai ricchi: bianchi, gialli o turchini non importa, purché paghino. Da uomo di colore ho più rispetto per un membro del Ku Klux Klan che non per questa schiera di prostitute del business. Da piccolo non avevo la consapevolezza di essere diverso. A Massaua, dove sono nato, non ci sono solo eritrei, si possono incontrare arabi, malgasci, mercanti libanesi ed europei. Una Babele di voci e lingue che trovavano dimora sulle banchine del porto e tra i banchi del mercato. Quella confusione di suoni e aromi mi entusiasmava e nessuno, proprio nessuno faceva caso al fatto che fossi leggermente scuro o che il mio compagno di banco avesse le lentiggini. In Italia mi mancavano quei colori, mi mancava il canto del muezzin e perfino, anche se un po’ mi vergogno a dirlo, sentivo nostalgia per la puzza delle canalette di scolo che andavano a scaricare vicino al molo. Per fortuna alcune cose somigliavano all’Africa. In piazza, per esempio, le persone vociavano forte e qualcuno agitava le mani come certi bottegai indiani nell’angiporto di Massaua. Insomma, l’Italia per certi aspetti non era poi tanto diversa dall’Eritrea. Fu un episodio che mi dette coscienza che qui le cose stavano in un altro modo. Un fatto che ancora non riesco a dimenticare. Mio padre, appena messo piede nella nuova casa, un appartamento incastrato in mezzo a dieci altri, aveva insistito perché m’iscrivessi ai boy scout. «È un modo per fare amicizia», mi disse contento mentre mi portava alla sede dell’associazione.


24 Mi presentarono a un signore che di nome faceva Tommaso, ma che tutti gli altri bambini chiamavano Akela. Dopo di lui mi fecero conoscere un pretino secco come un chiodo, don Santino Liguori, ma che mi fece una carezza presentandosi come Baloo l’orso. Io lo guardai poco convinto. «Tu non sei un orso, gli orsi sono grandi e grossi», gli dissi. Tutti risero, solo più tardi compresi che in quel mondo ogni cosa cambiava fisionomia, era come vivere in una favola. C’era Akela il lupo, Baloo l’orso saggio, Ka il serpente e un sacco di altri personaggi che adesso non ricordo più. Una commedia innocente che mi è servita a capire che le persone possono, nel bene o nel male, avere tante facce e alla fine diventa difficile capire quale sia quella vera. In mezzo a quella compagnia non ci stavo male, anzi quando misi la divisa da lupetto mi sentii a mio agio, ho sempre avuto un debole per le uniformi. Quell’incanto si ruppe un mattino di giugno, le scuole erano finite da qualche giorno e la nostra sezione scout aveva organizzato un raduno con altre città. Il capo decise di formare delle pattuglie miste e per farlo tirò a sorte i nomi a due a due. Man mano che si veniva chiamati si doveva andare incontro al nostro nuovo compagno stringendogli la mano con il saluto scout. La stretta di mano scout è particolare, si esegue incrociando i mignoli tra di loro, una specie di codice. A me toccò un ragazzino con i capelli pel di carota. Quando mi venne incontro aveva lo sguardo impaurito, nemmeno si trovasse davanti al diavolo in persona. Io allungai la mano, appena le nostre dita si sfiorarono fu come se a quel tipo fosse arrivata una scossa elettrica, tirò indietro il braccio e scappò via. Io rimasi lì, in mezzo alla stanza come uno stupido. Dal gruppo dei ragazzini venne fuori un brusio confuso. Akela rimase interdetto poi con decisione ripescò dal gruppo il bambino con i capelli rossi e quasi lo trascinò davanti a me. Alla fine mi dette la mano, ma non la strinse, le sue dita erano mollicce e gli veniva da piangere. Fu allora che compresi che forse non ero proprio uguale agli altri, il rossino aveva avuto paura di me. Col tempo ci ho fatto il callo, prima alle medie, poi all’Istituto per periti elettronici “G. Marconi”. Mi hanno preso in giro fin dal primo giorno, alla fine si sono stancati, anche perché a scuola non me la cavavo male. Alle medie passavo a tutta la classe i compiti di matematica e alle superiori ero il migliore in laboratorio, destreggiandomi come un ballerino tra circuiti e transistor.


25 Finii la scuola superiore con un bel 58/60 e dopo nemmeno un anno la patria mi chiamò a fare il soldato. Al CAR i miei commilitoni mi guardavano strani, non avrebbero mai immaginato di dover dormire, fare la doccia e marciare in piazza d’armi insieme a un mulatto. Nella caserma, dove per dodici mesi la vita normale subisce una sospensione, e anche il cielo sopra la piazza d’armi è chiuso da una sfera invisibile, gli scherzi non mancavano. Il peggiore di tutti fu quando un caporale istruttore mi costrinse a mettere al posto dell’elmetto un casco di banane. Per fortuna il tenente con quattro urli interruppe l’esibizione e la cosa terminò lì. Dopo un mese di addestramento fui assegnato al genio trasmissioni nella caserma di Sacile, in Friuli. La parola genio non sta a significare che in quel battaglione finivano gli ingegni migliori delle forze armate. Molto più semplicemente il mio curriculum scolastico, culminato con il diploma di perito elettronico, aveva convinto l’esercito a utilizzarmi come radiotelegrafista. Sacile è una bella cittadina, qualcuno in vena di poesia l’ha soprannominata “giardino della Serenissima”. In effetti, per certi aspetti, potrebbe ricordare in piccolo, molto in piccolo, Venezia, con quel centro storico a cavallo di due isole. L’unico problema era che alla caserma “Scipio Slataper” regnava un nonnismo esasperato. I “vecchi” angariavano noi “spine” in tutti i modi possibili: rifare la branda, lucidare gli scarponi, flessioni, sacco nel letto, burle del cazzo. Io venni preso particolarmente di mira; tra i “nonni” fecero a gara per avere “il servo negro”. La spuntò un tipo grande e grosso di Lambrate che si chiamava Pino Talarico, grande tifoso del Milan ed emerito figlio di troia. Il suo svago preferito consisteva nello svegliarmi alle tre di notte per farmi fare il jukebox. «Ha la voce nera come Fausto Leali», diceva sghignazzando ai compari. Mi chiudeva in un armadietto di ferro, infilava cento lire da una fessura e ordinava perentorio: «Canta!» Io intonavo la sua canzone preferita, “Gianna”. Una canzone che a quello stronzo piaceva in modo particolare perché Rino Gaetano era di Crotone e lui, per quanto sbandierasse un accento lombardo, non dimenticava le sue origini calabresi. Una notte, mentre per l’ennesima volta gorgheggiavo dentro la scatola di metallo, entrò all’improvviso in camerata l’ufficiale di picchetto, un romano di poche parole cui quel Talarico rimaneva parecchio sui


26 coglioni. Morale della favola: a Pino dettero sette giorni di CPR e io fui trasferito tra cuochi e lavapiatti. Le cucine alla “Scipio Slataper” rappresentavano un mondo a parte, dove conviveva una strana fauna: estremisti di sinistra, terroni in tutte le salse, siciliani, calabresi, pugliesi e un paio di svitati a cui la naia aveva accentuato certe patologie mentali che andavano dall’autolesionismo fino all’onanismo compulsivo. Insomma, si trattava di una specie di ghetto, dove mettere i soggetti giudicati scomodi. Mancava il negro, adesso era arrivato. Dormivamo in un locale attiguo alla mensa sotto la supervisione di un maresciallo, ladro quanto un gatto. Una volta a settimana caricava in macchina forme di cacio, prosciutti, pacchi di pasta, olio. I casi erano due: o aveva una famiglia numerosa oppure era socio di un ingrosso alimentare, o tutte e due le cose insieme. In cambio della nostra omertà non ci rompeva più di tanto le palle, così passavamo le giornate tra la cucina e lo spaccio. L’unica cosa che ho imparato bene sotto le armi è stata sbucciare le patate e bere ettolitri di China Martini. Sono propenso a credere che il mio mal di fegato abbia avuto origine allora, quel liquore ha sicuramente effetti digestivi, ma, se ne abusi, ti massacra il duodeno. Dopo aver servito lo Stato per dodici mesi tornai a casa ingrassato di dodici chili e la testa vuota, stetti qualche settimana a zonzo per recuperare il senso delle cose e poi iniziai a cercare un lavoro. Non mi andava di fare l’operaio in qualche ditta, oppure l’elettricista. Il fascino della divisa continuava ad avere il suo peso, così decisi di fare il concorso per ispettore di polizia, per di più avrei continuato una tradizione di famiglia. Mio nonno materno era stato uno sciumbasci degli Zaptié, cioè un maresciallo dei carabinieri indigeni reclutati dagli italiani in Eritrea. Conservo ancora la sua foto: orgoglioso sull’attenti, fez rosso e scudiscio in mano. Doveva essere un bel tipo, anzi lo era di sicuro. Anche se nei rapporti ufficiali non appare fu lui a risolvere il caso dell’assassinio di un certo Carmelo Cappelloni, il proprietario di una fornace di mattoni a Massaua. Una notte l’italiano era andato in fabbrica per controllare l’andamento del fuoco. Mentre stava chino sulla bocca del forno venne aggredito da due uomini che tentarono di gettarlo tra le fiamme. Il poveretto si difese con la forza della disperazione, i malviventi non ce la fecero a bruciarlo e lo uccisero a bastonate. Le indagini condotte formalmente dal capitano Zappalorto, ma in pratica portate avanti da mio nonno, permisero di identificare e arrestare gli


27 autori del delitto nello spazio di pochi giorni. Si trattava di due ex operai che avevano agito per vendetta. Nel febbraio dello stesso anno, gli omicidi vennero condannati dalla Corte di Assise di Asmara alla pena capitale. Il merito di quella brillante operazione andò all’ufficiale. Per la mentalità di allora era inconcepibile che un eritreo potesse avere più acume di un italiano, per giunta capitano dei carabinieri. Mio nonno non protestò, sapeva stare al suo posto, però dopo quello sgarbo allentò l’impegno. Fino ad allora tutta la sua vita era stata dedicata all’Arma, da quel momento pensò un pochino di più a se stesso e prese moglie. La donna che scelse era di etnia Afra, una razza conosciuta in tutto il corno d’Africa per il corpo slanciato e i lineamenti fini. Mia nonna proveniva da una famiglia di allevatori piuttosto ricca, per quanto si può essere ricchi possedendo un centinaio di vacche. Era venuta a Massaua per accompagnare il padre a una fiera e lì conobbe il futuro marito, si sposarono quasi subito e fino a quando mio nonno non fu costretto a partire per la guerra fu un matrimonio felice. Il fiero sciumbasci aveva finalmente trovato un’altra ragione di vita oltre all’Arma dei Carabinieri, adesso la sera non tornava più in caserma. In una casetta, alle porte di Massaua, lo aspettavano una moglie e quattro bambini. Immagino che nei momenti liberi se ne stesse seduto fuori dalla porta fumando la pipa, godendo di quel sottile equilibrio che tiene uniti i doveri e i piaceri dell’esistenza. Purtroppo, il cavalier Benito Mussolini aveva deciso che in Africa gli italiani dovessero regolare i conti con gli inglesi. Così nel giugno del 1940 Haimanot caricò sulle spalle zaino e moschetto e partì. La moglie e i figli non l’avrebbero più rivisto. Nei primi giorni di aprile del 1941 un reduce della battaglia di Cheren si presentò a casa della nonna. Aveva con sé la collana d’argento che il padre di mia madre portava sempre al collo come talismano. «Haimanot è rimasto gravemente ferito durante la battaglia, prima di morire mi ha pregato di riportarti questa», disse l’uomo consegnando nelle mani della donna quella specie di amuleto. Fu l’unica eredità che lo sciumbasci lasciò alla famiglia, lui rimase lassù al passo di Dongolaas in compagnia dei 12.000 morti di quella battaglia. Quando da piccolo mia madre mi raccontava questa storia a me venivano le lacrime agli occhi. Immaginavo mio nonno in cima a una


28 montagna che con una mitragliatrice spazzava via nugoli di nemici dalla pelle rosa pallido, colorino malaticcio che solo gli inglesi possiedono. Quando ho letto i resoconti di quella battaglia ho appreso un’altra verità: mio nonno su quel valico di montagna non si era scontrato con gli inglesi, ma con i ragazzi della quarta divisione di fanteria indiana, spediti lassù a combattere al posto dei bianchi. Eritrei e Indiani si erano scannati per conto di altri, per una causa che nessuno dei due, ne sono convinto, conosceva. Credo che nella mia decisione di entrare in polizia ci fosse anche l’idea che così facendo avrei onorato la memoria del nonno. Le cose però non andarono come avevo sperato. Al concorso fui bocciato tre volte di fila. Sono convinto, anzi certissimo, che in quei rifiuti il colore della mia pelle abbia avuto una parte decisiva. Infatti, la cosa strana è che superavo sempre a pieni voti gli scritti e poi mi fottevano immancabilmente agli orali. In poche parole fino a che gli elaborati erano anonimi andava tutto bene, poi quando la commissione d’esame vedeva la mia faccia la musica cambiava. Le bocciature non hanno però attenuato la mia passione per le indagini e dopo un po’ di apprendistato ho aperto la mia agenzia d’investigazione privata. Non me la cavo male. Nel mio piccolo mondo mi sono fatto un nome, tanto per chiarire le cose ho chiamato la mia agenzia “Blackface”. In parecchi pensano che l’abbia chiamata così per via della tinta del mio viso. Convinzione errata. L’ho chiamata così prendendo spunto da quello stile di make-up teatrale che consiste nel truccarsi per assumere le sembianze di una persona di pelle nera. Mi rendo conto che questo è un ragionamento un po’ troppo sofisticato per la gente. Non è facile far capire a certe zucche vuote che l’investigatore privato ha tra le sue caratteristiche quella di camuffarsi, assumere le sembianze di altri, in altre parole truccarsi per raggiungere l’obiettivo. Ho tentato di dare delle spiegazioni a chi mi chiedeva la ragione di quel nome, ma i miei interlocutori dopo poco iniziavano a sbadigliare, così ho preferito lasciar credere che avessi scelto quel nome perché venivo dall’Africa. Negli anni di lavoro ho conosciuto un sacco di gente, ma nessuno di loro potrei definirlo un amico. Infatti, anche adesso, mentre il sole tramonta dietro le colline, sono solo. Nessuno telefona per sentire come sto, nessuno passa per un saluto.


29 Il salvagente è la bottiglia di whiskey. Dopo un paio di bicchieri imbocco una discesa e in fondo mi aspetta il sonno che, alla stregua di un buon samaritano, mi accoglie a braccia aperte; ma quel riposo etilico non è mai tranquillo. Qualche volta succede che il torpore non arrivi per niente, la testa diventa piombo, ma gli occhi rimangono sbarrati, per fortuna le mani sono sufficientemente salde per stringere il volante. In quei casi parto in quarta verso le luci della città sgommando sulla ghiaia della strada e, mentre premo l’acceleratore, cerco il numero nella rubrica del telefonino. Mi risponde sempre la stessa voce femminile: «Come stai Niccolò?» «Bene, sto arrivando, c’è Francesca?» «È con un cliente, ma tra un po’ è libera.» «Ok, vedrò di sbrigarmi.» In meno di un’ora approdo al più bel bordello del circondario, nelle cronache i giornalisti le chiamano “case d’appuntamento” per evidenziare la loro precarietà, per me invece sono un porto sicuro. L’importante è che ci sia Francesca, una bellissima brasiliana dalla pelle ambrata e gli occhi verdi. L’unica che in una notte d’insonnia riesce a farmi addormentare. Stasera non ho voglia di andare in città, l’alcool sta facendo il suo dovere, guardo l’orologio, sono le dieci e trenta. «È ora di andare a dormire caro Niccolò», mi dico sottovoce. Tiro sopra gli occhi il lenzuolo. Nessuna ombra deve venire a disturbarmi durante il riposo, se non la vedo non esiste. Vista e realtà sono tutt’uno, ciò che non si può vedere non ha consistenza. Tratto allo stesso modo ricordi e fantasie, sono uguali, impalpabili tele di ragno. Qualche volta, prima di mettermi a letto, apro il finestrone sul piccolo terrazzo, capita che abbia bisogno di un supplemento d’aria, il liquore in corpo scalda quanto una fonte termale. Immancabilmente, ogni volta che mi affaccio, in lontananza risuona un debole latrato, per il resto tutto è tranquillo. Pace, tregua, silenzio: condizioni necessarie per dormire senza scosse. Necessarie, ma non sufficienti. Per quanti sforzi faccia in quelle ore di semi ubriachezza mi riesce difficile staccarmi da Floriana, con la testa appoggiata al cuscino rivivo ogni notte un capitolo della nostra storia. E pensare che ho sempre vissuto tentando di evitare le trappole degli affetti. In che modo?


30 Semplice, spengendo gli ardori del cuore sotto tonnellate di scarti: amori mercenari e donne agghindate a festa. Soltanto ora che non c’è più comprendo che con la mia ex moglie avevo raggiunto un punto di equilibrio tra ciò cui aspiravo e quello che avevo ottenuto e questo, a guardar bene, è una delle tante sfumature dell’amore. I sentimenti sono quanto di più bastardo un uomo possa possedere, sono una zavorra che ti costringe a girare intorno all’oggetto del tuo desiderio, proprio come fa un cane con un albero prima di orinargli addosso. Purtroppo a me non è mai riuscito quel gesto liberatorio. Detto in altre parole, per star bene dovrei affossare definitivamente il passato, ma non mi riesce, trattengo i pensieri, una tortura come quando da piccolo per non pisciare all’aperto, mi facevo scoppiare la vescica. La sera che dette l’avvio alla mia storia era una di quelle, desideravo stordirmi senza misericordia, avevo appena buttato giù un altro bicchiere e d’incanto mi ero ritrovato a metà di quel breve viaggio che di norma finiva nel sonno. Sentivo i pensieri dividersi in strati sottili, diventando tutt’uno con i sogni. Improvvisamente qualcosa turbò la tranquillità della stanza, all’inizio aveva la sostanza di un ronzio, “una zanzara”. Poi, mentre aprivo gli occhi, misi a fuoco che si trattava di un rumore meccanico, anzi più di uno. “Ciclomotori”, pensai. Dopo poco tutto tornò silenzioso, l’orologio segnava le tre e mezzo. Stavo per riaddormentarmi quando un urlo andò a rimbalzare sui vetri della finestra. Tirai un paio di accidenti e mi alzai togliendomi di dosso il lenzuolo. Avevo una voglia pazzesca di mandare quella gente a farsi fottere, aprii le imposte. Dal canale veniva su una bruma leggera. «Eccola qua», esclamai a bassa voce ripensando alle parole del geometra Topini: “l’unico problema da queste parti in inverno è la nebbia”. Ancora venti giorni alla fine dell’estate, quest’anno la bastarda è arrivata in anticipo. Oltre il canale, sprazzi di luce dentro la casa diroccata. Bagliori deboli, come se qualcuno stesse camminando con una candela in mano, un leggero brivido alla schiena.


31 Quelle lucine m’inquietavano. A smorzare la tensione arrivò, trasportata dal vento, una risata soffocata. Dovevano essere ragazzi, mi decisi a uscire per capire quello che succedeva. Afferrai la torcia elettrica, una di quelle torce americane lunghe e nere, in alluminio anodizzato che, all’occorrenza, si trasformano in pratici sfollagente. Infilai alla cintura la Beretta e scesi le scale. Adesso sentivo distintamente dalla parte del rudere degli ululati accompagnati da poderosi rutti. Traversai il ponticello, a una trentina di metri dalla casa accesi la lampada. Il fascio di luce penetrò con facilità dentro le finestre vuote. «Chi è là?» urlai con quanto fiato avevo in gola. Vidi una dopo l’altra spegnersi le fiammelle poi uno scalpiccio di passi seguito da tonfi soffocati, qualcuno nel retro si lanciava giù dal primo piano utilizzando il tetto di un vecchio capanno addossato al muro della casa. Dopo poco sentii il rumore di un paio di scooter avviati di fretta, in breve il ronzio dei motori fu inghiottito dall’oscurità. Attesi qualche minuto e poi tornai indietro, quando mi distesi sopra il letto lanciai un paio di accidenti al geometra Topini: «Per fortuna qui doveva essere tutto calmo.» La sveglia suonò tardi, intorno alle dieci del mattino, ero deciso ad andare a vedere da vicino la casa di mattoni, bevvi di fretta un caffè e corsi fuori. Tre metri sotto il ponte l’acqua scorreva placida, satura di fango. In un attimo mi ritrovai dall’altra parte, sulla strada campestre parallela al canale, una carreggiata così dritta da sembrare una freccia puntata all’orizzonte. Poco più in là i resti della bicocca facevano capolino dietro una fila di alberi, il tetto appariva affossato, le pareti esterne invece, nonostante le crepe, resistevano, ma sarebbero durate poco. La costruzione si sbriciolava lentamente, come succede a ogni cosa in natura, escluso il diamante e i polimeri. Nel fiume intravidi una bottiglia di plastica gialla trascinata dalla corrente. «Quella schifezza sarà qui anche tra 500 anni, le cose inutili vivono sempre a lungo, un po’ come gli uomini, muoiono sempre i migliori, o almeno si dice così.» Mi accarezzai il mento. «Voglio proprio andare a vedere cosa diavolo combinavano stanotte quei rompipalle.» Sul piazzale non c’era niente, cumuli di detriti e una gatta inselvatichita che mi guardava attenta da sopra una catasta di legna marcita.


32 Salii al primo piano, una stanza aveva il pavimento sfondato, dal buco s’intravedeva l’impiantito della stalla tre metri più in basso. “A camminare qui sopra si rischia l’osso del collo”, pensai mentre col piede testavo la solidità delle mattonelle. Sulle pareti un paio di disegni osceni. Un enorme fallo con una scritta che decantava le presunte doti da monta di un non meglio specificato torello in cerca di “vacche in calore”. In un'altra stanza qualcuno aveva tracciato col nerofumo dei simboli esoterici, un pentacolo rovesciato, un triskel, il numero 666. «Occultismo del cazzo, ogni cosa ormai diventa una farsa.» Sull’ammattonato bottiglie di birra, cicche, mozziconi di candele e in un angolo un materasso sudicio, muto testimone di chissà quali amplessi. L’aria era impregnata di una polvere talmente fine che s’insinuava tra la camicia e la pelle. Scansai con la suola quella robaccia e scesi a ritroso le scale facendo attenzione a non cadere. Quando fui di nuovo all’aperto aspirai avidamente l’aria della campagna, piacevolmente pulita. In quel momento sul sentiero che lambiva il piazzale, passò un ciclista a cavallo di una mountain bike, rallentò, lo salutai con la mano. L’uomo dette una leggera frenata, avrà avuto una quarantina d’anni, fisico tozzo ma asciutto. «Buongiorno», mi disse. «Lei è il nuovo inquilino del Casello?» Lo guardai meravigliato: «Come fa a saperlo?» «Sono un amico del geometra Topini. Quello che gli ha segnalato che il vecchio Casello era in affitto. Qualche giorno fa mi ha detto di aver consegnato le chiavi a un negro che…» Di sicuro notò il lampo dei miei occhi. «Mi scusi non volevo offenderla, ho parlato senza pensare.» «Non si preoccupi, in effetti ha detto la verità, non sono proprio bianco come il latte. Comunque mi chiamo Niccolò Lavezzi», gli dissi porgendogli la mano. Il ciclista la strinse: «Giorgio Cantoni.» «Lei abita da queste parti?» «Nel paese vicino, a Monte Legnone, perché?» «Stanotte ho sentito delle persone, probabilmente ragazzi, nella casa diroccata, avevano delle candele accese. Ho fatto un urlo e sono scappati a gambe levate. Stamani mi è venuta voglia di andare a vedere. È un vero schifo, tutto sporco, alle pareti dei simboli strani. A occhio e croce sono stati fatti da qualche gruppo di spostati.»


33 L’uomo rise. «Non si preoccupi sono solo ragazzotti. Bevono birra, s’impasticcano e poi tentano di mettersi in contatto con gli spiriti. Probabilmente non sapevano che il Casello fosse di nuovo abitato, non credo che torneranno.» «Ma perché sono venuti fin qui?» Il signor Cantoni mi guardò sorpreso. «Topini non le ha detto niente? Questa casa si porta dietro una brutta fama. Pare che durante l’ultima guerra là dentro siano state uccise delle persone, poi negli anni Cinquanta un uomo s’è sparato in una stanza e meno di tre anni fa un altro tizio si è suicidato con i gas di scarico nel piazzale. Un posto sfigato, perfetto per quei quattro imbecilli che pensano di evocare i morti. Non capisco perché ancora il proprietario non si sia deciso a buttarla giù. Io ho una piccola impresa edile, gli avevo proposto di fare il lavoro gratis, in cambio volevo solo i materiali. Le tegole vecchie, i mattoni e le travi vanno a ruba, ma lui mi ha sempre detto di no.» «Una strana storia.» L’uomo rise. «In ogni paese c’è un posto come questo, dove la gente crede di vedere i fantasmi. Adesso però devo proprio andare altrimenti mi freddo i muscoli.» Ritornai sui miei passi. Mentre dal viottolo saltavo sulla strada un Land Rover si materializzò dal nulla, sentii la breccia stridere sotto l’attrito della frenata. Dal parabrezza un signore piuttosto anziano mi osservava. Lo salutai alzando il palmo della mano: «Buongiorno.» Il vecchio non ricambiò, stava con le mani bloccate sul volante squadrandomi senza dire niente. Mi avvicinai al finestrino semiaperto. «Sono il nuovo inquilino del Casello.» «Ah è lei, mi avevano detto che i signori Fumagalli avevano affittato la casa.» Il tono non mi appariva per nulla convinto. «Sono io, mi chiamo Niccolò Lavezzi.» L’anziano signore mi fece una radiografia. «Piacere Adelmo Baiocchi, parla italiano? Pensavo che lei fosse uno straniero, un americano.» Sorrisi indulgente. Per quell’uomo un nero che affitta una bella casa in campagna non può che essere uno straniero, un americano con i dollari. «Sono italiano, italianissimo e lavoro in città. Avevo bisogno di stare un po’ tranquillo, per questo sono venuto qua. Finalmente la conosco signor Baiocchi. Mi ha parlato di lei il geometra Topini, quello dell’immobiliare, mi ha detto che tutto quello che c’è qui intorno è suo.»


34 L’anziano signore tirò il freno a mano e scese dal fuoristrada. «Il geometra Topini non si fa mai i cazzi suoi. È vero, possiedo una bella azienda agricola, anche se da qualche mese mi sono ritirato dagli affari. Chi comanda adesso è mia figlia Gina.» Non era molto alto, corpulento, vestiva una camicia a quadri scozzesi, un sigaro toscano gli pendeva di traverso dalla bocca e in testa portava un berretto con il marchio della “John Deere”. «In quel posto», mi disse indicando il Casello, «ne troverà quanta ne vuole, di tranquillità.» «Mica tanto», gli risposi. «Stanotte c’è chi s’è divertito a rompermi le scatole, dei ragazzi sono venuti a far casino in quella casa laggiù.» Vidi un’ombra attraversare lo sguardo del vecchio. «Quei piccoli figli di puttana sono tornati? Eppure li avevo avvertiti di non farsi più vedere da queste parti. Bevono, sporcano, almeno ci portassero qualche ragazza. Invece niente, devono essersi giocati l’efficienza dell’uccello con tutte le droghe che prendono. Lo sa qual è la cosa che più mi scoccia?» «Non riesco a immaginarlo.» «Che quella vecchia casa è pericolante e se qualcuno di quegli imbecilli si fa male poi vengono a cercare me, che sono il proprietario. Circa un anno fa il suo padrone di casa, Fumagalli, rischiò di morire per un crollo. Cosa ci fosse andato a fare là dentro non lo so proprio. Mi sono salvato perché ho minacciato di denunciarlo per violazione di domicilio altrimenti quella strega della moglie era già pronta a chiedere i danni. Dopo quella volta il Comune ha fatto un’ordinanza per recintare e mettere in sicurezza la casa. Prima o poi lo dovrò fare anche se non capisco perché. Insomma la casa è la mia, se uno ci va senza permesso e si rompe una gamba saranno cazzi suoi o sbaglio?» «Il suo ragionamento non fa una piega. Però dicono che quella casa porti sfortuna, forse c’è bisogno di una benedizione», ribattei scherzando. «Chi è che dice queste stupidaggini?» mi rispose serio Adelmo. Non mi aspettavo quella reazione. «La gente, mi hanno parlato di morti ammazzati, suicidi.» «Il popolo non sa proprio di cosa parlare. È tutta roba che andrebbe messa in soffitta, i morti vanno lasciati in pace», affermò convinto. «Mi ha fatto piacere conoscerla, ma ora riparto. Sono in pensione, ma a qualche chilometro da qui possiedo un campo, dove ho fatto un po’ d’orto. Le piante hanno bisogno di essere annaffiate.» «Mi scusi se le ho fatto perdere tempo.»


35 «Non si preoccupi», aggiunse l’uomo risalendo sul Land Rover. «Se quei quattro deficienti dovessero ancora farsi vivi me lo faccia sapere, questa volta li aspetto col fucile caricato a sale grosso.» Lo guardai andar via in una nuvola di polvere. Il vecchio non aveva troppa voglia di parlare. Quando gli avevo accennato alle brutte storie che riguardavano la casa, era sembrato a disagio, chissà perché. Quella notte dormii tranquillo, sul far del giorno avvertii dei colpetti insistenti al vetro della finestra, mi alzai di malavoglia per scoprire la causa di quel rumore. Alla fine individuai una grossa falena che tentava dispersamente di riguadagnare la libertà, dischiusi le imposte e quella volò via nel buio incerto dell’alba. Ormai ero sveglio, preparai il caffè e dopo aver fumato una sigaretta, mi sporsi dal balcone. Le finestre della casa in rovina mi fissavano, la faccenda dei morti ammazzati durante la guerra mi aveva stuzzicato la fantasia, ho sempre avuto un debole per la storia. Decisi di andare a trovare Adelmo al campo, se ancora possedeva una buona memoria, poteva raccontarmi qualcosa. Percorsi un paio di chilometri a piedi lungo la via sterrata, alla fine vidi il Land Rover parcheggiato ai bordi di una macchia di quercioli. L’appezzamento di terreno era poco lontano dal fiume, sul confine rivolto a settentrione un filare di alberi proteggeva le piantine dal vento freddo, una pompa sbuffava asmatica pescando l’acqua dal canale per irrigare le canalette dell’orto. Trovai il vecchio Baiocchi seduto all’ombra di un capanno di legno mentre faceva colazione: pane, pomodoro, formaggio e un quartino di rosso. «Oggi è proprio una bella giornata», gli dissi giusto per attaccare discorso. «Non ci si può lamentare», mi rispose seccato. Non c’era bisogno di essere indovini per capire che la mia visita non gli faceva piacere. Guardai l’orto, i raggi del sole si riflettevano sui pomodori maturi e i ciuffi dell’aglio porro spuntavano a mazzi dal terreno, più lontano montagnole di meloni, messe in carovana, come gobbe di dromedari. «È proprio bello», dissi.


36 Accennò un sorriso, ci teneva a quel campo. «Grazie, ma costa un sacco di fatica», e buttò giù a garganella un bicchiere di vino. Si leccò le labbra, il “rosso” gli piaceva. «Cosa cercava?» domandò nervoso. «Facevo una passeggiata.» «Beato lei che ha tempo per andare a spasso. Io devo lavorare», e si alzò dirigendosi nell’orto. In quel momento non era il caso di fare domande, il vecchio aveva fretta. «Quando ritorna a casa passi da me, beviamo insieme un goccio, ho un Morellino spettacolare.» Adelmo mi osservò guardingo, stentava a capire il motivo di quella cortesia, poi alla fine stabilì che non c’era nulla di male a bere qualcosa in compagnia di un vicino. Vicino per modo di dire, abitavo a oltre sei chilometri da casa sua. Proprio un paio di giorni prima avevo intravisto a un incrocio, oltre il raccordo, un cartello giallo con la scritta “Tenuta del Cerreto”. «Va bene, se non faccio tardi verrò», disse impugnando la vanga. «L’aspetto», risposi affabile. Verso le sette di sera, mentre stavo leggendo le mail, dalla finestra aperta arrivò il rombo di un motore. Il Baiocchi posteggiò nello slargo davanti al portone d’ingresso. Entrò togliendosi il cappello, quando vide sopra lo scaffale la bottiglia schioccò la lingua: «Morellino riserva, ottimo.» Versai il vino invitandolo a sedersi, non si fece pregare. Al terzo bicchiere iniziò a guardarsi intorno. «È un sacco di tempo che non rimettevo piede qua dentro, l’ultima volta era un disastro, devo dire che i milanesi l’hanno sistemata proprio bene.» «Come mai non l’ha comprato lei?» chiesi. «Dicono che sia molto bravo negli affari.» Mi osservò da sopra le lenti degli occhiali, nonostante l’alcool l’avesse un po’ sciolto rimaneva cauto come se avesse da nascondere chissà quali segreti. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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