La città verticale

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In uscita il /2014 (14, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine QRYHPEUH e inizio GLFembre 2014 ( ,99 euro)

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ANGELO MEDICI

LA CITTÀ VERTICALE

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LA CITTÀ VERTICALE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-804-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.


Non posso stare da nessuna parte. La mia Patria è dove non mi trovo. “Oppiario”, Alvaro de Campos



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Ubi pus, ibi evacua

Ecco il mio nuovo libro. È un romanzo criminale, una storia meridionale, ma non è un noir, né certamente un thriller. In omaggio alle origini, ho rivisitato alcuni luoghi della mia infanzia. Dal viaggio immaginario nel passato è sorta una città verticale, che si è stratificata, insieme al potere che la corrode, verso l’alto. Una città solare, eppure oscura e gotica al tempo stesso, perché è proprio dove c’è più luce, che s’annida l’ombra più scura. È crudo, forte, paradossale? Sì, è proprio quello che cercavo. Volevo che fossero pugni allo stomaco, sputi negli occhi e schiaffi in faccia. Volevo narrare una storia scomoda, metterla in scena nel teatro del grottesco, dell’assurdo e del surreale, con attori fuori dal comune, dotati d’ironia e sfrontatezza, ma anche d’una buona dose di umanità. Scriverla mi ha fatto comprendere quanto, a volte, può essere assurda, grottesca e surreale la realtà. Lo so, questo libro vi farà uscire fuori dai gangheri, probabilmente lo lancerete via, ne tormenterete le pagine, forse lo strapperete. Ma, se sarà così, io avrò raggiunto il mio scopo. Perché volevo darvi un pugno allo stomaco e infilarvi le dita negli occhi. Volevo scuotervi le coscienze. È un romanzo sul rapporto tra fede e religione: il protagonista, e attraverso di lui l’autore, avvia e porta a termine l’opera di demolizione della Divinità, riducendola a mero simulacro, a inutile appendice, fino a svuotarla del tutto di significato. È anche un’opera sulla diversità, tema che avevo già affrontato ne L’impero del vento. In quelle storie desertiche chi è straniero è diverso, altro, alieno. All’opposto, ne La città verticale si sente diverso chi è a casa sua, mentre dovrebbe sentirsi a proprio agio, come un pesce nel suo acquario. Invece, non trova pace nella sua


6 stessa casa, nel suo letto, nei panni che indossa. È il dramma del sentirsi estranei al mondo che ci appartiene. Perché ho scritto questo libro? Si tratterebbe di una domanda salutare se fosse fornita della risposta, uno scrittore dovrebbe sempre sapere perché ha scritto un libro, anche se a volte le vere ragioni le apprende molto tempo dopo averlo fatto. Io lo so perché l’ho scritto, l’ho sempre saputo, fin dall’inizio. Il tema della diversità, della disomogeneità tra omogenei, della difficoltà di relazionarsi con i propri simili e riconoscerli uguali, era troppo impellente in me, andava sviluppato, diversificato, analizzato, sezionato, scorticato fino a farlo sanguinare. Dove c’è pus, bisogna incidere e spurgare. Ecco spiegato il titolo della prefazione. Secondo Galeno di Pergamo, medico e fisiologo della Roma imperiale, la guarigione si ottiene attraverso l’eliminazione della materia in eccesso, la materia peccans che, in campo medico è il pus, ma nel mio caso era il marciume, il livore, l’angoscia e ha funzionato. Sono stato subito meglio, come essermi tolto un peso. Il peso delle parole che mi avevano tormentato e afflitto durante la prima stesura, la revisione e la successiva riscrittura del romanzo e che io ora consegno intatte a voi. In questo romanzo non c’è spazio per la poesia, non ci sono ricami, niente belletto, lustrini e paillettes. La poesia è morta. Signori, vi sto offrendo la verità, solo la verità. Nient’altro che la verità, nuda e cruda. Lo giuro. Nell’introduzione ho voluto citare l’Oppiario di Alvaro de Campos, uno dei tanti eteronimi di Fernando Pessoa: Non posso stare da nessuna parte. La mia Patria è dove non mi trovo. Era proprio quello che intendevo dichiarare con la mia storia. Non poteva essere scritto meglio. L’Autore


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Capitolo primo

Era buio e freddo là sotto. Freddo screziato di tenebre e di silenzi. Annaspava nel gorgo, sotto l’onda verde che l’aveva rapito al mondo e imprigionato in un universo sommerso e ovattato. Non riusciva a respirare, non aveva più aria nei polmoni. La pressione marina gli comprimeva il petto come una morsa. Brancolava nel buio verdastro, in un abisso di acque opache e smorte. Più si dibatteva, più precipitava verso il fondo nel più completo silenzio. Stava per morire. Stava per lasciare per sempre il mondo della luce, per sprofondare in un mondo di ombre. Ma non era triste. Non provava niente. Non sentiva più nulla. Soltanto la pesantezza delle membra, mentre il suo corpo, come fosse di piombo, precipitava. La sua coscienza si affievoliva pian piano e i pensieri ticchettavano sempre più lenti nei neuroni, come se dentro il suo cervello s’inceppassero, uno dopo l’altro, i meccanismi di migliaia di orologi. Con un tonfo, lieve, toccò il fondo, sollevando nuvole di sabbia e i suoi occhi guizzarono nell’acqua fredda alla ricerca della superficie delle onde. Dal pelo dell’acqua, che appariva così distante, filtrava a stento una debole luce, che giunse, tuttavia, fino alle profondità nelle quali era immerso. Ma già il suo corpo si faceva leggero e le membra si sgravavano dal peso delle acque e le fibre muscolari contratte si scioglievano, scacciando il freddo delle correnti marine. Si sentì lieve, inconsistente, impalpabile, come una bolla d’aria che dal plumbeo crepuscolo degli abissi risaliva alla superficie. Sempre più rapida, sempre più in alto, finché riemerse. E finalmente la luce perfetta del giorno.


8 Aprì gli occhi e spalancò la bocca. L’aria gli penetrò rapida in gola al seguito di un gigantesco sbadiglio. Si stropicciò le palpebre cispose, giusto in tempo per scorgere il primo chiarore dell’alba filtrare attraverso le imposte socchiuse. Un secondo dopo suonò la sveglia. Un nuovo giorno sorgeva sul quartiere. Si rasò accuratamente e si vestì. Il caffè fumava caldo dalla tazzina. Fece una colazione frugale, ritto in piedi, accanto al ripiano della cucina. La casa dormiva ancora, avvolta nel silenzio. Si accese una sigaretta e uscì in strada. L’aria fredda del mattino lo fece rabbrividire. Rimase in piedi sulla soglia, assaporando con voluttà e gratitudine l’aroma aspro e denso della nicotina e ripensò al sogno. Era accaduto molto tempo prima. Avevano deciso di fare una nuotata al largo di primo mattino. A lunghe bracciate si erano allontanati dalla riva, mentre il sole nascente indorava pian piano il pelo dell’acqua. Le braccia battevano ritmiche la superficie accompagnando la cantilena delle onde. Con la stessa modulata cadenza, le loro teste sparivano e ricomparivano tra i flutti. Nel riaffiorare, le narici si liberavano dell’acqua di mare, che scivolava tagliente sulle mucose nasali come il filo di una lama. Le labbra sapevano di salsedine, il sale arrossava gli occhi e pungeva la pelle. Gabbiani silenziosi si libravano sulle acque piatte della baia. Erano stati molto mattinieri. Non c’erano altri nuotatori nello specchio d’acqua. Erano soli ed erano felici di esserlo. Di colpo la luce del sole fu risucchiata e scomparve in un vortice di nembi scuri come stormi di uccelli color delle tenebre e le loro nere ali sfilacciate scatenarono il vento. Le onde rinforzarono e furono presto in balia delle acque. Non si vedeva più la spiaggia, eppure non doveva essere lontana. Ebbero paura. I frangenti sconvolgevano la superficie del mare, sollevandola e deformandola, profondi vortici s’aprivano nelle acque livide e inquiete e, ribollendo e schiumando di collera, onde gigantesche s’innalzavano e s’infrangevano intorno a loro, che si tenevano stretti in un abbraccio tremolante. Un’ondata più grande delle altre,


9 smisurata, spaventosa, li sovrastò e si richiuse sulle loro teste, come le fauci di un drago marino, scintillante di scaglie smeraldine. Furono inghiottiti dalla sua gola fosforescente. Egli era riemerso dalla pancia del drago, l’altro ragazzo no. Era suo fratello. L’aria pura del mattino si era già guastata. La brezza aveva condotto con sé un fetore dolciastro, insopportabile, che gli provocava un bizzarro formicolio nelle narici. Era odore di decomposizione. Si riscosse e i suoi occhi presero a danzare sulla via. E s’incollerì. Tutt’intorno, giacevano abbandonati rifiuti d’ogni genere, cartacce, bottiglie rotte, avanzi di cibo, copertoni, frigoriferi senza gli sportelli, televisori con gli schermi fracassati e perfino una vecchia sedia, un tavolino senza una gamba e un divano sfondato. Si sarebbe potuto ricevere ospiti e offrir loro il caffè in strada, senza neanche l’incomodo di invitarli a entrare in casa, su uno sfondo unico al mondo: un paesaggio composto di colline, rilievi e interi sistemi montuosi fatti di spazzatura, nient’altro che sporcizia e robaccia nauseabonda. Da un lato all’altro della strada v’erano cumuli altissimi e spropositati d’immondizia, tonnellate e tonnellate di schifo e lerciume. Il fetore era insopportabile. Un cocktail di effluvi ed esalazioni, le più disgustose al mondo. Tutta la via n’era invasa. E non riusciva a credere che fino alla notte precedente la strada era sgombra e pulita. Un altro sciopero degli scopini, si disse, tirando boccate rapide e sdegnate dalla sigaretta ormai consunta, o guasti improvvisi ai mezzi della raccolta, ai camion della munnezza, o forse tutta colpa delle discariche che si erano saturate dall’oggi al domani. Oppure, tutt’e tre le cose insieme. A pensare al peggio non si sbaglia mai. A quanto pare, rifletté, una nuova emergenza rifiuti si preannunciava all’orizzonte insieme al sole nascente, che rivelava un po’ alla volta sotto la sua nitida luce pulita l’ennesima vergogna cittadina e il suo pesante fardello di fetore e disagi. Pensò ai bambini, che tra un po’ sarebbero comparsi in strada per andare a scuola e che avrebbero fatto lo slalom gigante, il free


10 climbing e la discesa libera su e giù da mucchi colossali di spazzatura. E quelle creature innocenti si sarebbero pure divertite a praticare questi sport inusuali per quelle latitudini. Passerotti buttati fuori dal nido con gli occhi ancora pieni di sonno, i capelli lisciati da un colpo ben assestato di pettine bagnato e gli zaini traballanti sui grembiuli color del mare, che le loro mamme si ostinavano a tenere puliti. Povere creature, per loro era una cosa normale, non conoscevano che quello. Miseria e degrado. Degrado e miseria. E munnezza. La città sarebbe stata sepolta dai rifiuti. Prima o poi l’immondizia l’avrebbe inghiottita e sarebbe scomparsa per sempre. E forse, trascorsi un migliaio d’anni, gli abitanti di qualche pianeta sconosciuto sarebbero sbarcati proprio lì, sulla bella spiaggia del golfo. Muniti di apposite mascherine antipuzzo, avrebbero iniziato a scavare dentro un compatto strato di spazzatura incrostata, duro e spesso quanto una colata lavica solidificata e l’avrebbero faticosamente riportata alla luce. Il quartiere con le sue strade congestionate, i bei palazzi antichi e le casupole fatiscenti e i suoi abitanti ridotti a statue maleodoranti e foderate d’immondizia, con la bocca e le cavità orbitali farcite di rifiuti. L’intera città sarebbe riemersa così com’era, si sarebbe risvegliata come la bella addormentata nella munnezza, allo schiocco delle gelide labbra di un principe alieno, in una versione post moderna della fiaba di Perrault. E il valoroso principe delle stelle si sarebbe fatto strada, non tra rovi e cespugli di rose, ma attraverso una spessa coltre di ogni ben di Dio, scaduto, rotto o inutilizzabile, fattosi a immagine e somiglianza di rifiuto. Una Pompei del futuro, zozza, puzzolente e miserabile. Ma bella da star male. E quei marziani sarebbero di certo schiattati di meraviglia e di stupore nel constatare, tappandosi il naso, che una città così incantevole, alla quale non mancava davvero niente, il sole, il mare, le coste meravigliose e il passato illustre, si era lasciata soffocare nei rifiuti come un animale strozzato dai suoi stessi escrementi.


11 Già, risposte non ve ne sono, né avrebbero potuto darne gli alieni. Si tratta di cose fuori d’ogni logica, destinate a restare prive di spiegazione. Vallo tu a spiegare ai marziani che: a) i camion della spazzatura andavano in fumo nella notte per cause mai abbastanza chiare (ufficialmente archiviate dalla polizia alla voce “Corto circuito”, ma ufficiosamente si potevano trovare anche sotto la lettera M, come Mancato pagamento del pizzo); b) turbe tumultuose di ambientalisti pretendevano d’innalzare barricate nelle strade che portano alle discariche per impedire ogni conferimento. I poliziotti intervenivano subito, ma dovevano vedersela con altri manifestanti, che proteggevano gli ecologisti dallo sgombero con la forza. I pacifisti. Questi, contrari a ogni forma di violenza, non si facevano certo scrupoli ad accogliere gli agenti con sassate e colpi di spranga come antipasto e, alla fine, servir loro un delizioso piatto a base di bombe carta. Ma prima ancora, gli sbirri dovevano farsi largo tra nutriti gruppi di cittadini che protestavano contro chi protestava. E così i camion non passavano, la spazzatura rimaneva per strada e non si veniva mai a capo di nulla; c) qualcuno usava le discariche per sotterrarvi di nascosto Dio solo sa chi o cosa. Erano in tanti nel quartiere a praticare questo strano passatempo, almeno questo sostenevano le voci d’opinione più influenti, tanto che le persone scomparse, come suocere fastidiose, vecchie zie tirchie, acide consorti sparite nel bel mezzo di un matrimonio in crisi, testimoni scomodi, collaboratori di giustizia, capi di bande criminali rivali, bastava cercarle in uno dei tanti immondezzai del circondario. Le discariche erano una sorta di paradosso spazio-temporale, buchi neri che risucchiavano ogni cosa. Ma gli scomparsi venivano tutti ritrovati, prima o poi. Almeno, qualche pezzo. Si vociferava inoltre che nelle discariche fossero sepolti rifiuti pericolosi d’ogni genere. Dalle schegge delle bombe di Hiroshima e Nagasaki alla diossina di Seveso, dai residui del petrolchimico di Marghera alle scorie delle centrali nucleari di Chernobyl e Fukushima. Pareva che le immondizie meno tossiche fossero i rifiuti


12 delle industrie del Nord Italia, finiti chissà perché proprio nel Mezzogiorno, quando nel Settentrione non è che manchino le discariche. Viene il dubbio che se non fosse stata tanto pericolosa, se la sarebbero tenuta la loro morchia fetida. Naturalmente, queste erano solo voci. Ma, forse, servivano a spiegare il motivo per cui, se di tanto in tanto emergevano dai rifiuti i brandelli dei parenti di qualcuno, questi avevano un colorito verde fosforescente. In verità, anche le acque dei ruscelli dei dintorni, l’erba che vi cresceva e il latte delle mucche che pascolavano sulle colline vicino alle discariche erano della stessa tonalità acida e luminescente. Pertanto, considerate le voci a), b) e c) sopra descritte, a meno che i rifiuti non prendano a vivere di vita propria e vadano a buttarsi da soli, comprensivi e volonterosi, nell’immondezzaio, la spazzatura non sarebbe mai andata da nessuna parte e sarebbe rimasta in strada per sempre. No, questo gli alieni non l’avrebbero mai potuto comprendere. Ma una cosa l’avevano capita: di munnezza si può morire. Ripensò a quand’era stato anche lui un bambino che zampettava per le vie del quartiere, pencolando come un batocchio nella campana del grembiule dello stesso colore del mare. Quanto l’aveva odiato quel grembiule che non gli apparteneva, ereditato chissà da chi. Era di una taglia troppo grande per le sue esili spalle e tutto pieno di strappi rammendati per la millesima volta, con inventiva e rassegnazione, da sua madre. Sotto le falde blu, l’inseparabile fionda sporgeva dalla tasca bucata dei pantaloni. Solo anni più tardi, quando non fluttuava più sul suo corpo cresciuto, ma lo stringeva ormai come le bende di una mummia, era riuscito a liberarsene. Crescendo, gli era diventato così stretto che i mille e passa rammendi non ne avevano voluto più sapere di tenere gli strappi fermi al loro posto e questi si erano aperti tutti insieme nello stesso momento. In casa non c’erano denari a sufficienza per comprarne uno nuovo. Aveva terminato l’anno scolastico senza grembiule. L’unico in tutta la scuola. Ma ne era stato felice.


13 A quei tempi nel quartiere non c’erano nemmeno le strade e per andare a scuola doveva stare attento a non cascare nei fossi e nelle pozzanghere, a non impigliarsi nei rovi, a non finire con i piedi nei canali di scolo, vere e proprie fogne a cielo aperto, e a non calpestare le merde di cane. Avrebbe voluto farle fuori tutte, con un bel tiro teso della sua fionda, quelle stupide bestie rognose, sempre a mordere e a ringhiare, incapaci ormai di distinguere un calcio da una carezza per quante bastonate avevano preso. Intanto, l’aria salmastra s’intasava delle bestemmie dei pescatori che tornavano dal largo con le barche vuote, accompagnati dalle urla stridule e inutili dei gabbiani e i vicoli risuonavano dei richiami dei venditori di sigarette di contrabbando che strisciavano sulle loro ombre. Si permise il lusso d’un ghigno amaro e iracondo, mentre buttava il mozzicone verso il rilievo più alto, una specie di Monte Bianco di spazzatura, desiderando in cuor suo che prendesse fuoco. E che insieme al Monte puzzolente bruciassero pure le Alpi e gli Appennini di pattume e fango di quella improvvisata penisola di rifiuti nata e cresciuta nottetempo. Un’Italia in miniatura lercia e corrotta, che stendeva il suo stivale prepotente e scorretto come un fallo a gamba tesa nel Mar d’Asfalto e nel Mar dei Cementi del suo quartiere. Egli ci teneva moltissimo all’ordine e alla pulizia e non poté sopportare quella vista. Prese a inveire, ad agitare le braccia e le gambe, andando su e giù per la via. Le vene cave del collo gli si erano gonfiate a tal punto che sembrava stessero lì lì per scoppiare e inondare di sangue la strada. Gli erano usciti gli occhi fuori dalle orbite. La pressione sanguigna dentro la sua testa balzana doveva aver raggiunto livelli esagerati. Non si poteva dubitare che, se avesse proseguito a infuriarsi a quel modo, di lì a poco le sue orecchie avrebbero preso a fumare vapore. E il suo cranio rovente sarebbe esploso, spargendo ovunque frammenti ossei, sangue e materia grigia, con la devastazione di un aneurisma cerebrale. Imprecava, soffiava e sbuffava come una vecchia locomotiva a vapore. Stava per avere un collasso.


14 Il suo volto manifestava già i sintomi di un’incontrollabile, esponenziale, parossistica irritazione. Si era fatto paonazzo, aveva assunto un colorito simile a una melanzana, una tinta che si abbinava singolarmente con il nero dell’abito talare. A fare da contrasto, da spartiacque, tra il viso e il clergyman, il biancore del colletto.


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Capitolo secondo

Padre Giuseppe non era nuovo a scatti d’ira. Una volta aveva sorpreso un ragazzo del quartiere a rubare le offerte in chiesa. L’aveva preso a schiaffi davanti all’altare maggiore, senza pensarci due volte, senza esitare neppure al cospetto del Cristo crocifisso e sanguinante, che lo guardava torvo e imbronciato, e non si era fermato fino a quando non aveva fatto uscire il sangue pure a lui. Dal naso. Solo allora, aveva smesso di picchiarlo e si era guardato incredulo le mani sporche di sangue. Le stesse gocce, le stesse macchie erano anche sui polsi e sui piedi del re dei Giudei, gli imperlavano la fronte e si erano raggrumate in una grossa chiazza sul suo costato. Sembravano così fresche, si sarebbe detto si fossero coagulate solo allora, nel 2012 dopo Cristo, nel momento in cui aveva schiaffeggiato il ragazzo e non due millenni prima. Una sorta di miracolo di San Gennaro, solo che stavolta il prodigio era al contrario. Cosa poteva mai significare? Sbigottito e inorridito da quello che avevano appena fatto le sue mani, quasi vivessero di vita propria, aveva sollevato le palme sporche di sangue davanti al crocifisso, come per chiederne il perdono. Ma le sue non erano stimmate. E dalla statua lignea, rattrappita e contorta come una pianta cresciuta male, non era venuto il benché minimo segno di assoluzione. Anzi, il Cristo aveva continuato a guardarlo con odio. Sprofondando il suo sguardo negli occhi del Salvatore, il prete si accorse che la sua collera era svanita. Allora, si era inginocchiato e aveva pianto. Il ragazzino intanto, era scappato.


16 Ci pensava spesso a quell’episodio. Si era sporcato perfino il colletto della tonaca. Lo aveva menato con furia quel poveretto. Il pavimento, dai piedi dell’altare fino al portale d’ingresso, era tutto punteggiato di macchie rossastre. I segni della fuga precipitosa di quel maldestro furfante. Padre Giuseppe si era armato di secchio, scopa e strofinaccio e aveva iniziato di buona lena a pulire l’impiantito. In ogni momento, sarebbe potuto entrare qualche fedele e fare domande scomode e troppo imbarazzanti per rispondere con convinzione. Sapeva bene che le macchie di sangue sono difficili da cancellare. Sono indelebili. Egli era ancora scosso da quella faccenda, nonostante il tempo trascorso. Inutile aggiungere che si era pentito, ma da allora non c’erano più stati furti, né in chiesa né nella canonica. Padre Giuseppe era facile preda dell’ira anche se, dopo le esplosioni di collera, rientrato in sé, si vergognava dei propri eccessi e ci restava male, desiderando solo di porvi rimedio. Ne parlava spesso con il suo confessore. Costui gli consigliava la pazienza e la tolleranza, però era facile per quest’ultimo dargli tali saggi consigli, dal momento che era un frate che viveva in un convento sulle alture che sovrastavano la città, lontano dal caos e dal marasma delle umane vicissitudini. Anche a padre Giuseppe verrebbe naturale predicare la pace e la sopportazione, se vivesse come il suo frate confessore, rintanato nella quiete e nella letizia di un monastero dov’era servito e riverito senza dover domandare e nel quale non gli mancava davvero nulla: cibo delizioso, vino genuino (magari, un fresco Fiano o uno strepitoso Lacrima Christi, tanto per restare in tema) e, naturalmente, l’aria buona delle colline. Lui, invece, doveva combattere tutti i giorni contro i soprusi e le ingiustizie, grandi e piccole, che avviluppavano la città come le spire di un mostro mitologico. Quel frate così savio e mansueto non sarebbe durato un minuto intero nel quartiere, se solo avesse osato mettervi il naso. In meno di trenta secondi, calcolava, gli avrebbero proposto i più bizzarri affari, gli avrebbero rubato tutto il rubabile e avrebbero insidiato la sua verginità. Non era per tutti praticare le strade del


17 quartiere. Se la sarebbe fatta dentro le mutande. Sempre che fosse riuscito a conservarsi il didietro intatto. E il prete, sogghignando, se lo immaginava sollevare le sottane puzzolenti e fuggire via a razzo, su quelle sue gambette pelose e sottili, alla volta del monastero, lasciando dietro sé, non la scia di fumo e fiamme dei missili e neppure un soave olezzo di santità, ma soltanto un puzzo inconfondibile. Tuttavia, questa licenza impudica che si era presa la sua fervida mente, non gliel’avrebbe mai confessata. Padre Giuseppe aveva tentato mille espedienti per tenere a freno la sua ira. Yoga, training autogeno, tecniche di rilassamento, meditazione, preghiera. Era andato in analisi e aveva addirittura fatto ricorso all’ipnosi. Veramente, quest’ultima era stata un’idea del suo analista, che s’era convinto di poter scovare l’origine della sua collera congenita nelle pieghe del subconscio, nascosta in qualche remoto trauma infantile. Non era stata una buona idea. L’idrofobia del prete non era scemata. Anzi, egli era andato su tutte le furie quando, durante una seduta d’ipnosi regressiva, gli era stato chiesto se da bambino avesse subito attenzioni particolari o, nientemeno che, veri e propri abusi. Il padre, nonostante fosse ipnotizzato, era scattato in piedi, come se al posto della colonna vertebrale avesse avuto una molla d’acciaio e fattosi livido in volto, aveva preso a mulinare le braccia a un centimetro dal volto dello psicanalista, urlando: «A me mai nessuno lo ha messo nel didietro e mai succederà. È chiaro?» I pugni si avvicinavano pericolosamente al suo viso, ma lo psicologo fu lesto a risvegliarlo e salvò la faccia. In seguito, disdisse gli appuntamenti che aveva programmato con il prete e arrivò perfino a farsi negare al telefono, per la paura di aver ancora a che fare con lui. Padre Giuseppe, tuttavia, non provò a cercarsi un altro psicologo, decise che ne aveva avuto abbastanza di Freud & Company e prese a sperimentare rimedi decisamente più empirici, casalinghi, alla buona, se vogliamo. Ridusse le tazzine di caffè e aumentò le tazze di camomilla. Tentò con infusi, decotti e tisane che le erboristerie spacciavano per toccasana del tutto naturali, ma quelle pozioni


18 avevano un odore e un sapore così disgustoso che il prete sospettava che gliele preparassero distillando cacche di capra e di cavallo. Faranno pure bene, ma alcune fanno proprio schifo. Aveva anche provato a smettere di fumare, ma era diventato ancora più nervoso di prima. In verità, sarebbe riuscito ad abbandonare il vizio, se avesse davvero voluto, non era certo l’astinenza dalla nicotina a mettergli agitazione, quanto non poter girare e rigirare il cucchiaio dentro la tazzina e sorbirne l’odore. Gli mancava il caffè. A questo proprio non avrebbe saputo rinunciare. Allora, aveva tentato con un altro metodo, sempliciotto e anche un po’ infantile: contare nei momenti critici, trattenendo la rabbia che sentiva montare dentro sé, come un sub in apnea fa con il respiro. E il prete contava. Sgranava numeri come avemaria nel rosario, ossessivi come un mantra. Una volta, in piena crisi isterica, era riuscito ad arrivare fino a cento, ma il risultato non era cambiato. In realtà, avrebbe potuto contare anche fino a un miliardo, ma il suo livello di collera non sarebbe calato. Piuttosto, si sarebbe stabilizzato dopo aver raggiunto una certa cifra e avrebbe atteso che il prete avesse terminato i conti per deflagrare. La sua indole spigolosa e imprevedibile era temuta quanto una bomba all’idrogeno innescata. La sua colonna vertebrale era perennemente tesa, come una faglia sul punto di spezzarsi. E la collera erompeva in ondate sismiche disastrose che si propagavano all’istante a braccia e gambe e colpivano qualunque cosa che si fosse trovata entro il loro raggio. Il suo cervello era sempre in ebollizione nella teca cranica, come una massa di lava sotto pressione dentro la camera magmatica di un vulcano dormiente. Doveva esplodere ed esplodeva. Nessun numero della conta, per quanto grande fosse, avrebbe potuto impedire le sue eruzioni. «Jatevenne» urlava e subito intorno a lui si faceva il largo. Come un vulcano al parossismo scaglia lava e lapilli a grandissima distanza, così padre Giuseppe eruttava con furia per tutto il quartiere epiteti e male parole con la sua voce assordante, dimenando le braccia come un mulino a vento preda del maestrale.


19 In tutto il quartiere si poteva udire la sua voce tonante, le sue urla arrivavano sino alle finestre delle ultime case. E se per caso capitava in quei frangenti qualche forestiero e chiedeva: «Ch’è stato?» si rispondeva con il più straordinario aplomb: «Niente, niente. È don Peppino.» Come fosse la cosa più ovvia del mondo. Al che il viandante replicava stupito con una domanda del tutto prevedibile, per quanto inevitabile: «Ma è un prete?» E di fronte alla risposta affermativa, pronunciata in tono ancor più naturale di prima, sussurrava un «Ah!» poco persuaso e, novantanove volte su cento, se la dava a gambe. Nel rimanente uno per cento dei casi, e doveva trattarsi naturalmente di viaggiatori molto audaci, vi era chi chiedeva di poter fare conoscenza con un prete così fuori dalle righe. Evidentemente, non immaginavano a cosa andavano incontro. Sprovveduti. Padre Giuseppe era proprio incontrollabile quando era in quello stato. Ci voleva la camicia di forza. Ma era nella sua natura e non ci si poteva fare niente. Una volta dato fuoco alle polveri, bisognava solo aspettare che si esaurisse la sua spropositata carica pirica, che eruttasse tutto quello che doveva eruttare, che fosse uscito tutto, ma proprio tutto – non riusciva a tenersi un’oncia di rabbia in corpo – e solo allora si poteva sperare che si calmasse. Dopo che si era sfogato, si metteva tranquillo e paziente, come se nulla fosse accaduto, a raccogliere i cocci. Non era cattivo. Anzi, era un uomo generoso e dotato di una grande carica di umanità. Era fatto così. Tutto qui. Ma qual era la vera causa di quella rabbia infinita? Valanghe di torti subiti, rospi ingoiati a tonnellate, fiumi di prepotenze, abusi e prevaricazioni? Certo, nella sua vita ne aveva subite tante di ingiustizie, aveva combattuto e spesso aveva perso, era caduto a faccia in giù nella polvere, deriso, sconfitto. Però non si era mai arreso. Si era sempre rialzato e dopo essersi ripulito il viso dalla polvere e leccato le ferite, era di nuovo sul ring a menare le mani, fino alla prossima ripresa.


20 Ma il suo vissuto era solo una parte del fenomeno. Dominato da un innato e profondo senso di giustizia, padre Giuseppe non riusciva a tollerare la minima iniquità, il più piccolo e insignificante dei torti gli faceva saltare subito la mosca al naso. Voleva raddrizzare tutte le cose storte di questo mondo. Questa sete di equità era, al tempo stesso, la sua più grande virtù e il suo più grave difetto. Ma allora, perché si era fatto prete? Se lo chiedeva ancora a distanza di anni e, a volte, stanco e amareggiato, non riusciva a trovare una risposta. La giustizia umana è una donna poco seria, che se ne va per la strada discinta ed eccitata, cavalcioni di un asino. Ma cavalca al contrario, rivolta verso la coda sporca di merda e con la mano destra impugna la spada e mena fendenti dove crede di scorgere crimini e criminali. Nella sinistra tiene stretta una fiasca di vino mezza vuota e la metà che conteneva le brucia ora lo stomaco. E la signora mulina la spada a destra, mulina la spada a sinistra, lasciandosi dietro una scia di sangue di colpevoli e di innocenti, finché non stramazza al suolo, ubriaca fradicia. La giustizia, purtroppo, non appartiene a questo mondo, ma all’altro. Padre Giuseppe si era avvicinato alla Chiesa solo per dare un’occhiata, ma le parole che aveva sentito in bocca al parroco gli erano piaciute. Ed era rimasto. Beati gli affamati e gli assetati di giustizia, perché saranno saziati. Per questo aveva preso i voti, anche se a volte, non se ne ricordava quasi più. Ma, dopo essersi fatto prete, ne aveva sentita un’altra versione. Beati gli assetati di giustizia, perché saranno giustiziati. Non vi è giustizia a questo mondo, non ve n’è nei tribunali, né nella Casa di Dio, il prete lo sapeva e non gli restava che ringhiare come un cagnaccio rabbioso da prendere a calci, che sollevavano nuove ondate di collera nel suo cuore di cane. Signora Ira era più fedele della moglie che non aveva. E peccava con lei. Era difficile per un prete così vivere in un quartiere così. Gli era stata assegnata una parrocchia molto impegnativa, la Madonna delle


21 Bombarde. Si chiamava così perché una bella mattina del Millecinquecento e qualcosa, una flotta di pirati saraceni si era presentata davanti alla città con l’intenzione di prenderla a cannonate, metterla a ferro e fuoco e saccheggiarla e poi stuprare le donne, impalare i bambini e scannare gli uomini e decorare con le loro budella le vie della città, secondo il loro consolidato cerimoniale dei festeggiamenti. Ma la Madonna aveva steso il suo manto misericordioso e aveva fatto inceppare le bombarde. Neanche un colpo venne sparato. Così, ai pirati non era rimasto che invertire la rotta e ritornarsene da dov’erano venuti. Un miracolo. Da allora, la Madonna delle Bombarde fece molti altri miracoli, compresa la vittoria dell’Atletico Montevarano, la squadra di calcio della città, nella partita di coppa contro l’Ordu Football Club, guarda caso una squadra turca, avvenuta il giorno della sua festa. Dicono che la Vergine quel giorno fece anche un altro miracolo: ridiede la vista e raddrizzò le gambe di Pedro dos Santos, attaccante montevaranese, che da allora fece molti gol, ma solo nella porta avversaria. La Madonna delle Bombarde era un luogo di confine, nella periferia più miserabile e mariuola della città, il girone infernale dei disperati, schiacciata fra i quartieri buoni e chic della città e le discariche. Nessuno dei suoi predecessori era rimasto tanto a lungo quanto lui. Nessuno resisteva in quel posto. Dopo le prime blande moine, dopo gli avvertimenti a metà strada tra il consiglio spassionato e la minaccia vera e propria, dopo i primi dispetti, tutti chiedevano il trasferimento. Ma don Peppino in quel quartiere ci era nato, era a casa sua. Conosceva tutti e sapeva tutto di tutti. Vita, morte, miracoli e resurrezioni. Quello che si poteva raccontare e pure quello che non si poteva raccontare. Non si può propriamente affermare che ci stava bene nel suo quartiere ma, a modo suo, ci stava. Vi sguazzava come un pesce dentro il suo acquario.


22 Anzi, era più un pesce da bassifondi che bazzicava le acque torbide e melmose dei fondali, che uno di quei pesci angelo, saccenti e damerini, che passano la vita a specchiarsi alle pareti degli acquari e che si vedono guizzare nelle vasche trasparenti come bare di vetro dei ristoranti. Sì, proprio quelle, avete presente? con il fondo di finta ghiaia, le piante acquatiche di plastica e il teschio con il tesoro dei pirati, tutto così falso e triste, che, prima o poi, tutti i pesci finiscono per morirne. Anche i pesci angelo. Soprattutto loro. La vita in quel lembo di città era complicata. Maledettamente complicata. Certo, si poteva venire a patti con il quartiere. Bastava fare finta di non vedere, bastava buttare gli occhi oltre i muri, oltre le case, oltre la gente e puntare lo sguardo al cielo azzurro e alle nuvole bianche. Starsene perennemente col naso all’aria. Bastava buttare gli occhi, gettarli proprio via, disfarsene, accecarsi, per quello che servono, se non si ha il coraggio di guardare, se non si trova la forza di vedere. Oppure, tenere in eterno lo sguardo basso, non incrociare mai gli occhi con quelli del prossimo. Le pupille infisse al suolo, il mento appiccicato al petto con la colla vinilica, la testa così piegata ad angolo retto, da far venire la cervicale cronica, come fossimo dei condannati a morte, pronti a offrire il collo alla scure del boia. E se non bastasse, chiudere un occhio e anche tutti e due e, già che ci siamo, tapparsi pure le orecchie. E la bocca. Non si sa mai, che venisse fuori qualche frase compromettente. Certi personaggi erano molto permalosi. E avevano una memoria ferrea, si ricordavano tutto. Diventare muti, sordi, ciechi. E passare la vita in apnea, brancolando nel buio. E accontentarsi di vivere così, di spegnersi giorno dopo giorno, una notte sopra l’altra, in un mucchio di fogli strappati da un calendario, con le date stampate tutte in nero e neppure una in rosso, perché non ci sono più


23 giorni importanti. I giorni sono tutti uguali e inutili. E quel calendario privo di valore è la nostra vita. Si può vivere senza vedere, senza capire, senza sentire? Si può vivere senza vivere? Non si può fare il prete vivacchiando nella paura, vegetando all’ombra dei potenti, come facevano alcuni sacerdoti. Non si ponevano più domande, non parlavano neanche più, non respiravano nemmeno. Si accontentavano di essere dei semplici ministri di culto, attenti solo alla forma delle celebrazioni e alla perfezione dei gesti e dei riti. Dei pubblici ufficiali della fede. Come si fa a fare il prete senza parlare alla gente, senza ascoltare quello che ha da dire, senza guardare dritto negli occhi dei derelitti e dei disperati, fino in fondo alle loro anime? Come si fa, senza sentire le loro sofferenze come fossero le proprie e vuotare fino all’ultima goccia l’amaro calice del loro dolore? Come si fa? Un prete non può far finta di fare il prete. Anche in quel quartiere. Soprattutto in quel quartiere. Un prete deve fare il prete. E don Peppino non era un fingitore, un ipocrita, un bugiardo, un impostore. Non era un uomo vestito da prete. Era un prete. «Lancia l’esca e vedrai che, prima o dopo, qualcosa abbocca» si diceva. «Vi farò pescatori di uomini, diceva Nostro Signore» era la frase che ripeteva spesso. E lui, don Giuseppe, Nostro Signore l’aveva preso in parola e l’esca la lanciava, la lanciava eccome. E qualcosa abboccava, prima o poi. Vecchie scarpe, barattoli arrugginiti, ruote di bicicletta, uomini, donne. Pescatori di uomini, diceva Nostro Signore. Non di cose. Ma per pescare bisogna andare sotto la superficie, oltre il confine labile, non tracciato fra il mondo conosciuto e l’ignoto e aspettare che là sotto, in quel mondo oscuro e sommerso, qualcosa si decida ad abboccare.


24 E il grosso del lavoro era fatto. A lui non restava che tirare su. Prostitute, tossici, assassini, transessuali, ladri, pederasti, spacciatori, barboni, usurai, mentecatti, papponi, taglieggiatori, ragazzi di strada. Anime perse. Per fare questo mestiere ci voleva stomaco, è vero, ma era anche necessario interporre una discreta dose di freddezza, dare una decisa pennellata di distacco dissimulando calma e indifferenza. Quando calava la sera e chiudeva dietro sé la porta della canonica, la sofferenza, la disperazione, l’angoscia, la paura, l’odio, che aveva assunto a forti dosi per tutto il giorno, dovevano restare fuori, doveva scuoterseli di dosso, come polvere dai vestiti, altrimenti avrebbero soggiornato dentro la sua anima e dentro la sua casa. E quando sarebbe stato solo nel buio, dentro il letto, avrebbero imprigionato il suo cuore in una rete di dolore, fino a quando non si sarebbe accesa la luce di un altro giorno. Prendi un uomo e togligli tutto, spoglialo d’ogni cosa. «Sei sicuro di avergli preso tutto?» si chiedeva, rivoltandosi nel letto. «E quando gli hai preso tutto, puoi portargli via anche l’anima?» «E quando gli hai tolto tutto cosa resta?» La domanda giaceva sul cuscino, senza risposta.


25

Capitolo terzo

Il quartiere non era del tutto corrotto, certo non era un posto per gente perbene o per persone deboli di cuore, ma non era neppure interamente criminale. Conservava ancora una parte sana, una piccola parte, sulla quale aleggiava tuttora uno spirito di saggezza, tolleranza e generosità, lo spirito antico della gente che va per mare. Così si potevano incontrare, mescolati fra la gente qualunque per la strada, avanzi di galera e vecchie bagasce, sgargianti ricchioni e improfumati puttanieri. Poeti improvvisati e pittori dilettanti declamavano e ritraevano con eleganza e raffinatezza le bellezze del golfo, offuscate da una masnada di sfaccendati che, tutto il santo giorno, andavano con indifferenza appresso al corteo di uno sciopero, come a quello di un funerale. Impiegati assunti dall’assessore alle Politiche del Lavoro di turno erano spesso in strada affaccendati in altre faccende. Per fortuna! Le poche volte che stavano dietro la scrivania di un ufficio del municipio, non sapendo neppure tenere una penna in mano, passavano il tempo a ripulirsi con cura le orecchie e il naso sulle pratiche in attesa da anni di essere evase. Sui faldoni crescevano monticelli di cerume e caccole di muco rappreso e l’anzianità dei fascicoli si calcolava ormai in base all’altezza dei cumuli di materia verdastra che vi si erano sedimentati come stalagmiti. Naturalmente, c’erano anche i lavoratori veri, quelli che dalle cinque della mattina alle sette della sera si spaccavano la schiena al porto o rischiavano la vita sulle assi traballanti delle impalcature dei cantieri edili per quattro soldi. Ma si vedevano in strada solo all’alba o al tramonto, all’inizio o alla fine di una dura giornata di lavoro. Le cose stavano così. Si poteva trovare di tutto un po’. Ed era tutto un po’ a metà. Come le case del quartiere. L’origine di alcune si perdeva nella notte dei tempi. A scavare si sarebbe subito scoperto lo strato dell’epoca


26 borbonica, poi quello spagnolo, quello angioino, poi aragonese, arabo, normanno, longobardo, romano, greco, osco, fino ad arrivare alle palafitte della preistoria. Milioni di persone erano passate per la stessa casa, mentre in altre, nuovissime, che sapevano ancora di calce e cemento, non c’era ancora entrato nessuno. V’erano palazzi splendidi. Erano edifici fabbricati da ricchi e potenti per gente ricca e potente, e si stagliavano come torri su una selva inestricabile di decrepite catapecchie. In alcuni di essi, sequestrati dalla magistratura, gli scugnizzi avevano osato rompere i sigilli ed entrare. Tornati all’ordinario fetore del ghetto, dopo essersi riabituati gli occhi alla luce calcinata della strada, essi raccontavano di alveari di stanze ricoperte di marmo, attraversati da corridoi labirintici su cui s’aprivano centinaia di porte d’ebano dalle maniglie placcate d’oro. Agli angoli sfarzi d’ogni tipo abbinati male, di fretta e furia, senza gusto, come fossero stati buttati a caso. Tripudi di statue d’una mescolanza di stili di maniera si specchiavano in fontane interne e vasche idromassaggio profumate. Un così grande spreco di bellezza da star male. Cose meravigliose, mai viste prima e che non avrebbero neanche osato immaginare, si trovavano a due passi dal fango e dalla polvere dei bassifondi. Il quartiere era il risultato dell’espansione demografica degli anni Sessanta del secolo scorso. Gente in cerca di lavoro e di una vita migliore, dalle campagne e dalle peggiori periferie della vita era venuta in massa in città. Poco alla volta, i nuovi venuti, avevano preso il posto dei vecchi inquilini, di quelli che avevano salito un gradino della scala sociale ed erano andati ad abitare i piani alti. Era un movimento generale, tutto proiettato in verticale, verso l’alto. Quando qualcuno se ne andava a stare più su, s’alzava un polverone di informazioni più o meno attendibili. E subito si scatenava il tumulto di movimenti tattici. Menti fervide mettevano a punto strategie per occupare i posti lasciati liberi e si escogitavano piani e artifici per arrivare prima degli altri ai posti migliori. E così, a ogni livello, a ogni gradino della scala sociale, era un eterno movimento a salire e le persone e le case si sovrapponevano le une alle altre. Anche l’architettura del quartiere aveva seguito quel movimento verso l’alto.


27 In genere il piano terra era umido, sporco e fatiscente e non si vedeva mai il sole. Nessuno voleva andarci. Vi stavano malvolentieri perfino i nuovi arrivati, tanto erano malsani quegli alloggi e si disperavano coloro che, per avversa sorte, erano stati costretti a scendere di un gradino della scala sociale e a tornare ai livelli di partenza. Ma chi stava peggio, era la gente che non si era mai mossa dai bassi ed erano purtroppo in tanti a restare nello stesso lurido alloggio per anni e anni e a tramandarselo, di generazione in generazione, per sempre. Erano gli eterni perdenti del quartiere, sconfitti e sbaragliati da una concorrenza agguerrita e spietata, che venivano di continuo ricacciati indietro, risospinti nei bassifondi dimenticati dalla luce del sole, da una massa senza fine di postulanti in cerca di gloria e di affermazione. L’occasione di tutta la vita. Il posto al sole. Il trasferimento al piano di sopra era il primo passo verso l’alto, il primo gradino di una lunga e ripida scala: significava aver avuto fortuna. Al secondo piano stavano quelli che si erano quasi dimenticati di cosa significava abitare nei bassifondi; al terzo piano abitavano quelli che l’avevano scordato del tutto e così via a salire, fino ad arrivare all’attico, il nido d’aquila dei potenti, dove risiedevano quelli che nei bassifondi non c’erano mai stati e che come rapaci, sorvegliavano dall’alto il quartiere e il suo moto perpetuo. Niente sfuggiva loro. Nulla poteva accadere che non fosse da loro permesso. Chi poteva, faceva le valige e se ne andava via per sempre. E anche questo voleva dire aver fatto fortuna. Chi s’era trovato da vivere in abitazioni dignitose aveva di sicuro maggiori chances di migliorare ulteriormente la propria esistenza. E sperava dunque d’essere in procinto di fare il grande salto verso i piani superiori. I forestieri, come si diceva, dovevano sempre accontentarsi di quello che trovavano al loro arrivo in città. Alloggi malsani, fatiscenti e miserabili, buoni solo per le piattole e gli scarafoni, lasciati liberi in fretta e furia, abbandonati senza alcun rimpianto con arredi e


28 suppellettili dagli inquilini precedenti. Chi era riuscito a salire non si voltava mai indietro. Ai nuovi arrivati non restava che la puzza di chiuso e d’umidità, la polvere e le ragnatele e forse il sogno di fare anche loro il grande salto, prima o poi. Ma fino a quando non fosse accaduto, le peggiori catapecchie sarebbero state per molti anni le loro distinte magioni. Ecco perché le abitazioni erano in parte sporche, misere e malridotte e in parte l’esatto opposto. Padre Giuseppe, non a torto, sosteneva che il quartiere fosse fatto a strati. Strati di edifici, di persone e di vite e la città, immensa e incontenibile, proiettava, come un’eclissi di sole, il suo vasto cono d’ombra sul quartiere. Persone in eterno movimento, come onde del mare, andavano e venivano a centinaia, a migliaia e nessuno si accorgeva mai di loro. Nessuno si ricordava mai dei loro volti, dei loro drammi grandi e piccoli, delle loro storie tutte uguali, che quando ne hai sentita una, le hai sentite tutte. E i loro sogni s’infrangevano sugli scogli e colavano a picco nell’indifferenza. Ma il mare era lontano e distante. Il quartiere ne era separato dal corpo immenso e putrefatto della città, ch’era cresciuto a dismisura nel tempo come un’immensa massa tumorale. Le sue strade, le sue piazze e le sue case, che una volta affacciavano sul mare, erano ora schiacciate fra le costole delle colline e l’ammasso tumefatto di palazzi, botteghe, fondaci, stabili e fabbricati, il corpo morto e congestionato della città. Il traffico caotico pulsava notte e giorno e copriva il rumore delle onde nell’aria affollata di colpi di claxon, rombi di motori a scoppio e stridore di frenate. Neanche il vento di mare giungeva più a sollevare le tendine delle finestre, con il suo carico d’umidità salmastra e non trasportava più le strida dei gabbiani in volo sulla rada a disturbare i pescatori. Nel quartiere arrivava solo vento di terra, che portava le nuvole, i temporali e la puzza delle discariche. Neppure un misero soffio di libeccio giungeva fino al quartiere per giurare sussurrando ai suoi abitanti che il mare esisteva ancora, laggiù da qualche parte a occidente, addormentato nel fondo letto del golfo e non era solo una macchia azzurra stinta su una carta geografica dimenticata in qualche soffitta.


29 Un popolo intero vagava per il quartiere, un popolo di occhi neri, fratelli di altri occhi neri. Facce sporche dall’incarnato olivastro, volti consunti, usurati dalla malvagità e dalla miseria. Una folla multiforme girovagava senza requie, di giorno come di notte, insonne quanto un’accolita di sonnambuli. Come un pellegrinaggio di anime in pena, tutto un popolo si aggirava per le strade sporche e malridotte, senza meta, senza scopo, senza niente. Di queste terre si dice che appartengono alla Bassa Italia, connotando l’aggettivo nel suo significato più misero, spregevole e meschino, contrapponendole all’altra Italia, quella nobile e fiera, industriosa, onesta e pulita. L’Alta Italia. E pensare che quando padre Giuseppe era bambino voleva andarvi a stare. «Sono emigrati in Alta Italia» sentiva dire dalla maestra, a proposito dei compagni di scuola, che da un giorno all’altro sparivano e si lasciavano dietro i banchi vuoti, quasi fossero stormi di rondini in cerca della primavera. Allora la immaginava come una sorta di mitica terra di Avalon, un regno leggendario di grazia e di abbondanza, che accoglieva tutti i disoccupati. Diventato ragazzo, capì che l’Alta Italia non era la terra promessa. Conobbe il rimpianto dei contadini e dei pescatori del Meridione, che ai piedi del treno che li aveva portati via con ancora il morso del sole sulla pelle, si accorgevano di non essere più uomini ma terroni. Naufraghi nudi e senza radici, alberi sradicati che protendevano i loro deboli rami nel vento impetuoso del Nord. Apprese come le fabbriche e i cantieri triturassero e fagocitassero le loro vite disancorate e salpate per sempre e li trasformasse in tristi e anonimi componenti di una classe operaia che si spugnava le ossa nell’umidità e nella nebbia, per mandare i figli a scuola a guadagnarsi il pezzo di carta tra gli insulti di altri figli della stessa classe operaia, con l’unica differenza di essere nati all’ombra delle Alpi. E quando seppe che quei fratelli d’Italia non erano poi così fratelli e che l’altra metà della penisola, la mezza Italia, era da essi così denigrata, quasi fosse abitata da persone non alla loro altezza, mezzi uomini come la loro terra, mezze cartucce, pigmei, italiani solo a


30 metà e per il resto, qualcos’altro, padre Giuseppe si vergognò a lungo del suo desiderio imprudente. Voleva tanto chiedere ai milanesi dove cazzo avrebbero costruito i loro palazzi, se Milano non fosse sorta fra le brume della vasta, grigia Val Padana, ma nell’angusto golfo baciato dal sole. Li avrebbero edificati gli uni sugli altri i loro stabili, sfruttando ogni minimo anfratto, ogni lembo di spiaggia e perfino ogni scoglio, ogni parvenza di pianura e il più piccolo slargo. Non avrebbero potuto fare altrimenti. Li avrebbero fatti tutti abusivi i loro tetri casamenti. Abusivi come il suo quartiere. Un grumo di favelas e fango. Tutto era illecito o, a dir poco, irregolare. Il municipio, l’ospedale, la stazione, il porto. Si vociferava che perfino il commissariato fosse abusivo e quindi, i poliziotti che andavano a caccia di abusivi erano loro stessi abusivi. E a volte padre Giuseppe si sentiva abusivo pure lui. Un precario, un irregolare, un fuori posto, come se venisse da altri tempi, o da un continente lontano, a tentare di redimere una città, con un incarico sempre appeso a un filo, un capo legato intorno al suo collo e l’altro in mano al vescovo. Un filo molto sottile, considerando il suo caratteraccio. Il degrado era ovunque. Sporcizia, rifiuti abbandonati, cattivi odori, strade piene di buche. Don Peppino ci provava da quando era stato assegnato a quella parrocchia a frenare l’incuria. Se abiti in un brutto posto, era solito ripetere, diventi brutto pure tu. Allora sostituiva i vetri rotti delle finestre e le luci esterne della canonica, faceva pulire di continuo e tenere in ordine il giardino parrocchiale e il campetto da calcio. E più fracassavano vetri, più rompevano lampadine, più sporcavano e gettavano rifiuti, più lui sostituiva vetri e lampadine e puliva e raccoglieva l’immondizia, finché, a furia di sostituire, pulire e raccogliere rifiuti, si erano stancati di fracassare le finestre della parrocchia, di rompere le lampadine, di buttare sporcizie all’interno del giardino e padre Giuseppe l’aveva avuta vinta. Se nella parrocchia ci sono riuscito, pensava, ci posso riuscire in tutto il quartiere e perfino nell’intera città. Si deve sempre provare, diceva.


31 Dobbiamo volare e cadere, dice a sua volta il saggio. E ancora volare e cadere e poi volare e cadere ancora, fino a quando potremo volare senza mai più cadere. La violenza era endemica nel quartiere, viveva sotto la sua pelle, nascosta appena sotto la superficie, l’epidermide d’asfalto, sempre pronta a esplodere. Era dappertutto, era nell’aria che respiravi e nell’acqua che bevevi, permeava il quartiere, si spargeva sulla superficie delle cose, si insinuava nelle intercapedini, filtrava dalle finestre, colava dai muri. Era impossibile liberarsene. I rapporti sociali erano definiti con la violenza. Ci si prendeva a botte, ci si accoltellava, ci si sparava, ci si avvelenava, ci si scioglieva nell’acido, ci si faceva saltare in aria l’un l’altro. Si uccideva nei modi più disparati e fantasiosi. “Ama il prossimo tuo come te stesso” era il comandamento meno messo in pratica, una legge divina pressoché sconosciuta. L’odio pareva il peccato migliore. Quello più frequente a udirsi dietro le pareti traforate dei confessionali. Era in bocca perfino alle vecchine timorate di Dio, che pretendevano d’entrare in chiesa a qualunque ora del giorno e della notte, non perché divorate dalla febbre della fede, ma a causa dell’insonnia o non avendo null’altro di meglio da fare. E soprattutto perché era gratuito. Le dolci nonnine, sgranando il rosario a mitraglia dalle bocche sdentate di megere, alternavano alle litanie sacre, raffiche di irripetibili improperi e terribili maledizioni alla volta del malcapitato di turno. La brutalità, l’aggressività e il sopruso rappresentavano forme di controllo sociale. Tutto il quartiere ne era pervaso. Era il naturale complemento delle cose di quel mondo distorto e sottosopra, alle quali aggiungeva un tocco di crudeltà, un velo di malvagità e di bassezza, un sudario di miseria, deforme, ributtante, come il sale nel caffè o il peperoncino sulla panna. Guastava la bocca, avvelenava i sensi. Per frenare tutta quella violenza ci voleva la legge. Non una legge qualsiasi, ma una legge dura, severa, spietata, ingrata. Una legge che non guardasse in faccia a nessuno, che fossero belli o che fossero brutti, buona per i buoni e buona anche per i cattivi, che non


32 determinasse la sua applicazione in base al grado di ricchezza o di povertà e che fosse uguale per i bianchi e uguale per i neri. La legge c’era nel quartiere, ma il difetto di quella legge, il difetto di qualunque legge, era che la si poteva applicare in due maniere: o la realtà si adatta alla legge o è la legge ad adattarsi alla realtà, e nel quartiere la legge la si applicava sempre nel secondo dei modi, allungandola o accorciandola come un vestito nuovo da adattare alla bisogna o rivoltandola come un abito vecchio da indossare ancora e ancora, oppure infrangendola, strappandola a brandelli come un indumento troppo liso per essere ancora portato. Le ragazze di questo quartiere fioriscono prima delle altre, incontrano subito la loro primavera, ma è una stagione che non dura molto. Giusto il tempo di un amore maledetto, morto in fondo a un preservativo rotto e nove lune di lacrime per una gravidanza indesiderata. È rapida la metamorfosi da figlia a madre, quando una vita estranea e parassita pulsa nel ventre e germoglia rigogliosa, succhiando sangue e dolore. La bellezza traboccava dai loro occhi scuri, già segnati dalla tristezza, dipingeva di naturale rossore le loro gote, sussurrava sulle labbra nude e prorompeva con vigore dai vestiti corti e leggeri con lo sbocciare di seni ancora acerbi sotto le scollature. Bambine imprigionate in corpi di donna cresciuti troppo in fretta. Belle come mele verdi non ancora mature. E la loro precoce bellezza sarebbe stata presto spenta e oltraggiata. Sarebbe stata risucchiata dai loro volti ridotti a teschi spolpati e raggrinziti come pesche rinsecchite, linfa pura, genuina e preziosa per nutrire le larve schifose che si annidavano nel sottosuolo del quartiere. Esse sarebbero presto diventate amanti di uomini d’onore, mogli di poveri diavoli, prostitute, puttane per scelta o per dovere, sbattute in letti di circostanza e costrette a seguire la sorte dei loro uomini, padri, fratelli, mariti e figli, per tutta la vita. Offerte in sacrificio al quartiere. Vittime sacrificali sull’altare del sesso e dell’amore. Il postribolo è molto più vicino al patibolo di quanto si possa immaginare. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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