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NICOLETTA E LUIGINO VADOR
LA CURVA DELLE MORE
ZeroUnoUndici Edizioni
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LA CURVA DELLE MORE Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-492-2 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Settembre 2021
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PREFAZIONE
Le prime pagine del romanzo sembrano già soddisfare la curiosità del lettore, che si abbandona a una lettura semplice e immediata, come se stesse ascoltando una favola di cui intuisce la trama, vittima dell’illusione di aver da subito compreso il tema del romanzo: l’epopea di una famiglia che scende dal cuore dell’Europa per giungere in un piccolo paese del Friuli. Già la scelta di questo itinerario, però, procura una prima piccola crepa nel quadro che l’immaginazione frettolosamente ha composto: il Friuli di fine Ottocento, come terra di immigrazione e non di emigrazione, come invece siamo abituati a sentire. Tuttavia, è proseguendo con la lettura che si avverte una sorpresa crescente e ci si accorge che il racconto si apre a tanti percorsi e vedute all’inizio non immaginate. Il punto di vista degli autori, come guidato da un obiettivo che alternativamente aumenta e diminuisce la propria distanza focale, avvicina alle vicende più intime dei personaggi per poi, allontanandosi, regalare viste più ampie. Si ha così l’occasione di capire come universale e particolare facciano parte della medesima scena, quella stessa che tutti noi calchiamo. Questo racconto conferisce un respiro storico non solo alle vite dei suoi personaggi ma anche a quelle dei lettori e di almeno un paio di generazioni di loro antenati. Viene, infatti, rappresentato circa un secolo di vita che, in quanto vissuto come declinazione del presente o come racconto dei propri padri, di solito non è percepito come una parte della grande storia. Da quest’album di famiglia, invece, escono fotogrammi che immortalano un percorso compiuto dai suoi membri, ma che mostra
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a tutti che la storia privata attraversa ed è attraversata dalla storia universale. Il dissolvimento degli imperi europei, le guerre mondiali, i cambiamenti di costume e sociali, la trasformazione delle campagne con l’avvento della meccanizzazione, lo smembramento della famiglia patriarcale, la diffusione del benessere, la scolarizzazione s’intrecciano con le semplici vicende private. Scorrendo le immagini di questa storia familiare, che potrebbe essere quella del lettore e che in ogni modo diventa sua nell’immedesimazione procurata dalle immagini del romanzo, si ha la percezione che ciascuno di noi, anche inconsapevolmente, partecipa alla scrittura della storia universale. Un altro carattere del romanzo, che si rivela progressivamente, è una forte simbologia capace di rafforzare i temi che gli autori offrono via via con la narrazione. Questa simbologia, peraltro, inizia a mostrarsi fin dal titolo. Con la stazione si affaccia da subito, per poi restare latente per buona parte del racconto, l’idea del viaggio. Un percorso di viaggio descritto e richiamato con l’immagine di una C capovolta, uno spicchio di luna. Questa visione richiama un contesto astronomico nel quale la stazione è il punto dell’orbita di un pianeta in cui questo cessa di muoversi in un senso e inizia a dirigersi in un’altra direzione. Un luogo che non appena raggiunto, seguendo una sorta di binario invisibile che necessariamente conduce lì, si deve lasciare invertendo la traiettoria; proseguire tornando indietro. Ma la stazione è anche il luogo dove svolgere ricerche, confutare teorie, mettere a frutto conoscenze, dunque un posto dove andare per trovare risposte. La stazione di cui ci raccontano è anche l’ultima, sia nello spazio sia nel tempo. Quell’aggettivo conferisce un carattere definitivo e porta con sé l’idea che oltre non si va. Più avanti non è possibile andare, ma forse non è nemmeno necessario visto quanto in luogo si può trovare. Siamo, infatti, alla stazione di Tábor che, nel richiamo all’episodio della trasfigurazione di Cristo, diventa il simbolo di qualcosa che mostra, oltre la semplice esteriorità, il proprio significato vero, ultimo.
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Il viaggio verso l’ultima stazione, quindi, è un viaggio alle proprie origini, dove tutto ha avuto inizio e dove poter trovare qualcosa di rivelatorio, qualcosa che va al di là delle apparenze e che può avvicinare al vero. Un viaggio che, proprio per com’è strutturato, pare compiersi del tutto solo al momento del ritorno, cioè solo nel tempo in cui si riportano a casa le esperienze raccolte lontano per fare più ricca e più consapevole la vita di sempre. In questo pare esserci una morale secondo cui ciascuno deve compiere un percorso per capire qualcosa di se stesso, e per farlo deve andare incontro a ciò che è stato. Anche se lo si può fare in compagnia o sotto la guida di chi ci ha preceduto, alla fine quello resta un cammino solitario, autonomo perché solo così potrà essere proficuo. In questo si realizza una sorta di paradosso per cui tanto più ci s’immedesima, confronta e confonde con chi è venuto prima di noi tanti più si è in grado di auto determinarsi. Alla fine del racconto sembra proprio affiorare questo, in un disorientante gioco di riflessi allo specchio di passato e futuro. Oltre la stazione, il lettore incontra molti altri simboli che sottolineano e dilatano il racconto. Tra questi il barbagianni Tábor è davvero l’emblema della conoscenza e della saggezza come la tradizione vuole; grazie a lui il piccolo Luigi vive un’esperienza importante in cui misurarsi con responsabilità, umiltà, affetto e provare i sentimenti uguali e contrari della gioia e del dolore. La vicenda del barbagianni, ancora, svela un mondo di sentimenti che lega gli uomini agli animali che, nel loro essere parte delle vite delle persone, si umanizzano e mostrano la forza attrattiva che i luoghi degli affetti hanno sia per gli uni sia per gli altri. Un altro simbolo ricco di capacità suggestiva è il berretto da capostazione che porta con sé l’iconografia del treno, della ferrovia e di quello che essi potevano ancora significare negli anni cinquanta: la velocità, il progresso, la fantasia e quindi il sogno, il viaggio, la crescita. Il berretto da capostazione indossato dal piccolo Luigi nel contesto del gioco fa pensare alla Freccia Azzurra di Rodari e a una avventurosa fuga verso la libertà; in questo caso la libertà dalle
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regole severe della famiglia, amata e rispettata ma spesso anche sentita come avara di attenzioni e di slanci emotivi. È in situazioni come queste, in cui c’è uno scarto tra il reale e il desiderato, che il bambino crea il proprio mondo immaginato e immaginifico dove, ribattezzandoli, trasforma in altro gli oggetti concreti che ha intorno, li muta in scenografia di un proprio spettacolo. Il castello dei vetri è una palestra dove esercitare la fantasia ma non semplicemente per evadere dal reale ma per anticipare il futuro, creare un tempo in cui essere già grandi, essere qualcosa d’altro. Magari più adulti e simili a qualcuno che ci è vicino e a cui si vuole assomigliare. In tutto questo si vede un percorso naturale in cui un bambino prima idealizza un adulto, che diventa un esempio e canone di virtù, e poi lo ridimensiona al rango di persona, con tutti i suoi limiti e difetti. Un’immagine ideale che si accende nella mente del bambino ed è spesso in grado, in modo salutare, di illuminarne e spronarne i passi; peraltro, altrettanto spesso e con un effetto ugualmente prezioso per quanto doloroso, è destinata a dissolversi con il tempo in quanto si tratta di un disegno infantile tracciato con strumenti troppo elementari per essere preciso e reale. Questa è la rappresentazione che Luigi fa dello zio Gigi, due attori sul cui asse gira molto del romanzo. Lo zio Gigi è l’icona di molte cose, soprattutto di un’autorità familiare il cui ruolo, assunto per investitura e mai messo in discussione, alla fine viene meno per l’incapacità di trasformarsi, di cedere qualcosa di sé. La figura umana dello zio Gigi è comunque ricca di altre suggestioni. Ad esempio è la descrizione di una sorta di espressività che emerge per difetto. Lo zio Gigi, infatti, comunica attraverso una sorta di litote emotiva, si manifesta per il fatto di non aver espresso il proprio contrario. Si tratta di una di quelle persone che ti approvano se non ti disapprovano, ti sostengono se non ti contraddicono. Spesso è il vuoto del loro comportamento, l’assenza del gesto negativo a dire qualcosa di positivo. Persone per cui un elogio non si pronuncia; non si comprende se per vergogna, per paura di perdere autorevolezza oppure per perseguire un disegno pedagogico in cui far trovare a se stessi le proprie sicurezze e le proprie soddisfazioni. Nel romanzo c’è
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anche la descrizione di un percorso di crescita di un giovane, che si muove tra segnali da decifrare per riempiere il vuoto di parole. Il romanzo è anche molto fotografico e ricco di poesia che, probabilmente, raggiunge il suo massimo lirismo nel racconto del raccolto del grano. Leggendo quelle pagine si è avvolti dai suoni, dal clima e dai profumi del luogo, si è immersi nella scena, calati in una sorta di dipinto tridimensionale. Un’altra immagine vivida è quella che descrive il concerto delle pompe che, a parte la propria forza estetica, simboleggia il senso armonioso della comunità unita nei medesimi bisogni, nelle medesime abitudini e gestualità. Un senso di promiscuità che, qualora non vissuto in maniera eccessivamente asfissiante, diventa un’opportunità per capire che le difficoltà sentite come personali ed esclusive toccano, in realtà, in dote a molti. Ma quando si tratta di malanni comuni questi appaiono quasi naturali, in qualche modo sensati e, quindi, superabili e non più percepiti come un incomprensibile accanimento del destino. L’ultimo messaggio sembra dedicato al nostro essere in relazione e continuità con chi ci ha preceduto. Una volta compreso che la nostra famiglia e i nostri antenati ci parlano, dicendo in tal modo qualcosa di noi, dobbiamo solo decidere se far finta di nulla oppure ascoltarli. Possiamo prendere, selezionare e usare quelle parole e cogliere così l’opportunità di fare delle nostre vite qualcosa di più di quello che sarebbero se restassero sorde a tutte quelle voci. Infine, un colpo di scena riporta la sensazione provata all’inizio del racconto, l’impressione di aver ascoltato una favola che lascia sereni svelando il senso circolare delle nostre esistenze. Dott. Bruno Brusadini
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CAPITOLO 1
Anno 1972 Partire fu per Luigi come trasferirsi in un altro mondo. Un mondo cresciuto a frammenti, che aveva preso forma dal disegno di una C capovolta. Dai ragionamenti scaturiti da essa. Da parole fermate nella mente. L’ansia era ingigantita dal fatto che mancava il protagonista, mancava lo zio Gigi. Era stata l’aspettativa di quel viaggio che li aveva fatti, alla fine, aprire l’uno all’altro. L’essenziale per Luigi era comunque tener fede alla promessa fatta. Per la promessa in sé, ma anche per accertare la storia che l’aveva coinvolto fin da bambino, al punto di chiedersi se fosse un’invenzione o un romanzo senza finale. Le ruote dell’auto macinavano la strada con lieve ronzio, l’andatura tranquilla, il suo cuore in subbuglio. I riferimenti per il viaggio, Luigi li aveva cercati sulla carta topografica. Aveva anche quelli del Conte Josef, ma lasciavano più spazio alla scoperta che alla rivelazione. Superato il confine con l’Austria le gallerie a tratti, nascondevano montagne rigogliose di alberi che arrivavano fin quasi sull’asfalto. Luigi teneva la mente fissa sul percorso che, chiamarlo viaggio era riduttivo, per ciò che per lui aveva rappresentato e ancora rappresentava. Era la verifica, o piuttosto la chiusura, di profili non ancora definiti dentro una promessa? I dubbi erano sopraffatti dai ricordi mantenuti intatti. Osservava il panorama maestoso e, d’improvviso, vide la
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strada rimpicciolirsi come doveva essere quando i suoi avi l’avevano percorsa scendendo in Italia. Tornò al presente, alla prima tappa che aveva in mente: la città di Salisburgo. Avrebbe proseguito poi per Linz, České Budějovice e infine Tábor. Attraversando il susseguirsi delle gallerie, d’improvviso avvertì la sensazione di entrare fisicamente dentro i racconti dello zio Gigi. Il sole che lo accecava, uscendo dalla fioca luce di quei tunnel, lo riportava alla guida di un antico treno sfrecciando nella direzione che ora lui, in auto, percorreva realmente. Risentiva sulla testa il peso del berretto da capostazione, quando a cavallo del tronco del fico Napoleone, nel suo Castello dei vetri, si protendeva ad annusare nell’aria, come fanno i lupi, il profilarsi del capobranco Gigi. Concentrato in quei ricordi, si accorse di aver superato l’uscita per Salisburgo. Pazienza! Si fermò a Linz per mangiare un panino in una birreria sulla grande ansa, tra il Danubio e il Pleschinger See. Nella limpidezza di quel lago si specchiava l’azzurro del cielo, che non raggiungeva lo stesso risultato nelle acque lente dell’immenso Danubio, che si lasciavano affettare dalle chiglie delle chiatte in transito. Ripartì subito dopo mangiato e, passata l’incantevole České Budějovice, Luigi si sentì lo scalatore arrivato all’ultimo campo base, la notte prima dell’attacco alla vetta. Tábor era la vetta, l’Ultima Stazione, punto primigenio del suo percorso a C. Il silenzio pensoso nella sua mente, d’improvviso, si lacerò nel frastuono di sensazioni che riprendevano forma; un’ora ancora e avrebbe raggiunto Tábor, la prima meta, nella Boemia meridionale, a ottanta chilometri a sud di Praga. L’ultimo tratto fu un fiottare continuo di curve che facevano apparire e scomparire la città di Tábor, quasi che si divertisse a giocare a nascondino. Dopo l’ultima curva più ampia, si trovò davanti la città distesa e si fermò ad ammirarne la forma circolare, delimitata a ovest dal lago Jordan, a sud dal fiume Lužnice. Era un luogo sicuro, protetto dall’acqua tutt’intorno.
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La strada, ombreggiata da folta vegetazione, scendeva verso il ponte con l’arcata unica che univa la città all’entroterra. Luigi si trovò in pieno centro storico, l’urbanistica raccontava una stratigrafia di stili architettonici diversi, dai cromatismi armoniosi nei quali coesistevano passato e presente. L’albergo si trovava accanto alle rovine del Castello di Kotnov, a pochi passi dalla Piazza Jan Žižka dove si affacciavano anche il Municipio e la chiesa della trasfigurazione di Gesù sul monte Tábor, dal quale la città prendeva il nome. L’antico soffitto in pietra, a larghe volte, della sua camera lo affascinava e gli riportò alla mente l’altrettanto antica carta topografica, ingiallita e strappata da un atlante appartenuto alla Contessa Astrid, conservata nel comò dello zio Gigi. Qui, da questa terra di Boemia, era iniziata la migrazione degli avi, il famoso percorso a C costellato di nomi che, strada facendo, assumevano contorni familiari: Boemia, Prussia, Austria, Tábor, Tulln… Si chiamava Gabriel, era il riferimento dato dal Conte Josef, lo aveva contattato da un mese e lui si era reso disponibile, avrebbe fornito notizie sul territorio e avrebbe guidato Luigi e lo zio Gigi. Gabriel era un giovane uomo, sui trent’anni, dagli occhi ridenti che trasmettevano simpatia. Nel suo italiano comprensibile chiese a Luigi dove fosse lo zio Gigi, l’amico prediletto del Conte Josef, che non vedeva. Luigi spiegò quell’assenza, e Gabriel si fece serio in volto e restò muto per molto tempo. Riprese a parlare dopo quel silenzio, per dire che il Conte Josef gli aveva anticipato lo scopo della loro visita. Aggiunse che lui portava il loro stesso cognome ma con una effe finale in più e aggiunse, anche, che probabilmente quell’ultima consonante era stata persa dagli avi di Luigi durante la migrazione verso l’Italia. Le trascrizioni manuali, nelle varie tappe, avevano di certo potuto creare occasioni per tralasciarla e ciò poteva significare che appartenevano, di fatto, allo stesso ceppo originario. Gabriel aveva predisposto l’itinerario come farebbe un Cicerone che desideri far conoscere le meraviglie della propria città, prima di
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procedere verso lo scopo vero e proprio del viaggio. La visita prendeva le mosse dalla torre rotonda di Kotnov, per ammirare da lassù la parte antica di Tábor sorta tra lo snodarsi del fiume. In una stretta ansa in fondo, Gabriel gli indicò un piccolo villaggio sovrastato dal rudere di un castello dai muri di pietre e sassi, che ancora resistevano. Gabriel riteneva che proprio lì avessero vissuto gli antenati di entrambi. Raggiunsero il Museo Hussita e scesero nei sotterranei in un labirinto vasto ottocento metri di superficie. Sulla parete di pietra Luigi poté ammirare, scolpito, il calice emblema della città fondata da Jan Žižka nel 1420. Si lasciarono alle spalle la città, alla volta del villaggio visto dalla torre, proseguirono costeggiando il fiume che a tratti s’infrattava tra gli alberi e, per la presenza di enormi massi, si ramificava divenendo quasi torrente. D’improvviso, davanti a loro si profilò un ramo deviato, che alimentava un antico mulino ad acqua, attorniato da alcune abitazioni con una locanda al centro; in quel tratto, rivoli argentini modellavano le rive e davano vita a cascatelle sovrastate da ponticelli in legno e ferro. La vegetazione era così fitta che i raggi del sole, filtrando a lame, sembravano giocare con la foschia dorata, rimbalzando dalle chiome degli alberi allo scorrere glauco dell’acqua. S’inoltrarono tra le case, andando oltre nell’umida penombra, d’un tratto Luigi gridò: «La buca dei vetri…» Gabriel si fermò a guardarlo stupito. Luigi, in silenzio, attraversò la porta quasi intatta che si apriva su un moncone di muro. Con le mani sfiorò le pietre e i sassi muschiati. Sul retro, tra gli arbusti e i rovi, era cresciuto un fico. «Sono i resti del piccolo castello che ti ho fatto notare dalla torre di Kotnov, e sono quasi certo che i miei, o dovrei dire i nostri antenati, vissero qui» disse Gabriel. Scie di visioni lontane e mai sbiadite riapparvero davanti agli occhi di Luigi. Scuotendo il capo, incredulo, seguì Gabriel che si dirigeva verso la locanda.
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Era ora di pranzo. Seduti a tavola, Gabriel ordinò un assaggio del piatto nazionale: Vepřo-knedlo-zelo1 e il powidl2. Mangiarono con appetito e poi si avviarono per raggiungere il palazzo della Contessa Astrid, la parte più saliente viaggio. Il palazzo era in periferia, situato sopra una collina che dominava la città. «Da anni non è più proprietà della famiglia dei Conti di Tábor» spiegò Gabriel. «Vuoto e privo di manutenzione sarebbe andato in rovina, se in una parte non avessero insediato la sede di una fondazione di ricerca, e non avessero aperto al pubblico il resto.» Luigi ricordava bene la facciata fastosa del palazzo della Contessa e del Conte Josef, suo figlio, e rimase sconcertato davanti alla sobria linearità esibita in questa costruzione. Il palazzo al paese, come nella memoria di Luigi, nonostante nel tempo avesse perduto smalto, rimaneva superbo: le torri svettanti; le due barchesse a ventaglio; il fiume che entrava nel parco, abbellito dai bossi modellati come statue, e formava un laghetto pieno di pesci, frequentato da germani reali, da cigni bianchi e neri, e usciva scivolando tra la cromotipia di alberi alti e variegati a bagnare la campagna. Ecco, Luigi si aspettava qualcosa di simile anche qui, invece Gabriel aveva fermato l’auto davanti a un palazzo a tre piani. La facciata e le due ali in linea, allungandosi verso la parte posteriore, gli conferivano una configurazione a U. Era inserito tra il verde e la pietra bianca dei muri esterni, al sole del tramonto si stava colorando di un rosa che si rifletteva sul piccolo slargo davanti al portone. Unica analogia con il palazzo italiano, lo stemma posto in centro all’architrave d’entrata. Non in ferro, ma un bassorilievo in pietra grigia rivolto verso il basso, quasi un’offerta di migliore visibilità per chi entrava. Di fronte al palazzo si apriva una conca lussureggiante di abeti che finivano nel lago sul quale ristagnavano frange di foschia. «Sarebbe chiuso, ma ho convinto il custode della fondazione a fare un’eccezione a nome del Conte Josef» disse Gabriel, spingendo il pesante portone. 1 2
Arrosto di maiale, gnocchetti di pasta e crauti. Mousse di prugne.
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CAPITOLO 2
Anno 1954 Il silenzio era il padrone di casa, indiscutibile come indiscutibile era il capofamiglia: lo zio Gigi. Al piccolo Luigi risultava normale! Da quando aveva cominciato a capire, infatti, si era fatto l’idea che il silenzio fosse qualcosa di consueto nelle famiglie, così come lo era nella sua. Osservava di sottecchi lo zio e notava che, se mai fosse stato possibile, in sua presenza quel silenzio si faceva ancora più denso e i monosillabi, appena sussurrati da sua moglie, la zia Lucia, parevano urla. A Luigi tutto ciò sembrava normale, anche in virtù del fatto che non aveva occasioni per sperimentare altri contesti. Questo riduceva la conoscenza dei fatti reali e, nel contempo, affinava il suo spirito di osservazione, tanto da convertirlo in immagini concrete da vivere e sperimentare anche solo in brevi accenni alla realtà che lo zio si lasciava di quando in quando sfuggire. La mancanza di dettagli spiegati, di elementi di riferimento temporale, lo obbligava inoltre a tempi supplementari di elaborazione. Il tempo, allora, non era un problema, Luigi poteva attendere quel tempo che avrebbe portato naturale chiarezza. I grandi parlavano solo tra loro, trattando esclusivamente del lavoro, non c’erano altri argomenti. Luigi doveva provvedere da solo a procurarsi le risposte alle infinite domande che gli nascevano fitte come i funghi nell’umido sottobosco di Toldo. In casa tutto era blindato dall’ordine imposto dal capofamiglia che, più di consentire qualcosa, proibiva quasi tutto.
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Luigi s’ingegnava a inventarsi storie e a trovare divagazioni per uscire dallo scorrere sempre uguale delle sue giornate. Qualcosa che lo portasse oltre il respirare, il mangiare, il dormire, l’attendere alle funzioni vitali di cui ognuno necessita. Ogni giorno diveniva nuovo, ogni azione un’impresa quasi eroica, la fervida fantasia lo salvava. D’estate, finito di cenare, zia Lucia, allargando con le mani la lunga gonna nera e lanciando imperiosi «Sciò, sciò» sgombrava l’aia da galline, da chiocce con i pulcini, anatre, oche e tacchini che si attardavano a raggiungere il pollaio nel fare incetta di moscerini. Questi ultimi, a fitte nuvolette, ronzavano intorno ai carri carichi di fieno, anche i pipistrelli volavano con lo stesso fine, mentre le rondini sfrecciavano stridenti in ogni direzione, schivando all’ultimo istante le persone che, istintivamente, si abbassavano coprendosi il volto con le mani. Dalla curva della strada che portava al cortile, improvvisamente appariva lui: il capofamiglia. Zia Lucia poneva l’indice diritto sulle labbra, accompagnando il gesto con un sibilante: «Shh!» che non ripeteva. Eh no! Non serviva. Dal fondo del cortile si spegnevano gli ultimi bagliori della giornata, e ogni cosa sfumava dietro di lui che restava stagliato in primo piano. E, come in una rappresentazione teatrale dove non sono ammesse sbavature, i più giovani fermavano il gioco, zia Lucia richiamava a sé la palla, veloce la faceva sparire nella stanza di disbrigo, così che a nessuno venisse la malaugurata idea di tirare ancora qualche calcio. Quello era il segnale che tutti avevano ben chiaro in testa. Era un punto fermo, stabilito molto prima che Luigi venisse al mondo, e si perpetuava senza obiezioni da parte di alcuno. Chi non era di famiglia e, succedeva che si trovasse nel cortile, subito si dileguava se Gigi era già troppo vicino, radente il muro. Gli uomini di casa, finito di cenare, uno dietro l’altro uscivano. Angelo, il papà di Luigi, portandosi dietro la sedia. Giuseppe e Marco si sedevano sul bordo di pietra dell’abbeveratoio. Ettore si accucciava sui talloni, la schiena addossata al gelso. In silenzio prendevano dalle tasche il tabacco, le cartine, arrotolavano le
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sigarette, le accendevano e fumavano; ciascuno perso tra le volute dei propri pensieri. Anche le ragazze uscivano e si raggruppavano in un angolo del cortile, raccontandosela sottovoce. Parliamo dell’estate, ovviamente, perché d’inverno tutti andavano in stalla. In modo quasi febbrile le donne sparecchiavano, zia Lucia preparava il posto per il marito. La donna che, magari stava stirando, riponeva la roba nel cesto, svuotava il ferro dalle braci nello spolert3, raccoglieva la coperta piegata a metà sul tavolo per lo stiro e spariva. Se un’altra aveva precedentemente messo in funzione la Singer, subito bloccava la spoletta, ritirava l’indumento e lo metteva nel cesto di vimini, copriva la macchina da cucire con la pezza apposita, e la portava nella stanza di disbrigo. La zia, infine, si premurava di chiudere le finestre, aperte per arieggiare le stanze affinché ogni odore, del cibo cucinato, svanisse. Gigi odiava gli odori stagnanti, soprattutto quello del pesce fritto. Se casomai fosse entrata qualche mosca, lei veloce, con la pompetta a stantuffo, spruzzava un po’ di flit4 e, infine usciva per controllare l’arrivo del marito che, spingendo sui pedali, guadagnava l’uscio di casa. Zia Lucia apriva il lato mobile della porta e pure l’anta fissa, togliendo i due chiavistelli che la fermavano al pavimento e allo stipite in alto, così che l’uomo fosse comodo nell’entrare, ma soprattutto nel far entrare la Bianchi nera. La Bianchi! Era la bicicletta dello zio Gigi. L’aveva acquistata da un capitano di cavalleria conosciuto durante il richiamo alle armi nella Seconda guerra mondiale: era di esclusivo uso personale. Aveva fatto fissare il fanale appena sopra il parafango per consentirsi, durante i mesi freddi, l’avvolgersi completamente nell’ampio tabarro, inserendo al suo interno anche il manubrio. Quell’indumento, che nessuno usava più, per lui era come una bandiera! Forse perché era un regalo della Contessa Astrid? Un
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Cucina in muratura di mattoni. Insetticida.
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regalo avuto dalla nobile quando il ragazzo Gigi, con il padre e lo zio Francesco, era andato a lavorare in Austria, in fornace. Perfino sul Carso, durante la Grande Guerra, se l’era portato. Sceso dalla bicicletta, con riguardo, la spingeva davanti a sé e l’appoggiava al muro della parete a sinistra della porta, di fianco la grande tavola. Con attenzione appendeva le chiavi della latteria al loro posto. Toglieva la giacca, la piegava, la poneva sullo schienale della sua seggiola. Zia Lucia gli portava subito l’acqua calda nel catino. Lui lavava le mani asciugandole meticolosamente, quanto meticolosamente le aveva prima insaponate e sciacquate. Rimetteva la giacca sulle spalle e si sedeva per cenare. È necessario dire che la Bianchi, per Gigi, non era un mezzo di trasporto, ma il suo prolungamento. Periodicamente la faceva oggetto di cure a dir poco straordinarie. Cure che, per dire, oggi riserveremmo a una Ferrari. Nel frattempo il cortile, incalzato dal crepuscolo, si adombrava. Restava solo qualche rumore di fondo: un ultimo stridio di rondine; l’incessante e lento ruminare delle mucche, e lo springare dei cavalli. Poi il buio calava sulle cose e sulle case. Le stalle tacevano e dal bosco di Toldo arrivava il ripetuto “cu cu” del cuculo; il gracidare delle rane nei fossi dove nasceva acqua sorgiva; nell’aria tremolavano lucciole, mentre in cielo apparivano fitte le stelle. Luigi, come un gatto, raggiungeva il suo angolo appena schiarito dall’unica lampadina posta al centro del soffitto nella grande sala. Respirando piano, osservava affascinato lo zio Gigi mentre mangiava. Ciascun movimento dell’uomo era per lui un rito quasi solenne. Dopo la morte di nonna Angelina, di nonno Luigi e suo fratello Francesco, i componenti della famiglia si erano ridotti a diciotto. Zio Gigi era il più grande, Luigi il più piccolo. Esattamente cinquant’anni di divario tra le due età. Stesso nome ereditato dal nonno, premessa di una dinastia che avrebbe dovuto moltiplicarsi e srotolare davanti a sé una lunga storia che aveva le radici lontane, sia nel tempo, sia nella provenienza.
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«Noi siamo originari della Prussia» Gigi proclamava, anticipando la domanda di chi veniva da lui per qualche affare o necessità. Non sapeva Luigi dove diavolo fosse questa Prussia e, sinceramente, forse neppure l’interlocutore di turno. C’è da dire che lo zio, mai faceva divagazioni inutili, l’affermazione era un preambolo alla risposta che sarebbe seguita, dando al convenuto, la giusta stima di chi aveva davanti. Lo zio Gigi per i suoi molteplici impegni dava udienza solo l’ora e il giorno da lui stesso stabiliti. Gli incontri avvenivano solitamente nel primo pomeriggio, dopo il rientro dalla latteria. Per colpa dell’orario, desinava quasi sempre da solo e il cibo, vuoi per l’ulcera, vuoi per i suoi gusti selettivi, era diverso da quello del resto della famiglia. Zia Lucia provvedeva a servirlo come fosse un’ospite di riguardo, preparandogli solo ciò che sapeva di suo gradimento. Seduto a capotavola, Gigi faceva accomodare l’intervenuto alla propria destra. Era una posizione strategica, perché gli permetteva di controllare tutto ciò che avveniva intorno a lui, e di essere ben visibile da chi, eventualmente, si fosse presentato alla porta e, vedendolo occupato, rispettasse la riservatezza dell’incontro. Solo a sua moglie era consentito restare. Lei, appartata nel cucinino, attendeva la sua eventuale chiamata: per portare da bere, per servire del salame, del formaggio, altro pane… Se alla parola Prussia la persona convenuta manifestava un minimo interesse, lo zio partiva con il racconto incentrato sulle sue ricerche fatte per scoprire la provenienza della propria famiglia. Nessuno osava interromperlo, anche se partiva da lontano per sciorinare contatti avuti, personalità interessate onde ottenere l’accesso agli archivi civili, parrocchiali, diocesani e militari. Con precisi dettagli descriveva le difficoltà incontrate nel proseguire, ma anche l’ostinata convinzione a venirne a capo. Non era tipo da arrendersi lui, questo era scontato. E l’aveva fatto ricostruendo la discendenza fino a dove l’autenticità dei documenti lo aveva consentito con certezza. Luigi, nascosto nell’angolo, seguiva la scena. Lo zio sapeva di quella presenza, ma pareva non vederlo! Il piccolo lo ascoltava, respirando
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a fili, attento a particolari inediti, ai dettagli già uditi, e annotando anche l’enfasi espressiva della voce e degli occhi dello zio. Lo zio Gigi aveva gli occhi azzurri che sembravano cristalli di ghiaccio, ombreggiati da lunghe ciglia e folte sopracciglia scure; il naso breve e diritto, sotto il quale portava i baffi ben modellati che non nascondevano i denti, perfettamente allineati. Parlava servendosi di pause controllate per enfatizzare ciò che intendeva. Concentrato come se stesse esponendo una lezione magistrale, frutto di studiato ragionamento, sottolineava l’esposizione alzando la mano destra a lisciare i capelli settimanalmente tagliati a spazzola. Quando arrivava al momento di maggior interesse: «Noi proveniamo dalle terre germaniche. La nostra famiglia ha le sue radici nella città di Tábor, a sud di Praga» diceva facendo la pausa più lunga, quasi attendesse il tributo di un applauso a sottolineare l’enunciazione, ma anche per lasciare all’interlocutore il tempo di valutare una volta in più, con chi aveva a che fare. Se Gigi notava un accenno di stupore o di curiosità, continuava: «Gli antenati della mia famiglia partirono dalla stazione di quella città con l’intenzione di raggiungere l’Italia, dove rifarsi una nuova vita e una posizione. Molte volte dovettero fermarsi, sostando in vari luoghi. La stazione più importante dopo Tábor, fu Tulln scendendo in Austria.» E qui, Luigi sempre sussultava! A lui nulla importavano gli argomenti di lavoro discussi dallo zio, le problematiche organizzative, le soluzioni da lui prospettate in modo eccellente che, in questi campi, non temeva rivali. Luigi aspettava il racconto delle sue esperienze a Tulln, quando da ragazzo era andato con il padre Luigi e lo zio Francesco a lavorare in fornace. Gigi mai si soffermava a evidenziare la fatica del lavoro, la condizione inferiore di emigranti rispetto ai pochi lavoratori locali, di raggiungere quel luogo a fine inverno a piedi, di ritornare nel successivo tardo autunno ancora a piedi o balzando fortunosamente su qualche treno merci in transito. «La terza stazione fu sulla riva destra del fiume Tagliamento» quasi laconico lo zio continuava calando l’enfasi che, invece, Luigi si
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aspettava crescesse, per il fatto che da questo luogo cominciava la loro storia sul suolo italiano. Senza evidenziare le qualità positive del popolo friulano, che molto ha in comune con i suoi confinanti, lui rimarcava l’organizzazione nordica, la disciplina, così che alla fine, anche se non si schierava esplicitamente, si capiva benissimo da che parte avrebbe preferito stare. Neppure si soffermava sulla permanenza oltre il fiume là dove, il ceppo originario, nel giro di una generazione si era diviso, disperdendosi. Suo padre Luigi e il fratello Francesco, al tempo ragazzi di diciannove e diciotto anni, con i loro genitori avevano superato la sponda sinistra del Tagliamento e si erano fermati in un paesino di otto case, proprietà della Contessa Astrid. Quel borgo era sorto verso la seconda metà del settecento, e traeva il suo nome dal corniolo per la fitta presenza di questi alberi. Le terre di famiglia della Contessa, da lì, si estendevano fino al mare. Tutte le famiglie erano al suo servizio. Luigi e Francesco, forti e sani, furono scelti da lei e presi a giornata: il primo come uomo tuttofare, il secondo come stalliere dei cavalli. Ancora lei procurò per loro e i genitori, un alloggio nel suddetto paesino. Luigi incontrò la futura moglie Angelina a palazzo. Lei era una ragazza generosa, svelta e sorridente, al servizio personale della Contessa Astrid, che dal nord scendeva nella sua tenuta nella stagione estiva. Per il resto viveva lì, con il marito e il figlio, al tempo di cinque anni. La Contessa, più che tedesca, si sarebbe potuto definirla francese per l’esile figura di media statura, i capelli castani addolciti da luminosi riflessi dorati che le sfioravano, quasi evanescenti, le spalle. Solo dagli occhi si sarebbe potuta indovinare la sua origine: azzurri, di ghiaccio adamantino. La ingentiliva il parlare, per via della graziosa erre moscia: non dura alla tedesca, ma arrotondata alla francese. L’estate in questione fu resa straordinaria da due fatti: Angelina e Luigi si sposarono; la Contessa tornò dal nord da sola, il marito, generale dell’esercito, era morto.
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La vedova si aggirava per le stanze come un’ombra in pena, quasi cercasse sollievo nel profondo della prostrazione in cui era caduta, anche solo il fantasma di un desiderio che le permettesse di riconciliarsi con la vita. Implorava un rimedio, che la facesse tornare dal figlioletto Josef, finalmente libera dall’avvilimento, dal patema per la morte del marito che lei, disperatamente, percepiva quasi come un tradimento. Angelina, sollecita, la seguiva nel silenzio delle stanze, che pure la nobildonna sentiva ancora animate di richiami amorevoli che non ci sarebbero più stati. D’improvviso cessava di girare a vuoto e andava da Francesco. Lui la vedeva arrivare in un alone di sofferenza che la spogliava dell’alterigia che l’aveva sempre contraddistinta. «Franz, sella il mio cavallo e portamelo» gli ordinava. Lui ubbidiva, poi l’aiutava a salire. Francesco era un ragazzo gentile, con gli occhi neri di carbone, al pari dei capelli lunghi, incolti e ondulati, il corpo possente e bruno abituato all’aria aperta. Guardava la Contessa con l’adorazione di chi avrebbe dato qualsiasi cosa per veder tornare sulle belle labbra almeno l’ombra di un sorriso, veder sciogliere il ghiaccio dei suoi occhi. Dopo essere salita in sella, il cavallo inspiegabilmente partì al galoppo e, fatto un centinaio di metri all’impazzata, si bloccò, sbalzandola in avanti. Francesco la vide volare e ricadere a terra come una bambola di pezza. Correndo forsennato la raggiunse. Astrid, raggomitolata su se stessa, si lamentava piano. Lui la raccolse e, stringendola tra le braccia, la riportò a palazzo. Angelina subito si prese cura della padrona. Per fortuna la caduta non aveva avuto conseguenze gravi, se non la slogatura d’un braccio. Da quel giorno, ogni volta che la Contessa montava a cavallo, Francesco la seguiva con attenzione seppure a doverosa distanza. Lei non lo impedì, mai. Era il 1898 e al loro primo figlio, che la Contessa volle far nascere in villa, Luigi e Angelina misero nome Luigi, da subito chiamato Gigi per distinguerlo dal padre. La Contessa, che si era fermata per un
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periodo adeguatamente lungo, subito dopo la nascita del pargoletto rientrò al nord da sua madre e da suo figlio. Prima di partire espresse loro la speranza di ritrovarli, come sempre, quando sarebbe tornata. Lo disse guardandoli a uno a uno, attendendo da ciascuno la conferma di una promessa certa. Infine si abbassò sulla creatura che Angelina teneva tra le braccia, depose sulla sua fronte un tenerissimo bacio. «Mio piccolo Ludwig» sussurrò, e di nuovo alzò gli occhi a guardare ciascun presente, fermando, un attimo di più, l’azzurro delle sue iridi sul volto di Francesco. In tutti i presenti sorse un sentimento di commozione, e le donarono quel sì di chi si mette a disposizione e su cui si può contare. Erano ormai trascorsi oltre dieci anni da quell’assenso. Angelina, in quel lasso di tempo, aveva partorito gli altri tre figli: Ettore, Marco e Angelo, nella casa del paesino. Francesco si era fermato a palazzo, continuando a badare ai cavalli. Era stata una richiesta precisa della Contessa Astrid, unita a quella che il fratello Luigi tenesse curato il palazzo e Angelina si occupasse, per tutto ciò che serviva, delle mansioni da donna. La famiglia cresciuta, pur nella vita grama del tempo, trovò così il suo decoroso sostentamento. Quando la nobile finalmente tornò, chiamò Luigi e ringraziandolo gli chiese di continuare il suo lavoro a palazzo. Gigi, il primogenito, lo accompagnava. «Ludwig sei quasi un uomo!» esclamò la Contessa guardandolo sorpresa. Il fanciullo le piantò addosso lo sguardo azzurro, stupito per quel nome detto in tedesco e lei, per un attimo, parve confondersi. Gigi era un ragazzino serio, servizievole, ma non servile, desideroso non di compiacere, ma di imparare. Fu la Contessa a proporlo apprendista nella latteria di proprietà e lui, con entusiasmo, si mise al servizio del mastro casaro che, come un libro aperto, non lesinò i segreti del mestiere accumulati nella sua vita professionale. In breve, Gigi ottenne inaspettata stima per l’attenzione con cui seguiva ogni insegnamento, per il modo
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immediato con cui apprendeva ogni passo e la bravura nel metterlo in pratica. Gigi amava anche lo studio, aveva finito la quarta classe con il massimo dei voti. Gli altri fratelli, invece, avevano frequentato la prima classe, per imparare a leggere e a scrivere. Ed era già stato un gran privilegio! Gigi sospese il suo impegno in latteria a quattordici anni per seguire, in Austria, lo zio Francesco e il padre Luigi, in fornace. Il nuovo impegno lo vide appassionato nell’acquisire nuovi segreti per ben due lunghi inverni. Fu l’occasione per lui di imparare il tedesco così velocemente che sembrava l’avesse sempre parlato. Vista la facilità nell’apprendere la lingua, un superiore gli aveva regalato un libro di grammatica avanzata. Forse aveva maturato allora l’apprezzamento per quel popolo, per l’ordine e la disciplina che gli erano propri. Per Gigi non era un sacrificio sottostare ai loro ordinamenti, anzi, li faceva suoi convincendosi e, sostenendolo sempre, che: “Ordine e disciplina sono i cardini indispensabili perché una comunità funzioni bene”. Ragazzo del 1898, non ancora diciottenne, imbracciato un fucile, fu mandato in trincea sul Carso, a proteggere i confini della Patria e a combattere proprio contro chi più ammirava al mondo. Fortunatamente ritornò a casa illeso, mai raccontò di sacrifici o di rinunce. Mai criticò gli ufficiali superiori o gli ordini che avevano impartito. Mai si lamentò della scarsità del cibo, dei parassiti che divoravano vivi i commilitoni, dei morti lasciati a decomporsi a cielo aperto, dei disagi immensi che quella guerra disperata inflisse a tutti. L’unico suo rammarico fu che gli italiani, lui compreso, non fossero equipaggiati come il nemico. Niente di più. La svolta della sua vita si presentò proprio allora: l’anziano casaro non era più in grado di gestire la latteria e chiese alla Contessa Astrid, tornata nella sua tenuta appena finita la guerra, il permesso di ritirarsi. La nobildonna incaricò il figlio Josef di prendere contatto con Gigi.
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Il Conte non perse tempo e alle sue scarse parole italiane si contrapposero le fluide tedesche di Gigi. S’intesero. Passato un breve periodo con il casaro dimissionario, Gigi fu in grado di cavarsela da solo. Il Conte Josef gli consegnò personalmente le chiavi della latteria raccomandandogli di rivolgersi, per qualsiasi necessità, alla Contessa sua madre qualora lui non fosse stato presente. Il piccolo Luigi e tutta la famiglia conoscevano bene quelle chiavi. Erano due, lunghe quanto una mano d’uomo aperta e quando lo zio Gigi rientrava dal lavoro le appendeva sul fianco esterno della piattaia, posta sopra la madia, affinché fossero ben visibili. Era chiaro che, per nessun motivo, dovevano essere toccate né tantomeno spostate. La latteria nelle mani di Gigi prese, fin da subito, un impulso straordinario. Serietà nella conduzione e nella contabilità. Volontà, ordine, igiene, disciplina coniugati a quella sua attitudine di volersi creare uno spazio proprio nel mondo, non potevano che produrre risultati positivi. Il rigore del suo metodo di lavoro, nell’accettare il latte portato dai contadini e nella sua trasformazione, all’inizio, fu considerato eccessivo dai paesani mentre la Contessa Astrid gli espresse personalmente e formalmente il suo pieno apprezzamento. Era un metodo che nulla scontava ad alcuno: le regole di pulizia valevano per tutti e, prima che per gli altri, le faceva valere per se stesso. Gigi portava il grembiule bianco immacolato e spandeva intorno a sé profumo di lisciva in ogni momento della giornata, non ci pensava due volte a respingere il latte conferito senza la dovuta cura. Questo rigore fece la differenza: i prodotti della latteria, così accuratamente preparati, furono apprezzati per l’eccellente qualità e molto richiesti. Partì da questo successo il cambiamento della famiglia. I genitori di Francesco e Luigi, erano morti. Francesco, oltre che stalliere era divenuto il guardiano del palazzo della Contessa Astrid e viveva in una stanza sistemata per lui nella barchessa. Il fratello Luigi valutò che con il lavoro dei figli – Gigi
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casaro, Ettore carabiniere e gli altri due impegnati nella campagna – avrebbero potuto affrontare il debito per l’acquisto di alcuni appezzamenti di terreno e di una casa adatta all’accresciuta famiglia. Si spostarono nel paese dei Rovi, i quattro figli che si erano sposati e, a eccezione di Gigi, con prole.
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CAPITOLO 3
«È qui, l’ultima stazione!» diceva lo zio Gigi a chiunque lo visitasse e accompagnava la frase con un ampio gesto della mano descrivendo un cerchio, per indicare l’approdo nell’attuale residenza. «Facendo esclusivo affidamento sulle nostre forze! Pur che la terribile depressione del ’29, ci morse fino nel midollo delle ossa» era solito precisare. Dal suo angolo di ascolto, Luigi si sentiva percorrere da un brivido. La conosceva bene questa frase che lo eccitava al punto da non riuscire più a stare fermo. Lo zio, ancora, fingeva che il nipote non ci fosse. Già da quando aveva iniziato a camminare Luigi, calamitato dalla forte personalità dello zio, lo tampinava anche se a dovuta distanza di sicurezza. Si era convinto che lo zio Gigi gli trasmettesse dei messaggi subliminali e lo confortava il fatto che era proprio lui, bimbo, l’unica presenza tollerata e apparentemente ignorata. Appagato dall’enfasi del racconto delle sue origini, Gigi mesceva al convenuto di turno che gli era davanti, un bicchiere di vino bianco. Gustava un sorso dal suo, ascoltava le richieste, se era il caso le accettava e, infine, lo congedava. Rimasto solo allontanava un po’ la sedia dalla tavola, prelevava dal taschino della giacca un sigaro, il coltellino e tagliava la parte che intendeva fumare. Con gesti misurati, riponeva il coltellino e il pezzo rimasto, usava uno zolfanello per accenderlo. Aspirava alcune boccate lunghe, socchiudendo gli occhi, tratteneva il fumo insieme al respiro poi, con evidente soddisfazione, lo sbuffava in alto. Passava due o tre volte la mano tra i capelli, nel consueto gesto che pareva un tic. Sbottonava i bottoni che ancoravano in quattro punti le
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bretelle ai pantaloni, i primi due della patta e, facendo un lungo sospiro come se fino a quell’attimo fosse stato obbligato in quell’indumento, beveva ancora un sorso di vino e lo faceva girare in bocca gonfiando le guance, poi lo deglutiva. A quel punto si concedeva un’altra comodità, stando seduto piegava la sedia appena un po’ all’indietro e, appoggiato lo schienale al muro, rimaneva in equilibrio sulle due gambe posteriori. Godeva molto il rilassamento che quella posizione gli procurava. Rimaneva così, immoto, come sospeso fra trame di chissà quali pensieri. In quel silenzio che pareva un pregio miracoloso, Luigi li immaginava fitti quei pensieri e solo lui in grado di sbrogliare.
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CAPITOLO 4
Prussia, Boemia, Tábor, Praga, Austria, Tulln, il nonno Luigi, lo zio Francesco, il Friuli, il Tagliamento, la benevolenza della Contessa Astrid che lo chiamava Ludwig e quella del Conte Josef suo figlio; e ancora, l’esperienza in fornace in Austria; la lingua tedesca imparata studiando di notte; la guerra sul Carso; il paesino del Corniolo; il paese dei Rovi, erano per Luigi, i capisaldi di un viaggio che lo zio Gigi, come un romanziere, scriveva sulle pagine bianche della sua fantasia. Ed era privilegiato perché quei racconti, riservati agli estranei, mai si facevano in famiglia. Nelle lunghe ore che trascorreva da solo, Luigi rielaborava quelle informazioni, anche se non era sempre in grado di collocarle correttamente nel tempo e nello spazio. Oggi, senz’altro, si può affermare che lo zio Gigi era l’archetipo indiscusso della sua famiglia. Il padre Luigi lo aveva elevato a quel ruolo ancor prima del suo tempo ultimo e i fratelli si erano inchinati a quel volere insindacabile. Gigi possedeva tutti i requisiti necessari alla funzione che ricopriva. Come già detto, aveva fatto propria una mentalità così rigorosa, applicata prima di tutto a se stesso, l’autorevolezza che derivava aveva validato “davanti alla storia” la scelta del padre. Da quel momento, intorno a Gigi si era creato un alone di rispetto, quasi di riverenza da parte di tutti. Come in una mappa immaginaria, in alcuni punti strategici del lungo cortile a L che si allargava e allungava davanti casa, Luigi aveva fissato, con chiarezza le stazioni del viaggio che lo zio andava raccontando.
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In prossimità della stalla delle mucche aveva collocato la Prussia; di fronte la porta di casa, l’Austria. Sotto il portico il grande fiume che, attraverso una scorciatoia, finiva nell’orto passando per il rudere denominato la buca dei vetri. Dal retro dell’abitazione si poteva rientrare in casa, attraverso il cucinino che era senza alcun dubbio, l’ultima stazione. Riempiva le sue giornate di corse a perdifiato in quella mappa ideale, Luigi si sentiva inserito in un esercito del quale lo zio ovvio che era il comandante. Lo collocava in sella a un cavallo bianco, come il loro Bianco. Al fianco destro metteva zia Lucia, sempre pronta a servirlo. Al sinistro, in prima fila, gli zii Ettore e Marco, poi Angelo, il suo papà e il cugino Giovanni, figlio di Ettore. Erano le persone delle quali Gigi si fidava ciecamente e, sebbene le tenesse in una sorta di prudente soggezione, non disattendevano i suoi ordini, mai. Dietro, venivano le donne e le ragazze della famiglia. Luigi, cavalcando il bastone Nino, chiudeva lo schieramento. Alla fine, stremato dal correre e dalle emozioni, legava il suo destriero al gelso. Quello splendido albero allargava le lucide fronde sopra la pompa dell’acqua, posta a destra, appena fuori la porta di casa. C’è da dire che il tempo speso in quelle corse, reali sulle gambe e fantastiche nella mente, era accompagnato dalla colonna sonora degli elementi. Lo spandersi del sole che donava calore e luce al gioco. L’alzarsi del vento che d’improvviso rinfrescava la pelle. Il canto delle cicale che, come un fremito attraversava l’afa piatta di certe giornate arroventate di luglio. La cupola del cielo d’un tratto percorsa da nembi che arrivavano annunciati dal brontolio di tuoni e guizzi dorati di saette. In quei momenti che precedevano il frangersi delle prime gocce di pioggia, si esaltavano gli odori delle stalle, l’afrore dei letamai e la fragranza del fieno nei fienili. Gli animali rendevano vivo, con le loro voci, il copione di Luigi: in esso ciascun attore recitava la propria parte, quasi guidato dai comandi di un esperto regista. Come succedeva in famiglia, dove
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tutto si risolveva con scabre parole, Luigi ne usava pochissime delegando il senso dei propri pensieri alla mimica di gesti essenziali, sguardi e segni in accordo alle diverse situazioni. Alla stregua dei grandi, nessun pianto esagerato, nessuna tregua per allentare la tensione, nessuna dissimulazione, non un grido per una richiesta d’aiuto o una risata a bocca spalancata per sciogliere un’emozione gioiosa, così che, anche il gioco era la precisa fotocopia del vivere familiare. Le poche parole che Luigi usava erano rivolte a Nino, il finto cavallo bastone compagno di gioco, e comunque erano parole sussurrate. Con esse rabboniva Nino, lo calmava, gli raccomandava di riposare all’ombra del gelso o del fico cresciuto nella zona antica dove stavano i cavalli, quelli veri, badati in tutto e per tutto dal cugino Giovanni. Giovanni aveva vent’anni più di Luigi, e questi lo invidiava a dismisura per quel legame speciale che aveva con i superbi animali. Lo osservava quando, dopo lo scarico del fieno, li conduceva in stalla. Quanto avrebbe voluto farlo lui! Guidarli, liberi con le redini lunghe, o tenerli per i montanti di cuoio delle testiere, una per mano, stando con noncuranza davanti a loro, come faceva Giovanni. Doveva accontentarsi, invece, di camminare prudentemente accanto al cugino. Stare a fianco o dietro ai cavalli, soprattutto al focoso Moro, era un vero e proprio azzardo. Quando i cavalli si sentivano liberi, anche la presenza di un gatto, oppure lo svolazzare di un colombo, poteva adombrarli e farli scalciare pericolosamente. Il mastodontico Moro guardava Giovanni con una lama di sfida nei grandi occhi umidi, quasi volesse mettere in chiaro chi comandava. L’uomo continuava il suo andare calmo e sicuro dandogli le spalle, noncurante. I grandi zoccoli, battendo la polvere, confermavano che il cavallo lo seguiva, non sempre la fermezza del giovane domatore bastava a indurlo alla ragione e allora, esaurita la pazienza, alzava la frusta. Il cavallo abbassava la bella testa, scuoteva la lunga coda e sbuffando, che faceva ridere tanto pareva umano, puntava arreso la porta della stalla camminando lento come se volesse prenderlo per i
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fondelli. Giovanni sorrideva e con un’ultima affettuosa pacca sulla groppa: «No sta fâ il basoâl»5 gli diceva. La vita complessa di una famiglia così numerosa, come lo era la sua, rese necessario accorpare le stazioni della mappa nata strappando informazioni dai discorsi dello zio e isolandone alcune: ogni singola attività, però, richiedeva spazio, e dunque Luigi dovette condensarle e relegarle nella memoria, pronte a essere richiamate al bisogno. Solo l’ultima stazione, quella reale, restava luogo nel tempo costante e in divenire e, i vari personaggi, che vi si avvicendavano entravano come comparse direttamente in quello scenario.
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Non fare il monello.
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CAPITOLO 5
Quando la presenza dei familiari saturava la scena, Luigi era una comparsa, e appena restava solo con la zia Lucia si trasformava in primo attore, nel protagonista: lo zio Gigi! Si concedeva lo stesso incedere e simulava la stessa intonazione nel parlare, ma senza riuscire ad arrotolare la erre come faceva lui. Come lui, però, distribuiva a destra e a manca ordini precisi e perentori. Come lui dava risposte puntuali ed esaurienti, mai l’aggiunta di una virgola superflua e, come succedeva a Gigi, anche solo imitandolo, Luigi constatava come tutto filasse alla perfezione. Quando lo zio non adoperava il tabarro, lo indossava facendogli fare due giri intorno al corpo come usava lui. Nel copiarlo, tentava anche di declinare i proverbi che, come un vate, Gigi dispensava per valorizzare il concetto da evidenziare. Taluni modi di dire erano diventati di uso comune, solo perché lo zio, per primo, se ne era avvalso. Un giorno arrivò in cortile un mercante di granaglie guidando uno scassato camioncino che si fermò davanti la porta di casa alzando una nuvola di polvere. Anche se mancava poco a mezzogiorno, i vicini accorsero al fracasso che già lo aveva annunciato all’imbocco del cortile. Era un OM Leoncino color carminio, e ne scese un uomo che subito spiegò a zia Lucia, accorsa trafelata, di essere stato mandato da Gigi a ritirare il grano. Lei lo informò che avrebbe dovuto attendere, perché il nipote Giovanni, preposto a caricare i sacchi, non era ancora rincasato. I
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sacchi erano comunque pronti, accatastati nella stanza di disbrigo, con dentro il frumento fresco di trebbiatura. L’uomo sembrava imbarazzato nel sentirsi addosso gli occhi di tutti e, non sapendo cosa fare per familiarizzare con quegli sguardi, si girò d’intorno: «Ven uchi piçul»6 disse a Luigi che stava nascosto dietro il tronco rugoso del gelso e dal quale solo mezza faccina sporgeva. Quell’albero gli donava un senso di protezione straordinario e vi trovava rifugio consueto quando, restando invisibile, cercava spiragli di osservazione. Sentirsi interpellato così, davanti a tutti, fu come essere colpito da una fiondata in pieno petto. D’istinto nascose la testa dietro al tronco, non fece nemmeno in tempo a pregare qualche santo, di quelli potenti invocati dalla mamma in qualsiasi occasione, che venisse in suo aiuto facendolo scomparire, che l’uomo lo agguantò per le ascelle e, sollevato come un fuscello, lo depose sul sedile di guida del camioncino. A Luigi quel brevissimo tragitto sembrò infinito, forse smise pure di respirare! Per non cadere, comunque, serrò entrambe le mani sul volante, rimanendo come un baccalà. L’uomo a quel punto si tolse il berretto rosso con la visiera, che portava calcato in testa, e lo trasferì sulla sua. «Cumò tu ses propit un capostazion»7 e rise forte, imitato dai presenti. Luigi puntò lo sguardo oltre il muro di cinta a cercare un improbabile appiglio a cui affidarsi. Li fermò davanti al quadrante della meridiana disegnata sulla colonna della casa di Toldo che, illuminata dal sole, appariva in rilievo. D’improvviso l’ombra dello gnomone si pose, precisa sul XII e la campana del piccolo campanile del paese prese a battere i canonici dodici rintocchi. Quel suono conosciuto lo scosse, ritirò lo sguardo e lo concentrò sull’ampia circonferenza del volante. Ne contornò tutto il cerchio con le mani, mentre l’emozione di stare al posto di guida, quasi lo soffocava. Allentata la paura, gli arrivò il chiacchiericcio delle persone e, in sottofondo, i gorgheggi del merlo di Toldo impegnato a schiarirsi l’ugola. Il nero volatile 6 7
Vieni qui piccolo. Adesso sei un vero capostazione.
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l’avrebbe usata, tra poco, per cantare Bandiera rossa. Come ogni giorno, a quell’ora circa, sarebbe stata trasmessa da Radio Capodistria e l’uomo, come al solito, avrebbe alzato al massimo il volume stimolando il merlo canterino. Quel canto, diffondendosi nell’aria, percorreva i cortili, s’infilava nelle cucine confondendosi con il profumo delle minestre che le donne si preparavano a scodellare. Non c’erano altre radio nel borgo e bisogna tener presente che Toldo era a casa propria, ma quell’inno, a tutto volume, infastidiva non poco il prete. Secondo quel sant’uomo Bandiera rossa alimentava, nei giovani, pensieri che facevano a pugni con il suo Credo ed era per lui un cruccio bestiale. Tuttavia nessuno si sognava di contestare Toldo che, dall’alto della sua veneranda età, godeva di un grande prestigio. Nella cabina del camioncino Luigi sfiorava ogni particolare ed era così preso che né l’inno né l’arrivo di Giovanni ebbero il potere di distrarlo. Il cugino, aiutato dall’autista, prese a caricare i sacchi disponendoli in orizzontale e riempiendo presto tutto lo spazio disponibile. I due svolgevano il lavoro parlando tra loro e con i presenti i quali contribuivano, con una spinta supplementare, ad alzare i sacchi fino ad arrivare alle file più alte. Quando, alla curva in fondo alla stradina apparve la sagoma di Gigi, la scena cambiò. I vicini con passo svelto presero la via di casa, mentre lui impettito sulla Bianchi avanzava incuriosito: lo sguardo teso a intuire la nuova presenza. Improvvisamente silenziosi, Giovanni e il conducente seguitarono a riempire il cassone del camioncino. Gigi si fermò davanti e, quando i due ebbero finito, li fece entrare in casa. Luigi era rimasto solo sul camioncino, continuava a sfiorare l’enorme volante nero a tre razze posto sul lato sinistro della cabina di guida, toccava affascinato i pulsanti e le manopole, i quadranti con i numeri sul cruscotto e il grande cofano del motore che occupava tutta la parte centrale della cabina. Riusciva a sfiorare le pedaliere solo con le punte degli alluci tesi.
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Così assorto sobbalzò quando l’autista aprì lo sportello e, dietro di lui, c’era Gigi! Scivolò a terra schivando il tentativo di presa dello zio e, a passo svelto scappò verso il suo rifugio. Un fico era attecchito all’interno del luogo dove Luigi, più di ogni altro dove, si sentiva protetto. A mezzo metro da terra il tronco era deviato, allungandosi in orizzontale verso il vuoto di una finestra crepata che dava sull’orto. In quel tratto, formava una specie di sedile adornato dalle foglie rigogliose e l’accenno di piccoli frutti. Luigi, afferrato con entrambe le mani il tronco, come fosse il collo affusolato di un cavallo, balzò a cavalcioni. A occhi chiusi prese a ciondolare le gambe avanti indietro, come due campane che suonassero sfasate. Il cuore invece cantava. Già il suo cuore cantava per quell’incontro, lievito per la fantasia. Aveva poggiato la testa al braccio con il quale si sorreggeva all’albero e qualcosa s’interpose. Spalancò gli occhi e, toccando la testa, si accorse d’indossare ancora il berretto dell’autista. Lo tolse per ammirarlo e gli parve bellissimo. Quell’uomo glielo aveva calcato in testa dicendogli che era da capostazione, all’apertura della portiera poi, trovandosi lo zio Gigi davanti, era scappato senza ricordarsi di ridarglielo. Sorrise rammentando che la mamma, in questi casi, nominava sempre un certo Bertoldo che cercava il proprio cappello in ogni dove e l’aveva addosso. Strano che lo zio non avesse detto nulla, ma neppure gliene aveva dato il tempo. Luigi sapeva perfettamente che in casa non erano ammessi berretti che non fossero il basco di panno dei piccoli, il cappello di feltro, la domenica, per gli uomini e quelli di paglia per tutti da usare nel lavoro dei campi. Quando la zia Lucia lo chiamò per pranzo, nascose il cappello tra i rami del fico. Si mangiò più tardi quel giorno, un po’ per via della vendita del grano, un po’ per la straordinaria presenza del capofamiglia. Mangiarono tutti, comunque, nel silenzio rotto solo dal tinnire delle posate nei piatti.
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Luigi divorò la minestra, spostò piano la seggiola, chiese il permesso al papà e uscì lento. Non appena fuori dalla porta si lanciò a recuperare il berretto e, nascosto sotto la canottiera, salì in camera, si stese sul letto e si appisolò. L’esperienza appena vissuta si prolungò nel sogno. Il berretto, segno di comando, apriva percorsi nuovi e audaci al suo viaggio, unendo le tappe del disegno basato sulle rievocazioni dello zio Gigi. Si svegliò di soprassalto. Tentò di concentrarsi per riprendere il sonno e riacciuffare il sogno, ma l’eccitazione non glielo permise. Nascose il berretto nuovamente sotto la canottiera e si alzò.
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CAPITOLO 6
La casa era immersa nel silenzio. Solo lo zio Gigi riposava ancora, lo provava la presenza della Bianchi poggiata al suo posto sacrosanto, nonché le chiavi appese nel tabernacolo costantemente aperto all’adorazione generale. Poi, Luigi l’aveva sentito scendere la scala. Svelto era uscito andando a rifugiarsi nella sua tana. Seduto a cavallo del fico, immaginò come poteva essere un capostazione, come poteva essere un treno, perché uno vero, lui, non l’aveva mai visto. Alzò il capo d’improvviso, fulminato da un pensiero: “Per conoscere il passato, serve un riferimento vero”. Luigi si stava trasformando in un cacciatore di documenti. Si concentrò, com’era sicuro facesse lo zio Gigi durante le pause che davano prestigio ai suoi discorsi. La soluzione? ingegnosa ma azzardata al punto che mentre si dipanava, gli salì la tremarella alle gambe! Dunque: lo zio per forza doveva avere i documenti, spesso li citava e li ricordava dovevano essere la base delle ricerche da lui fatte. Forse zia Lucia li aveva letti. Forse lei era a conoscenza di dove li teneva. Forse glielo poteva chiedere. Ma cosa andava farneticando? Questa strada non era percorribile, la zia non sapeva né leggere né scrivere. Lo zio Gigi, a pensarci bene, esprimeva solo risultati, sul come vi fosse pervenuto forse neppure a lei l’aveva rivelato. “Devo cercare nel suo comò!”. Ecco la chiave, ecco il perché della tremarella. La neonata idea lo fece sentire temerario, degno nipote di suo zio. Gli scappò un sorrisetto impertinente, ma lo allontanò, perché è risaputo che, quando hai davanti il vasetto aperto della marmellata, è
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difficile che non ti scivoli il dito dentro per un assaggio di dolcezza. La curiosità divenne sempre più invadente e, più tentava di distogliersi da quella tentazione, più ci finiva dentro. La camera dello zio, a tre passi dalla sua, era un’attrazione irresistibile. Ne controllava la finestra dal suo rifugio, immaginario teatro di una storia tracciata sui sassi muschiati. La curiosità di Luigi esplodeva, quando a cavallo del fico, immaginava che quella pianta concentrasse in sé tutta la forza della natura che si ripiglia sempre i suoi spazi, anche quelli in rovina. Eppure sapeva bene che solo pensare di violare quel comò era un oltraggio alla sacralità di quella camera. Nessuno, infatti, andava oltre la soglia, anche se socchiusa era come fosse costantemente piantonata da invisibili gendarmi e come contenesse reliquie preziosissime, neppure da osare a guardare. Sacrilego era quel pensiero malandrino, tuttavia, gli si era piantato in testa come un chiodo. Così un giorno, dopo mille prudentissimi no, si trovò nelle gambe un sì incondizionato, che lo obbligò a salire la scala tenendo in mano il berretto di capostazione, mai reclamato dal legittimo proprietario. L’audacia per ciò che stava per fare era così eccitante che percepì le farfalle volare nello stomaco. Arrivato alla soglia della camera si bloccò, con il cuore impegnato in una successione di capriole così esagerate da togliergli il respiro. Allungò, tuttavia, la mano a sfiorare il saltello e, al tocco incerto, lo stipite, come spinto dall’intrufolarsi di un refolo di vento, si aprì. Luigi rimase oltremodo sorpreso per quel segno che sembrava invitarlo a procedere. A soli tre passi da lì, c’era il comò con sopra una fotografia. Il resto del mobilio era costituito dal letto alto come un trono, posto al centro della parete, sopra la testiera di ferro campeggiava un quadro raffigurante la Sacra Famiglia, un attaccapanni di legno era fissato sulla parete opposta e, sotto, una poltrona enorme color cremisi, un po’ lisa sui braccioli. Luigi aveva osato l’impensabile arrivando fin lì e ora sentiva i piedi come immersi in un formicaio. Il comò, che forse custodiva le
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risposte alle sue domande, parve dissolversi davanti ai suoi occhi, risucchiato nella parete retrostante. Fu lo sbattere di un’imposta, chissà da quale finestra della casa che lo ricondusse alla realtà, rendendolo consapevole dell’enormità di ciò che faceva. Con un incespicato dietrofront, abbandonò la stanza. Le gambe a fatica lo portarono nella sua camera dove si abbandonò sul letto, preda d’una violenta vertigine, mentre le mani stritolavano il cappello da capostazione. Ci mise molto tempo per normalizzare i battiti del cuore. Si svegliò che il sole, attraverso le imposte socchiuse, lasciava filtrare lingue rossastre e soffuse sulle pareti. Nascosto il cappello sotto il paglione gonfio di brattee, scese. Zia Lucia stava preparando la cena e gli additò il panino con la marmellata: «Son vegnua a vederte, te dormiva come un anzoleto e no go vuo cuor de sveiarte» disse con dolcezza. Non ne aveva voglia Luigi, ma per non far torto alla sua sollecitudine, seduto sulla pietra dell’uscio prese a mordicchiare il panino. Quando vide lo zio Gigi venire dal fondo della stradina, scattò in piedi come se sotto le piante gli fossero spuntate due molle e il panino finì a terra. Lo raccolse, la marmellata rimase appiccicata al cemento del marciapiede. Lo zio, ormai all’entrata del cortile, non gli dava il tempo per rimediare e Luigi, con un piede scalzo, la allargò sull’impiantito poi saltellando sul piede pulito, entrò nella stanza di disbrigo, l’attraversò e riparò nel suo rifugio. Non si sedette sul fico, si rannicchiò nell’angolo più nascosto pulendosi il piede impiastricciato con un ciuffo d’erba. Sospirando pensò a quanto fosse forte l’influenza che lo zio aveva su di lui, così tanto lo ammirava, ma più ancora lo temeva. Di fatto nel mondo di Gigi, metodo e rigore erano le colonne dell’agire, mai una sbavatura, impossibile coglierlo in fallo. Le sue abitudini erano rimaste immutate nel tempo, mai variate. Pur essendo capofamiglia, non si concedeva privilegi, se non quello di procedere lungo l’arco dei suoi giorni assolutamente centrato su se stesso, sulle sue convinzioni nonostante il mondo attorno stesse cambiando.
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Cambiava il mondo e con esso cambiavano i valori dell’umana esistenza. La gente iniziava a considerare desueti taluni principi di autorità e ormai i comportamenti del patriarca erano come passati di moda. Luigi, ora più che mai, aveva il terrore d’incontrarlo. Era certo che, se lo avesse guardato negli occhi, anche alla solita dovuta distanza, lo zio avrebbe intuito l’intenzione che gli era nata e che lo aveva portato a violare la soglia della sua camera. Oh Signore! Come un ladro. Si era fermato, è vero, nel diabolico progetto, ma pur vergognandosene l’idea non si era esaurita. Gli sovvenne il suo impegno quotidiano, corse alla pompa e prese a pompare. Quando l’acqua raggiunse come doveva, l’orlo del laip8, tornò nel rudere e, nella luce che stava declinando verso le ombre della sera, abbracciò il suo fico. Piano sentì la tensione sciogliersi e al suo posto affiorare uno strano turbamento, era forse quello che la sua mamma chiamava rimorso? Per la prima volta aveva osato fare qualcosa che seppur non detta, sapeva fosse vietata e, come uno schiaffo percepì la violazione di quel patto tacitamente sancito dallo zio quando aveva tollerato la sua presenza di uditore nella cucina. In poche parole “poteva stare, seppure fintamente nascosto, ad ascoltare i suoi racconti”. A Luigi parve, però, di aver varcato un limite dal quale non gli era consentito di tornare indietro. E ripensando alla prodezza, avvertì anche uno strano lavorio che gli veniva da dentro. Stava cambiando, stava crescendo! Doveva iniziare a lavorare con metodo: tracciare programmi, vagliare nuove informazioni, fare come faceva lo zio con le sue sementi. Ecco che il rimorso, allora, si fece liquido e si scoprì appagato per essere stato così ardito, anche se non aveva portato fino in fondo la sua missione. L’aver almeno saputo cominciare un’azione pericolosa, lo fece sentire, una volta in più, degno nipote dello zio Gigi. 8
Abbeveratoio in pietra.
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La notte si consumò nel groviglio di un giusto-sbagliato desiderio di sperimentazione. Il carminio Leoncino OM, nel sogno aveva una rilevanza enorme, era stato il salire al posto di guida del camioncino a dare a Luigi l’idea di poter condurre in prima persona la propria ricerca a rendere reale la fantasia. L’esigenza di conoscere nuovi dettagli sul viaggio dei suoi avi, riportò quindi in primo piano, la necessità di accedere alle fonti. Allora ritornò al suo posto di osservazione in cucina, evitato per qualche giorno, e riprese ad ascoltare lo zio. Correva dopo ogni novità nella sua tana e, in quel luogo esclusivo catalogava ogni parola udita. La famiglia, così numerosa, richiedeva un impegno costante da parte di tutti i suoi membri e, di fatto, nessuno perdeva tempo per spiegazioni che la curiosità di un bimbo rivendicava. Al tempo i grandi giudicavano assolto il proprio compito quando provvedevano ai bisogni primari dei piccoli. I bambini imparavano guardando gli adulti attendere alle loro incombenze senza fare domande, così come avveniva da sempre. In famiglia vigevano regole semplici, ma rigide e indiscutibili, volute dal capofamiglia. Una frattura, a volte dolorosa, s’interponeva tra lo zio e il resto degli uomini di casa. Un carisma, il suo, che sovrastava anche l’autorità paterna che fratelli e nipoti avrebbero voluto esercitare sulla propria prole. Luigi, ad esempio, prese a dubitare chi fosse realmente suo padre, a partire da un episodio a dir poco straordinario. Una domenica mattina suo papà tornò dalla stalla del paesino e cominciò a prepararsi per andare a messa. La mamma avvertì l’uomo che il parroco aveva cambiato orario della funzione, anticipandola di mezz’ora. Per non perderla, anziché radersi e cambiarsi d’abito, come vuole il rispetto dovuto alla casa di Dio, decise di andare così com’era conciato. Davanti alla chiesa trovò alcune persone ferme sul sagrato e s’informò come mai stessero lì invece che entrare. «Angelo, non possiamo. Il parroco ha sbarrato l’entrata.»
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«Per quale motivo?» «Sostiene che c’è sempre qualcuno che, arrivando in ritardo disturba la celebrazione» risposero mortificati. Angelo perse subito la pazienza e, afferrato con entrambe le mani il maniglione, cominciò a scuoterlo allungando potenti calci sul legno del portone. Il Sacerdote stava sul pulpito e aveva appena iniziato l’omelia, fece finta di nulla. Fuori, il frastuono aumentò, amplificandosi all’interno, fino a quando non si udì più nulla di ciò che il sant’uomo predicava. D’improvviso tacque e, sbrigativamente, fece cenno a un chierichetto di aprire il portone. Papà Angelo entrò come una furia e dietro di lui gli altri esclusi, sostò alla pila dell’acqua santa, fece il segno della croce poi, alzata la mano in direzione del pulpito, in un silenzio agghiacciante e con gli occhi di tutti i presenti puntati addosso: «Voi, signor parroco, potete chiudere la porta di casa vostra quando e come volete, non quella della chiesa. La chiesa l’abbiamo fatta noi parrocchiani, non voi e deve restare sempre aperta» disse con la voce tagliente come lama di rasoio. Restò in piedi in attesa di una replica che non ci fu. Dopo un tempo che parve cancellare anche i respiri, il sant’uomo riprese l’omelia dal punto in cui l’aveva interrotta e papà Angelo andò a sedersi. Luigi, in veste di chierichetto, all’improvviso perse il controllo del suo corpo, tanto si era emozionato alla scena, gli presero a tremare le gambe in modo convulso. Quando si acquietarono, nella calma sopravvenuta ripensò alla fiera ribellione di suo padre nei confronti di quel sant’uomo potente e si sentì orgoglioso di lui. Continuò a guardarlo, di sottecchi, mentre si rasserenava e riprendeva a seguire compunto la funzione. Per la prima volta Luigi si rese conto che il papà era un uomo forte, che non accettava prevaricazioni da chicchessia, e che era capace di far valere il proprio diritto di partecipare alla messa. Quel giorno, Angelo non solo acquistò considerazione agli occhi del figlio, che prese a guardarlo in modo nuovo, ma anche in paese si parlò dell’eclatante gesto. Tutti raccontavano dell’episodio elogiando il coraggio di Angelo, che eroicamente aveva agito come ognuno
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avrebbe voluto fare, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di mettere in atto. Da allora la porta della chiesa rimase sempre aperta. Angelo non tornò più sull’argomento, l’incidente, per lui si era risolto con l’affermazione di un diritto. Partecipare alla messa era uno dei capisaldi della famiglia. Tutti la frequentavano, tranne lo zio Gigi. Il prete, suo coetaneo e cappellano militare con lui durante la Grande Guerra, gli faceva visita in un incontro privato con scadenza annuale, poco prima di Pasqua. Lo zio, infatti solo a Pasqua, a Natale, a Sant’Antonio e il giorno della Madonna, presenziava alla Santa Messa, poiché solo in quelle ricorrenze gli orari delle funzioni erano in accordo con i suoi impegni di lavoro. Il sacerdote, facendogli visita, gli concedeva la dispensa domenicale perché la latteria era attiva anche in quei giorni. In compenso tutte le domeniche lo zio andava al vespero, nel pomeriggio, senza passare per casa a riordinarsi, poiché lui era sempre vestito a festa, eccezione fatta per i piedi, solitamente usava gli zoccoli e per la funzione vespertina calzava le scarpe. In chiesa restava in piedi, al suo posto abituale tenendo, con rispetto, il cappello in mano. Alla fine, pur salutando tutti, non si fermava a parlare con alcuno. Salutava anche chi incontrava tornando a casa, loro gli rispondevano con deferenza. Egli era scrupoloso nel conferire il cortese9 alle parrocchie in riferimento ai terreni lavorati dalla famiglia. La quota da versare era sempre puntualmente rispettata, sia se si trattasse di frumento e di granoturco, o di formaggio e vino. Sempre della migliore qualità. A Pasqua ordinava di mettere in un cesto, su un letto di paglia, l’agnellino ultimo nato e incaricava i più giovani della famiglia di portarlo al parroco quale simbolo della risurrezione di Cristo. Luigi, come di consueto nascosto nel suo angolino, durante una delle visite del parroco allo zio, origliò le loro confidenze. Udì Gigi confessare al Don che in guerra aveva scelto volontariamente di fare azioni di coraggio, come andare a tagliare il filo spinato davanti alle 9
La decima del raccolto.
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trincee, per non dover sparare. Era un’impresa rischiosissima, che costringeva fanti come lui a uscire dalla trincea, avanzando verso quelle nemiche armati solo di cesoie. Se scoperti non avrebbero avuto scampo, se fortunati e a Dio piacendo tornati incolumi, sarebbero stati dispensati dall’andare all’attacco. In tutto il tempo passato in trincea, dal suo moschetto mai partì un colpo! Reduce a casa, non se la sentì di esporre la croce di guerra, da una parte essa rappresentava l’onore militare, dall’altra la considerava quasi un affronto verso il popolo tedesco-austriaco che tanto aveva imparato ad apprezzare. A volte Luigi aveva sentito i due uomini confrontarsi su posizioni etico - politiche e, il più delle volte erano in accordo. Il prete elogiava la conduzione della latteria della Contessa Astrid, un’eccellenza raggiunta grazie alla gestione di Gigi. L’apprezzamento era doveroso anche perché, per ordine della nobildonna e a differenza di altre latterie, il formaggio da offrire alla chiesa era fatto due volte l’anno, una gentilezza rispetto alla misera unica offerta annuale che gli altri portavano al sant’uomo. C’è da dire, inoltre, che alcuni contadini sceglievano di non portare il latte proprio quando esso era raccolto per la chiesa. «Comunisti» li apostrofava il Don. Era così grande il disappunto che, facendosi paonazzo in volto, scattava in piedi alzando la mano destra là dove, invece del crocifisso, pareva brandire una spada. Per un lungo istante tremava dalla testa ai piedi ed era ben visibile anche sotto la tonaca lunga fino ai piedi. Quando si calmava faceva un plateale segno di croce per scusarsi con Dio. Gigi pareva abituato a quelle esternazioni e faceva un gesto vago con la mano, come dire: «Ca nol stei a cjapâsile»10 e gli versava un bicchiere di vino, gli metteva davanti il piatto del formaggio, del salame affettato, il cestino del pane magari fatto con l’uva, o con i fichi, o con la zucca o le noci a seconda della fantasia di zia Lucia. Anche dopo lo sfogo, il sacerdote non abbandonava il motivo principale della sua visita finalizzata a coinvolgere Gigi contro i 10
Non se la prenda.
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comunisti. Voleva averlo dalla sua parte per il rispetto che godeva, sarebbe stato come essere sostenuto da quasi tutto il paese. Gigi era perplesso anche se sembrava condividere il pensiero del prelato, ripeteva che non riteneva essere corretto, schierarsi politicamente dal momento che era il mastro casaro e che tante famiglie dipendevano dal suo lavoro. Il prete incassava, ma non ce la faceva proprio a non elencare i nomi di quei cence Diu11. Nomi che scandiva a uno a uno in perfetta corrispondenza ai voti che quel partito aveva raccolto alle ultime elezioni, pari al dieci percento dei complessivi votanti. In realtà, si trattava di un numero esiguo di persone, poche decine, ma per lui erano un battaglione. I socialisti, che avevano la stessa percentuale di voto gli facevano venire il mal di pancia, ma gli innominabili lo mandavano fuori dal seminato, delirava nel senso etimologico del termine e lo zio per calmarlo: «Servirebbe più ordine, più disciplina!» diceva giusto per dire qualcosa. Se poi si sentiva di partecipare con più incisività a quel soliloquio, aggiungeva: «Bisognerebbe mandarli in Siberia, con il biglietto di solo andata!» Il Don, a quel punto, lo sentiva più complice e allora gli chiedeva scusa per la rabbia cresciuta e dovuta, secondo la visione del sant’uomo alla slealtà di quelle persone. Lui aveva battezzato tutti i loro figli e li riteneva figliocci, mentre loro ingrati lo tradivano Di ciascun battezzato, infatti, si sentiva il padrino e pretendeva che fin da piccoli i suoi parrocchiani non lo chiamassero Don, ma Siôr Santul.12 Confidò allo zio che, nel tempo della benedizione delle case, quando passava davanti alle abitazioni di costoro che mai l’avevano ricevuto per benedirle, attento a non essere veduto, aspergeva tutto il confine di quelle proprietà d’acqua benedetta accompagnata da una silenziosa preghiera per le loro anime, affinché l’Onnipotente intervenisse a ravvedere quelle teste deviate e salvarle.
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Senza Dio. Signor Padrino.
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Non solo questo cruccio il buon parroco aveva, un altro gli derivava dal ballo che da qualche anno si teneva in occasione del Santo patrono e, peggiore cruccio tra i crucci, la lunghezza delle gonne delle donne! Ma procediamo con ordine. Associare il ballo in piazza a una festa religiosa, così importante come quella del Santo Patrono, per il Don era, oltre che una sofferenza personale, un atto d’irriverenza. Il solo pensiero che un suo parrocchiano praticante, in quell’occasione andasse anche al ballo, lo tormentava ed era poco meno di una pugnalata nella schiena. Vedeva in quell’innocente festa un luogo di licenziosità che rinnegava tutto ciò che di eticamente sacrosanto lui insegnava. Lo zio Gigi, di fronte a questa decisa disapprovazione taceva perché, se poteva supporre che nessuno in famiglia sostenesse i comunisti, non altrettanto poteva fare per il ballo. Infatti, a qualche ragazza di casa poteva capitare di fare un giro di valzer, magari non del passionale proibito tango. Lui la sera della sagra non usciva mai e, dunque, non se la sentiva di mettere la mano sul fuoco per loro. Eravamo alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, e la moda aveva accorciato le gonne femminili fin sotto al ginocchio lasciando le gambe nude, o velate da calze di nylon. «Stiamo marciando inesorabilmente verso la nudità! Vedi amico mio» si rivolgeva il Don a Gigi. «Ciò che risulta più licenzioso è l’atteggiamento delle giovani che vanno in bicicletta. Senza ritegno lasciano scoperte le gambe una spanna sopra le ginocchia.» Per essere in regola, gli confidò di aver chiesto lumi al Vescovo circa la lunghezza della gonna da pretendere per le donne, giovani e non, durante le funzioni in chiesa. Sua Eccellenza gli aveva risposto di attenersi alle norme già pubblicate. Troppo generico! «Personalmente ho adottato la misura secondo me più adeguata: la veste deve toccare terra quando la donna sta inginocchiata col corpo diritto» spiegò a Gigi, il quale, per tagliar corto, si ritenne d’accordo dandogli così, piena soddisfazione. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
PREFAZIONE .......................................................................... 3 CAPITOLO 1 ............................................................................ 9 CAPITOLO 2 .......................................................................... 14 CAPITOLO 3 .......................................................................... 26 CAPITOLO 4 .......................................................................... 28 CAPITOLO 5 .......................................................................... 32 CAPITOLO 6 .......................................................................... 37 CAPITOLO 7 .......................................................................... 47 CAPITOLO 8 .......................................................................... 56 CAPITOLO 9 .......................................................................... 61 CAPITOLO 10 ........................................................................ 70 CAPITOLO 11 ........................................................................ 79 CAPITOLO 12 ........................................................................ 82 CAPITOLO 13 ........................................................................ 92 CAPITOLO 14 ........................................................................ 98 CAPITOLO 15 ...................................................................... 113 CAPITOLO 16 ...................................................................... 121 CAPITOLO 17 ...................................................................... 124 CAPITOLO 18 ...................................................................... 127 CAPITOLO 19 ...................................................................... 130 CAPITOLO 20 ...................................................................... 132 CAPITOLO 21 ...................................................................... 137 CAPITOLO 22 ...................................................................... 139 CAPITOLO 23 ...................................................................... 141 CAPITOLO 24 ...................................................................... 142 CAPITOLO 25 ...................................................................... 144 CAPITOLO 26 ...................................................................... 146
CAPITOLO 27 ...................................................................... 153 CAPITOLO 28 ...................................................................... 155 CAPITOLO 29 ...................................................................... 156 CAPITOLO 30 ...................................................................... 161 CAPITOLO 31 ...................................................................... 168 CAPITOLO 32 ...................................................................... 175 CAPITOLO 33 ...................................................................... 180 CAPITOLO 34 ...................................................................... 186 CAPITOLO 35 ...................................................................... 188 CAPITOLO 36 ...................................................................... 190 CAPITOLO 37 ...................................................................... 191 CAPITOLO 38 ...................................................................... 196 CAPITOLO 39 ...................................................................... 200 CAPITOLO 40 ...................................................................... 205 CAPITOLO 41 ...................................................................... 208 CAPITOLO 42 ...................................................................... 211 CAPITOLO 43 ...................................................................... 214 CAPITOLO 44 ...................................................................... 216 CAPITOLO 45 ...................................................................... 221 CAPITOLO 46 ...................................................................... 224 CAPITOLO 47 ...................................................................... 229 CAPITOLO 48 ...................................................................... 231 CAPITOLO 49 ...................................................................... 236 CAPITOLO 50 ...................................................................... 237 CAPITOLO 51 ...................................................................... 239 RINGRAZIAMENTI................................................................... 241
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.