La Fonte della Creazione

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In uscita il 30/6/2015 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2015 ( ,99 euro)

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ROBERTO SERVI

LA FONTE DELLA CREAZIONE

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LA FONTE DELLA CREAZIONE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-897-8 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Albert Einstein fu un uomo di straordinario intelletto, il cui stupore per la fisica lo portò ad alcune tra le più importanti conquiste della scienza e la cui fede nella compiutezza di un disegno divino lo spinse a ricercare un significato che andasse oltre la semplice apparenza, ma che allo stesso tempo fosse espresso secondo criteri scientifici. Lavorò quasi sempre da solo, concependo le sue idee nei momenti più svariati, confidandole a volte ad amici intimi e lasciandone vaghe tracce su dei fogli sparsi. Delle sue ricerche nel finire della sua carriera e dopo il trasferimento a Princeton non si ebbero che pochi stralci. L’accanimento verso le bizzarrie del mondo ultramicroscopico, derivazioni di quella fisica quantistica che tanto scombussolò la sua visione del mondo e che lui stesso contribuì a creare, si affievolì con gli anni. La teoria unificata che inseguì per lungo tempo, fino alla morte avvenuta nel 1955, non vide mai la luce.



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PROLOGO

Bruxelles, Belgio; 14 ottobre 1931 Il giovane autista che attendeva fuori dell’Hotel Metropole, al numero trentuno di Place de Brouckere, era irrequieto e volgeva di tanto in tanto lo sguardo ai passanti che attraversavano la strada semi deserta. Aveva svolto servizio solo due volte prima di quella sera e provava un senso di crescente agitazione al pensiero di trovarsi al cospetto di personalità tanto illustre. La Conferenza Solvay che si stava tenendo poteva annoverare tra i suoi partecipanti i maggiori protagonisti del fervente clima scientifico di quegli anni. Veri e propri luminari, quali Niels Bohr, Werner Carl Heisenberg, Max Planck e Albert Einstein, si erano dati appuntamento per discutere dei problemi della fisica e stavano per fare capolino all’uscita dell’Hotel. La portiera venne aperta di colpo e il giovane autista ebbe appena il tempo di reagire prima che un uomo lo immobilizzasse premendogli un fazzoletto imbevuto di sonnifero sul viso. Una volta preso il suo posto, lo stesso uomo si diresse, dopo una netta inversione, dalla parte contraria a quella lungo la quale erano appostate le altre vetture. Il corpo inerte dello sventurato fu lasciato in un vicolo, poco lontano, a terra vicino un cassonetto. Il suo assalitore salì di nuovo a bordo, indossò il berretto da autista e dopo una breve pausa ripartì adagio, per prepararsi a svolgere il suo incarico. Le persone che a mano a mano abbandonavano l’auditorio andavano qua e là a formare dei piccoli capannelli all’uscita, verso i quali accorrevano i vari cronisti, appostati lungo l’ampio marciapiede. Uno di questi attese fino a che la persona che più di tutte aveva contribuito a rivoluzionare quell’epoca non comparve, dietro alla grande porta girevole, con la sua solita capigliatura arruffata e l’aria sicura di sé. A un cenno d’intesa con l’autista si mosse per primo verso l’eminente scienziato estraendo dalla tasca un tesserino e tenendolo bene in vista mentre gli altri giornalisti andavano rapidamente assiepandosi alle sue spalle. «Professor Einstein!» lo chiamò non appena questi mise piede all’esterno. «Sono George Winthled, lavoro per Physical Review, potrei parlarle in privato, la prego. Saremmo interessati a un suo intervento sulla nostra rivista». «Non ho nulla da proporvi al momento» disse con fare evasivo il professore,


6 ormai abituato agli assalti dei cronisti. «Le saremmo comunque grati» lo incalzò l’altro prima che si dileguasse, «se ci potesse rilasciare un commento sulle controverse asserzioni della fisica proposte da Bohr e da Heisenberg, e magari sulle ricerche di cui si sta occupando ora». «Non c’è nulla di cui mi stia occupando ora» rispose, senza fermarsi. «Quanto alle affermazioni dei miei colleghi, sulla fisica quantistica, penso che ci sia ancora molto da discutere» aggiunse con un’espressione che la diceva lunga sul suo punto di vista a riguardo. «La prego, professore, le ruberò solo pochi minuti, è proprio di questo che vorremmo che lei ci parlasse». Il professor Einstein sembrò in un primo momento non dargli ascolto, avanzò di un altro passo attraverso la ressa di giornalisti e poi si girò dalla sua parte. «D’accordo» gli disse, come se improvvisamente la rivalità tra lui e i suoi colleghi unita al prestigio della rivista lo avesse spinto a decidersi. «Purché si tratti di pochi minuti e abbiate una vettura». «Ma certo professore». A quel punto lo scaltro individuo fece strada allo scienziato in direzione della macchina e salì sul retro assieme a lui. L’auto si mosse immediatamente lasciandosi dietro l’accolita sempre più numerosa tra le luci intermittenti dei flash, mentre il premio Nobel, padre della relatività, sedeva con le mani intrecciate sul grembo, ascoltando le parole del suo interlocutore. L’autista si fermò di fronte a un locale appartato e si affrettò a scendere per aprire lo sportello al grande scienziato. Bastò un istante, in cui Albert Einstein si rivolse a lui con un cenno di gratitudine, per permettere alla persona al suo fianco di scambiare il borsone ai suoi piedi con un altro identico che teneva a portata di mano. Una volta entrati nel locale il sedicente giornalista invitò il professore ad accomodarsi a un tavolo e lo intrattené per alcuni minuti, di fronte a una tazza di tè fumante, con delle generiche domande sugli sviluppi della scienza moderna previsti al convegno che si era appena tenuto. Albert Einstein si mostrò disponibile, pur manifestando una lieve insofferenza nel parlare e una strana agitazione sul finire della conversazione. Teneva al suo fianco il borsone sgualcito credendo di custodire i suoi appunti, mentre la sua espressione si faceva sempre più inquieta. Terminata l’intervista, si avviò assieme al falso cronista fino alla macchina, dove l’autista era pronto ad aprirgli lo sportello con la stessa ossequiosità di prima. Si chinò col busto per entrare nell’abitacolo cedendo la borsa all’uomo accanto a lui quando sentì la squillante voce di un bambino che accorreva dalla sua parte. Dopo essersi rizzato, lentamente, lo vide avvicinarsi a lui con in mano una


7 rivista con la sua immagine stampata sulla copertina. Il bambino, seguendo alla lettera le istruzioni che aveva ricevuto prima in cambio di un dollaro, gli spiegò che era corso a prenderla non appena lo aveva visto entrare nel locale e lo pregò insistentemente di fargli un autografo. Il professore accondiscese, mentre l’uomo al suo fianco ebbe tutto il tempo di salire a bordo dell’auto e ripetere lo scambio. Quando Albert Einstein rientrò nel suo alloggio non fece caso al fatto che una cinghia della sua borsa fosse rimasta aperta, sebbene di sua abitudine allacciasse anche quella. Si mise a letto e dormì fino a tarda ora senza il minimo sospetto che qualcuno avesse frugato tra i suoi appunti. Non vide mai comparire sul prestigioso periodico la sua intervista né volle mai interessarsi ai motivi di quella omissione. La vera sfida alla comprensione del cosmo era appena iniziata per lui e il tempo era divenuto il suo principale avversario



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Princeton, New Jersey; oggi. All’Institute for Advanced Study di Princeton, la dottoressa Mary Costello stava dando un’ultima occhiata ai dati della simulazione al computer che aveva avviato solo qualche ora prima. Il leggero fremito che in principio l’aveva assalita si stava trasformando ora in una spasmodica eccitazione. Era sicura di non essersi sbagliata, aveva controllato e ricontrollato quei dati e sapeva che, nel caso in cui non si fosse trattato di una fatale coincidenza, che anche, in quel caso, doveva significare qualcosa, ciò che aveva davanti erano ben più di semplici numeri. I suoi studi sul caos avevano avuto una svolta dopo che assistette a un convegno, promosso dal premio Nobel Ilya Prigogine, in cui si enumeravano i continui progressi nella ricerca di nuovi principi organizzatori di livello superiore. Un tipo di principi in grado di spiegare il crescente livello di diversità e complessità ravvisabile in natura. Dalla formazione dei quasicristalli alle speciali proprietà di alcune reazioni chimiche, dalla struttura di una colonia di insetti allo sviluppo di un embrione umano, dalla nascita della vita sulla Terra a quella dell’intero universo, questi e molti altri casi mettevano in luce per ciascun sistema una crescente “organizzazione” e una spinta alla “complessità” capace di arricchirne la struttura fino a livelli che la fisica di base non era in grado di spiegare. Da qui si ipotizzava la presenza di altre leggi, oltre a quelle ben note del mondo ultramicroscopico, che entravano in gioco solo in stadi seguenti nell’evoluzione dei vari sistemi. In questo modo, avevano commentato i partecipanti al simposio, un giorno, si sarebbe potuta spiegare la ragione per cui un uomo è molto più di un semplice appartenente a una specie, essendo dotato di una propria identità, unica e inseparabile da esso, così come la ragione per la quale l’universo da noi abitato, anziché essere un ammasso informe di materia, è un luogo dove è potuta formarsi la vita, e per essa una casa. Mary Costello non era certa di ciò che avrebbe comportato la scoperta di quelle ipotizzate "leggi", né della forma che avrebbero assunto, nel caso in cui le ipotesi sulla loro esistenza si fossero rivelate esatte, ma era sicura di trovarsi a un passo dalla verità. Quando uscì dal suo laboratorio, recandosi a piedi attraverso il campus alberato in direzione di Alexander st., non riusciva ancora a credere alla


10 fatalità che l’aveva portata fin lì. Era stato un caso del tutto fortuito a consentirle di estrapolare quei risultati dalla moltitudine di dati che aveva a sua disposizione e che da soli non avrebbero portato a nulla. In questo non poteva non scorgere una certa finalità che nelle sue convinzioni più intime pervadeva ogni ambito umano. Nella sua vita si era vista costretta ad affrontare situazioni drammatiche e imprevedibili che l’avevano inevitabilmente segnata e che a fatica aveva accettato come fatti ineluttabili del destino. Tuttavia, ogni passo compiuto nella comprensione della natura, ogni conquista raggiunta alla fine di un lungo e faticoso lavoro e la consapevolezza di poter sempre fare affidamento sulle proprie capacità e la propria volontà l’avevano indotta a credere che fosse il potere dell’uomo a prevalere sul resto, sull’imponderabile, fino a farlo volgere a proprio favore. La fatalità che era sopraggiunta come per miracolo ad aprirle gli occhi le appariva ora come l’epilogo ideale di ciò che aveva sempre sperato. Era in preda a un’irrefrenabile euforia e tuttavia sapeva di dovere attendere ancora prima di cantare vittoria. Soli i dati che sarebbero emersi in seguito potevano darle ragione e rivelare, infine, uno schema di grandiosa bellezza. Incamminandosi verso casa, pensò ai sacrifici che aveva compiuto, alle lunghe ore trascorse in laboratorio e alle esaltanti intuizioni che l’avevano accompagnata. Tali pensieri le mulinavano in testa senza che riuscisse a concentrarsi su di essi, se non per pochi istanti. La sua vita era stata piena di momenti simili, intensi e fugaci. Non si era mai soffermata sugli eventi passati, ma aveva sempre cercato di guardare avanti, in direzione di una meta da raggiungere. E aveva fatto in modo che anche il suo lavoro le consentisse di provare quel senso di assoluto appagamento che c’è nella scoperta di qualcosa di nuovo e inaspettato. Passò difilata accanto all’abitazione che fu di Albert Einstein, al centododici di Mercer st., e pensò che avesse avuto sempre ragione, che il mondo non fosse dominato da un guazzabuglio di regole sconclusionate e che alla base, e in ogni suo stadio, la natura dovesse essere intelligibile. Non appena giunse a casa, chiamò suo zio. Era l’unica persona cara che avesse ed era ansiosa di condividere con lui quell’eccitazione. "Sono Joe Stewart, in questo momento sono assente, siete pregati di lasciare il vostro nome, cognome e numero telefonico, o se vorrete di riagganciare e riprovare più tardi". Ogni volta che Mary ascoltava quel messaggio non poteva fare a mano di sorridere, pensando alla sua infantile pedanteria. Le era capitato spesso di irritarsi con lui per questo suo atteggiamento, a volte un pò scontroso, che invece ora le suscitava tenerezza. In realtà lei sapeva che dietro a esso si nascondeva una grande sensibilità, di cui lui era geloso, e che a poco a poco lo aveva reso insofferente nei confronti degli altri, fino a isolarsi del tutto. «Ciao zio, sono Mary, ho una notizia grandiosa da darti, forse è un po’


11 presto ma non sto più nella pelle. Non potrò questa sera ma ti prometto che ti farò sapere domani. Non vedo l’ora di dirtelo. A presto!». Stette qualche istante col cordless in mano, trasse un profondo respiro e si spogliò per andare a immergersi sotto la doccia. Aveva un appuntamento con Kevin quella sera e la notizia che stava per dargli era sicura che lo avrebbe reso orgoglioso di lei.


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Nella grande sala rettorale illuminata dalle ampie vetrate del vetusto edificio, sede di una delle più prestigiose e importanti università del vecchio continente, l’uomo al suo interno si chinò con equilibrio malcerto, in un atto divenuto consueto, verso il busto raffigurante il sommo Newton, posto di fianco alla cattedra. Anche lui membro del Trinity College, l’anziano rettore aveva deciso molto tempo addietro quale sarebbe stata la propria missione. La sua carriera era stata votata a un unico scopo e molte volte, seduto su quella cattedra ambita, aveva tratto conforto dalla consapevolezza di proseguire lungo la stessa strada battuta per la prima volta dal grande scienziato. Un sommesso bussare alla porta interruppe improvvisamente la sua quiete. «Sì?» «Sono io, professore». Accertatosi di chi si trattasse poté adagiarsi al suo posto tornando con la mente alla sua missione. «Cosa c’è?» fece il rettore in tono severo. «Ci siamo» rispose l’altro, dall’aspetto emaciato e il fisico segaligno. Il professor Arthur Fresne, seduto sulla sua poltrona, si rizzò col busto tenendo le mani strette ai braccioli. «Vuoi dire che ha trovato il modo?». «Dovremo aspettare fino a domani per averne una conferma sicura, ma possiamo ben sperare». Il rettore parve nuovamente incupirsi. Emise un sospiro e reclinò la testa di lato. «È troppo poco dover sperare, voglio informazioni certe!». «Non c’è altro modo che attendere, signore. I file su cui sta lavorando sono del tutto inaccessibili, così come il suo laboratorio. Non è opportuno intervenire ora, se mi permette, considerando il punto al quale è arrivata». «Avremo almeno la garanzia di come agirà in seguito?». «Se i risultati da lei ottenuti saranno quelli che ci aspettiamo, non c’è dubbio che si rivolgerà a noi per primi». L’anziano rettore sembrò persuaso dalle sue parole. «Molto bene William, puoi andare». William Rosanera era sempre stato un assistente modello, dotato di notevole acume e di grande costanza. Era il più giovane studente ebreo che avesse avuto e non stette molto a distinguersi dagli altri. Svolgeva solertemente


13 ogni incarico che gli veniva assegnato e col tempo si era guadagnato la sua incondizionata fiducia. Ma era anche un uomo la cui fierezza lo aveva precluso dalla maggior parte dei circoli universitari e la cui mancanza di scrupoli ne faceva una persona dalle perfide ambizioni. Rimasto solo, il rettore si girò verso il busto di Isaac Newton, mentre un sorriso vittorioso comparve sul suo volto. Stava avvicinandosi il cameriere per le ordinazioni quando Kevin le lasciò la mano ritraendosi lentamente. Il pullover di colore scuro che lei indossava contrastava con la sua carnagione chiara e lasciava intravedere le forme prosperose del suo seno dalla lieve scollatura. Al lume della candela sul tavolo, i bei capelli castani parevano fluirle delicatamente sulle tempie, i suoi occhi erano scintillanti di gioia, le labbra tumide e leggermente carnose. Era la donna più bella che avesse mai visto. «Ci sei riuscita!» le ripeté a bassa voce. Mary si rizzò vedendo il cameriere arrivare e si portò le mani congiunte alle labbra, ammiccando a lui e trattenendo il fiato. «Sì» disse, prolungando il suono e liberando il respiro. «A dire il vero non era questo che mi aspettavo. Solo oggi, guardando quei risultati, mi sono resa conto». «Come è possibile?». Non era solita raccontargli i particolari del suo lavoro, sia perché non avrebbe capito, sia per il fatto che non lo era con nessuno, al di là di alcune eccezioni, ma era troppo eccitata per tacere in quel momento. «La prima simulazione al computer doveva mostrare come delle semplici regole in un programma avrebbero generato uno schema complesso, per poi ricavarne dei dati che indicassero una qualche transizione di fase». «Dovrai spiegarti un po’ meglio mia cara» intervenne lui, facendole cenno con la mano di rallentare. «Pensa a una colonia di formiche». «Di formiche?». «Sì, è l’esempio più comune. In una colonia possono essercene a migliaia e ciascuna di loro svolge una precisa mansione. È come se sapessero cosa fare e ricevessero degli ordini dai loro gerarchi. In realtà non sono diverse l’una dall’altra, ognuna risponde a degli istinti semplicissimi, ciononostante, e questo è il lato sorprendente, sono in grado di creare strutture altamente complesse». Il suo fidanzato aggrottò le sopracciglia e con un mezzo sorriso manifestò tutto il suo stupore misto a incomprensione. Poi, sorseggiando del vino, la invitò a proseguire, rapito dalla sua intrigante espressione. «Con la prima sperimentazione dovevo simulare la stessa cosa, come in una


14 specie di gioco virtuale, usando delle pedine al posto degli esseri viventi e delle semplici regole in luogo degli istinti che ne governano il comportamento». «Ma tutto questo funziona?». «Sono anni ormai che si svolgono questo tipo di esperimenti. Sono detti “automi cellulari” ed è da essi che», tentennò, ancora non riusciva a credere che stesse accadendo, «…secondi molti, giungeranno le prove d’un qualche nuovo principio organizzatore». «Ma di cosa si tratta precisamente?». «Di ciò che è insito nella natura, dell’impulso in essa a creare la vita, la varietà di forme, di fenomeni e di esseri capaci di convivere armoniosamente». «Ma questa è utopia Mary!» disse lui, sporgendosi un altro po’ verso di lei e afferrandole la mano. «No, Kevin, è scienza, è realtà» rispose sospirando, con lo sguardo acceso. «Biologi, neurologi e fisici di ogni genere sono convinti che esistano principi simili, leggi in natura che non possono essere dedotte da quelle di base, del livello atomico, ma che emergono, nelle transizioni da una fase all’altra dell’evoluzione. Alcuni di loro, definiti vitalisti, sostengono persino che queste leggi possano spiegare la natura “teleonomica” della vita, ossia l’apparente tendenza che ha di seguire un fine». «Ed è questo che hai scoperto?». «No, non credo. Ma lo sapremo presto». Riaccompagnatala fino alla porta di casa Kevin le si avvicinò guardandola fisso negli occhi, le pose le mani sui fianchi, sussurrandole qualcosa e restando in attesa. Lei sembrava totalmente assorta nei suoi pensieri e lui sapeva di non poter insistere. «Sei sicura?» fece con voce suadente. «Sì. Ci vediamo domani» rispose Mary, ritraendosi dolcemente. «Ora sono troppo tesa. Non so neanche se riuscirò a dormire». «Capisco» disse lui in tono condiscendente, facendo un passo indietro. Si avviò verso la macchina e la salutò un’ultima volta prima di salire a bordo. Mary entrò in casa, si guardò allo specchio, sfregandosi gli occhi, come se le desse fastidio avere tutto quel trucco addosso. Il suo sguardo era compiaciuto e sicuro di sé. Le piaceva dominare nel rapporto con gli uomini e raramente le era capitato di innamorarsi al punto di perdere completamente la testa. Andò in cucina, aprì una bottiglia di birra e tornata in soggiorno premette il tasto della segreteria telefonica. “Cara Mary, sono zio Jo, ho ascoltato il messaggio che mi hai lasciato e non


15 vedo l’ora che mi racconti il resto. Sono molto felice per te. Ti prego, passa quando puoi, cosÏ avrai modo di dirmi ogni cosa�. Era da tanto che non andava a trovarlo e, per quanto preferisse non pensarci, non poteva dimenticare le parole che lui le aveva detto allora. Lei aveva fatto finta di nulla e nelle poche occasioni che aveva avuto di sentirlo si era sforzata di essere sempre la stessa. In verità solo dopo che se ne era andata aveva compreso quanto futile fosse il suo rancore e quanto dovesse a lui del suo successo nel lavoro e nella vita.


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Quella notte non riuscì a prendere sonno; a qualche isolato da lei, il potente computer che le era stato messo a disposizione dalla sezione di fisica teorica stava sfornando i dati che tanto aspettava. Non poteva attendere oltre. Arrivò all’istituto all’alba, salutò Charlie, l’addetto alla sorveglianza, ed entrò nel suo laboratorio. Nessuno a parte lei aveva accesso al suo interno, così era certa di essere l’unica a esaminare quei dati. Non appena osservò la tabella sul monitor ebbe la certezza di non essersi sbagliata. Il cuore iniziò a batterle forte, le mani presero a tremarle; altri valori continuavano a giungere ininterrottamente, andando a creare uno schema armonioso, di valenza universale. Quando il computer terminò tutte le operazioni, Mary Costello, che fino a quel momento era rimasta col fiato sospeso, poté finalmente contemplare ciò che aveva davanti e rendersi conto che avrebbe segnato la scienza del ventunesimo secolo. Iniziò a scaricare i file e prese subito in mano il telefono: doveva avvisare innanzitutto i suoi superiori, nonché i responsabili del progetto, comunicare alla facoltà la sua scoperta e in seguito, farlo al mondo intero. Era eccitatissima ma sapeva che c’erano molte altre procedure da svolgere prima di dare la notizia. Intanto al telefono scomparve il segnale di attesa e una voce familiare le giunse all’orecchio. «Pronto zio! Sono io». Benché fosse ancora molto presto era certa che avrebbe risposto. «Mary, che cosa c’è?». «Sono qui in laboratorio zio». «Allora, che cos’hai scoperto?» le domandò dopo un attimo di esitazione. «È tutto qui davanti a me zio, è emozionante». «Coraggio Mary, raccontami tutto». «È come immaginavo, è come avevo sempre sperato. Esistono delle nuove leggi zio, che ci guidano, che guidano l’evoluzione… ». Mary continuava a osservare i grafici che erano rimasti impressi nel monitor ed era come estasiata. «È questo!? Mary, è questo che hai scoperto?». «Credo di sì» proclamò, come se le parole le uscissero di bocca da sole. «Non posso dirti altro per il momento, sono ancora… troppo confusa, devo riordinare le idee. Ma ti prometto che passerò da te al più presto». «Cos’hai intenzione di fare adesso?».


17 «Non lo so ancora, penso che ne parlerò con il professor Morrison, del mio istituto. Mi ha aiutato molto nella mia carriera e credo di doverglielo». «Ma non è lui ad averti affidato l’incarico. Sei sicura di fare la cosa giusta Mary? È una fase molto delicata questa e se tu rivelassi la tua scoperta alla persona sbagliata». «Ti prego zio» lo interruppe lei, «non essere apprensivo. La scoperta avrà bisogno di molte verifiche prima di potersi definire tale e il professor Morrison è una persona fidata». «Tu sai ciò che stai facendo» le disse in tono rassegnato. Suo zio era sempre stato protettivo nei suoi confronti e pensò che fosse inevitabile che volesse proteggerla anche in quell’occasione mettendola in guardia da ogni possibile pericolo. Sapeva di non poterci fare nulla e tuttavia desiderava ardentemente che un giorno riuscisse finalmente a riporre in lei la sua incondizionata fiducia. «Certo zio, non ti preoccupare» fece una breve pausa. «È il momento più felice della mia vita. Ti voglio bene». C’era nelle sue parole tutto il rimpianto per non averlo potuto amare come un vero padre e la speranza che non fosse ancora troppo tardi. «Anch’io te ne voglio Mary». Le ci volle un po’, dopo aver riattaccato il telefono, per ritornare con la mente su ciò che doveva fare. Uscita dal suo laboratorio si sentì estasiata dalla bellezza del paesaggio come non le era mai capitato. Ripensò alle parole che aveva detto a suo zio e per un istante, il primo, si rese conto che era tutto vero e che quello era realmente il momento più felice della sua vita.


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L’Imperial College di Londra, uno dei centri più avanzati nello studio della fisica e della cosmologia, ospitava quel giorno un convegno sui risultati ottenuti recentemente in quei campi. Sotto un cielo plumbeo, nel cuore accademico della città, si erano dati appuntamento scienziati da ogni parte del mondo, per discutere dei problemi che le loro teorie non riuscivano ancora a spiegare. La nascita del cosmo era ormai da anni al centro delle speculazioni. L’origine dell’universo poteva ben dirsi il mistero principe che metteva alla prova le più geniali menti della comunità scientifica. Esso costituiva l’ultimo baluardo di una ricerca che altrimenti si sarebbe protratta fino a Dio. Il “punto” dove ebbe inizio ogni cosa e che restava celato a causa della inconciliabilità tra Relatività e meccanica quantistica. Un annoso conflitto che pareva prolungare la passata controversia fra Einstein e la nuova fisica. Entrambe le teorie si erano dimostrate esatte sopra ogni sospetto e i fenomeni che predicevano erano stati confermati ripetutamente. L’una dominava incontrastata nel macrocosmo, l’altra nel microcosmo, senza che si riuscisse a conciliarle e scovare una chiave per la comprensione dell’universo. Erano state proposte diverse teorie per appianare il contrasto, alcune delle quali godevano di crescente favore ma che mancavano delle necessarie conferme sperimentali. La scienza proclamava così una fase di stallo che sembrava non avere più uno sbocco. Wiliam Rosner, seduto a uno dei tavoli dell’uditorio, era invece convinto del contrario. Alla fine della prima sessione del convegno i presenti si allontanarono dall’ampia sala per recarsi al rinfresco e commentare i vari interventi. William Rosner si avvicinò lentamente a uno di loro e lo afferrò per un braccio. «Il maestro ha detto di tenersi pronti» gli bisbigliò a un orecchio. Il volto dell’altro divenne improvvisamente serio. «Scusatemi» disse ai suoi interlocutori, allontanandosi dal rinfresco per recarsi sul porticato esterno insieme a William Rosner. «Stai dicendo che la scoperta è vicina!?». «Molto più di quanto ci aspettassimo». «È incredibile!» esclamò tra sé. «Riceverai degli altri ordini in seguito. In attesa che ciò avvenga, saprai come comportarti» gli disse William Rosner, ammonendolo con lo sguardo.


19 Così facendo si allontanò per dirigersi all’aeroporto e prendere il primo volo diretto all’altro capo dell’Atlantico. L’autorità con la quale era abituato a trattare i suoi sottoposti e il modo sprezzante che aveva di sbarazzarsi degli avversari contribuivano, assieme al suo aspetto inquietante, ad accrescere il timoroso rispetto nei suoi confronti. In molti lo consideravano una specie di eminenza grigia, vedendolo al fianco della persona che lo aveva reso così influente, e sospettavano che le sue mire fossero ben maggiori di quanto desse a vedere. Hans Krigher, il fisico che era rimasto immobile alle sue spalle, lo sapeva bene, specialmente ora che era ormai compromesso al punto da non potersi più tirare indietro.


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Dirigendosi in auto verso l’abitazione del suo mentore, sulla Wilson Road, Mary Costello pensava a quanto quell’uomo avesse fatto per lei e alla gratitudine che gli doveva. Il professor Edward Morrison era stato ricercatore presso varie università, aveva lavorato per diversi anni all’estero ed era noto per i suoi contributi alla Teoria della complessità algoritmica e alla teoria dell’Organizzazione, che assieme alla TOE costituivano la meta ultima dell’indagine scientifica. Aveva anche scritto una serie di libri in cui declamava la propria fede in tali teorie e ne prevedeva lo sconvolgimento che avrebbero apportato alla nostra comune visione del mondo. Quegli stessi libri che lei aveva letto avidamente e che l’avevano ispirata nella sua carriera, portandola infine a lavorare al suo fianco; a Cambridge in principio, dove lo conobbe, e in seguito al Dipartimento di Studi Avanzati di Princeton. Era stata da lui poche volte dopo che era andato in pensione e ne immaginò lo stupore nel momento in cui gli avrebbe detto di aver realizzato il suo sogno. Giunta davanti la sua casa, lasciò la macchina a un lato della strada e attraversò il grazioso giardino fino alla porta. Suonò al campanello due volte e attese fino a che non comparve sua moglie. «Mary, cara». Virginia Morrison insegnava letteratura francese in un piccolo liceo di Princeton ed era una donna estremamente affabile. Era molto più giovane di suo marito e ciò aveva destato un certo scalpore al tempo del loro matrimonio. «Salve signora Morrison». «Entra avanti». Rivedere quei volti e quella casa le dava ogni volta un senso di grande serenità. Serbava con gioia i ricordi delle innumerevoli volte in cui era stata loro ospite in passato e nonostante fosse trascorso molto tempo da allora sapeva di essere sempre la ben venuta. «C’è suo marito, signora Morrison?». «È di là nel suo studio. Aspetta pure in sala, io vado a chiamarlo». Mary si recò in soggiorno, guardandosi attorno per stemperare l’eccitazione, fino a che non sentì il professore giungerle alle spalle. «Mary, sono molto felice di rivederti». «Lo sono anch’io professore» gli rispose stringendogli con entrambe le mani la sua. A differenza di molti altri professori universitari di una certa fama a


21 cui piaceva farsi contraddistinguere da una serie di manie e atteggiamenti balzani, lui era una persona estremamente semplice e a volte perfino ordinaria. Amava la quiete delle sue mura domestiche e, a dispetto del suo fisico ancora asciutto, aveva da sempre condotto una vita sedentaria. «La trovo molto bene». L’anziano professore le sorrise e accostandole delicatamente una mano sul gomito si volse verso sua moglie. «Hai sentito cara, Mary mi trova in forma. Quella donna non sa cosa si perde» aggiunse poi sottovoce rivolgendosi a Mary con espressione sorniona. «Non starlo a sentire Mary» furono le parole della sua consorte, alle prese con la traduzione di un testo in lingua d’oil nel suo studio. «A cosa devo la tua visita Mary?» Gli era bastato guardarla un istante negli occhi per capire che aveva qualcosa di importante da dirgli. «In effetti… c’è un cosa… ». «Aspetta» la interruppe sollevando la mano. «Sediamoci prima e facciamo finta di tornare ai vecchi tempi». Mary si sedette sul divano in pelle accanto alla sua poltrona, allo stesso modo in cui da studentessa si rivolgeva a lui per chiedergli dei consigli. Il professore accavallò le gambe appoggiando le mani ossute, intrecciate tra loro, sulle ginocchia. Dal suo sguardo vivido traspariva tutta la sua attenzione nei suoi confronti. «Dunque Mary, sono tutto orecchi». Le ci vollero alcuni istanti per concentrarsi su ciò che stava per dirgli, durante i quali la sfiorò il timore di essere stata troppo affrettata e di aver commesso qualche errore del quale non si era accorta. In realtà era certa dei risultati dei suoi studi e sapeva che alla base di quelle perplessità c’era il disagio di trovarsi per la prima volta a parlare col suo mentore alla pari e la paura che il loro rapporto di un tempo rischiasse di mutare per questo. «Si ricorda della ricerca alla quale stavo lavorando?». «Quella sugli "automi". Ebbene?». «Ho scoperto il modo in cui essi si evolvono». Mary pronunciò quelle parole tutte d’un fiato. «Sei riuscita a predire il loro comportamento!?». Egli sapeva che una delle proprietà fondamentali di quei sistemi simulati al computer, che rispecchiavano quelli realmente esistenti, era la loro intrinseca impredicibilità, legata alla comparsa di strutture "complesse" su vasta scala pur partendo da regole semplici che ne governavano l’evoluzione. La sfida alla comprensione di tali strutture era inoltre aggravata dalla presenza in natura di "condizioni al contorno" che aumentavano enormemente tale grado di impredicibilità.


22 «Ma come hai fatto a tenere conto delle influenze esterne e dell’effetto farfalla». «Non ne ho avuto bisogno». «Come sarebbe a dire?». «Sarebbe a dire che, anche in mancanza di una conoscenza dettagliata di come queste intervengono sul sistema, saremo comunque in grado di prevedere dove lo condurrà il suo comportamento». Negli anni che gli era stata accanto come assistente l’aveva vista molte volte con quell’espressione sul viso; gli occhi le raggiavano come se di fronte a sé avesse di volta in volta la soluzione ai grandi misteri della scienza. Si era accanito nei suoi confronti per inculcarle la necessità di avere prudenza me c’era in lei una specie di sacro fuoco che la spingeva senza incertezze verso una meta che spesso era quella che lei si aspettava. «In altre parole, professore, potremo prevedere lo stadio finale dell’evoluzione dei sistemi in natura, biologici e fisici, senza doverci per forza soffermare sul percorso da essi compiuto». Il professor Morrison sembrò non avere più parole. Sollevò la testa e si accarezzò il mento con una mano. Si sfiorò con le dita la fronte rugosa, in una espressione a tratti confusa e disorientata. «Non sbaglieremo più le previsioni del tempo!» disse per riprendersi dallo stupore. Poi sollevò il busto dallo schienale e si avvicinò a lei. «Mary, tu sei certa di questi risultati?». Lei dovette pensarci un po’ su anche se sapeva benissimo che risposta dare. «Sì professore, ne sono certa». Il professor Morrison la guardò stupefatto. «Quello che hai scoperto, Mary, è molto più che sensazionale, è l’inizio di una nuova era scientifica. Se è vero ciò che dici, poche cose resteranno come lo sono ora». «Lo so. Anch’io ho paura, in un certo senso, di ciò che potrà comportare. Ancora non credo di rendermi conto appieno della portata di una simile scoperta. Tuttavia ci saranno moltissime verifiche prima che ne venga confermata la validità». «Questo senz’altro, ma c’è una cosa che ancora non mi è chiara. Tu hai detto che non sarà necessario conoscere dettagliatamente le influenze esterne per prevedere gli stati futuri di un sistema. Come è possibile?». «La scala di valori che ho ottenuto è costruita in modo da dipendere solamente dalla quantità di materia, o energia, e dal grado di “non linearità” di un sistema. La conoscenza delle influenze esterne sembra non influire sulla previsione del suo stato futuro, ma solamente la misura in cui il sistema ne sarà esposto». «Si tratta dunque di un nuovo Principio Organizzatore».


23 I suoi occhi luccicarono per la commozione. «Mary, hai realizzato il mio sogno, hai scoperto una nuova legge che governa la vita, il mondo intero». Mary capì in quel preciso istante che la sua vita non sarebbe stata più la stessa. «La struttura di cui parlavi, presente in quella scala di valori che tu hai scoperto, contiene il destino dell’universo!?» le chiese il professore, pur conoscendo già la risposta. «Per quanto incredibile, è possibile che sia così. Non ho avuto il tempo di esaminare attentamente i dati, sono quasi sicura che ci sia una struttura precisa, ma non so fino a che punto permetta di fare delle previsioni». «Mary» disse improvvisamente il professore. «Tu non devi parlarne con nessuno di questa scoperta, è troppo importante capisci, ci sono troppe cose in ballo, che potrebbero sfuggirti di mano». «Professore, la prego, non si agiti a questo modo. Seguirò le normali procedure, attenderò i tempi necessari. Non è la prima volta che pubblico qualcosa, conosco bene l’iter che c’è dietro». «Lascia che ti dica io come fare Mary, tu non sai ancora quali insidie, quali asperità, ci possono essere nel nostro mondo. Lascia che ti dia una mano» La sua espressione si fece sempre più accesa. «Sarò lieta professore di seguire i suoi consigli, ma prima dovrò rendere conto del mio lavoro alle persone che me lo hanno affidato, dell’università di Cambridge, e che hanno finanziato l’intero progetto». L’anziano uomo parve confuso e disorientato. Quella reazione era stata del tutto inaspettata per lei, tanto che la spinse a chiedersi se per caso non fosse dovuta a qualcos’altro. «Professore, mi ha sentito?». A quelle parole assunse un’espressione più docile che la tranquillizzò. «Sono molto orgoglioso di te ragazza mia, sapevo che saresti diventata una grande ricercatrice e che avresti fatto parlare di te. Ora vai, vai dal tuo fidanzato, festeggia con lui». «La ringrazio professor Morrison. Non si preoccupi» aggiunse, cercando di rassicurarlo, «sarò prudente come mi ha detto». «Lo so Mary. Adesso vai» fece con un tono pacato, in cui lei colse un sottile rimpianto. Dopo averlo salutato si alzò e si diresse verso la porta. Solo allora lui la chiamò, alzandosi lentamente dalla poltrona e dicendole di aspettarlo. L’accompagnò fuori, le strinse la mano e le augurò buona fortuna. Incamminandosi Mary provò un senso di lieve sconforto e biasimo nei propri confronti. Era come se in fondo avesse voluto che fosse stato lui ad aver fatto quella scoperta. Salì a bordo dell’auto e lo vide un’ultima volta, in piedi sulla porta, salutarla


24 mentre si accingeva a partire, nello stesso momento in cui una vettura scura sostava lentamente davanti la sua abitazione. Una volta in strada prese il cellulare dalla tasca della giacca, sul sedile di fianco, e chiamò il suo fidanzato.


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Tornata all’università Mary lasciò la macchina in un piazzale poco distante e proseguì a piedi in direzione del suo istituto. Attraversando il campus le vennero in mente le volte in cui, nella ricerca affannosa di una soluzione ai suoi problemi, si stendeva a meditare sull’erba, all’ombra di un albero. Le sembrò trascorsa un’infinità di tempo da allora. L’edificio dove lavorava era uno dei più moderni dell’università, dotato di costosissime e modernissime apparecchiature a disposizione del personale. Oltrepassato l’ingresso principale fece per voltare come suo solito lungo il vasto corridoio sulla destra, ma, prima che potesse raggiungere l’accesso alla serie di anticamere che conducevano al suo laboratorio, sentì una voce allarmante chiamarla alle sue spalle. Si girò di scatto e vide il giovane sorvegliante venirle incontro rapidamente. «Charlie, che cosa c’è?». «Dottoressa, mi dispiace, ma lei non può entrare» le disse ansimando, dopo averla raggiunta ed essersi fermato a un passo da lei. «Come sarebbe a dire non posso entrare? Questo è il mio laboratorio!» ribatté stupita. «Mi dispiace dottoressa. Io non posso dirle nulla, so solo che mi è stato ordinato di non farla passare». «E da chi?» gli chiese in tono provocatorio. «Dal preside» rispose il vigilante sforzandosi di assumere una posa autoritaria e di recuperare del tutto il fiato. L’espressione di Mary si fece d’un tratto seria. «Ma tutto ciò non ha senso!». Non capiva affatto quella situazione, le sembrava totalmente assurdo che il preside le avesse proibito di entrare nel suo laboratorio. «Ascoltami Charlie, io ora devo assolutamente passare e non c’è modo che tu abbia di impedirmelo, quindi, puoi andare dal preside e chiedergli nuovamente per quale ragione io non debba farlo, oppure, puoi aspettare qui fino a quando non avrò finito». Così dicendo fece per inserire la tessera magnetica nella fenditura a un lato della porta, ma sul punto di farla scorrere del tutto venne bruscamente interrotta dal ragazzo. Lei si fece largo con forza e riuscì a far passare la tessera nello stesso momento in cui un sibilo prolungato, accompagnato dall’accensione di una spia rossa, segnalò che l’accesso era stato negato. Mary rimase impietrita, non riuscendo a capire cosa stesse accadendo. Provò a ritentare, ma questa volta il giovane vigilante


26 le intimò di fermarsi accostando una mano alla fondina della pistola e facendole segno con l’altra d’allontanarsi. Era visibilmente agitato e non ebbe altra scelta che assecondarlo. «Charlie, che cosa hai intenzione di fare?» gli chiese cercando di mantenere la calma. «Ho avuto ordini precisi dottoressa Costello» disse, sollevando la mano dalla fondina e sbarrando la porta col proprio corpo. «Mi dispiace, ma non posso farla entrare» furono le sue ultime parole. Non sapendo più come reagire Mary indietreggiò di un passo e, dopo avergli lanciato un’occhiata di stizza, si avviò lungo il corridoio fino a che non vide comparire il preside, sul fondo, fiancheggiato da altri due sorveglianti. Gli andò incontro furiosa, ma prima che potesse dire qualcosa lui l’anticipò sollevando le braccia come per volerla accogliere a sé. «Mary, sono molto dispiaciuto, credimi». «Dispiaciuto!? Come è possibile che io non possa più entrare nel mio laboratorio? Chi ha deciso di tagliarmi fuori proprio ora?» lo aggredì senza mezze parole. «Mary, ti prego, adesso calmati». «Calmarmi!? C’è un ragazzino là sulla porta, che gioca a fare il poliziotto e che mi ha appena impedito di passare. E come se non bastasse perfino la mia tessera non è più funzionante. Mi vuole spiegare che cosa sta succedendo?». «Se vieni con me ti dirò ogni cosa, ma devi promettermi di calmarti una buona volta». Mary acconsentì malvolentieri alla sua supplica e lo seguì fino all’uscita, lasciandosi dietro i due sorveglianti che lo avevano accompagnato. «Allora, di cosa si tratta?» lo assalì una volta fuori. «Abbiamo ricevuto delle segnalazioni, secondo le quali sarebbero state commesse delle violazioni nell’utilizzo del tuo computer». «Come!?» reagì lei disorientata. «È impossibile una cosa simile». «Sono apparecchiature molto sofisticate ed è comprensibile che ogni loro utilizzo sia tenuto sotto controllo». «Ma no, non è possibile, io non ho commesso nulla del genere. Preside, lei mi deve credere». «Io posso anche credere alle tue parole, ma non ho alcun potere da far valere in questa decisione. Esistono commissioni apposite che hanno il compito di svolgere i necessari accertamenti». Mary continuava a scuotere il capo. «È una assurdità professor Wallace. Lei mi conosce, io non farei mai una cosa simile». «Mary, ti prego» la esortò a calmarsi posandole delicatamente una mano sulla spalla. «Ma lei non può almeno fare in modo che abbia il tempo di finire il mio


27 lavoro» gli disse cercando di trattenere la rabbia. «In quel laboratorio c’è l’intero frutto della mia carriera. Lei non può permettere che mi venga tolto» disse puntando l’indice verso l’ingresso del suo istituto. «Mary» provò nuovamente a calmarla il preside. «Non ci vorrà molto tempo e non appena tutto sarà finito potrai ritornare al tuo lavoro». Lei sembrava non volersi arrendere continuando a sforzarsi di trovare un modo per difendersi. «Ho io le password, non c’è altro modo per avere accesso al computer, sono solamente io ad averle» disse in un improvviso moto di ribellione. «Mary, sai che se sarà necessario troveranno la maniera». «Il mio lavoro, il mio lavoro!» proruppe lei in tono disperato. «Non devi temere per questo, verrà rispettata ogni tua privacy. So quanto tu ci tenga al tuo lavoro e di ciò me ne occuperò io stesso». «Tutto questo non ha senso. È una congiura, soltanto una sporca congiura!». «Mary, cosa stai dicendo!? Non hai forse fiducia in me? È forse per via di mio figlio?». «Lei e suo figlio non c’entrate, ma ciò non toglie che si tratti di una congiura, di una vile macchinazione per tagliarmi fuori». «Mary, stai esagerando. È comprensibile che tu reagisca in tal modo, ma non c’è ragione per cui tu debba pensare a una cosa simile. Vai a casa, riposati, hai l’aria di essere molto stanca e non voglio stare in pena per te. Promettimi che farai come ti ho detto». Mary scosse la testa con espressione indignata e dopo avergli lanciato uno sguardo di sfida si girò e se ne andò furiosa. Mentre si dirigeva verso l’auto pensò che se anche avessero esaminato ogni file del suo computer non sarebbero riusciti a ricavare granché del suo lavoro. Esistevano dei codici di decrittazione senza i quali ogni dato sarebbe risultato illeggibile ed era solo lei a conoscerli. Tuttavia c’era il rischio che almeno per un certo tempo non potesse accedere ai suoi dati, sempre che le parole del preside, nonché padre del suo fidanzato, fossero state veritiere. Le segnalazioni delle quali le aveva parlato dovevano essere completamente infondate, lei era l’unica ad aver adoperato quel computer negli ultimi tempi e, a meno che non avesse commesso inavvertitamente qualche errore del quale però non avrebbe tardato ad accorgersi, non c’era modo che si fossero verificati degli impieghi estranei alla sua ricerca. Era confusa e non sopportava la sensazione di trovarsi con le mani legate. La sua testa andava riempiendosi di congetture e, nonostante la sua scoperta potesse dirsi al sicuro, temeva che stesse per accadere qualcosa di grave e imprevisto. Le vennero in mente le parole del professor Edwards e le sembrò che in quelle fosse racchiuso una specie di infausto presagio che ora stava per avverarsi.


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In quello stesso momento, William Rosner si stava dirigendo, lungo l’autostrada, in direzione di Princeton. Aveva sperato che non fosse necessario compiere quel viaggio, ma ora la situazione lo richiedeva e lui doveva rimediare a quanto era ormai accaduto. Il suo compito era di accedere al laboratorio della dottoressa Costello e di impossessarsi dei dati che aveva ottenuto. Se ciò non fosse stato sufficiente ai suoi scopi, avrebbe dovuto procedere con un piano secondario e fare in modo che gli uomini messi a sua disposizione dal maestro agissero di conseguenza.


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Arrivata davanti casa, Mary vide parcheggiata l’auto del suo fidanzato e si rammaricò al pensiero che per colpa dello sgradevole accaduto dovesse rovinargli la sorpresa che intendeva farle. Aveva voglia di fare l’amore con lui, di baciarlo e accarezzarlo come a lui piaceva, ma le parole di suo padre le avevano buttato a terra il morale e, peggio ancora, le avevano fatto presentire qualcosa di oscuro che per ora preferiva ignorare. Giunta in cima alla piccola veranda in legno, prese in mano le chiavi per aprire la porta ma si accorse che era già aperta. La scostò lentamente, credendo che si fosse trattato di una dimenticanza del suo fidanzato, ma non appena poté guardare all’interno del soggiorno si rese conto di quello che era successo. La stanza era completamente a soqquadro, con i mobili e i cassettoni scaraventati su tutto il pavimento. Avanzò lentamente, inorridendo, fino a che non sentì un lieve gemito provenire da un angolo della stanza. Si girò e vide il suo fidanzato a terra, rannicchiato a ridosso della parete. Andò subito verso di lui, invocando il suo nome, abbassandosi e sfiorandogli il volto tumefatto con le mani. Kevin spalancò gli occhi non appena la vide, pronunciò più volte il suo nome e le accarezzò dolcemente il viso. Le spiegò poi di essere stato improvvisamente aggredito alle spalle, un istante dopo aver aperto la porta per entrare. Le disse che aveva provato a reagire e che aveva perso i sensi a causa di un colpo alla testa. Mary continuava a guardarlo piena di angoscia chiedendosi chi mai potesse aver fatto una cosa del genere. «Kevin, come ti hanno ridotto?». «Non ti preoccupare Mary, ora va molto meglio. Si tratta solo di una lieve ferita» le disse sfiorandosi con la mano il livido che aveva sulla fronte. «Aiutami ad alzarmi». «Devo chiamare la polizia Kevin» fece lei tenendolo stretto per un braccio. «Devo sapere chi ha fatto questo. Chi mi sta perseguitando». Era certo per lei che quell’incidente avesse a che fare con quanto era accaduto prima al suo laboratorio. Tuttavia il fatto che chiunque volesse tagliarla fuori dal suo lavoro fosse anche capace di danneggiarla a quel modo e magari di attentare alla sua vita le sembrava assurdo e incomprensibile. Non disse nulla a Kevin di ciò che le era capitato. Lo aiutò a sedersi e andò verso il telefono per chiamare la polizia. Sollevò l’apparecchio ammaccato da terra e posandolo sul tavolo si accorse che il filo era stato tagliato. Corse in cucina e, dopo essersi accorta che lo stesso era avvenuto per l’altro telefono, disse a Kevin di dover andare a prendere il cellulare nella propria macchina.


30 «Non c’è tempo Mary» le disse con una smorfia di dolore sul viso. «Ritorneranno da un momento all’altro. È te che vogliono Mary, ciò che possiedi». «Ciò che possiedo!?» ripeté, come se quelle parole le avessero improvvisamente rischiarato la mente e reso lampante ciò che per paura si era limitata a sospettare. Sapeva di aver messo al sicuro i dati che aveva scaricato quello stesso mattino dal suo computer e si rese conto di quanto preziosi fossero ora che il suo accesso al laboratorio era stato negato. «Sì, Mary. La scoperta che hai fatto. È questo che stavano cercando». «E cosa dovrei fare?». «Devi andare via, lontano da loro fino a che la scoperta non sarà resa pubblica». «Via!?» fece lei disorientata. «E dove? Questa è casa mia» proseguì guardandosi amareggiata attorno. «In quale altro posto potrei andare!?». Kevin le prese la mano e le disse di avvicinarsi a lui. «Ascoltami Mary, c’è qualche persona della quale ti fidi?». «Ci sei tu Kevin». «Lo so, ma io non sono in grado di aiutarti, capisci. Io… non sono nemmeno in grado di proteggere te. Ma il punto è che non sarai mai al sicuro fino a che non riuscirai a mettere al riparo la tua scoperta». «Lo so Kevin, ma vedi, il fatto è che temo di non potermi più fidare di nessuno. Oggi, all’Istituto, mi hanno negato l’accesso al laboratorio. È stato tuo padre a dirmi il motivo ma io non gli ho creduto». «Puoi fidarti di mio padre Mary». «Non è di lui che non mi fido, bensì di chi ha escogitato tutto questo, e tuo padre non ha potere su di loro, chiunque siano». «Ascoltami bene Mary, se ti fidi di mio padre puoi fidarti anche di me». In quello stesso istante udirono una vettura fermarsi sul cortile di casa. «Sono loro!» esclamò lei, rivolgendo uno sguardo spaventato a Kevin. Si avvicinò cautamente a una delle finestre per controllare ed emise un sospiro non appena riconobbe la Toyota verde scuro di suo zio. Si accostò alla porta e la tenne aperta quel tanto da sporgersi col viso, fino a che non lo vide smontare e alzare il braccio per salutarla. Gli andò subito incontro, portandosi le mani alla bocca come per manifestare tutto il suo orrore per quanto era appena accaduto. Suo zio le appoggiò una mano sul braccio e le chiese, visibilmente preoccupato, cosa fosse successo. «È accaduta una cosa orribile zio!». Così dicendo si avviò al suo fianco verso la porta di casa. «Cos’è successo qui dentro?». Fece lui osservando sconvolto la devastazione al suo interno. «Hanno frugato dappertutto zio, anno picchiato Kevin e hanno cercato di


31 tagliarmi fuori dal lavoro». Lui vide il suo fidanzato seduto su un sedia con la mano sulla fronte per nascondere il livido alla sua vista. «Kevin, mio Dio!». Joe Stewart lo aveva incontrato solo in un paio di occasioni, essendo sua nipote piuttosto reticente con lui sulle proprie frequentazioni, ma da quel poco che aveva potuto capire le sembrava che nutrisse un sincero affetto nei suoi confronti e che in segreto nutrisse la speranza di rendere stabile il rapporto con lui. «Che cosa ti hanno fatto!». «Non è niente signor Stewart, non si preoccupi». «È la mia scoperta che vogliono zio. Chiunque essi siano». Joe Stewart, rivolgendosi a lei pieno di apprensione, le chiese se stesse bene e se le avessero fatto del male. Benché suo zio fosse piuttosto avanti con gli anni, non aveva perduto del tutto quel vigore e quella prontezza di spirito alle quali aveva sempre guardato con stupore e ammirazione e che avrebbe voluto in parte possedere anche lei. «Io sto bene zio. Sono arrivata poco fa e ho trovato la casa in questo stato e Kevin per terra ferito». «Ti dico che sto bene ora, non preoccupatevi per me. È a te stessa, Mary, che devi pensare adesso. Quelle persone potrebbero tornare da un momento all’altro e non puoi permettere che ti trovino, sarebbero capaci di ogni cosa». «Allora dobbiamo andarcene di qua» fece Joe Stewart, decidendosi per primo ad agire. «Avete chiamato la polizia?». «Lo farò io signor Stewart, ma prima, Mary… » lei gli andò incontro non appena vide che tentava di alzarsi. «Prendimi il cellulare dalla tasca». Mary obbedì in fretta e gli passò il cellulare. «Ora segnati questo numero» lei prese un pezzo di carta e una penna. «Devi chiamare questa persona e farti aiutare da lui. È un ricercatore, come te, lavora in Italia ed è molto amico di mio padre. Saprà come aiutarti, è una persona fidata Mary, potrai stare tranquilla». «In Italia, ma io non posso partire, il mio lavoro è qua, casa mia è qua» protestò istintivamente. «Se sarà necessario partiremo anche per l’Italia» intervenne prontamente suo zio. «Non permetterò che qualcuno ti faccia del male». Mary non si aspettava che fosse lui a decidere per lei, anche se in quel momento le sembrò che quella fosse la cosa più saggia da fare. «Non sei obbligata Mary» le disse il suo fidanzato. «Però se pensi di non poterti fidare di nessuno, sappi che di questa persona potrai farlo come se si trattasse di me. Non aver paura» la incoraggiò infine accarezzandole il viso.


32 «Ora andate, presto». Mary, incapace a decidersi, rivolse uno sguardo disperato a suo zio. «Kevin, dobbiamo portarti via di qui. Andremo dalla polizia e racconteremo ogni cosa». «Non c’è tempo signor Stewart. Chiamerò io la polizia. La cosa importante è che voi ora vi mettiate in salvo». Mary si avvicinò a lui e senza dargli ascolto lo incoraggiò ad alzarsi cercando di sollevarlo per un braccio. «Potrebbero avervi spiato, Mary. Potrebbero già sapere che siete qui» fece Kevin respingendo il suo aiuto. «Dovete andare Mary, prima che sia troppo tardi!» disse deciso. Joe Stewart, in piedi dietro di lei, le mise una mano sulla spalla. «Coraggio Mary». Lei abbracciò il suo fidanzato per l’ultima volta e lo baciò sulle labbra. Si girò e lasciò la stanza insieme a suo zio. Prima di salire in auto, si recò in fondo a un lato dell’ampia veranda porticata all’ingresso, si chinò e dopo aver sollevato una delle tavole in legno del pavimento, sulla quale aveva inciso, in piccolo, la celebre equazione di Einstein, raccolse da terra una custodia metallica all’interno della quale si trovava la chiavetta USB contenente i suoi preziosi dati. La infilò in tasca e rimise la tavola di legno al suo posto. Recuperò il cellulare dal sedile della propria auto e andò incontro a suo zio, che era a bordo della sua Toyota in attesa di partire. Il suo fidanzato, che improvvisamente sembrava aver riacquistato ogni energia, si era nel frattempo accostato alla finestra per vederli andar via, portandosi il cellulare a un orecchio. "Maledetta stronza!" disse tra sé, un istante prima che un uomo rispondesse alla sua chiamata. «Ce lo ha lei!» furono le sue uniche parole.


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Nella sua casa a qualche chilometro da lì, nell’atmosfera ovattata della sala piena di libri, il corpo del professor Morrison giaceva sul pavimento, riverso in una pozza di sangue, accanto a quello di sua moglie. Il souvenir dal Brasile, imbrattato dello stesso sangue, che fino a poco prima si trovava nell’appartamento di Mary, era stato lasciato cadere a terra, al centro della stanza. Una vettura scura, la stessa che stava accostando di fronte la casa dei due coniugi poco prima che Mary si allontanasse con la sua, si stava ora dirigendo verso l’abitazione di Joe Stewart. Lo zio di Mary, al volante, continuava a scrutare il volto abbattuto di sua nipote senza riuscire a trovare le parole per risollevarla. Lei teneva ancora in mano la piccola custodia che quel mattino, dopo essersi recata al suo istituto, aveva avuto la prontezza di nascondere, facendola lentamente roteare tra le dita. «Cosa pensi di fare?» le chiese, nel tentativo di aiutarla a riprendersi dai pensieri opprimenti che dovevano assalirla in quel momento. «Non lo so ancora zio. È tutto così insensato». «Cos’è questa tua scoperta, non me l’hai ancora detto di che cosa si tratta». Mary attese qualche istante prima di rispondere. «È una scoperta che se fosse accertata… potrebbe cambiare un sacco di cose zio» disse con espressione impaurita. Sapeva che non avrebbe capito, ma era ugualmente felice che fosse al suo fianco. A un tratto si sentì profondamente commossa per l’appoggio che le aveva dimostrato e allo stesso tempo in colpa con se stessa per non aver avuto il coraggio di riavvicinarsi a lui prima di allora. «Ti prometto che ti racconterò tutto più avanti, zio» furono le sole parole che riuscì a dire. «Ora però dobbiamo pensare ad altro». «Credi che sia meglio partire? Dove diceva il tuo fidanzato, in Italia?». «L’Italia, è così lontana». «Lo so Mary! Lo so». Improvvisamente lei sentì il suo telefono squillare e lo afferrò per rispondere. «Mary, sono il preside Wallace». «Professore!». «Devo darti della brutte notizie. Non ho molto tempo a disposizione e voglio


34 che tu mi stia attentamente a sentire». «Sto ascoltando». «Dopo che te ne sei andata, è arrivato qui al Dipartimento un professore di Cambridge che fa parte della commissione della quale ti avevo accennato. Ha preteso di ispezionare immediatamente il tuo laboratorio e le apparecchiature che avevi a disposizione senza che io potessi fare nulla per impedirglielo. Mi ha chiesto ripetutamente dove ti trovassi e in che modo potesse mettersi in contatto con te. Sappi che io ho cercato di prendere le tue difese e di proteggere la tua privacy fin quando ho potuto, ma non credo che sia valso a molto. Temo anzi che la questione possa essere più seria di quanto avevo immaginato». «Non creda a una sola parola di ciò che le dicono professore. Sono solo delle sporche menzogne» protestò lei con veemenza. «Non è tutto Mary. C’è qualcos’altro che devo riferirti». La sua espressione si fece a poco a poco più cupa. A un tratto si portò una mano alla bocca e spalancò gli occhi, sconvolta in viso. Rimase ammutolita in ascolto delle parole del suo professore, con lo sguardo immobile davanti a sé, fino a che suo zio, accortosi del suo stato, non rallentò la macchina per accostare a un lato della strada. Lei si girò verso di lui e dopo alcuni istanti terminò la telefonata salutando mestamente il preside del suo Istituto. Poi, con voce debole, si rivolse a suo zio. «Hanno ucciso il professor Morrison e sua moglie. Li hanno trovati nel loro appartamento». «Mio Dio!» furono le sue sole parole. «Kevin aveva ragione, quelle persone sono disposte a tutto» disse Mary tra sé. Ora non aveva più dubbi, qualcuno la stava minacciando per impossessarsi della sua scoperta e le uniche persone che potevano essere, a quel punto, erano le stesse che a Cambridge le avevano affidato la ricerca su cui stava lavorando e che magari, le venne in mente in quel momento, avevano sospettato fin dal principio che stesse per imbattersi in qualcosa di estremamente importante. Era certa che avessero trovato il modo per spiarla e che fossero corsi ai ripari non appena si erano accorti che lei aveva rivelato ad altri la sua scoperta. «E ora?» le chiese Joe Stewart cercando di mantenere la mente lucida. «Dobbiamo andare all’aeroporto zio, devo partire!». «E io verrò con te!».


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All’interno dell’abitazione di Mary, nella stanza messa a soqquadro da dove se n’era andata poco tempo prima, il sedicente professore di Cambridge, che dopo aver ispezionato il suo laboratorio aveva fatto in modo che restasse chiuso a chiunque, stava in piedi di fronte al suo fidanzato, fissandolo con aria compiaciuta. «Ora ho fatto tutto ciò che volevate». «Molto bene» annuì William Rosner, con voce cavernosa. «Così saremo sicuri che partirà e non farà più ritorno, una volta che la polizia la incriminerà per quei due omicidi. Mi chiedo se abbiano già scoperto i cadaveri a proposito» fece sogghignando. Il fidanzato di Mary guardava con ribrezzo i macabri lineamenti del suo volto. «Potrò avere i miei soldi ora!?». «Calma ragazzo, calma. Non essere troppo ansioso» rispose William Rosner. «Mi avevate detto che avrei ricevuto i miei soldi all’istante, una volta terminato il mio compito» protestò lui. «Calma» fece William Rosner con un cenno della mano. «Non starò calmo finché non vedrò quei soldi. La questione si è complicata molto più del previsto. Nessuno aveva mai detto che ci sarebbero state delle vittime e io non voglio più avere a che fare con tutta questa storia. Avete ottenuto ciò che volevate e... ». «Non abbiamo ottenuto un bel niente!» lo azzittì alzando improvvisamente la voce. «La scoperta è ancora nelle mani di quella dannata ragazza e tu avresti avuto i tuoi soldi, nessuno sarebbe dovuto morire e noi saremmo stati più soddisfatti, se lei non fosse scappata con la sua scoperta e non avesse avuto la brillante idea di andarne a parlare col suo professore». «Ma io non c’entro in tutto questo, non sono fatti che mi riguardano. Ho compiuto alla lettera ogni vostro ordine, vi ho tenuto informati, l’ho mandata dove volevate!». «Hai ragione, ci hai tenuto informati, l’hai mandata dove volevamo e in tal modo avremo lo stesso ciò che stavamo cercando, ma su una cosa ti sbagli, perché questi sono fatti che in realtà ti riguardano» fece, voltandosi per impugnare l’arma senza che lui se ne accorgesse. «Stupido ragazzino viziato» aggiunse sferzante, puntandogli la pistola contro. «Cosa pensi che direbbe tuo padre se sapesse che hai tradito la sua


36 fiducia e quella della sua giovane e stimata ricercatrice?». «Maledetto, che tu sia maledetto!». William Rosner gli sparò in piena fronte, freddamente, come se avesse compiuto un gesto meccanico, esente da ogni rimorso. Prese il cellulare dalla tasca e si diresse adagio verso la porta. «Venite via di là, suo zio ora è con lei».


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Nell’aula di fisica teorica di un’altra università, in una piccola città italiana di nome Pavia, il professor Antonio Ricucci stava tenendo una lezione sul fisico austriaco Ernst Mach e sulle implicazioni affascinanti di cui erano portatrici le sue idee. La tesi secondo la quale non erano lo spazio e il tempo assoluti i rigidi scenari all’interno dei quali si svolgeva il bailamme di interazioni tra i corpi, così come Newton aveva postulato, bensì la totalità della materia nell’universo, che esercitava su di essi un qualche tipo di forza, era stata dibattuta per un intero secolo e ora veniva riproposta a quei giovani che un giorno avrebbero avuto l’onere, e forse l’onore, di dirimere una volta per tutte. L’attempato professore, con indosso un paio di pantaloni di velluto chiari e un pullover color cachi sopra una camicia a quadri, stava in piedi davanti la cattedra, rivolto ai giovani studenti intenti a prendere appunti. «Così la questione su rispetto a cosa si stesse muovendo l’acqua all’interno del “secchio di Newton” sarebbe stata definitivamente risolta, secondo Mach, senonché, la sua visione del mondo non fosse per alcun verso dimostrabile e soprattutto andasse irrimediabilmente contro quella proposta dallo stesso Newton, che invece era riuscito a predire esattamente… » interruppe la frase togliendosi gli occhiali con ambo le mani in un fare solenne che serviva a introdurre ciò che stava per dire, «il movimento dei corpi celesti all’interno di uno spazio e di un tempo assoluti, la cui esistenza, in seguito, fu definitivamente smentita da Einstein con la scoperta della Relatività». Dopo aver pulito le lenti degli occhiali con un lembo della camicia che spuntava da sotto il pullover e averli indossati di nuovo, il professore diede le spalle alla classe e si diresse verso la cattedra. «Ma quindi, professore… » intervenne uno degli studenti, con una serie di piercing sul viso e un folto pizzo scuro, «in un certo senso si può dire che fosse Mach ad avere ragione, che tutto ciò che esiste realmente non è che la materia che abbiamo intorno e rispetto alla quale si può dire che un corpo si muove, o che qualcosa accade». Il professor Ricucci si era nel frattempo seduto e armeggiava con la sua vecchia stilo tenendola per le estremità con la punta delle dita. «In un certo senso è così. Vedete, Albert Einstein si ispirò profondamente ai lavori di Mach, battezzando la sua “Relatività Generale” proprio in


38 riferimento al “principio di Mach”, secondo il quale è la materia stessa a creare lo scenario esistente. La Relatività Generale, per chi non lo sapesse ancora, ci dice che i corpi dotati di massa, tutti i corpi, inclusi noi stessi e non solamente le stelle o i pianeti, creano lo spazio intorno a sé, plasmandolo attraverso la forza di gravità, facendo in modo che ogni altro corpo in orbita attorno a essi segua esattamente una traiettoria che non è che la forma di quello spazio alterato». Si alzò dalla poltrona in pelle e, riposta la stilo nel taschino della camicia, iniziò a tracciare un rapido schizzo sulla lavagna. «Per fare un esempio, un satellite che precipiti sulla Terra è come se in realtà stesse scivolando lungo i margini dello spazio generato dal nostro pianeta» disse facendo cadere il gessetto sul ripiano alla base della lavagna. «Questa è stata la sbalorditiva proposta di Einstein sull’effetto della gravità ed è in tal modo che aveva cercato di dare un senso alle idee del fisico austriaco, che assieme a quelle di Hume e altri l’avevano profondamente influenzato». «Ma, professore, Einstein aveva ragione?» domandò timidamente lo stesso alunno di prima. «Certo, sì, Einstein aveva ragione. Malgrado ciò sui concetti di spazio e tempo si è ancora piuttosto lontani dall’avere un’idea precisa di cosa siano». In quello stesso istante la porta dell’aula venne lentamente aperta e un sommesso vocio si levò tra gli studenti. Stefano Derisi era l’assistente del professor Ricucci da alcuni mesi e sapeva quanto lui detestasse che qualcuno lo interrompesse durante le sue lezioni. Tuttavia non aveva avuto altra scelta e così si sporse quel tanto oltre la porta per fargli cenno di raggiungerlo fuori dell’aula. Il professor Ricucci rivolse un’occhiata spazientita alla classe e, dopo una breve pausa, tentò di riprendere il filo del discorso. «La visione di Mach, così come quella di Einstein, di una componente olistica del nostro univ… ». Questa volta fu il richiamo di un alunno a interromperlo, mentre Stefano Derisi restava in attesa sullo stipite della porta. «Sì, che cosa c’è?» fece con lieve disappunto. «Che cosa significa olistico?». Il professore guardò con aria spazientita il giovane, chiedendosi se fosse solo quello che finora non aveva capito. «Dovresti rileggerti Aristotele allora!» disse prendendo con sé il registro e allontanandosi dalla cattedra. «Vuol dire che il tutto non è la semplice somma delle sue parti» aggiunse poi, rivolgendosi all’intera aula. «Per la prossima volta voglio che sappiate tutto ciò che c’è da sapere sul termine “olismo” e sulle sue implicazioni in fisica e in filosofia», così dicendo raggiunse il suo assistente, divertito per la


39 sbottata, e lo seguì fuori della porta. «Ebbene!?» fece non appena l’ebbe richiusa. «È atteso al telefono professore». Si scambiarono un breve sguardo e si avviarono entrambi verso il suo studio. Una volta entrati il professore si accostò al telefono, sollevò la cornetta e rispose. «Sono il professor Ricucci» disse con voce chiara e forte. «Salve professore, mi chiamo Mary Costello, lavoro negli Stati Uniti, sono una ricercatrice anch’io. Ho bisogno di parlare con lei professore, sono in partenza in questo momento per l’Italia». «Con calma signorina, con calma. Innanzitutto lei come fa a conoscermi, e ad avere il mio numero?». «In effetti io non la conosco, ma lei conoscerà forse il professor Wallace, dell’università di Princeton, è il preside del mio istituto». «Ha detto il professor Wallace? Arthur Wallace?». «Sì». «Sì, lo conosco, è un uomo molto in gamba, ci siamo incontrati in svariarti convegni scientifici». Il professor Ricucci guardò Stefano Derisi, seduto sul bordo della scrivania, accennando un sorriso. «Ma io cosa posso fare per lei?». «Io ho solo bisogno di incontrarla, professore, e di condividere con lei alcune informazioni, dei risultati delle mie ricerche che ho qui con me, e che non posso far vedere ad altri. La prego, mi dica solamente dove posso incontrarla e le spiegherò ogni cosa in seguito». Il professore mutò lentamente espressione, manifestando la sua perplessità in direzione di Stefano che, a sua volta, vedendolo portare una mano all’imboccatura della cornetta e restare immobile quasi a volergli bisbigliare qualcosa, credette di essere messo in causa. «Va bene» lo sentì dire con voce incerta. «Lei sa dov’è Pavia?». «Pavia? No, non la conosco, ma ci arriveremo. Noi dovremmo atterrare a Milano, all’aeroporto di Linate, alle ventuno del vostro fuso». «C’è qualcun’altro con lei quindi». «Si tratta di mio zio. Mi dispiace di non averglielo detto prima, ma vede… ha insistito molto per accompagnarmi. Spero che non sia un problema». «No, no, si figuri». «La ringrazio professore, la ringrazio infinitamente». Sentì la donna parlottare con la persona che le stava accanto. «Ha detto che il suo aereo atterrerà alle ventuno qui a Milano?». «Sì». «Se vuole possiamo venire noi a prenderla» le disse, scambiando un rapido sguardo col suo assistente. «Alle ore ventuno saremo all’aeroporto».


40 Ascoltò la donna profondersi di nuovo in mille ringraziamenti e, dopo un breve saluto, riagganciò la cornetta. Stefano Derisi, seduto sul bordo della scrivania, non perse tempo a interrogarlo. «Che cosa ha detto?». «Ha detto di volermi parlare, che non mi conosce personalmente ma che io conosco il preside del suo istituto». «Nient’altro?». «C’è anche suo zio con lei» rispose secco. Il giovane assistente annuì, balzò giù dalla scrivania e si avvicinò alla porta. «Alle nove dovremo essere a Milano?». «Sì». «A più tardi allora». Dette una rapida occhiata all’orologio posto sulla parete e uscì dall’ufficio lasciando solo il professore, con lo sguardo fisso a terra, immerso nelle sue riflessioni. Poche ore più tardi i due erano in viaggio verso la grande città dove la ricercatrice e suo zio erano diretti per mettersi in salvo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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