La giostra, Walter Serra

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In uscita il /2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine IHEEUDLR e inizio PDU]R 2019 ( ,99 euro)

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Walter Serra

La giostra

ZeroUnoUndici Edizioni

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ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA GIOSTRA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-279-9 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Febbraio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

Ogni riferimento a persone, fatti e situazioni che possano eventualmente trovare riscontro nella realtà è puramente casuale, essendo questa storia pura invenzione del suo autore. Nota: nel testo sono citate strofe della canzone “50mila” di Nina Zilli


Dedicato agli amici del Circolo Letterario Leggendo Scrivendo.it. Anche se il Circolo non c’è più, restano gli insegnamenti e il ricordo delle belle cose vissute assieme.

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CAPITOLO 1

Bologna, 13 ottobre 2010 È quasi sera e il mio turno al giornale è finito da almeno tre ore. Si resta sempre ben oltre l’orario, un po’ per affinare editoriali e articoli, un po’ perché se no c’è sempre gente nuova pronta a soffiarti il posto. Sono già con il giaccone in mano, quando Giacobbi mi richiama con voce strozzata. «Andrea, è il direttore!» mormora il mio collega passandomi la cornetta. Quando chiama lui in persona sono sempre cazziatoni: un articolo sballato, una notizia sballata, una fotografia sballata. In effetti Vincenti non usa una gran pluralità di aggettivi, però non sbaglia mai. Riguardando meglio le bozze corrette da lui prima di mandarle in stampa, ci rendiamo conto di essere noi dei pirla e lui un luminare. “Ah, se non avessi questa gamba sciancata, vi manderei tutti quanti a scopare il mare e le notizie le andrei a cercare da me!” sbotta ogni tanto. È la più blanda delle ramanzine che gli ho sentito fare in sette anni, da quando lavoro al giornale. «Sono Furlan, dica.» «Sali.» Decine di occhiate interrogative accompagnano i miei passi su per la scala che porta al suo ufficio, le sento come pugnali conficcati nella schiena. Alcuni per gelosia, altri di sollievo per averla scampata. A ogni gradino mi assale un pensiero diverso, ripasso mentalmente un paragrafo dell’ultimo articolo inviato, senza trovare una sola nota stonata, né il motivo della chiamata. «Siediti, Andrea.» Sembra più grave del solito, nessuno si è mai seduto per prendersi una lavata di testa, spesso scaraventata a porta mezza aperta affinché sentano tutti gli altri. Di cosa potrebbe trattarsi? Comincio a temere per il mio posto di lavoro.

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6 «Sono diversi anni che lavori per noi, Andrea. Anni di sacrifici e di magre consolazioni. Mai un articolo veramente esplosivo, di quelli che rimangono in prima pagina per una settimana o che pilotano le notizie della concorrenza. Sei sempre rimasto ai margini. Ottimo giornalista, grande padronanza del mestiere e della lingua, ma non ti sei mai messo in luce. Hai accettato ogni incarico che ti ho affidato senza mugugnare, portandolo a termine con risultati mai troppo sballati. Ecco, luce e ombra, così si può definire il tuo settennio trascorso qua dentro.» «Tutto questo pistolotto, per dire?» taglio corto. Vincenti ride, immagina il disagio che sto provando. Sembra godere di tutta l’autorità che la sua posizione al giornale rappresenta. In pratica, vita o morte giornalistica. Per questo nessuno lo ama ma lui se n’è sempre sbattuto. Lui cerca i risultati, non le leccate di culo. Sono più o meno queste le espressioni che usa con chi raramente osa lamentarsi. «Ti è presa la strizza, eh, Andrea? Basta così poco per farvi cacare sotto. Ascoltami bene. Voglio proporti un servizio che solo tu riuscirai a portare a termine, in mezzo a tutta la manica di sgomitatori che stanno allungando le orecchie dabbasso.» Si alza puntellandosi sulle palme contro i braccioli della sedia. «Che tanto voi, senza di me, non riuscireste a scrivere decentemente nemmeno un necrologio!» urla con voce tonante affinché lo si possa sentire anche dall’ultima scrivania. Di colpo il brusìo nel salone della redazione si rimette in moto. Chi a battere al computer, chi a riprendere una telefonata interrotta. «Il nostro giornale non se la passa malissimo, le vendite sono stabili e gli introiti per la pubblicità non sono andati in picchiata, nonostante la crisi. Però io non mi accontento di vivacchiare. Ho sessant’anni passati e tra qualche tempo sarò costretto a mollare questo scranno a qualcuno più giovane. Vorrei, insomma, lasciare in bellezza, con un’inchiesta giornalistica con i fiocchi, di quelle che hanno fatto grandi i giornali e i giornalisti negli anni Ottanta e Novanta. Tu eri ancora un ragazzino all’epoca e sei cresciuto in mezzo agli scandali sessuali di questo o quel politico, a processi senza condannati, a elezioni politiche dall’esito scontato, a disastri naturali che potevano anche andare peggio ma che non sono finiti bene. Insomma, pagine e pagine di gossip e cronaca, dove sono le notizie che vengono a cercarti e la gente non chiede di meglio


7 che trovarsele già confezionate, tutte uguali, per convincersi che il mondo è bello perché è prevedibile.» Si ferma e mi scruta, per vedere se sono ancora lì con la testa. «Quindi, ora tu vai là fuori e inizi un’indagine giornalistica vecchia maniera. Ci occorre un argomento forte, che richiami gli animi dei lettori e in cui tutti si possano cementare. Niente politica. Un caso di omicidio irrisolto, o altro, che abbia però una risonanza importante. Hai qualcosa in testa? Ci vuoi pensare? Comunque decido io, beninteso.» Mi sfiora solo per un attimo il pensiero del perché sia io il prescelto, ma i dubbi è meglio affrontarli in seguito, mi dico. Decido di sparare le mie cartucce: «Ricorda quella ragazza che è scomparsa qualche anno fa, a Urbania? Quella che era andata a messa e non se n’è saputo più niente?» faccio una pausa per verificare la sua reazione, poi proseguo: «Monica Melandri, sedici anni. Quella tutta scuola e chiesa che cantava nel coro, faceva la catechista e…» «Via, via, non sprecare il tuo tempo a sciorinarmi tutto il tuo sapere! Ricordo benissimo il caso e il tuo articolo, invece, così così. Ti confesso che era una delle mie scelte. I giornali e la televisione avevano seguito con enfasi le ricerche, poi tutto è stato accantonato dopo poco tempo, per dare risalto ad altre notizie più appetitose e fresche. Per me, può andare. Bada: ho scelto te soprattutto perché non hai legami qui in città e non per i risultati del tuo lavoro. Da quello che so, non sei sposato né fidanzato. Con i tuoi genitori ti vedi appena per le feste comandate e i tuoi amici… beh, amici… quelli si staranno chiedendo che fine hai fatto, lieti che non sia toccato a loro! Ecco, questo sarà il tuo incarico per i prossimi… diciamo quattro, sei mesi. Sarai un inviato speciale quanto anonimo. Un’ombra nella città, occhi e orecchie attenti e una mano sagace pronta a cogliere ogni indizio utile. Prenderai casa in quella ridente cittadina, diventerai un bravo parrocchiano, amico di tutti, pronto a dare una mano alle feste locali e ottimo giocatore di carte con i vecchi del paese. Fra l’altro mi è giunta notizia che c’è anche un altro giornalista che sta facendo domande in giro. Farai bene a spicciarti, che quello magari ti frega la prima pagina e così sei fottuto due volte. Hai un budget di ventimila euro, non uno di più.» «Ha pensato proprio a tutto! E se non ci riesco che fa, mi licenzia?»

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8 «No, quello l’ho già fatto stamattina presto: semmai ti riassumo. Hai sei mesi per portarmi un articolo che mi lascerà senza fiato e che terrà banco con i titoloni per almeno due settimane. Risolvi il caso, Andrea, e ti riempirò d’oro. Se cadi invece, cadiamo entrambi, oppure saremo in due a salire sull’Olimpo del giornalismo!» Durante la discesa della scala mi sento come se dovessi sgretolarmi in mille pezzi. Raggiungo la mia scrivania e spengo il computer senza salvare. Raccatto una busta di plastica da un cestino e raduno le mie cose in pochi minuti, sotto lo sguardo atterrito dei miei colleghi, fedele al copione snocciolato sottovoce dal capo. «Che è successo, non ti avrà mica…» chiede Giacobbi sgranando gli occhi. «Tieniti le chiappe strette almeno tu, che quello è uscito di senno. A buon rendere, comunque. Sei stato un buon amico e consigliere.» «Ma dove vai? Chiamiamo il sindacato, facciamo una serrata!» «Lascia perdere, pensa piuttosto a correggere il tuo articolo. L’ho letto e non sa di niente. Buona fortuna.» Nessun altro osa sfidare lo sguardo severo di Vincenti, che si è piazzato al finestrone del suo ufficio per godersi la scena. La sua faccia si vede a strisce fra le fettucce della veneziana abbassata e non tradisce la minima emozione, nemmeno quando lo saluto con il medio alzato prima di sbattere la porta. Non mi piaceva il suo modo di fare e glielo avevo detto. Poco mi importa della delega di firma su un conto del giornale, dove ha versato i ventimila euro del mio fondo di dotazione. È del mio posto di lavoro che si tratta, della mia missione. Stare via per sei mesi equivale a perdere identità nel giornale e a farsi soppiantare nella già misera graduatoria da ogni persona mediocre in grado di poggiare il culo sulla mia sedia. Che razza di bastardo, mi ha incastrato buttandomi a forza dentro quell’indagine, ben sapendo che nessuno l’avrebbe potuta seguire stando a mezzo servizio. Il mio articolo dell’epoca era stato invece apprezzato, altro che robetta, come l’ha definita il direttore. La mancata soluzione del caso da parte della polizia mi bruciava ancora dentro come una ferita. L’occasione per


9 indagare più a fondo non me la sono lasciata sfuggire, mio malgrado. Per me e per quella povera ragazza. Il portone di ferro si chiude con un clangore sinistro alle mie spalle, unico ringraziamento per sette anni spesi tra fumo passivo e inchiostri cancerogeni. Ero entrato al giornale a seguito della vittoria di un bando di concorso. Avevo lasciato il mio paese ai piedi delle alpi trentine, pieno di sogni e di speranze. Pensavo di cambiare il mondo raccontando le sue brutture per costringerlo a modificare il suo corso. A distanza di anni cosa mi rimane? Appena una scommessa con il mio datore di lavoro, oppure un benservito. Ah, anche ventimila euro da spendere come mi pare. Metto in moto la mia vecchia Mini e ascolto il rumore sommesso del motore. Ha più di trent’anni e io qualcuno di più. Alzo lo sguardo e fisso l’insegna che un tempo era di un verde brillante e ora si distingue appena in mezzo alla pioggia: La Tribuna di Bologna, dal 1952. Tutto, oggi, mi sembra decadente e al rientro a casa trovo altre conferme da internet: Urbania è rimasta la cittadina marcia che conosco da cinque anni, lambita da un fiume che contribuisce a farla diventare sempre più putrida. Infine, custodisce un segreto legato alla scomparsa della ragazzina e al nome del suo assassino, a dispetto del passato illustre di cui si può fregiare che porta il nome di Casteldurante. Forse è questo sentore di stantìo che mi fa prendere una decisione inaspettata e che spero cambi la mia vita: vendere la Mini d’epoca e comprare un’auto nuova.

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CAPITOLO 2

18 ottobre. La vecchia Ardita si è messa a piangere alla notizia che avrei lasciato l’appartamento per diversi mesi e, forse, per sempre. Mesta, mi ha concesso di sospendere l’affitto e di lasciare le mie cose, almeno finché non avesse trovato un nuovo inquilino. «Andrea, dopo tutti questi anni!» frigna. Già, sette anni di riscaldamento a singhiozzo e camminate sulla testa a tutte le ore del giorno e della notte con zoccoli duri come il cemento. Fottiti, vecchiaccia! La Mini si è rivelata un assegno in bianco, tanto che ho dovuto aggiungere pochi spiccioli per portarmi a casa una Stilo familiare a chilometri zero, più discreta e consona al mio nuovo personaggio. Ho calcolato circa tre ore di viaggio e sono partito subito dopo pranzo con l’auto stracolma di ogni cosa. Nel vecchio appartamento ho lasciato gli abiti estivi e tutti, o quasi, i miei libri. Se uno stacca la spina, mi sono detto, la stacca sul serio. Abituato al baccano d’epoca della vecchia auto, andare in autostrada con la nuova sembra di volare. La nebbia a tratti mi impedisce di tenere la velocità massima e alla fine ho deciso di evitare di tagliare per le strade tortuose di Urbino, per paura di finire dentro un fosso per la scarsa visibilità. Mi fanno compagnia della buona musica e la consapevolezza che presto farò ritorno, tanto lo so che sarà una missione impossibile. È tutta una fregatura per farmi fuori e ridurre il personale, che altro motivo avrebbe avuto, quel vecchio fossile? Certo che però ha investito dei bei soldi in questo incarico. Sarà comunque dura cavare di più dalle scartoffie e scoprire che fine ha fatto la ragazza. Cinque anni sono tanti, nemmeno la polizia è riuscita a fare un solo passo in avanti con mesi e mesi di indagini.


11 Percorso l’ultimo metro di strada veloce, scavalco Acqualagna senza vederla per la nebbia e giungo a Piobbico che è quasi buio. Piove un’acqua strana, sottile e impalpabile, tanto che il tergicristallo raschia a ogni passaggio. Decido di fermarmi per fare il pieno, prima di perdermi nelle stradine dell’interno. Il vecchio benzinaio tiene la pistola dell’erogatore premuta a mano, quasi tema gliela voglia rubare. Fiuta la targa straniera e lo vedo spostare la testa a destra e a sinistra, nel tentativo di scorgere qualcosa o qualcuno dentro la macchina, impedito dal riflesso dell’insegna sul vetro bagnato. «Ho fatto tardi per via della nebbia. C’è un albergo qui in città, o un agriturismo nei pressi?» chiedo. «Lasci perdere gli alberghi, che sono trappole buone per le donnacce! Prenda a destra del bivio e dopo tre chilometri arriverà a Piano. Attento, che sono appena quattro case. C’è un agriturismo tranquillo in cima a una salita sulla destra, segua le indicazioni. Lo gestisce mio nipote, dica che la mando io. Sono sessanta euro.» «Grazie. C’è anche il ristorante?» «Si vede che viene dalla città! No, ha solo camere e appartamenti. C’è la cucina, se vuol fare da solo. Qui in paese ci sono trattorie, se non vuole impazzire» fa una pausa «brutta cosa i traslochi!» sentenzia. Se ne torna nel suo gabbiotto, al caldo. Rientro in macchina e abbraccio il mio bagaglio con uno sguardo d’insieme. In effetti non sembro affatto un turista, con tutti questi pacchi e valigie sparsi in macchina. Ormai ciondolo dalla stanchezza e ho solo voglia di sdraiarmi in un letto. Mi accodo a un fuoristrada e prendo la salita. La nebbia passa a strati. Ora impedisce la visuale, ora si ritira nella vallata. In effetti il paesino arriva in un baleno e altrettanto veloce sparisce in mezzo ai campi e ai boschi. Sacramento fra i denti e faccio inversione in uno spiazzo. Torno indietro e cerco il punto dove il fuoristrada ha girato a destra e dove forse dovevo svoltare anch’io. La strada è talmente stretta e ripida che la devo percorrere in prima e stare attento a non finire nel fosso di lato o infilare il campo dall’altro. Giungo in uno spiazzo illuminato da lampioncini e parcheggio accanto al fuoristrada che avevo tallonato, senza sapere dove sono finito.

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12 È appena sceso un uomo con un cappello di velluto in testa, abiti logori da lavoro. «Salve. Il gestore del distributore, giù al paese, mi ha detto che da queste parti c’è un agriturismo. Ci ho preso o sono solo arrivato a casa sua?» In effetti sembra più la casa colonica di un contadino che altro. «No, è nel posto giusto. È da solo?» anche lui guarda oltre la mia spalla, abituato forse a frotte di bambini urlanti e mogli rassegnate. «Purtroppo sì. Sto cambiando città. Dovrei trovare alloggio a Urbania, ma si è fatto tardi e non ci arrivo con questa nebbia. Magari mi fermo qualche giorno, in attesa di sistemarmi.» «Come vuole. Le mostro gli appartamenti, così può scegliere. In questo periodo non viene più nessuno, pensavo di chiudere fino a Natale, ma non è un problema. La casa è indipendente. Io abito più sotto, dove ho l’azienda agricola. Venga.» Prende dal fuoristrada un mazzo di chiavi e mi precede lungo la scala che porta al primo piano. «Se posso consigliarla, prenda questo: sotto è molto più rigido.» Il porticato di legno è madido per l’umidità della nebbia, che si è un poco ritirata e insidia dal limitare del campo. L’appartamento è inaspettatamente carino, arredato con mobili d’epoca o in stile. Cucina, soggiorno con camino, due camere e un bagno. Le finestre guardano al tramonto e sulla piccola piscina. D’estate sarebbe uno schianto, ma io non sarei stato là a godermi il panorama. «Va bene, prendo questa. Quanto chiede?» «Facciamo trenta euro al giorno, più il riscaldamento. Circa altri dieci euro. Tutto compreso» un affare. «Siamo d’accordo. C’è possibilità di avere qualcosa da mangiare?» «Salumi, vino e formaggio che facciamo noi. Ho anche del pane fresco, l’avevo preso per la casa, gliene lascio un filone. Venga, metto in conto.» Scendiamo dietro il capanno degli attrezzi che sta di fronte, lungo una scalinata di cemento grezzo. Apre un locale che è la sua dispensa. Salami, prosciutti e lonzini appesi confondono gli effluvi del pecorino che stagiona sulle assi. Prendo di tutto, ammaliato dagli aromi che ristagnano nel locale. Ma è dopo esserci salutati e scambiati i numeri di cellulare che mi assale il peso dello sconforto e della solitudine. Che ci faccio, qui?


13 Sradicato, ecco come mi sento. Cacciato via da casa, allontanato, disperso in una campagna a inseguire una chimera, insidiato da una spada di Damocle che ha una scadenza fissa e io nemmeno un’idea da dove cominciare. E non sono nemmeno riuscito a raggiungere Urbania. Poso sul divano la valigia con il necessario per la notte e preparo al volo per la cena. Boccone dopo boccone, respiro e mangio aria nuova. Mentre prendo confidenza con l’ambiente penso a una strategia da adottare. Cercare casa, farsi conoscere, diventare uno di loro e farsi raccontare cose. A sentire Vincenti sembra facile, invece io tremo per il freddo e l’agitazione per l’incarico assurdo che mi è stato appioppato. Il cibo è buono e il vino sincero. Almeno fino a quando la bottiglia non mostra desolatamente il fondo.

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CAPITOLO 3

19 ottobre. Mi risveglio bocconi sul tavolo e con la testa che va per conto suo. Di vino me ne intendo, ma quel sapore nostrano ha ben mascherato la gradazione e mi ha sopraffatto come un novello Polifemo. Durante il sonno qualcosa mi aveva disturbato: rumori di sottofondo, voci, suoni. Forse si era trattato solo del rimestare del fuoristrada sul ghiaino del piazzale, oppure del vento che s’incunea tra le finestre sbilenche. Anche un cane sta latrando, da qualche parte nel buio. Mi affaccio alla finestra, tasto il caldo del termosifone. La pioggia sferza i vetri nonostante il riparo offerto dal tetto dello stretto porticato. Tiro fuori il pigiama e mi affretto per andare a dormire. Mi sembra che il lampadario ondeggi, quando alzo gli occhi prima di spegnere la luce. Forse sto già sognando. Per fortuna mi sveglio abbastanza presto e decido di partire subito alla volta di Urbania. Ho fretta di prendere contatto con la città e i suoi misteri. Lungo il tragitto scorgo Marcello, il mio ospite, che ripara la staccionata del recinto per le pecore. Lo saluto dal finestrino abbassato. «Buongiorno!» «Ha dormito bene?» «Ho ancora il vino in circolo, ma credo che riuscirò a guidare. Ha dei conoscenti, in Urbania, che possano affittare un piccolo appartamento?» «Ah, ma allora è proprio deciso! Io vado poco fin lassù, giusto quando mi chiedono qualche taglio di carne. Ci considerano gente dozzinale e allora non li frequento. Chieda al Caffè del Teatro, quello in piazza San


15 Cristoforo. Altrimenti ci sono sempre le agenzie immobiliari. Tiri sul prezzo, che là è tutto vecchio e non vale un accidente!» Lui riprende a martellare e io la mia strada. La giornata si preannuncia umida e nuvolosa, pure il peggio sembra ormai passato. La cartella verde posata sul sedile accanto mi rimanda riflessi abbaglianti e ogni tanto richiama il mio sguardo: contiene i ritagli di giornale sulla ragazzina scomparsa, oggetto dell’inchiesta e fonte dei miei guai. Il Caffè sembra l’imbocco di un formicaio. La gente sosta sotto il porticato, a fumare e bere. I ragazzini vanno e vengono, chi diretti alla scuola elementare dei pressi, chi con altre destinazioni. Donne con le borse di rete a prendere il pane fresco. Poche le ragazze e i ragazzi in giro, indice che le scuole superiori stanno da un’altra parte. Mi faccio largo nella calca e guadagno un posto al bancone e la mia prima tazzina di caffè gratis in sette anni, pagata con i soldi del capo. «Dica, conosce qualcuno che affitta appartamenti per una persona sola?» Il barista mi fissa incuriosito, si affretta a prendere i soldi di una consumazione, poi parte per due caffè macchiati, cui segue un cappuccino e un tè al limone. Prendo la mia tazzina e una brioche ancora calda e mi avvicino alla cartina del paese appiccicata al muro. Voglio dare una collocazione a quelle vie strette e ai palazzi decrepiti che ho scorto arrivando fin qui. Qualcuno ha disegnato un puntolino rosso e apposto la scritta Voi siete qui, ma io in realtà vorrei essere alla mia scrivania, al giornale, da qualsiasi altra parte e invece sto proprio lì. Una voce risuona alle mie spalle. «Diceva?» il barista attende con un vassoio pieno di tazzine sporche. «Cerco un piccolo appartamento per me. Conosce qualcuno?» «Avrei qualche nome, però torni prima delle undici, adesso è un momentaccio.» In effetti, ci si monta sui piedi. Mi ritrovo fuori, senza nemmeno la voglia di accendere la prima sigaretta della giornata, che tanto sto cercando di smettere. Seguo il Corso Vittorio Emanuele, fidando sulla cartina stampata nella mia

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16 memoria. L’ombra dei porticati rende ancora più cupe le vetrine dei negozi che vi si affacciano. Incrocio via Francesco Ugolini, deciso a fumare sul ponte che sta sull’ansa del fiume, in faccia al palazzo ducale. Ai lati si aprono strade talmente strette da faticare a transitare in auto. Palazzi cinquecenteschi fatiscenti, finestre sbarrate, intonaci scrostati e mattoni consumati dal tempo. Non mi ricordo più nulla del breve soggiorno dell’epoca. Andavo e venivo da Urbino tutti i giorni, un calvario. Alzo lo sguardo da terra attratto dal giallo di un cartello: Chiesa dei morti. Rabbrividisco e tiro diritto. Appoggio i gomiti sulla spalletta del ponte e mi metto a fumare. Appena tre o quattro sigarette al giorno, pura nostalgia. Nostalgia forse di Lisa e delle sue sfuriate, consumate a suon di sigarette che accendeva una dopo l’altra e io dietro a lei. Oppure di Marinella, che il fumo proprio lo odiava e te lo sentiva addosso anche se avevi appena ritirato il maglione dalla lavanderia. Il mozzicone vola in acqua e scompare sotto ai miei piedi, preda della corrente. «Eccola, finalmente l’ho trovata!» Giro la testa a destra e sinistra. Dal momento che sul ponte ci sono solo io, intuisco che quella strana tipa si riferisca proprio a me. «Ha bisogno di qualcosa?» «Veramente è lei che mi ha cercato! Mi ha detto Roberto, il gestore del bar in piazza, che cerca un appartamento. Se le interessa ancora, beninteso.» Mi si allarga un sorriso e mi raddrizzo per stringerle la mano e presentarmi. «Andrea…» Ha la mano molliccia, sembra cotone. Fredda, impalpabile, smorta. Forse dipende dal grasso sottopelle che rende la sua cute lucida come quella di una foca. «Io sono Magda. Allora, se ha qualche minuto le racconto la mia storia mentre andiamo. No, non dall’inizio, che ci vorrebbe troppo e non le piacerebbe!» fa una risatina sardonica con voce strozzata, poi prosegue a passi svelti «mio marito è morto da parecchi anni e io e mia figlia ci siamo trasferite subito fuori città, dove abbiamo una piccola casetta con


17 giardino. Il nostro appartamento è rimasto sfitto da anni ed è talmente grande che nessuno lo vuole. Costa un patrimonio solo a tenerlo riscaldato. Però, una persona sola come lei, potrebbe abitare poche stanze e tenere chiuse le altre.» La guardo stranito. Cammina a piccoli passi come una papera, facendo ondeggiare una gonna di maglina che le sta appiccicata al sedere come una seconda pelle. Il suo colore marrone fa a pugni con la tinta pistacchio della maglia di lana e con la camicetta rossa, di uguale colore dello spesso collant che s’infila dentro scarpe da tennis sporche e logore. Una macchietta vivente. «Siamo arrivati!» gorgheggia. Mi accorgo di avere camminato per almeno trecento metri e di non essermene accorto. Avrebbe potuto dire o fare qualsiasi cosa, gettarmi nel fiume o dare della puttana a mia madre: per me sarebbe stato lo stesso. Infila la chiave nella toppa e apre a metà. «Per il prezzo non si preoccupi, se lo prende, mi basta che badi agli arredi e dia aria ogni tanto. Pagherà le bollette per i suoi consumi e ne riparleremo fra sei mesi, in primavera. Se vorrà fermarsi, allora fisseremo i termini su un contratto. Da ultimo: non faccia caso alla polvere. Manderò una donna per sistemare ogni cosa prima del suo arrivo.» Un passo e siamo dentro, uno scatto e il portone si sbarra alle mie spalle. «Stia qui, non ho ancora ripristinato il contratto per la corrente elettrica. Vado su ad aprire la porta d’ingresso.» Il lucernario sopra al portone ce la mette tutta, ma i vetri sono talmente inspessiti dal sudiciume che sembrano fette di lardo traslucide. Sento i passi cadenzati di Magda sui gradini e il suo sbuffo allontanarsi nel buio. Ma soprattutto colgo il morso gelido dell’aria che ristagna nell’androne. Sembra di stare in una putrida cella frigorifera. Odori e muffe indefinibili galleggiano attorno. Arretro istintivamente verso il portone, cercando una manopola o il grilletto della serratura per tornare nella via.

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18 Non trovo niente, nemmeno sul muro accanto, dove pensavo ci fosse l’interruttore della serratura elettrica. Rimedio solo una manciata di vecchie ragnatele. In quel momento qualcosa brilla in cima alle scale. Magda si è affacciata sul pianerottolo con un candelabro in mano. Le ombre sulla sua faccia assumono pieghe spaventose. Mi rassegno a salire quella scala ripida e la raggiungo. Il portone interno viene nuovamente sbarrato alle mie spalle con tre mandate. Il suo clangore si disperde lungo lo stretto corridoio che mi si para davanti e nelle stanze che si aprono su ogni lato. Deglutisco e attendo che lei riprenda il discorso: «Non faccia troppo caso al disordine e alla sporcizia, se mi dà un paio di giorni farò pulire tutto a dovere e allora vedrà che splendore! I mobili, poi, sono tutti antichi.» Man mano che ci addentriamo nell’appartamento – un vasto attico che sembra immenso – si susseguono dipinti appesi alle pareti. Visi arcigni, vedute di Urbania, scene di caccia, nature morte. Attraversiamo stanze e studi che intravedo alla scarsa luce del candelabro e dalle porte socchiuse. Colpisce lo stato di silenzio generale, abbandono, solitudine. Ma ciò che più incute timore è il freddo che ristagna anche sul piano. Intenso, feroce, un rigido che fa tremare. «È gelido qui» mi lamento. «Occorre dare aria e riscaldare la sera. Avremo due giorni di sole tra breve, poi ci sono camini, stufe a legna e a elettricità. Tempo una settimana e non vorrà più andare via.» «Ma veramente, non so se sia adatto a una persona sola. Fa impressione aggirarsi qua dentro. Ci si potrebbe perdere…» «La prego, provi per qualche giorno, prima di desistere. Sono certa che non troverà di meglio altrove. Come le ho detto, per sei mesi non le calcolo l’affitto. Allora, è deciso: venga giovedì mattina verso le undici e le faccio trovare tutto pronto. Letto fatto e biancheria per il bagno. Ah, dimenticavo: un frigorifero e la televisione. Farò riattivare le utenze, ma per il telefono dovrà provvedere lei.» «Ho il cellulare, non si preoccupi.» Mi soffermo qualche istante per gettare uno sguardo attorno. Lo stanzone mi appare come un salotto d’altri tempi, con un camino monumentale e una libreria piuttosto alta, piena di volumi antichi. Le due finestre hanno


19 gli scuretti chiusi, qualche stilla di luce filtra appena dagli interstizi. Una grossa pendola s’intravede a stento oltre una fitta maglia di ragnatele. L’aria stagnante sa di spighe secche di lavanda. Magda mi lascia qualche momento a godere del fascino della vecchia casa, poi si avvia e mi ritrovo a seguirla nel viaggio di ritorno, senza avere visto le altre stanze che avrei occupato, senza aprire una finestra o scostare le spesse coltri che impediscono il passaggio della luce, senza vedere se c’è il bagno, doccia, vasca, acqua corrente… insomma, ha deciso tutto lei. A un certo punto Magda spalanca il portone esterno e mi congeda, consegnandomi una copia della chiave. «A giovedì!» Il battente si richiude e io rimango a fissarlo per almeno un minuto, poi il mio cervello annebbiato dal freddo e dalla forte personalità di Magda pian piano si rimette in moto. Mi metto a cercare la via del parcheggio dove ho lasciato l’auto, ma non riesco a orientarmi. Dopo due passi mi giro di scatto: il portone da dove sono uscito è dipinto di verde, mentre sono sicuro di averne valicato uno marrone quando sono entrato nel palazzo. Mi avvicino all’uscio e provo la chiave: non apre. Provo a suonare il campanello, ma nessuno si affaccia. Alzo allora lo sguardo, ma le finestre sono troppo in alto e parecchie sono chiuse da persiane, anche urlare non servirebbe. Uno scooter romba a mezzo metro da me, facendomi fare un salto di lato. Ne ho abbastanza. Decido di andare a chiedere informazioni al barista. Riprende a piovere con insistenza. Cammino protetto dai porticati e corro per i tratti scoperti. Giunto fuori dal bar tiro il fiato prima di entrare. Il locale è quasi pieno e un andirivieni di persone chiede a gran voce panini e caffè. C’è chi ha la crema pasticcera che gli cola dalle labbra e chi lo zucchero a velo spolverato sulla cravatta. Cerco il gestore con lo sguardo, ma quello sbuffa. «Le avevo detto prima delle undici!» si lamenta. Ha dovuto alzare la voce per farsi sentire mentre spreme delle arance.

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20 Faccio per aprire bocca ma la richiudo sorpreso, l’orologio a muro segna le dodici e un quarto. Controllo il mio orologio: segna la stessa ora. Rimango a fissare il quadrante inebetito: sembra che sia rimasto in quella casa per oltre tre ore, mentre sono convinto di avervi trascorso non più di dieci minuti. Mi devo proprio essere rincretinito per il freddo! «Che le è saltato in testa di mandarmi quella mezza pazza, per affittare un appartamento?» biascico con la testa altrove. Lui si blocca con un frappè in mano. «Chi?» sbotta. «Quella… Magda, si chiama. Possiede un appartamento all’attico che sembra chiuso da anni. Sta in un vicolo qua dietro.» «Non la conosco. Le ho trovato un paio di persone, ecco i recapiti» allunga un foglio stropicciato con su scritti dei numeri di telefono. Ringrazio e ordino un panino e una birra. Scelgo con tempismo perfetto l’attimo in cui una coppia abbandona un tavolo e mi siedo. Prendo un quotidiano appoggiato su una mensola e inizio a sfogliarlo distrattamente. Notizie dal Nord, notizie dal Centro e dal Sud. Politica e sport, costume e previsioni del tempo: pioggia a catinelle, checché ne dica quella Magda. Da quando non sto più al giornale mi sono disaffezionato alla carta stampata, non la sento più parte di me, ma forse è solo invidia e nostalgia per chi è rimasto al suo posto. Al mio posto. «Lasci perdere quella là, porta iella!» Giro la testa e mi specchio in due occhi chiari e tremolanti. Un vecchio mi fissa serio, sorseggia un bicchiere di rosso. «Come dice?» «Conosco quella pazza di vista, dicono sia una cartomante, ma io penso che sia una strega. Nessuno sa cosa faccia, di cosa viva. La si vede in giro qua e là, va e viene, ma nessuno la conosce a fondo. Pare che viva fuori città con una figlia, ma sono cose che dice lei. E quella casa è chiacchierata, tant’è che nessuno la abita da decenni.» Faccio spallucce. Sono qui da poche ore e già rimpiango la mia vecchia padrona di casa. Da non credere. «Io cerco un appartamento in affitto, conosce qualcuno?» «Al paese non troverà nessuna attività che varrà la pena di essere intrapresa. Questa città scoraggia chiunque. Non ci sono fabbriche, i


21 negozi sono a conduzione familiare, gli esercizi in mano a locali o a extracomunitari e non si fabbricano più ceramiche rinomate e ricercate come un tempo. C’è giusto qualche antiquario, ma è un’attività di nicchia. Di cosa pensa di vivere, qui da noi?» Mi prende un senso di scoramento. Non mi aspettavo un discorso così chiaro e diretto. «Sono uno scrittore. Cerco un luogo dove ambientare il mio prossimo romanzo» butto là tanto per dire qualcosa. Quello mi ride in faccia. «Ma è un mestiere? Non lo sapevo. E che storia pensa di scrivere? Io non li leggo, i libri.» «Io scrivo gialli. C’è qualcuno che viene ucciso, che ne so, una ragazza, e un ispettore deve trovare l’assassino. La cittadina è inquietante di suo, mi sento molto ispirato. Beviamo un bicchiere assieme?» Approfitto della loquacità del vecchio. Meglio farselo amico. Esco mezz’ora dopo con un panino al salame che mi balla in pancia assieme a un bicchiere di vino che avrei preferito usare come aceto. Però sono riuscito a ottenere alcune informazioni sulla scomparsa della ragazza e un appuntamento per la serata, per una sfida a tressette. Altri vecchietti da spennare di ricordi. Recupero la macchina e prendo verso casa. Giunto nei pressi di una cava fuori città squilla il cellulare. «Ehi Andrea, hai già risolto il caso?» la voce è di Vincenti, allegro da fare invidia, con una tonalità acida da presa per il culo. «Sono appena arrivato e sto cercando casa. Ho fatto qualche conoscenza, ma cosa pretende, già un titolo? Almeno un mese per una prima bozza. Certo che mi ha spedito proprio in una città di merda…» «Vedrai, una volta che cala la nebbia ti sembrerà di essere a Bologna, con tutti quei porticati. Fa’ con comodo, qua fra un po’ andremo in cassa integrazione tutti quanti. Non sperperare subito tutto il gruzzolo, potremmo averne bisogno per comprare carta e inchiostro!» Chiudo con rabbia la comunicazione. Mi sta umiliando e non me lo merito. Prendo allora la seconda decisione storica della mia vita: telefono alla banca presso la quale Vincenti mi ha delegato sul conto, per avere

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22 conferma che ci siano ancora depositati i ventimila euro del mio ingaggio. Torno verso il paese per cercare una banca. Entrare, sedere, parlare con il direttore e firmare il contratto. Venti minuti e sono già fuori, dopo avere depositato un assegno per tutto l’importo assegnatomi. Gli accordi vanno rispettati, mi dico, e il mio fondo spese per i prossimi sei mesi non può essere messo in discussione. Torno all’agriturismo con animo più sollevato.


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CAPITOLO 4

Il pomeriggio trascorre lentamente. Ho passato ore a schematizzare le informazioni sulla ragazza scomparsa e a fare ricerche su internet. Il primo tassello è sempre il lavoro più facile. Da domani sarà tutto sulle mie spalle e scoprire qualcosa dipenderà dalla mia capacità di fare parlare qualcuno. Chiedere direttamente alla Questura di Urbino sarà l’ultima risorsa, non voglio bruciare la mia copertura rivelando il vero scopo della mia presenza in città. A sera spulcio la paginetta dove avevo organizzato tutte le informazioni e i dati raccolti: poca roba.          

Monica Melandri, sedici anni nel 2004. Alta 1 e 67, capelli e occhi castani. Carina, non bellissima, fisico da adolescente, un poco formoso e scomposto. Frequenta il quarto anno al liceo scientifico “Laurana” a Urbino, voti quasi tutti ottimi. Prende un autobus ogni mattina alle sette e torna verso le due. Ha tre amiche del cuore, di cui due frequentano altre scuole a Urbino e fanno lo stesso tragitto con lei. Nessuna di loro ha saputo dare una spiegazione alla scomparsa. Trascorre il tempo libero in parrocchia, dove insegna catechismo ai più piccoli e si esercita nei canti domenicali. Non risultano problemi a casa o a scuola, né delusioni amorose che potrebbero avere turbato il suo equilibrio tanto da farla scappare di casa. Famiglia benestante, i genitori gestiscono una macelleria locale, con buoni proventi. La casa è di proprietà. Le indagini – per quanto emerge dagli articoli di cronaca – non hanno portato ad alcuna iscrizione sul registro degli indagati.

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Sono state interrogate molte persone: il parroco, i coristi, i catechisti, vicini, amici, insegnanti e compagni di scuola. Nessuno ha saputo indicare nulla di utile alle indagini. Il corpo non è stato ritrovato. Ultimo luogo dove Monica è stata vista: il comprensorio della chiesa di San Francesco, con convento annesso. Ultima persona ad averla vista: Don Mario. Erano le quattro di sabato pomeriggio 13 marzo 2004. Il parroco le aveva raccomandato puntualità per il giorno seguente, perché si sarebbe celebrato un matrimonio e lei era la voce solista. È stata cercata in ogni dove e il fiume è stato dragato, senza risultati.

Rileggo gli articoli dell’epoca e spengo il computer, gli occhi ridotti a due misere frittate. Sbadiglio e realizzo che è sera inoltrata e quei simpatici vecchietti mi attendono per la sfida a tressette. Mi stiro le giunture e prendo a fissare la brace nel camino, rimasto acceso per riscaldare e tenermi compagnia. Mi ricorda casa mia, in Trentino, dove non mancano mai un fuoco o una stufa accesi, nemmeno d’estate. Mi vesto e scappo via. Trovo parcheggio nei pressi dei bastioni, in via Raffaello Sanzio. Poche persone in giro, strette nei giacconi. Lungo la strada vedo un uomo che abbassa la saracinesca di una macelleria. Attraverso la strada e mi avvicino senza farmi notare. Lo guardo salire su una Punto grigia, mettere in moto e andare via. Ha lo sguardo spento e perso oltre il fondo della strada. È proprio lui: Francesco, il padre di Monica. Fisso le luci posteriori dell’auto che sparisce oltre una svolta. Mi chiedo se la mia indagine servirà a qualcosa oppure riporterà a galla un dolore mai sopito. Raggiungo il Bar del Teatro con una strana inquietudine in corpo.


25 Una partita di calcio ha portato altrove molti dei soliti avventori, per cui la serata sarà per pochi intimi. Tre tavoli occupati da arzilli vecchietti, boccali di vino, bicchieri vuoti. È tanto che non frequento posti simili e il ricordo si è fermato a sale puzzolenti offuscate dal fumo. Questa sera invece si sente solo l’aroma del vino e il tanfo del piscio dei gatti che spruzzano i loro umori sulla soglia. Non so fino a che punto ci sia stato un miglioramento. C’è una sedia vuota di fronte a Germano e mi accomodo. «Alla buonora, pensavamo che non venissi più!» si lamenta il vecchio. «Avevo da fare…» glisso io «che ci giochiamo?» Ci presentiamo, poi prendo le carte in mano e inizio a mescolarle. «Visto che sei nuovo, partiamo piano: un litro e basta» propone lui. «Mi sta bene, però che sia di quello buono e che possano bere anche i perdenti. Offro io.» «Qua non funziona così. Che hai in testa, ragazzo, per perdere il tuo tempo con noi? Perché non esci con una bella ragazza? Non sarai mica uno di… di quelli?» Pietro, alla mia sinistra, ride di scherno. È tempo di iniziare la mia sceneggiata. «Germano lo sa, sto scrivendo un libro, ambientato in questa città e mi servono personaggi, storie. Delle dritte, insomma.» Lascio decantare la cosa giusto il tempo di dare le carte e attendere il primo giro di tressette. «Storie del luogo, da approfondire e ampliare con la fantasia. Vecchi delitti, passioni, rancori…» rincaro. Ettore, l’altro alla mia destra, dapprima mi fulmina con lo sguardo, poi biascica qualcosa fra i denti, in dialetto locale. Germano ride e si batte la mano sulla coscia. «Questo vecchiaccio si sta lamentando perché se parli, rallenti il gioco e lo distrai. Qui da noi prima si gioca, le chiacchiere si fanno dopo, quando si beve!» Per le due ore che seguono partecipo con fervore, alternando giocate esemplari a errori madornali. Alla fine il barista porta delle bottiglie con etichetta d’annata per tutti quanti.

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26 «Cos’è che ti interesserebbe?» Pietro si è preso la rivincita, sbaragliando gli ultimi tre giri di carte dopo aver perso miseramente i primi cinque. Di carte capiamo davvero bene solo io e lui, gli altri vanno a intuito. «La gente va matta per le storie di paese, di quelle dove uno sparisce o viene ammazzato e il Commissario del posto se ne va in giro in cerca di prove per incastrare il colpevole, che si trovi il corpo oppure no. Ci sono storie del posto che possano ispirarmi? Sapete, un fondo di verità frammisto all’invenzione, aiuta la storia a rimanere ancorata a una verosimiglianza che…» Pietro si alza di scatto, imitato da Ettore. «Io non posso aiutarti, mi dispiace. E cerca di inventartela tutta di sana pianta, la tua storia. Le cose nostre è meglio che le lasci fuori dai riflettori. Hai giocato bene, torna ogni tanto a offrirci da bere. Buonanotte» esce stringendosi i baveri della giacca logora. Ettore, dietro di lui, mi scocca un mezzo sorriso di ringraziamento, poi si affretta a seguire l’amico, visivamente impacciato. Resta solo Germano. «Che mi dici del tuo amico, sono stato troppo disinvolto? Gli ho fatto ricordare cose che non dovevo?» mischio di nuovo le carte, ora più nervosamente. «Sei uno strano tipo, tu. Arrivi qua, t’intrufoli fra di noi, fai un sacco di domande…» «Perdonami, Germano, io sono fatto così. Ho una storia che mi frulla in testa. Vedo questi vicoli, tocco queste pietre centenarie, spio le finestre dai vetri coperti di sporcizia, ma non vedo la gente, sono sordo alle loro vicende. È di questo che ho bisogno per lasciare andare le briglie della mia fantasia: entrare nelle vostre case, nelle vostre menti e vedere con i vostri occhi. Solo allora le persone diventeranno personaggi e le loro paure l’ossatura del romanzo. Qui l’ambientazione è meravigliosa, non voglio scrivere una storia banale.» Scolo il bicchiere e attendo di essere servito delle carte. «Tre assi, senza denari» dichiaro, tornando al gioco. Silenzioso, Germano segna tre punti sulla mia colonna. «E se ti racconto una storia, poi tu la metti nel tuo libro?» «Ma non hai detto che si doveva giocare? Comunque, se è davvero interessante, sì, senz’altro.» «Allora andiamo fuori a passeggiare…» Pago il conto e seguo l’uomo in strada.


27 Prende per un vicolo laterale e sbuca in piazza del Duomo. La facciata è in ombra e il campanile si vede appena, offuscato dalla nebbia che confonde anche il buio. «In realtà le vicende sono due, entrambi molto tristi. Una riguarda il cognato di Pietro. Sei anni fa, sembra per un attacco di pazzia, ha sparato a sua sorella e al marito, poi è andato sul ponte qui in fondo è si è sparato un colpo in faccia, lasciandosi cadere nel fiume in piena. Hanno trovato il cadavere una settimana dopo. Non abbiamo capito fino in fondo cos’era successo davvero. Pare per una storia di soldi. O forse di corna. Ma credo che sia l’altra storia, a interessarti.» Fa una pausa, osserva un gatto che attraversa il piazzale segnando il suo territorio a suon di spruzzi puzzolenti sulle ruote delle auto parcheggiate. «Monica Melandri…» dico in un soffio. Glielo leggo negli occhi, che ha immaginato tutto. Occhi chiari, indagatori, da uomo vissuto. «Monica Melandri, giusto. Sai, io la puzza del giornalista la sento anche da dietro le spalle. Ho cercato di dissuaderti, ma tu sei testardo. Lo ammetto, sei bravo a tressette e a nascondere le tue emozioni, però ti ho stanato subito.» Tanto vale mostrare le carte, mi dico. «Sai, Germano, non è che ho molta scelta. Il mio capo vuole trovare la soluzione a questo mistero e ha mandato me. Se trovo il bandolo, mi riassume, altrimenti mi ha già licenziato, per cui non rischia nulla. Ho sei mesi per portare un risultato, oppure è meglio che mi trovi lavoro come pizzaiolo. Se ne trova, da queste parti?» Sorrido da solo, la mia ironia cade nel vuoto. «Sono indeciso se aiutarti oppure buttarti giù dal ponte. Mi sei simpatico, eppure la tranquillità di questa cittadina mi sta molto più a cuore. Cos’è che cerchi, veramente?» La sua voce è bassa e rauca, raschia come carta vetrata. «Prima di arrivare qui ho maledetto mille volte il mio capo, per questa doppia fregatura. Poi ho iniziato a studiare il caso, dato che l’avevo anche trattato, all’epoca. Ho raccolto le poche informazioni reperite sui quotidiani e mi sono appassionato di nuovo. Ma è quel sorriso che mi scava dentro, Germano, lo sguardo sognante di Monica che non c’è più e che cerca giustizia. Io vorrei provare a cercare i suoi resti e il colpevole. Anche senza fare tanto chiasso. Per senso di giustizia. Poi ci sarà anche

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28 risonanza sui giornali, come tutte le notizie di cronaca nera, ma questo fa parte del mestiere e io o un altro non farà differenza. Ho fatto un giro per queste vie. Fanno paura. Si percepisce un misto di decadenza e mistero. Lei è qui, sepolta da qualche parte nei pressi della chiesa dalla quale è scomparsa. Non può essere diversamente. Nessuno può pretendere di andare a fare delle ricerche in chiesa. Nessuno che sia un regolare, comunque. Mi aiuterai, Germano?» Lo vedo tentennare. Sbuffa, mi fissa, passeggia nervosamente. Deve pesargli molto questa vicenda. «Presentati qui domattina alle nove. Ci penserò stanotte e ti darò la risposta. Sui giornali non è stato riportato tutto, ma sono dettagli che conosce solo la polizia e qualcuno del posto. Devo decidere se è tempo che quel che sappiamo salti fuori. Non so se porterà una soluzione oppure altro dolore. Buonanotte.» «Buonanotte, Germano. Qualsiasi sarà la tua decisione, io la rispetterò. Farò comunque a modo mio.» Lo guardo allontanarsi nella nebbia. Prima che svolti l’angolo, lo chiamo. «Farò a modo mio anche a tressette!» La sua risata si spegne nella notte. Resto solo. Ora la nebbia è calata e disegna arabeschi sulle pareti delle abitazioni. Il mio passo risuona con un rintocco sinistro. Vorrei tornare al mio appartamento, eppure un desiderio pressante mi porta a cercare il vicolo dove si trova la casa di Magda. Di notte sembra ancora più angusto. Osservo il portone senza riconoscerlo. Cerco di leggere il nome sul campanello, ma pure quello mi sembra diverso. Faccio due passi indietro e alzo lo sguardo alle finestre. Alcune sono sbarrate, altre non hanno più imposte. Due, verso il fondo dell’appartamento, sembrano debolmente illuminate. Un chiarore azzurrognolo aumenta e scompare, come se un’insegna pulsante rischiarasse il vano. Potrebbe essere un televisore, mi dico, ma non c’è elettricità. La serratura elettrica scatta secca e mi fa trasalire. Qualcuno sta per uscire e io sono qua, in mezzo al vicolo senza uno straccio di motivo. Faccio dietrofront e torno verso piazza San Francesco. Lungo il tragitto penso che magari il portone sia stato aperto per invitarmi a salire.


29 Nemmeno morto, mi dico. Quel luogo è tetro di giorno, figurarsi di notte! È mezzanotte passata e il bar ha le luci spente. Raggiungo l’auto e prendo la via di casa. Passo accanto alla macelleria di Francesco Melandri, che probabilmente starà dormendo. Se intuisse ciò che si sta preparando, schizzerebbe fuori dal letto e io non avrei nessuna scusa per calmare la sua ira. Arrivo in fondo al viale e svolto sulla strada principale. Anche lui dovrà darmi delle risposte, prima di cedere a un nuovo dolore.

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CAPITOLO 5

20 ottobre Cammino a passi svelti nel freddo pungente del mattino. Sono le nove passate. Ci ho messo una vita a percorrere i pochi chilometri dal mio alloggio fino a Urbania, una nebbia molto fitta mi ha messo più volte con la ruota dentro una scarpata. Arrivo trafelato in piazza del Duomo e cerco Germano con lo sguardo, ma inutilmente. Mi sposto avanti e indietro immaginandolo apparire da un momento all’altro fra gli sbuffi di nebbia. Entro in chiesa dove trovo solo due vecchie che recitano il rosario. Sono proprio uno stupido, con questo freddo sicuramente si sarà rifugiato nel bar sotto ai portici, meglio andare a vedere. Una voce mi chiama dal parcheggio. «Andrea Furlan?» Mi giro. Non è Germano, ma una figura che avanza nella nebbia. Imponente, le mani in tasca, da padrone. Veste un cappotto che pare scolpito ed esalta la muscolatura dell’uomo. «Sono io. Cosa vuole?» «Lei cerca informazioni su Monica Melandri.» Inizio a sudare freddo, questa vicenda sta prendendo pieghe inaspettate. «È così. Lei sa qualcosa sulla sua scomparsa?» «Io so tante cose. Perché s’interessa a quel caso?» «Per lavoro. Io sono uno scrittore e sto cercando…» «Balle! Mio padre mi ha detto che lei è un giornalista.» «Allora le avrà anche detto che attualmente sono senza lavoro e devo scrivere un pezzo che mi riporti a galla. Se ha qualcosa da dirmi in merito, bene, altrimenti me ne vado per i fatti miei.» Quello si avvicina e mostra un tesserino. «Ignazio Ferri, Questura di Urbino. Mi segua, per favore.» «Guardi che io non ho fatto niente!» protesto. «È solo questione di tempo, mi dia retta.»


31 Lo seguo controvoglia. Camminiamo per cinque minuti. Usciamo dal centro storico e mi ritrovo sulla statale. Ferri ogni tanto si accerta che gli stia al passo, ma non sembra preoccuparsi che possa sparire di corsa in un vicolo. Entriamo nel posto di polizia municipale, in pratica l’unica autorità locale. I pochi gradini d’ingresso mi pesano come se stessi scalando una montagna. Apre una porta e si lascia cadere su una sedia dietro una scrivania che ha visto giorni migliori. Un vigile batte al computer nell’altro ufficio, ci ha appena degnato di uno sguardo. Ora che lo vedo alla luce, noto i suoi occhi di ghiaccio. Indica una sedia di fronte a sé. «Mi creda, sono oltre cinque anni che lavoro su questo caso, in Questura, anche se ormai siamo giunti a un punto morto e pare che non ci sia più nulla da fare. Nessuna testimonianza decisiva, assenza di reperti o prove, mancano informazioni fondamentali e soprattutto, manca un cadavere. Niente di niente. Poi arriva lei e inizia a fare domande scomode e in modo strano. Sa, mio padre è stato pubblico ministero in gioventù, e non si è ancora rimbambito del tutto. È bene che vuoti il sacco.» Ci metto due minuti. Il racconto che gli faccio è esauriente e conciso come un trafiletto degli annunci mortuari. Non una parola di più dello stretto necessario. «Pure un giornalista senza arte né parte ci mancava!» commenta a mezza voce «ma come pensa di tirare fuori un articolo di cronaca, senza sapere un cazzo di questo posto e di cosa cercare?» «Lei dice che le indagini si sono bloccate. Cosa c’è di meglio, allora, di uno sconosciuto che inizia a ficcare il naso in questa faccenda per smuovere le acque?» «L’acqua del fiume è molto fredda in questo periodo, per cascarci ammollo con un macigno sul petto. Potrebbe finire male» rimbrotta. «E non sarei nemmeno di ostacolo alle sue indagini, che le descrive quasi del tutto ferme» è l’ultima cartuccia. «Il fascicolo è di fronte a lei. Può leggerlo, prendere appunti, ma da qui dentro non uscirà nemmeno una copia della copertina, intesi? Le do mezzora.»

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32 Faccio cenno di sì con la testa e prendo il faldone fra le mani. C’è una piccola scrivania accanto alla finestra e mi appoggio. I fogli scorrono rapidi. Leggo sottovoce le parti che mi interessano, sperando che il microregistratore che ho nella tasca interna del giaccone faccia il suo dovere. Documento ogni cosa di rilievo, partendo dalle testimonianze delle persone che si trovavano nei pressi del convento al momento della scomparsa. «Cinque minuti!» tuona Ferri preciso come un metronomo. Rimetto il fascicolo al suo posto. «Come, non sfrutta tutto il suo tempo?» mi rimprovera. «Là dentro c’è poco che possa aiutarmi a trovare il corpo e scoprire l’identità dell’assassino. Lei, che idea si è fatto?» «Crede che lo direi proprio a un giornalista?» «Penso che sia opportuno. Si immagina se trovassi qualcosa d’importante, che effetto avrebbe la notizia che lei non ha ritenuto di collaborare con me? Si direbbe che abbia interesse a coprire la verità.» «Non casco nella trappola. Lei non è più nemmeno un vero giornalista.» «Allora le dirò io la mia idea: Monica è stata uccisa e il suo cadavere occultato nella chiesa di San Francesco o nel comprensorio del convento.» «Movente?» mi guarda, sarcastico. «Aveva sedici anni e le forme al posto giusto. Qualcuno avrà perso la testa e sarà successo qualcosa, oppure una disgrazia.» «Andiamo, allora. Bussiamo al portone e iniziamo a cercare» mi deride. «Lei si sta burlando di me e intanto c’è una famiglia che non vive più. Pensa di avere fatto tutto il possibile per scoprire la verità?» L’uomo si prende qualche istante prima di rispondere. «Questo è un paese tutto sommato tranquillo, dove non accade mai nulla di particolare. Quella disgraziata faccenda è stata una parentesi dolorosa, dimenticata a fatica, e ora lei pretende di arrivare e scoperchiare di nuovo tutto. Si rende conto della responsabilità che si assume?» ha i gomiti appoggiati sul tavolo e il volto tra le mani. «Preferisco darmi da fare per cercare quel corpo nascosto da qualche parte. Penso a quei genitori che non hanno avuto giustizia e vanno avanti senza più una ragione di vita e senza risposte. Preferisco pensare a tutte


33 le altre ragazzine che potrebbero fare la stessa fine e non sono protette, con quel bastardo ancora in giro. Preferisco…» Mi interrompe con un gesto imperioso. «Basta così. Volevo solo capire di che pasta è fatto e come la pensa. Diciamo che sono disposto ad aiutarla. Beninteso non ufficialmente. Mio padre ha aperto occhi e orecchie sulla città fin dall’epoca, ma non è saltato fuori niente. Come pensa di procedere?» «Busserò alla porta del convento e chiederò di entrare a cercare la ragazza. Sarà sufficiente per mettere in apprensione il colpevole. O i colpevoli. No, sto scherzando. Analizzerò meglio i personaggi che hanno avuto una qualche parte nella vicenda. Preti, coristi, parrocchiani. Comunque, qualcuno inizierà a farsela sotto.» Mi allunga un foglio preso dalla tasca della giacca, scritto su entrambi i lati. «Questo non c’è nel fascicolo.» È un elenco di nomi con dati e informazioni. «Sono i soggetti che sono entrati in contatto con la ragazza nei mesi antecedenti la scomparsa. Sono duecentosessanta nomi. Amici, parenti, compagni di scuola, insegnanti. Il gestore del bar, del cinema, preti, i coristi e cento altri. Non abbiamo mezzi sufficienti a stilare profili di tutti, oppure a mettere sotto intercettazione i loro telefoni.» Mi concentro sull’elenco per capire chi abbiamo di fronte. «Una parte molto ampia può essere scartata. Vecchi, donne, ragazzini. Rimangono pur sempre una cinquantina di persone. Hanno alibi?» «Non si metta a giocare al piccolo ispettore! Occorre iscriverli sul registro degli indagati, per chiedere se ce l’hanno!» «A volte basta la domanda giusta per raggiungere lo scopo. Chiedere se l’hanno vista nelle ore della scomparsa e valutare le risposte.» «Faccia come vuole, ma se qualcuno si lamenta o sporge querela io dovrò procedere contro di lei, ne è consapevole?» «Allora indagherà proprio su quelli più sospetti e pertanto non sarà stato invano. Grazie per le informazioni.» Il foglio sparisce nella tasca del mio giaccone. «Se scopre qualcosa me lo faccia sapere subito. Subito, è chiaro? Mi può chiamare a questi numeri. E non faccia cazzate.» Ci scambiamo i biglietti da visita.

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34 «La vuole sapere una cosa? Ho due figlie ed evito di mandarle in giro da sole. Sono ancora piccole, ma il mondo non è più quello di una volta» sospira, nemmeno i poliziotti sembrano indenni da dubbi e paure. «I falchi hanno sempre cacciato le colombe. Sono solo cambiati i tempi e oggi le notizie non si spargono più come frasi sussurrate nei vicoli, finiscono direttamente sui telegiornali e in prima pagina. Ora vado da suo padre, per ringraziarlo.» «Quel vecchio pazzo è arrivato a minacciarmi con il bastone da passeggio se non le mostravo il fascicolo!» «Anche lui pensa alle nipoti e se ne frega delle procedure e della preoccupazione della gente. A presto.» Mi ritrovo nella nebbia. Infilo a stento la traversa giusta e dopo qualche minuto mi siedo al caldo del bar, un cappuccino bollente tra le mani. Mi guadagno una sedia a un tavolo discosto e butto un’occhiata alla lista dei conoscenti di Monica, sperando che un nome si riveli da solo. «Ti ha spezzato il cuore, vero?» Germano mi siede accanto, approfittando di una coppia che si dirige alla cassa. «Diciamo che non è del tutto convinto che sia una buona causa.» «Comunque, puoi consolarti: ti ha dato la lista e questo depone a tuo favore. Da questo momento guardati le spalle. Chi sa, avrà già avuto notizia del tuo interessamento alla scomparsa di Monica. Chi teme di essere scoperto starà già studiando come depistare le tue ricerche o come farti fuori. Davvero vuoi andare al convento e mandare tutto a puttane?» parla a bassa voce, strascica e sibila le consonanti per via della dentiera, ma i suoi occhi sono fermi sui miei e brillano d’acciaio. Ripiego il foglio e lo infilo in tasca. «In realtà volevo rimanere ancora qualche tempo nell’ombra, ma se tu dici che ormai sono stato scoperto, tanto vale soffiare sul fuoco. Andrò alla biblioteca e chiederò di visionare i giornali dell’epoca. In pratica so già quanto c’è da sapere, ma sono più interessato agli effetti che questa richiesta potrà portare. Spero di scatenare tanto panico e quindi tanti errori.» Germano ride e prende le carte. «Ci giochiamo l’aperitivo?» ),1( $17(35,0$ &217,18$


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INDICE

Capitolo 1 ................................................................................................. 5 Capitolo 2 ............................................................................................... 10 Capitolo 3 ............................................................................................... 14 Capitolo 4 ............................................................................................... 23 Capitolo 5 ............................................................................................... 30 Capitolo 6 ............................................................................................... 35 Capitolo 7 ............................................................................................... 41 Capitolo 8 ............................................................................................... 46 Capitolo 9 ............................................................................................... 51 Capitolo 10 ............................................................................................. 56 Capitolo 11 ............................................................................................. 61 Capitolo 12 ............................................................................................. 65 Capitolo 13 ............................................................................................. 70 Capitolo 14 ............................................................................................. 73 Capitolo 15 ............................................................................................. 76 Capitolo 16 ............................................................................................. 81

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 Capitolo 17 ............................................................................................. 83 Capitolo 18 ............................................................................................. 88 Capitolo 19 ............................................................................................. 90 Capitolo 20 ............................................................................................. 93 Capitolo 21 ............................................................................................. 98 Capitolo 22 ........................................................................................... 104 Capitolo 23 ........................................................................................... 113 Capitolo 24 ........................................................................................... 117 Capitolo 25 ........................................................................................... 120 Capitolo 26 ........................................................................................... 125 Capitolo 27 ........................................................................................... 130 Capitolo 28 ........................................................................................... 135 Capitolo 29 ........................................................................................... 140 Capitolo 30 ........................................................................................... 144 Capitolo 31 ........................................................................................... 149 Capitolo 32 ........................................................................................... 153 Capitolo 33 ........................................................................................... 155 Capitolo 34 ........................................................................................... 162 Ringraziamenti ..................................................................................... 171


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