La legge dell'oroborus

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ENRICO MARIA GUIDI

LA LEGGE DELL’OUROBOROS

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LA LEGGE DELL’OUROBOROS

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-620-2 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.


A Silvia



Primo, non curarti molto delle parole dei filosofi moderni e antichi che hanno trattato di questa scienza, poiché tutta l’arte Alchemica elesse la propria sede nella capacità dell’intelletto e nella dimostrazione dell’esperienza. I filosofi, volendo nascondere la verità della scienza, hanno parlato quasi sempre sotto figura. Tommaso D’Aquino (?)



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I Come il tutto ebbe inizio

I veri eretici sono coloro che dominano. Ciò che metto su carta e che sarà il mio ultimo atto, potrà essere utile a chi dopo di me incontrerà persone capaci di significare o maledire la loro vita. Cosa che io non compresi. Svelare siffatti misteri, segretissimi segreti, equivale a dannarmi per l’eterno, ma credo che il mio animo non possa più trattenere un peso di tale gravatura, tanto più ora che i carnefici salgono le scale della mia stanza e bussano alla porta. Scrivo in Avignone, nel centotreesimo anno della mia vita, un anno prima della morte del Papa e quarantaquattro dal ritorno della Santa Sede in Roma. Predizioni esatte, confermate dall’esperienza, come lo sono state tutte quelle fattemi fin ora. E perciò lascio questa mia testimonianza, poiché mi fu detto che sarei morto a centotre anni, e se ne dubitai, se cercai di convincermi del contrario o solamente lo dimenticai assorto in altri pensieri, ora ne ho la certezza. Ma ne voglio raccontare per ordine, come se fosse una liberazione. * * * Non so di preciso chi mi dette i natali e la cosa non ha nessuna importanza, poiché fui allevato a Padova, nella Repubblica Veneta, da un abate ch’io ricordo sempre molto vecchio ma che credo, pensandoci ora, non dovesse avere più di quarantacinque anni. Non giovane dunque, ma non ancora vecchissimo. Cornelius, questo il suo nome, mi nutrì nella scienza, nella teologia, nelle sette arti liberali e, proprio quando morì, stava per iniziarmi alla Grande Arte.


8 Correva l’Anno del Signore 1244. L’inverno infuriava alle porte del casolare in cui abitavamo assieme a un unico servitore e dove il maestro m’istruiva. Dovevo varcare la soglia dei quattordici anni - poiché sono nato, così mi disse Cornelius, in Aprile, sotto il segno dell’Ariete - quando un pomeriggio il maestro mi mandò a chiamare. Erano alcuni giorni che non lo vedevo e sapevo che era divorato da strane febbri che gli impedivano ogni movimento e lo bruciavano in un lago di sudore gelido. Quella prima stanza, appena al di qua dell’uscio, rimarrà sempre impressa nella mia memoria. Aveva muri spogli e fungeva da cucina e dormitorio per me e il servo, sui giacigli abbandonati ai due lati opposti della stanza. Erano comodi, non come quelli dei villici fabbricati solamente con della paglia e, nei casi peggiori, fatti da coperte di lana gettate a terra. Il grande camino era di nuova concezione, a credere al mio maestro, non al centro della stanza con l’apertura sul soffitto ma appoggiato al muro nord e con una lunga cappa che attraversava tutta la casa in altezza. La camera del maestro era infatti al piano superiore e quella cappa che la fendeva portava su, assieme al fumo, il calore. Il maestro diceva sempre che lo aveva disegnato lui quel camino, e poi fatto costruire da abili carpentieri un po’ stupiti, per la verità, di fronte a quella nuova struttura. I tizzoni del focolare mi avevano completamente assorbito, il loro rosso intenso si accendeva e spegneva in sequenze quasi ritmate, sembrava fossero vivi e mi chiamassero, cercassero di convincermi che senza il loro calore, il loro potenziale di trasformazione, nulla potesse esistere. Gettai un altro ciocco di legna, ma la temperatura, nonostante il grosso camino, non si alzava mai abbastanza ed ero costretto come tutti a imbottirmi di pesanti panni di lana che spesso impedivano movimenti bruschi e neppure la sera, quando mi coricavo, potevo toglierli completamente. Il clima in quell’angolo di mondo, all’ombra della Serenissima, in inverno era impietoso. Le nebbie ci avvolgevano come un manto ostile, tanto che a volte non ci si riconosceva per strada se non quando si era giunti a pochi passi l’uno dall’altro. Il fascino delle


9 cose sembrava sparire, e crescere quello dell’indeterminato, e non solo a Padova ma anche a Venezia, dove uno come me che non ci si era recato spesso correva il rischio di finire nei canali gelidi, o per inesperienza dei luoghi, o perché urtato da un altro passante. Ragione per la quale, quando la nebbia incombeva, camminavo con la spalla a contatto con i muri di pietra. L’ora si stava facendo matura ed era tempo di porre il grosso pajolo sul fuoco per riscaldare l’acqua nella quale dovevano bollire le ossa che il servo aveva riportato dal mercato per cuocere un po’ di brodo, l’unico cibo che il maestro riusciva a mangiare da quando la febbre aveva attaccato anche la sua gola, provocandogli dolori così forti che anche il solo inghiottire la saliva costituiva ormai un’impresa. Avvolsi l’una dopo l’altra le mani in strisce di lana per proteggermi dal freddo pungente, raccolsi il pajolo e uscii per prendere l’acqua al pozzo. Benché la nostra casupola a forma di torre non fosse proprio vicino alla cattedrale, anche se entro le mura, al pozzo vi era quasi sempre la fila, gente del rione che attendeva il proprio turno in un silenzio rotto da vocii sommessi; servitori per lo più, perché la zona, anche se non era abitata da nobili, era una di quelle sorte per accogliere i ricchi mercanti e qualche retore dell’università, che inviavano i propri servi alle faccende quotidiane. Mi salutarono cordialmente; il mio maestro era uno degli uomini più rispettati della città, anche se non partecipava mai troppo alla vita cittadina e aveva più volte rifiutato incarichi politici e amministrativi importanti. Il servo del mercante di stoffe, quello che le importava direttamente dalla Serenissima e aveva i broccati orientali più belli di Padova, mi avvicinò e, dopo avermi salutato, affondò la mano in un sacco e ne estrasse un pugno di noci. Accettai il dono e le mangiammo chiacchierando man mano che la fila si faceva sempre più rada davanti a noi e più lunga alle nostre spalle. Donne imbottite fino il collo andavano e venivano con grossi secchi e pajoli, scivolavano veloci senza alzare lo sguardo su di noi, mentre dalla taverna lì accanto gli uomini uscivano con


10 le guance paonazze dal vino che avevano bevuto, come ogni sera, prima di rientrare nei loro tuguri. Quando varcai la porta di casa sentii il tepore del fuoco che, per quanto debole, ristorò la mia faccia gelata dalla nebbia. Posai velocemente il pajolo a terra, vicino al camino e, tolte le bende dalle mani, le avvicinai il più possibile ai tizzoni incurante dei consigli di Cornelius che sempre mi aveva raccomandato di non ripetere quell’operazione pericolosa soprattutto per le dita. L’acqua bollì e con cura ci versai dentro le ossa di manzo, credo; mescolai dopo avere aggiunto un poco del prezioso sale che il maestro faceva venire dalle saliere di Venezia e che pagava a caro prezzo. Uno dei rari piaceri che si concedeva e al quale non sapeva rinunciare. Mescolavo lentamente e osservavo gli ossi emergere e scomparire nell’acqua che pian piano perdeva il colore trasparente e scuro del fondo del pajolo per prenderne uno dorato, cosparso di piccoli cerchietti di grasso genuino che galleggiavano sulla superficie. Il rumore della porta della stanza di Cornelius che si apriva e poi chiudeva mi distrasse da quella contemplazione. Il servo discese lentamente senza mai distogliere lo sguardo dai miei occhi e quando mi fu accanto, accompagnando le parole con un cenno della testa, mi disse: «Vai. Il maestro vuole vederti.» Lo seguii con lo sguardo. Scomparve dietro alla porta e giù per le scale della stanza proibita, quella in cui non ero mai entrato e dove il maestro e il servitore passavano lunghe ore, a volte giorni, e da dove, specie in primavera, salivano strani odori di zolfo, di putridume e poi profumi di essenze soavi e indeterminate. Rimasi fermo nella mia posizione per qualche minuto, quasi attonito. Poi mi alzai, e ai piedi della scalinata ripida di legno mi arrestai di nuovo prima di contare gli scalini che scricchiolavano sotto i miei passi. Bussai con delicatezza e una voce flebile m’invitò a entrare. Cornelius era lì, abbandonato sul giaciglio, coperto fino alle spalle con cura, quasi a voler nascondere il corpo martoriato dalla malattia. Il viso bianco e sudato non aveva un particolare aspetto di sofferenza e capii lo sforzo che il buon ma-


11 estro stava facendo per apparire a me, in così giovane età e sensibile come nessuno, in condizioni migliori di quelle in cui versava veramente. Mi fece un cenno con gli occhi per indicarmi lo sgabello vicino alla piccola scrivania portabile, simile a quelle dei notai fiorentini e alla quale avevo passato tante ore di studio sotto i suoi occhi vigili. Lo presi e andai a sedermi accanto al suo letto. Cornelius fece uscire lentamente la mano tremante dalla coltre di coperte e la posò sul mio capo come se volesse benedirmi, poi mi accarezzò una guancia, mi toccò il ventre all’altezza dell’ombelico, e infine prese la mia mano. La sentii stringere con una certa forza, inaspettata per un malato, ed era fredda come se avesse lavorato all’aperto fino a quel momento. Stavo per dire qualcosa, ma lui mi fermò e m’impose di ascoltarlo. «Tu sai, c’è un tempo per ogni cosa, la Bibbia non mente. Il mio si sta concludendo.» «Maestro che dite… voi…» «Taci, e ascolta solamente. Tu sei un puro, un nobile di cuore e forse un predestinato. Forse… perché qualcosa in te mi sfugge ancora, ma non ho il tempo dalla mia parte per capire cosa sia, e non me ne è concesso per avviarti alla Grande Arte.» «Cos’è la Grande Arte, maestro?» «Lo saprai a suo tempo; “beato chi aspetterà”.» Tossì con violenza e io feci uno scatto in avanti per aiutarlo ad alzarsi ed evitare un soffocamento, ma lui mi imperò con la mano di starmene seduto. «Sappi che vivrai a lungo; a te sarà concesso di vedere l’alba e oltre del nuovo secolo. Non saranno anni tranquilli e neppure facili, vivrai credendo che tutto è retto dal caos e dalla contraddizione, ma non è così. Ricordati queste parole: se non porterai a compimento la Grande Arte, così come è accaduto a me, se non sei un predestinato, allora il tuo centotreesimo anno ti sarà fatale. Ma se davvero, come credo, tu sei un predestinato, allora nulla potrà minacciarti se non l’ignoranza degli uomini.» «Cosa volete dire?» «Capirai, e non interrompermi.»


12 Sollevò la sua mano dalla mia e se la portò sulla fronte per asciugarsi il sudore. Cadde in una specie di dormiveglia, con la bocca spalancata e il respiro ansimante. Mi guardai attorno; la sua camera era la più bella e la più curata della casa. Era lì che accoglieva i visitatori, anche i più importanti, quando venivano a trovarlo per ricevere qualche consiglio. I muri formavano un quadrato perfetto interrotto solamente da una piccola fenditura sul muro, una specie di finestra inusuale nelle camere, ma che il maestro aveva voluto lasciare, incurante del freddo che entrava e inondava la stanza. Il suo letto era ampio, con un materasso di crine, lenzuola fini importate da Venezia e un piumino soffice che garantiva una temperatura costante. Tutto attorno al letto v’erano alcune cassapanche nelle quali il maestro usava riporre i propri arnesi. Il baldacchino con le stoffe decorate era aperto e alla testata il capoletto metteva in evidenza, con le sue sete, il grado sociale che il maestro aveva raggiunto. Anche ai muri si vedevano tendaggi e qualche immagine sacra. In un angolo il piccolo mobile con sopra uno specchio, non grande ma finemente lavorato, sul quale stava un pettine in avorio con incise sopra scene tratte dai romanzi cavallereschi e che, mi aveva detto un giorno, gli era stato regalato da un suo amico d’oltralpe. Il baule ferrato, dove conservava alcuni oggetti preziosi e le carte più importanti, si trovava di fronte all’armadio incassato nel muro e coperto da un tendaggio rosso. Non dimenticherò mai quella camera che serviva anche da studio e dove passai tante ore. Insomma la camera di una persona ricca. E la domanda che negli ultimi anni mi aveva assillato tornò inopportuna ad affacciarsi alla mia curiosità. Non riuscivo a capire come il maestro potesse avere tante ricchezze. Conduceva una vita più che dignitosa, completamente riservata, senza farsi mai mancare nulla. Pagava regolarmente il servo e non due soldi. L’unico allievo ero io e non certo pagante, anzi mangiavo del suo pane e bevevo il suo vino. Eppure denaro ce n’era e in pezzi d’argento e d’oro, raramente qualche gemma, uno smeraldo, un diamante da vendere in città per ricavarne moneta sonante.


13 Sembrò risvegliarsi da quel torpore. Mi guardò fisso negli occhi e, credo, cercò di abbozzare un sorriso. Sollevò poi la mano dalla fronte e tendendo l’indice tremante indicò qualcosa alla mia destra. Era il baule ferrato, quello con inciso sopra un fregio che ritraeva un serpente che si morde la coda e che mai avevo potuto aprire, anche quando da bambino, curioso verso tutto ciò che mi era proibito, cercai inutilmente di scassinarlo. Mi disse di andargli accanto e di aprirlo. Lo feci con timore e sollevai lentamente il pesante coperchio, come se avessi paura che tutte le forze dell’arcano potessero uscire improvvisamente e con violenza da quel baule e assorbirmi come si sorbono i fumi malefici degli stregoni. «Guardaci dentro» mi disse e lo feci; allungai la mano per scostare i pochi oggetti che conteneva. «Ci sono tre mantelli. Prendili.» Li sollevai e li posai uno per uno sullo sgabello. «Il primo è nero e sciamito, per l’inverno; il secondo è di stoffa intermedia per la primavera ed è bianco; il terzo è di seta fina venuta dall’Oriente ed è rosso, è per l’estate quando il Sole trionfa. Sono tuoi, non li abbandonare mai.» Sembrò ricadere nel torpore e rivolse gli occhi verso il soffitto. Io cercai di allungare i miei sul fondo scuro del baule e mi accorsi che era pieno di carte, solo in un angolo potevo intuire la presenza di un oggetto, forse di un sacco di pelle. «Prendilo» disse improvvisamente e facendomi sobbalzare «sì, prendi quel sacco che stavi guardando.» Allungai la mano timoroso, mi aspettavo di vederne un’altra uscire dal baule e afferrare la mia, o quantomeno sbucare un serpente pronto a mordermi. Il mio timore non era ingiustificato; le proibizioni di Cornelius erano sempre state rigorose e soprattutto, sia per la stanza sotterranea come per quel baule, assolutamente misteriose. Per questo, misto alla curiosità, avevo sempre nutrito un timore verso quei due luoghi. Cornelius se ne accorse e per la prima volta sembrò comparire un leggero sorriso sulle sue labbra.


14 «Non temere» mi disse «so cosa stai provando, ma mi stupisce che tu non ricordi i miei insegnamenti. Pensa bene, cosa ti dissi?» «Che tutto ciò che è diverso e misterioso spaventa l’uomo» risposi, cercando di collegare la sua domanda alla situazione che stavo vivendo «e che non tutto è accessibile alla mente e alla conoscenza umana, ma che non dobbiamo ugualmente mai stancarci di cercare, perché anche se fallimentare la ricerca stessa è conoscenza, in primo luogo di noi stessi. E soprattutto che spesso non si capisce perché non si conosce, e forse non si conosce perché non è ancora giunto il tempo.» «“Nec scire fas est omnia” diceva infatti un gentile, e io aggiungo che ciò che possiamo conoscere è secondo natura, perché nulla che non opera già la natura possiamo operare noi. Dunque segui sempre la natura e la conoscenza; non fare come il lupo con il mulo, ma neppure pensa e concludi come la volpe.» «E Dio? Non s’era detto che sempre permane il primato della religione sulla filosofia e la natura?» «Non è tempo ancora che tu conosca il seguito. Ora prendi quella borsa.» Di nuovo allungai la mano e raggiunsi la borsa. Sentii il contatto della pelle dura, un cuoio antico, a tratti rinsecchito dal tempo. La sollevai e notai che era piena e molto pesante e più grande di quanto avessi immaginato. Era scura, tesa, chiusa da una corda di cuoio, nera anch’essa e annodata con cura. Il filo era consumato e affioravano delle parti più marroni, segno che la borsa era stata aperta sovente. Mi avvicinai a Cornelius e gli porsi la borsa. Fece un cenno con la mano chiedendomi di sorreggerla; troppo pesante doveva essere per lui in quelle condizioni. «Aprila» mi ordinò Lo feci lentamente, quasi con un senso di riverenza religiosa, e quando potei finalmente guardarci dentro rimasi allibito. Conteneva forse più di mille pezzi d’oro, un vero tesoro. Capii allora che Cornelius non aveva mai avuto bisogno di lavorare, forse era il figlio di un signore o di un nobile e che aveva scelto la vita riti-


15 rata nello studio portandosi però dietro la propria parte di eredità che ora lasciava a me che ero come un figlio per lui. «Non stupirti mai davanti alla ricchezza, non è quella la vera ricchezza» mi ammonì, e io reclinai il capo mentre con la mano sinistra cominciai a tastare il petto all’altezza del cuore, un’abitudine che ancora oggi non ho perduto nonostante l’età e che si produce automaticamente quando il nervosismo o la paura mi assalgono. Cornelius se ne accorse e scosse la testa; più volte aveva tentato di correggermi da quell’inoffensivo automatismo. «Dare a Cesare quel che di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» dissi, quasi per distogliere la sua attenzione dal mio gesto. «Non proprio in quel senso» rispose «con quell’oro potrai mantenerti tutta la vita, se sarai accorto. Ciò non vuole dire che non dovrai lavorare, anche se mi auguro sarà un lavoro diverso da tutti gli altri. Ricordati solo che quando me ne sarò andato uno di quei pezzi, e uno solo, lo dovrai dare al servo.» Annuii. «Ora ascoltami bene» disse dopo essersi schiarito la voce «non più tardi di domani io sarò morto.» Sobbalzai. «Appena sarai uscito di qui prepara una sacca con poche cose. Il bagaglio del saggio, poco o niente, ma non dimenticare la borsa e i mantelli bianco e rosso. Quello nero lo indosserai. Quando il servo ti porterà la notizia della mia morte, parti senza mai voltarti indietro. Nessuno, tranne il servo, dovrà mai conoscere il luogo della mia sepoltura. Non chiedere perché, lo capirai col tempo. Ti metterai in viaggio solo o in compagnia come vorrai, ma ricordati che per aprile dovrai essere in quella città di cui tanto abbiamo parlato, là dove io mi sono istruito.» «Parigi?» domandai con trepidazione. «Sì, Parigi. Qui il clima si sta facendo pesante e sempre più gente finisce davanti ai giudici e sui roghi. Anche là accadrà la stessa cosa, ma per ora, se le notizie sono veritiere, è ancora abbastanza tranquillo» fece una pausa «guarda nella sacca. Su di una parete, se cerchi bene, c’è una tasca, è ben nascosta. Aprila.»


16 Ne estrassi una pergamena piegata e sigillata con cura dall’anello del maestro. Era ancora candida, segno che vi era stata messa da poco. Su di un lato, nella grafia del maestro che tanto bene conoscevo, c’era scritto: “Per Alberto di Bollstädt”. «Quando sarai nella città non perderti in inutili vagabondaggi. Cerca una piazza che chiamano Place Maitre Albert. Lì troverai un uomo che tiene lezioni di varie discipline. Non ti sarà difficile capire quale è, ci sono sempre una moltitudine di studenti ad ascoltarlo. È a lui e solo a lui che devi consegnare quella pergamena. Poi fa ciò che lui ti dirà… è tutto… puoi andare.» Mi congedò con un gesto, ma io non riuscivo a staccarmi da quell’uomo che era stato tutto per me, che mi aveva condotto per mano a scoprire tanti segreti del mondo. Lui lo capì e allungò la mano verso di me. Non seppi trattenermi e mi gettai al suo collo stringendolo e piangendo. Intuii anche il suo affetto e l’amore che mi portava poiché la sua stretta fu vigorosa, non certo di persona malata, e pensai quindi che avesse messo tutte le sue ultime forze in quell’abbraccio. Mi sollevai e mi avviai verso la porta. Stavo per uscire quando la sua voce suonò di nuovo. «So che vuoi chiedermi qualcosa… fallo dunque.» Rimasi sorpreso. «Maestro, cosa c’è nella stanza di sotto?» «Quella stanza non esiste già più, il servo l’ha distrutta. Capirai anche questo con il tempo. Ora vai.» Discesi la scala con l’impressione di avere lasciato un mondo dietro a quella porta. Giunto in cucina cominciai subito a preparare il sacco per il viaggio. Misi dentro i due mantelli e, proprio quando stavo infilando la borsa con i pezzi d’oro, avvertii una presenza alle mie spalle. Mi girai di scatto. Era il servo che mi fissava. Lo guardai anch’io, dritto negli occhi, timoroso che volesse la sacca con i pezzi d’oro. Mosse la mano destra con lentezza e l’aprì. Riconobbi un amuleto in metallo vile, tondo e sul quale era inciso lo stesso simbolo della cassapanca di Cornelius: un serpente che si morde la coda. Il servo prese la mia mano e lo posò sul mio palmo.


17 «È tutto ciò che ho, ma vorrei lo conservassi tu» mi disse. Non ebbi il tempo di ringraziarlo che era già sparito su per la scala e dietro alla porta della camera del maestro con il piatto pieno di brodo bollente. Passai la notte in un dormiveglia terribile, tra incubi e sudori impensabili per il clima che avvolgeva allora Padova. Il sonno mi aveva appena colto quando il servo mi svegliò. Fuori il cielo albeggiava. Mi disse che il maestro era morto e che dovevo partire immediatamente. Mi alzai, e senza dire una parola mi avviai verso l’uscio, mentre il servo aveva cominciato a segare la parte della panca dove sedeva Cornelius quando desinava. Stavo per varcarlo quando il servo mi chiamò: «Non devi darmi nulla?» disse, e io mi ricordai delle parole del maestro. Posai la sacca, e senza tirare fuori tutta la borsa ne estrassi un pezzo d’oro e glielo porsi. «Non è per avidità. Il maestro si è raccomandato e ha detto, prima di chiudere gli occhi, di ricordarti sempre che gli insegnamenti vanno rispettati e gli ordini eseguiti. Vai ora.» Camminai senza sapere dove andare fino quando uscii dalle mura della città. Riposai ancora un poco sotto un albero vicino a un fonte dove altra gente si ristorava. Poi presi il cammino verso Parigi. Non ha importanza ora raccontare il lungo viaggio a cui mi sottoposi, la gente incontrata, le paure e le angosce. Forse le uniche note interessanti furono che da Padova mi misi in viaggio con degli studenti che si recavano anche loro nella città d’oltralpe per assistere alle lezioni universitarie. Ascoltandoli e parlando con loro imparai altre cose, nuovi concetti, anche se alcuni di questi mi parvero eretici e non degni di attenzione. Era anche la prima volta nella mia vita che ebbi a che fare con il denaro. Sapevo che la somma che avevo con me era un vera fortuna, ma dopo i primi giorni mi prese come una strana smania, la paura che quei soldi non mi sarebbero stati sufficienti se a Parigi qualcosa fosse andato male, e cominciai così a risparmiare, a mangiare lardo rancido


18 con i carrettieri di passaggio e ceci nelle locande lungo la via e a preferire la paglia di una stalla a un comodo letto a pagamento. Era appena cominciato aprile quando giunsi a Parigi. Avrei voluto recarmi immediatamente alla piazza indicatami dal maestro, ma i miei compagni di viaggio me lo sconsigliarono poiché la notte stava calando e di lì a poco le campane avrebbero suonato il coprifuoco. Non sapevamo neppure dove andare a dormire, finché uno del luogo ci disse che quasi tutte le locande erano piene e che forse avremmo trovato un po’ di spazio nei pressi del cantiere della Cattedrale, dove molti pellegrini si accampavano. Ci andammo e riuscimmo, tra l’oscurità, solamente a intravedere la grande massa della fabbrica che si ergeva. Lo spettacolo fu diverso il mattino seguente. Benché non avesse ancora la facciata, si delineava già come un edificio stupendo e maestoso, progettato da un essere non comune e dai poteri eccezionali. Era uno stile completamente diverso da quello dei nostri luoghi. Camminammo a lungo prima di trovare la piazza indicatami dal maestro, attraversammo l’unico ponte della città e finalmente ci trovammo per le vie piene di gente. Erano strette e contorte, ovunque la troscia d’acqua rendeva più difficile il passo e gli edifici erano pochi e poco alti, le chiese meno belle di quelle che avevo veduto nel mio paese, o forse sarebbe meglio dire che erano molto diverse, di un tipo che non conoscevo. Anche le piazze che attraversammo erano poco ampie, anche se gremite di gente e animali. Ogni tanto si incontrava qualche giardino e qualche orto. Sembrava che tutta Parigi si fosse trasferita per la strada, anzi credo che la vita stessa di quella città si svolgesse per le vie, forse perché le case erano anguste e poco accoglienti. I negozi erano piccoli e stipati di roba, tanto che sarebbe stato impossibile ricevere più di una persona all’interno; ciabattini, maniscalchi e barbieri, sarti e rigattieri, pittori, scultori, incisori, medici e chirurghi operavano per la strada riparati da tettoie di legno e tendaggi appesi a pali sottili, accanto a mendicanti, ciechi e storpi di professione e ogni altro parto del peccato, che domandavano


19 l’elemosina. Qualche borseggiatore si dava alla fuga dopo avere strappato la borsa a un mercante. La calca era insopportabile, i carri di contadini che raggiungevano un mercato costringevano i passanti a schiacciarsi contro i muri, animali di tutti i tipi come cavalli, muli, asini scorrazzavano liberamente inseguiti dal padrone quando si allontanavano troppo. Di tanto in tanto agli angoli delle strade un banditore che leggeva un editto dopo uno squillo di tromba, e vidi anche passare tre carri con condannati a bordo, un ladro e due eretici che venivano portati al supplizio. Ricordai quanto mi aveva detto Cornelius a proposito dei processi, ma non ci feci molto caso, perché la mia educazione era stata cristiana e timorata e proprio non sapevo giustificare quegli uomini che, ai miei occhi inesperti, si erano venduti al Malefico. Continuavo a seguire i miei compagni di viaggio e a domandare informazione ai passanti. L’odore che saliva dalla strada era insopportabile, liquami scorrevano liberamente ai lati delle vie prima di raggiungere un buco fognario, e di tanto in tanto, in un angolo nascosto tra i muri di due case, si intravedeva qualcuno accovacciato che si liberava l’intestino. Finalmente vedemmo un gruppo di studenti che si affrettava verso destra. Decidemmo di seguirli, speranzosi che ci avrebbero condotti alla piazza. Così fu e ci trovammo nello spiazzo piene di gente rumorosa; tutti aspettavano Alberto di Bollstädt. Attorno a me c’era gente di tutti i tipi anche se in prevalenza erano studenti. Sicuramente ero il più giovane e anche il più piccolo come statura e corporatura e la cosa venne a mio vantaggio poiché, grazie anche alla mia agilità, riuscii a raggiungere una posizione ottimale, proprio davanti e sotto alla cattedra da dove, presumevo, il maestro avrebbe parlato. Mi sistemai accanto a un giovane che si scostò un poco per farmi spazio. Sembrava una nuova Babele, si udivano parlate di ogni regione, francese, latino, catalano, lingua d’oca e un misto di dialetti italiani. Ringraziai in silenzio Cornelius per il suo insegnamento delle lingue.


20 Improvvisamente avvertii qualcosa nell’aria che mi sembrò strano. Le voci andavano scemando e un silenzio, quasi religioso, stava invadendo la piazza. Mi guardai attorno con la sensazione che qualcosa di terribile stesse accadendo; un demonio, un invasato o un altro eretico condannato che avanzava prendendo possesso della piazza? Nulla di tutto ciò. Un uomo con un mantello che copriva l’abito domenicano camminava al di là della cattedra. Cadenzava i passi come se ogni centimetro fosse un passo in più verso la fine, portava tra le braccia dei codici, e un seguito di giovani allievi creava uno strano corteo di ossequio. Salì sul baldacchino rustico e in quel momento la piazza si ammutolì. Capii che doveva essere maestro Alberto, ma dovevo averne la certezza, in quel momento solo lui mi interessava, solo lui avrebbe potuto catalizzare tutta la mia attenzione. Feci girare lo sguardo e non trovai nessuno degno della mia fiducia finché gli occhi non si fissarono sul giovane alla mia destra. Con un certo timore battei la mia mano sul suo braccio e lui si girò di scatto. Aveva lo sguardo chiaramente perplesso nel guardare me, dall’alto al basso, un tipo così giovane che si permetteva di importunarlo. Sembrava un ragazzo profondo, uno di quelli che si domandano troppe cose e che finiscono per darsi risposte talmente complesse che neppure il più fumoso o il più arzigogolato degli scolastici riesce a obbiettare. Ma era uno sguardo nobile, fiero, sicuro di sé, e ciò mi diede quel coraggio che in verità non avevo, quello di affrontare la gente, essendo io vissuto sempre sotto l’ala protettiva di Cornelius. «Scusatemi, quell’uomo è Alberto? Alberto di Bollstädt? Il maestro?» Il giovane annuì e rivolse immediatamente la sua attenzione alla cattedra. Anche io mi concentrai sulla sua lezione e in verità compresi poco di quello che stava dicendo. Soprattutto mi spaventarono alcune sue affermazioni; non erano per nulla concordi con gli insegnamenti di Cornelius, e sembravano sempre più in odore di eresia. Aveva un gran daffare con la natura o meglio sull’interpretazione della natura, continuava ad affermare che le


21 cose naturali vanno interpretate secondo natura, e io sentivo che tutti i miei insegnamenti non corrispondevano a quella logica. Come potevo credergli se sapevo che la natura ci è in qualche modo nemica? Sapevo che i due progenitori erano stati cacciati dall’Eden in questo mondo naturale per punizione, per avere commesso il più atroce dei peccati. Ma lo ascoltai, sicuro che Cornelius mai mi avrebbe affidato a un eretico o, nella peggiori delle ipotesi, a un pazzo. La lezione terminò e cominciò il momento del dibattito. Molte furono le domande che vennero poste al maestro e per la maggior parte di esse io non riuscivo a capire le risposte. Stavo quasi per andarmene e per appostarmi in un luogo adatto a incrociare Alberto quando se ne fosse andato, quando qualcuno pose una questione che attirò la mia attenzione. Una voce persa tra la folla domandò quali fossero i precetti fondamentali per un adepto della Grande Arte. La Grande Arte, quella che Cornelius aveva detto essere il mio futuro, quella che non aveva voluto spiegarmi cosa fosse e che qui dovevo apprendere. «La Grande Arte è la spiegazione del tutto; non è lecito avvicinarcisi se non si hanno le doti e pochi sono gli eletti. Se si hanno le doti, otto sono i precetti da seguire» disse Alberto con voce ferma «primo: non dovrà mai comunicare a nessuno i suoi risultati se non agli allievi che ammaestra e anche a loro con parsimonia perché, come dice l’Evangelista, non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci perché le calpestino con le loro zampe. Secondo: non frequenterà la moltitudine e nella sua casa ci dovranno essere sempre stanze adibite al lavoro. Terzo: sceglierà nella giornata il tempo da dedicare al lavoro. Quarto: avrà la pazienza biblica e la perseveranza assoluta. Quinto: non tradirà le regole dell’arte che sono la triturazione, la sublimazione, la fissazione, la calcinazione, la soluzione, la distillazione, la coagulazione. Sesto: userà solo vetro o terraglie verniciate. Settimo: avrà tante ricchezze da non dovere chiederne ad altri o lavorare per altri. Ottavo: non dovrà avere rapporti diretti,


22 di dipendenza o di ossequio, con principi o altri signori. Sono queste le regole.» Non riuscii a capire del tutto quelle parole, mentre il giovane che mi stava accanto continuava ad annuire con un’espressione sicura e accondiscendente. La gente, soprattutto gli studenti e coloro che, a guardarli bene, sembravano degli ecclesiastici, continuavano a porre quesiti al maestro, e lui puntualmente rispondeva in maniera più o meno chiara. La lezione terminò e Alberto scese dalla cattedra per avviarsi verso una via laterale. Cercai di inseguirlo per proporgli la mia lettera, ma una folla indeterminata si frappose tra me e lui, tanto che in breve vidi la sua figura sparire tra una moltitudine di abiti tutti simili. Pensai di avere fallito. Cornelius era stato chiaro, solo ad Alberto dovevo consegnare la lettera. Come avrei potuto incontrarlo da solo o comunque in condizione di parlargli? Forse non avevo imparato abbastanza, dovevo ancora percorrere mille anni di esperienza. Il mondo non era poi così facile come tra le mura protette di Padova. Ora sapevo che pur essendo un ragazzo istruito, avrei dovuto affrontare universi differenti da quelli a cui ero abituato e non erano più come quelli del viaggio assieme a ragazzi della mia età. Avevo qualcosa da superare, un ostacolo del quale ignoravo l’altezza, un mondo di cui non conoscevo le coordinate e che avrebbe potuto schiacciarmi improvvisamente e con il minimo sforzo. Decisi che l’unica cosa da farsi era cercare il gruppo di giovani che mi avevano accompagnato da Padova fino a Parigi e passare con loro ancora una notte sperando di potermi rifare l’indomani. Stavo per raggiungerli quando a lato della piazza vidi il giovane che mi stava accanto sotto la cattedra del maestro. Mi accorsi che portava gli abiti dei frati predicatori e quel particolare mi diede fiducia. Lo avvicinai e lo chiamai non ricordo neppure con quale appellativo. Si girò, e dopo avermi osservato disse con tono superiore: «Che vuoi?»


23 «Voi conoscete maestro Alberto?» domandai come se fossi sicuro della risposta. «Sono suo allievo… perché?» rispose, facendo quasi un passo indietro. Non replicai. Posai la sacca a terra, e senza estrarre la borsa con i denari tirai fuori la pergamena di Cornelius con il nome di Alberto di Bollstädt scritto sopra e gliela porsi con riverenza. Il giovane la fece ruotare tra le dita un paio di volte, poi tenendola tra il pollice e l’indice me la mostrò. «Gliela farò avere.» «No!» risposi immediatamente strappando la carta dalla sua mano. «Oh bella, e perché?» «Me lo ordinò il mio maestro prima che partissi… la devo consegnare io!» «Il tuo maestro? E chi è, di grazia, il tuo maestro?» «Il suo nome è Cornelius.» Il giovane frate aggrottò la fronte. «Cornelius da Padova?» Annuii. «E tu giungi dalla città veneziana?» Annuii di nuovo. «Capisco. Bene, ti condurrò da maestro Alberto, così potrai anche rifocillarti.» Ci incamminammo lungo la strada. Molti studenti salutavano con riverenza il mio accompagnatore e io, dal mio canto, stentavo a tenere il suo passo. Trotterellai più velocemente fino ad affiancarlo. Camminava eretto con le mani dentro alle maniche e gli occhi puntati, fissi davanti a sé. Rispondeva ai saluti con brevi cenni del capo. «Scusate, signore» domandai «ma io non so chi voi siate.» «Io?» rispose con un leggero sorriso ma senza muovere la testa «mi chiamo Tommaso, sono nato dal Conte Landolfo d’Aquino a Roccasecca nei pressi di Aquino venti anni fa. Sai dov’è?» Annuii.


24 ÂŤGiĂ , con cotanto di maestro dovevo immaginarlo. Passai quindi a Napoli dove presi gli ordini e ora sono qui, allievo di Alberto. Soddisfatto? Ma eccoci, entriamo!Âť disse fermandosi davanti a un uscio.


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II Alberto e Accorso

Ogni luogo nuovo, punto fisso che sia, ha sempre generato nel mio animo sensazioni strane. Forse la giovane età mi fu di aiuto o forse no, ma davanti a quella dimora mi sentii come un cane randagio di fronte a un nuovo branco. Non avevo la minima idea di che gente stessi per incontrare e se mai fosse vera quella storia della Grande Arte; solo un attimo sarebbe stato sufficiente a farmi soccombere, ad annullare tutto ciò che avevo vissuto e tutto ciò che sono ed ero stato. Non mi si era ancora posto il problema essenziale che l’essere dipende dal divenire, e che in fondo divenire ed essere dipendono da una forza che nessuno può controllare: il caso. Ma la fiducia, come la speranza, è un’amica - o una nemica - strana, oggi posso dirlo; meretrice ambigua, che sa sorriderti e allietarti per abbandonarti poi alla cruda e incomprensibile realtà. Poiché nulla, neppure il mistero o l’ignoto, sono più incomprensibili della nuda realtà. Forse per questo, ancora ignaro del futuro e di cose strabilianti, mi aggrappai come una mignatta alla tunica di Tommaso e guardai quella casa. Un palazzo, se così si può definirlo, costruito in grossi blocchi malamente tagliati che sembravano fossero incastonati dal demonio per potersi reggere, con finestre strette come feritoie sbarrate dal ferro. Girai lo sguardo lungo il muro e vidi solamente botteghe povere e mal messe, anche se attorno giravano uomini e donne dagli abiti cittadini e, a volte, raffinati. Tommaso bussò al grosso portone e qualcuno venne ad aprire. Non ci fu alcun dialogo tra l’usciere e il mio compagno, solo un breve cenno di saluto e Tommaso che mi disse di entrare. Seguii le sua tunica come un bastardo segue il padrone, senza sapere il perché, solo per fedeltà innata e fiducia totale.


26 Il cortile sembrava una piazza in miniatura e mi guardai attorno con un rapido giro su me stesso. Tutta la casa si articolava attorno a quello spiazzo interno, come se fosse un piccolo mondo a parte, un microcosmo creato per un signore dominante, un dio di chissà quale intimità domestica o più ancora un qualcosa che si rifletteva su se stessa, come uno specchio davanti a uno specchio. Presto, però, il sogno fu ridotto a realtà. Su quel magnifico cortile la crudezza della vita si affacciava in modo cruento; i bisogni, le necessità più basse, benché di nobile persona, si facevano evidenti: scuderie, magazzini con vivande, pieni di grasso animale, vino e birra e grano, erano il contorno, il perimetro della piccola piazza interna. Tommaso mi condusse tramite una scalinata esterna in legno al piano superiore. Entrammo da un bel portale e mi trovai in una piccola stanza poco arredata. Tommaso mi disse di attendere seduto su di una cassapanca. Un’ora passò prima che un servitore venisse a prendermi e mi conducesse in una camera laterale, mi rifocillasse con del cibo e dicesse di pregare fino a sera e poi di dormire; Alberto non mi avrebbe ricevuto prima dell’indomani. Conobbi di nuovo sogni terribili. Non serve qui raccontarli. La mattina seguente, prima che qualsiasi servitore venisse a darmi il risveglio, mi trovavo già seduto sul letto con le lenzuola strette sul petto a pensare. La prima cosa che interessa l’uomo è la sopravvivenza, certo detto adesso alla mia veneranda età sembra banale, ma credo che una favilla di questo pensiero fosse già implicita nella mia mente giovane. Dunque lì io stavo come un gatto nella pentola, senza sapere nulla e solamente fidandomi dell’affetto di Cornelius. Quando giunse Tommaso nel suo saio stropicciato e nella sua posizione retta, sentii un brivido di piacere; finalmente qualcuno di nuovo da me. Lo seguii lungo corridoi spogli fino a un’altra porta. Attesi senza di lui di nuovo un paio d’ore e nulla filtrava, benché posassi l’orecchio sul legno ruvido, da quella porta. Quando ricomparve sembrava un eletto di Dio e io lo seguii come fosse il Messia, mi si perdonino i paragoni arditi.


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La stanza era abbastanza grande e decorata alle pareti da stoffe di buona fattura, solo in alto sul soffitto si vedevano delle travi adornate da motivi geometrici dei quali non compresi il significato. La mobilia era costituita quasi esclusivamente dalla libreria che correva lungo il muro ininterrotta. Sulla parete nord notai un camino dello stesso tipo di quello che avevamo in casa di Cornelius. Un punto in comune, pensai. Ero stato abituato a guardarmi sempre molto attorno, addirittura a studiare i luoghi per farmi un’idea della persona e dell’ambiente in cui mi trovavo. Cornelius era stato sempre molto pignolo su questo punto, diceva di osservare e tacere, di chiudere per un attimo gli occhi e cercare di immaginare quanto avevo appena visto, di farlo subito andare alla parte che governa la memoria e intrappolarlo immediatamente. Era un esercizio che ripetevo spesso assieme a tutti quelli che facevo per la memoria, primo fra tutti quello di imparare la Bibbia, verso per verso. Gli occhi si posarono infine sulla scrivania. Non era come quella di Cornelius, portatile allo stile dei notai fiorentini, e a dire il vero non sapevo neppure se in quei luoghi fosse in uso. Era piuttosto un tavolo in un bel legno scuro con le gambe lavorate, grande, tanto che avrebbe potuto accogliere due studiosi e sopra vi era posto un leggio intarsiato. Dietro di essa Alberto, seduto a una sedia dall’alto schienale, aveva l’aria affaticata, anche se i due occhi emanavano una strana luce di intelligenza, come se racchiudessero un universo inesplorato. Lo specchio dell’anima, certo, quei due fari sarebbero riusciti a incantare chiunque come il serpente la propria preda, anche se il confronto non è proprio adatto poiché nulla avevano di demoniaco, ma intimorivano al solo sfiorarli con lo sguardo. Tommaso mi fece cenno di avanzare e si mise vicino alla cattedra, sulla destra rispetto al maestro, ma ad almeno un metro e mezzo da lui. Io avanzai con la testa rivolta verso il pavimento,


28 senza guardare i due uomini. Quando fui a un paio di metri dal tavolo mi fermai e alzai la testa. «Siediti» mi disse Alberto «Vi ringrazio maestro, ma preferisco stare in piedi.» «Per quale motivo?» «Così mi hanno insegnato.» «Cornelius, immagino.» Annuii. «Bene, abbiamo constatato che la pazienza è una dote che non ti manca. Cosa sei venuto a fare qui?» Raccontai tutto ciò che Cornelius mi aveva detto prima di morire e mi resi conto che era davvero poco. Sapevo che avevo raggiunto la città francese per continuare la mia istruzione, ma quale dovesse essere di preciso la sua direzione, lo ignoravo. Mi aveva parlato della Grande Arte e quei due termini li avevo sentiti diverse volte, ma mai me ne era stato spiegato il significato. Guardando Tommaso immaginai che avrei dovuto indossare i drappi di religione e al momento la cosa mi era indifferente, o meglio la mia fiducia nel mio vecchio maestro era così profonda che sarei andato anche incontro alla morte per lui. Alberto mi domandò se sapessi cosa fosse la Grande Arte e io risposi di no, arrossendo un poco sulle guance e arrossii ancora di più per quel rossore; Cornelius mi aveva sempre detto che non ci si deve vergognare della propria ignoranza, l’importante è predisporsi sempre a colmarla. «Già, Cornelius» disse Alberto girando più volte tra le mani la pergamena a lui diretta e rileggendola. «Come sta, a proposito?» «Il maestro è morto» risposi con voce tremante. Alberto non si scompose. Guardò Tommaso, poi ricominciò a leggere la pergamena. Pose i suoi occhi su di me, li faceva scorrere dall’alto verso il basso e poi dal basso verso l’alto, infine si soffermò a lungo sul mio volto, poi sugli occhi. Rimasi fermo senza distogliere lo sguardo da quelle due luci. «E ne hai veduto il cadavere?» Risposi di no, e Alberto lanciò un nuovo sguardo a Tommaso.


29 «Ascolta; tu sei qui per apprendere la Grande Arte. Tuttavia io credo, io suppongo, che lo stesso Cornelius avrebbe potuto insegnartela. Se non lo ha fatto, come d’altronde si legge qui, è perché qualcosa di te gli sfuggiva. Dice che sei un puro, che sei paziente, che disponi di danaro, che hai tutte le doti dell’iniziato, ma qualcosa non capiva di te e per questo ha preferito affidarti a un’autorità più grande della sua. Credi di sapere cosa impensieriva Cornelius?» Risposi di nuovo di no. Alberto si sporse un poco in avanti per vedere al di qua della scrivania. Mi domandò cosa contenesse il mio sacco e io gli elencai il suo contenuto con meticolosità sforzandomi di non dimenticare nulla. Lui continuava ad annuire a ogni oggetto che io pronunciavo. «Null’altro?» chiese «No. Sì, un ciondolo che mi donò il servo. Un serpente che si morde la coda.» «L’Ouroboros, l’eterno riiniziamento» disse agitando l’indice destro a mo’ di ammonimento «ascoltami bene ora, io cercherò di farti comprendere alcune cose indispensabili per iniziare il cammino verso la Grande Arte. Cerca di capire e alla fine mi dirai se la vuoi affrontare. Se decidi di sì, ricordati che in qualsiasi momento puoi ritirarti, l’unico pegno che dovrai pagare è il silenzio e per questo ti insegneranno la lingua degli uccelli. Puoi farmi domande se vuoi. Hai capito?» «Lingua degli uccelli?» «È la lingua degli adepti, una lingua che sembra dire, ma dice altro. Essa è presente ovunque. Pensa alla parola “amor”, sai cosa significa? Certo, ma se ben guardi essa è formata da “a+mor”, cioè senza morte, così la intende l’iniziato. Hai capito?» Annuii anche senza esserne certo. «Dunque, la Grande Arte, come dice il suo nome, è un’arte e come tale si presuppone che l’adepto abbia l’illuminazione spirituale e l’abilità manuale. Per questo dovrai avere costante cura sia per il fisico, che per lo spirituale. Essa si propone di convertire il


30 regno minerale e quello umano. Ma ricorda, è la fatica interiore che porta a metamorfosi esteriori.» «Maestro, la religione proibisce l’occultismo e la magia.» «Non si tratta né dell’uno né dell’altro. Tu agirai sulla natura con mezzi naturali. Dovrai capire molte cose e molto di ciò che sai, abbandonarlo. Dovrai smettere di pensare corpo e spirito, vita e morte come entità separate. Se riuscirai a fare ciò, giungerai all’oro liquido, all’elisir.» «Non capisco tutto maestro, ma sono disposto ad affrontare la fatica.» «L’insegnamento fondamentale della Grande Arte, è dimostrare quali sono le possibilità e le potenzialità dell’uomo. Vi sono poi otto canoni che l’iniziato deve seguire: primo…» «Maestro li ho uditi alla piazza» dissi, pentendomi subito per averlo interrotto. «Bene. Ripetili.» Li elencai uno a uno quasi con le stesse parole che aveva usato Alberto, cercando di essere chiaro e convincente, non tanto per dimostrare che avevo capito, quanto che la mia concentrazione e attenzione potevano essere totali quando ce n’era bisogno. «Hai memoria ragazzo e credo che ce la farai.» «Sarete voi il mio nuovo maestro?» «No» rispose con tono deciso «Tommaso?» «No! Tommaso ti accompagnerà immediatamente dal tuo nuovo maestro. Farai tutto ciò che ti ordina.» Alberto mi congedò con il gesto della mano destra dopo aver consegnato la pergamena a Tommaso. Fu l’ultima volta che vidi Alberto di Bollstädt. Seguii Tommaso per le vie strette e spesso infangate dalla leggera pioggia di aprile, mi strinsi nel mantello di Cornelius e per un attimo aspirai forte con le narici, come per cercare l’odore del mio primo maestro, quasi potesse essere impregnato nel tessuto che mi aveva donato. La strada era piena di gente. Camminavamo lontano dai muri delle case per evitare che


31 qualcuno ci colpisse con i liquami che venivano scaricati dalle finestre. Giungemmo davanti a una porta, e ancora una volta Tommaso mi disse di attendere. Passò un’altra ora e io mi distrassi a guardare la gente passare, gente così diversa da quella a cui ero abituato, con abiti diversi, visi differenti, movenze strane. Un mondo di poltroni vestiti di vergato, con le membra rovinate dalla vita, il viso consumato dal tempo, l’anima imbarbarita dalla fame e dalla miseria. Mi ero spesso domandato come potesse un Dio buono permettere che esistesse tanta miseria e, come spesso accade, la risposta mi era giunta da un libro, dalla Vita di Sant’Egidio, là dove diceva che Dio aveva voluto che nel mondo ci fossero anche i poveri perché i ricchi avessero l’occasione di riscattarsi dalle loro colpe con la misericordia. Tommaso uscì e mi ordinò di entrare. «Ci rivedremo?» chiesi. «Tutto è possibile» rispose accennando finalmente a un sorriso e accarezzandomi sulla testa, proprio come faceva Cornelius. Entrai e chiusi l’uscio alle mie spalle. Mi trovai in una stanza solo parzialmente illuminata, con pochi mobili e con un’unica piccola finestra. L’odore dell’olio e della trementina mi ferì le narici, segno che il panno posto davanti alla finestra per impedire al freddo di entrare era stato imbevuto di recente. Sul fondo si intravedeva una porta con un catenaccio chiuso da un lucchetto e a lato, preceduta da due bassi scalini, un’altra porta di legno. Avvertii il respiro di qualcuno e cercai con gli occhi. Accanto al focolare di quella che doveva essere la cucina, visto che sul muro destro rispetto all’entrata intuivo la presenza di un acquaio scavato nel muro e poco distante un armadio nel quale erano posti gli utensili domestici, c’erano due uomini. Uno seduto di spalle e l’altro in piedi con qualcosa in mano. Un’ampolla con dentro un liquido denso e chiaro. Era un frate con una lunga barba e due occhi vispi. Quando si accorse che lo stavo osservando si girò di scatto verso il fuoco. Scorsero secondi di silenzio che mi parvero secoli, sembrava di


32 essere entrati nella tana segreta di un animale spettrale, anzi in qualcosa di più losco e intuivo che i due stavano parlando di qualcosa di grave e segreto, che le mie orecchie non dovevano ascoltare. L’uomo seduto mi ordinò di salire nella stanza superiore e aspettare, dopo avere chiuso la porta. Obbedii. Era la stanza da letto. Più sobria di quella di Cornelius, anche se un letto a baldacchino la rendeva accogliente. Era quadrata con il pavimento ricoperto di assi di legno, il soffitto percorso da grosse travi, i muri decorati con segni strani che non conoscevo, tranne uno, il serpente che si morde la coda. Sentivo giungere dalla stanza attigua le voci dei due. Discutevano animatamente ma con calma. Coglievo una parola, una mezza frase ogni tanto, ma fu sufficiente a intuire che l’argomento era teologico, o per lo meno filosofico. L’uscio principale sbatté con violenza. Mi discostai immediatamente dalla porta, sicuro che il mio nuovo maestro sarebbe salito dopo avere salutato il suo ospite. Così fu. Aprì la porta con lentezza e con altrettanta calma entrò nella camera. Aveva in mano la lettera di Cornelius. Era un uomo alto sui quarant’anni, i capelli scuri e gli occhi celesti, due occhi che intimorivano a guardarci dentro. Avanzò verso di me e mi porse la lettera. «Questa è tua» disse seccamente. Con un cenno della testa mi chiese di seguirlo e tornammo in cucina. Avvicinatosi a un tavolo si versò un mazero d’acqua, poi sedette e cominciò a osservarmi. Non faceva altro, solo mi guardava come si scruta un animale feroce o strano in gabbia. Percorreva il mio corpo dall’alto al basso e poi dal basso verso l’alto. Mi intimoriva, non ero stato mai studiato in quel modo, sembrava volesse conoscere il mio corpo, benché fossi vestito, come il proprio palmo della mano, i suoi occhi brillavano di una luce strana quando incrociavano i miei, era come se volesse possedermi, prendere tutto ciò che avevo dentro.


33 Tornarono alla mia memoria certe lezioni di Cornelius sull’età degli dei gentili, lezioni che non saprò mai dove il mio maestro avesse studiato, visto che non ho trovato libri che parlavano di quell’argomento, e dei rapporti che intercorrevano tra il maestro e l’allievo. Sentii un brivido raggelarmi la schiena. Mi sbagliavo, quell’uomo aveva fatto voto di castità, seppi poi. «Dunque il caro Cornelius è morto» continuò mentre io annuivo «Tommaso mi ha spiegato tutto e mi ha anche detto ciò che maestro Alberto ti ha rivelato. Non è che un debutto, sappi, e credo anche che tu non abbia capito tutto ciò che Alberto ha cercato di spiegarti. È normale, comunque. Sarò il tuo maestro, il mio nome è Accorso e puoi chiamarmi per nome o per titolo, come preferisci.» Sapevo che di fronte a un nuovo maestro si parla solamente se interrogati, soprattutto al primo incontro. Me ne restai quindi muto a osservare e ascoltare. Accorso si diresse verso uno dei pensili poveri e sobri della stanza e ne estrasse qualcosa. Si fermò ancora un momento a osservarmi, e dopo avermi girato le spalle raggiunse la porta sul fondo. Sciolse il catenaccio e la socchiuse; prese una candela e l’accese, la pose in un piccolo catino d’acqua e me la porse. «So che nella dimora di Alberto sei stato rifocillato e vedo che sei un giovane forte. Un po’ di digiuno ti preparerà lo spirito. Io credo che sia giusto iniziare subito, anche perché dovrai capire e dimenticare molte cose. Ora scendi nel laboratorio; vi rimarrai finché non verrò io. Guarda tutto ciò che vuoi, osserva, ma non toccare nulla. Non c’è bisogno per il momento che tu faccia penitenza, solo medita, ripassa in memoria tutto ciò che hai appreso in questi anni e cerca di separare ciò che è essenziale da ciò che è inutile. Conosco il contenuto del tuo bagaglio, lo puoi lasciare nel laboratorio; non ti servirà fino a quando starai con me a eccezione dei mantelli. Ora vai.» Mi avvicinai alla porta con passo lento ma deciso. Nella mano destra tenevo la candela, nella sinistra il sacco. Solo quando fui a un passo da lui il maestro mi disse di togliermi il mantello nero


34 bagnato che avrebbe provveduto a fare asciugare vicino al fuoco. Glielo diedi, e prima che potessi scendere la scale mi porse una brocca con dell’acqua limpida per dissetarmi. In quel momento pensai che forse il mio digiuno non sarebbe stato breve. Non appena varcata la porta e discesi i primi scalini, mi invase un odore di zolfo che avevo già sentito. Era lo stesso che usciva dalla stanza segreta di Cornelius. Dunque in quel laboratorio Accorso conduceva gli stessi studi del mio primo maestro! Ebbi un attimo di esitazione, perché Cornelius non mi aveva mai permesso di entrare in quello studio, e ora mi mandava a imparare un’arte che, per la segretezza con cui era trattata, doveva per forza anche essere pericolosa. Pensai che forse era stato il tempo a impedirglielo, che la morte avesse posto il suo freno, anche se mi tornavano in mente le parole di Alberto a proposito del dubbio di Cornelius e del suo volermi affidare a mani più competenti delle sue. In verità non sapevo se ciò che mi stava accadendo avesse un senso, e soprattutto se mi interessasse. Cornelius aveva infuso in me una voglia strana, quella che porta un uomo a voler scoprire sempre più cose e in particolare quelle che sembrano più oscure e difficili da comprendere, ma in quel momento ebbi un’esitazione. Non avevo mai creduto, infatti, quello della mortificazione della carne un metodo efficace. Poteva essere vero che lo spirito in qualche modo dipende dalla carne, ma era mio fermo convincimento che è più la carne che dipende dallo spirito, poiché sotto l’influsso corporale, sotto il dolore e la punizione, si può negare o rinnegare lo spirito, ma solo agli occhi degli altri. Nel proprio intimo è solo un’accomodatura, un modo di non soffrire, proprio come sorbire droghe orientali, di quelle che Cornelius mi dava quando una malattia mi mordeva le carni. Sentii il catenaccio scorrere alle mie spalle. Non mi restava che scendere e lo feci. Appena fui a terra posai il sacco e la brocca su di un tavolaccio e con la candela presi a rischiarare l’ambiente. Mi accorsi subito che c’erano due stanze, feci girare il lume e nella prima scorsi solamente una biblioteca ben fornita.


35 Cornelius mi aveva detto che un uomo lo si può riconoscere dai libri che trovi nella sua libreria. Non capitava spesso a Padova di poter vedere una libreria così fornita se non in casa di nobili o ricchissimi mercanti presso i quali il mio vecchio maestro raramente mi portava. Una biblioteca è come un tempio, è qualcosa di estremamente privato, fa parte della persona che l’ha raccolta. È come un altro arto, un’impronta indelebile della sua personalità, qualcosa che gli appartiene e gli apparterrà per sempre, forse più di un figlio, poiché in esso ci si può solamente riconoscere per somiglianza, mentre nella biblioteca ci si riconosce per creazione, per duplicazione. Mi avvicinai e cercai di leggere i titoli dei grossi volumi. Molti li conoscevo già, erano presenti anche nella biblioteca del mio primo maestro, ma quelli che attrassero la mia attenzione stavano in uno scafale riservato, quasi nascosto. I miei sensi si fecero allerti. Portavano tutti sul dorso, in bei caratteri allungati in un inchiostro marroncino e quasi rossastro, il titolo e il nome dell’autore. Potei così leggere il nome di Al-Rhazes autore del Contines, Avicenne di cui era presente un Canone di Medicina tradotto da Gerardo da Cremona. E poi una Pratica Geometriae di Leonardo Fibonacci e il Tractatus de Sphaera Mundi del Sacrobosco, il De ponderibus di Giordano Nemorario e le Conquiste spirituali della Mecca di Mohyiiddin ibn’Arabi e altri testi, molti dei quali tradotti dalla scuola di Toledo. Più nascosti rispetto a questi, due libri che l’oscurità mi impediva di leggere. Dovetti trasgredire gli ordini di Accorso e, dopo aver preso uno sgabello, tirarli un po’ indietro per investirli di luce. Rimasi perplesso. Si trattava della Fisica e della Metafisica dello Stagirita. Non osai neppure toccare di nuovo quei due testi maledetti. Ricordavo con chiarezza che Cornelius mi aveva raccontato che il Papa Gregorio IX li aveva proibiti pochi anni prima della mia nascita con bolla donec corrigantur et expurgentur, dopo che Guglielmo da Maerbecke li aveva tradotti.


36 Cosa ci facevano lì quei due libri eretici? E neppure gli altri mi sembravano in odore di santità. Indietreggiai, e dopo un attimo di intenso terrore decisi che non dovevo trarre conclusioni. Avevo il compito di osservare quel laboratorio e di meditare, non di giudicare. Dopotutto, pensai, forse è solo una prova a cui Accorso mi sottopone, forse vuole sapere se li conosco e decidere quindi se accettarmi come allievo o no. Gli avrei sicuramente risposto con orgoglio che non sono un eretico e che la Bibbia è il mio pane quotidiano assieme ad Agostino e agli altri grandi cristiani, e che la mia istruzione era avvenuta alla luce del De istitutione novitiorum del grande Ugo da San Vittore. L’oscurità mi intimidiva un poco e non scorgevo altre lampade in quella stanza. Intravidi però un bagliore giungere da quella attigua. Con passo felpato mi avvicinai alla porta di passaggio e feci una breve pausa sullo stipite per gettare una prima occhiata all’interno. Non riuscivo a scorgere nulla se non un baleno, un fuoco acceso, forse in un camino. Alzai la candela e con piena soddisfazione notai che in quella stanza erano presenti altri lumi di terracotta appesi al soffitto con tre corde che si ricongiungevano formando una piramide. Li accesi uno dopo l’altro, come un chierico le candele della cattedrale, e l’ambiente risultò ben illuminato. Rimasi stupito quando mi accorsi che la stanza era praticamente vuota, non c’erano che pochi oggetti. Un focolaio nel quale bruciava un fuoco lieve, quello che aveva attratto la mia attenzione, e su di esso un crogiolo nel quale qualcosa bolliva molto lentamente. Non aveva coperchio, nonostante ciò nessun vapore usciva dal recipiente. Su di un tavolo lì accanto, altri pochi oggetti: dei matracci, delle storte, una bilancia di precisione e pezzi di minerali. Null’altro. Mi avvicinai e stavo quasi per guardare dentro al crogiolo quando mi ritrassi di scatto. Ebbi la stessa sensazione provata mesi prima nella camera di Cornelius, quando stavo per mettere la mano dentro alla cassapanca segreta. Una paura strana, il timore di scoprire qualcosa di ignoto.


37 Vi rinunciai dunque e ripresi la mia esplorazione. Sulla parte destra della stanza vi era una grossa nicchia che rimaneva oscurata, nonostante le molte lampade. Un’altra libreria nascosta, pensai, e mi avvicinai. Di fronte a me, un piccolo oratorio o comunque un luogo adibito alla preghiera. Un inginocchiatoio in legno era posto proprio davanti a qualcosa che assomigliava a un altare sul quale era appoggiata una candela spenta. La accesi e aspettai che il barlume di luce illuminasse ciò che c’era dietro. Alcune lapidi in pietra erano poste sul piano dell’altare. Aguzzai la vista e ne scorsi sette. Le due al centro ritraevano l’una il Cristo e l’altra la Madonna, le altre dei Santi. Non ne avevo mai vedute di scolpite in quella maniera. Tutti i raffigurati erano ritratti di faccia, solo la Madonna era completamente vestita, mentre gli altri portavano solo un perizoma. Avevano le gambe unite e le mani lungo il corpo, ma distanziate da esso. Mi ricordavano vagamente una Crocifissione che avevo veduta in giovane età durante un viaggio a Roma con Cornelius nella chiesa di Santa Sabina, ma a differenza di quelle queste figure avevano il ventre prominente, quasi fossero gravide, e al centro, all’altezza dell’ombelico, vi era raffigurata una spirale. Ancora una volta pensai a qualche rito esoterico e mi segnai la croce. Spensi la candela e raggiunsi la prima stanza. Riudivo però le parole di Alberto, quando mi aveva ammonito riguardo alla Grande Arte e al suo essere solamente secondo natura. Sedetti su di uno sgabello e appoggiai la testa sulle braccia riverse sul tavolo. Sentivo la stanchezza raggiungere i miei occhi e le forze abbandonarmi, ma avvertivo anche una sottile ma profonda angoscia stringere il mio cuore. Ero adirato con Cornelius, come se fosse stata sua la colpa di quella morte così improvvisa. Mi sentivo abbandonato a gente che non conoscevo, che erano fidati del mio primo maestro, ma che nulla sapevano di me, dei miei timori, delle mie gioie e dei miei progetti, perché di progetti ne avevo e avevo fantasie che in quel luogo sembravano del tutto inutili.


38 Avevo la sensazione che quell’uomo, Accorso, volesse farmi crescere anzi tempo, cosa che Cornelius non avrebbe mai permesso. A Padova spesso, con il mio maestro, mi abbandonavo a bambolitadi come un qualsiasi ragazzo della mia età, gli parlavo delle mie paure e inventavo assieme a lui storie incredibili. Il maestro mi raccontava aneddoti divertentissimi come quello dell’imperatore che mandò a morte un oloaro perché quando domandò chi fosse capì uno laro. Cornelius, quando ero bambino e timoroso del buio nelle notti di tempesta, mi accoglieva nel suo letto, e a volte lo ritrovavo durante la notte seduto alla scrivania con la testa riversa sul piano, per lasciare tutto il giaciglio a me. Non avevo mai considerato quelle cose importanti, forse perché allora erano normali, scontate, ma ora sentivo tutto l’amore che aveva legato Cornelius a me e me a lui. Non ho mai saputo e tanto meno provato cosa sia l’amore e l’affetto di un padre o di una madre e ho sempre creduto che fosse diverso da quello che mi legava a Cornelius per il fatto che il sangue non era lo stesso, ma cominciai a ricredermi in quella sera, in quel laboratorio che sembrava, e di fatti fu, la mia maledizione. Quando l’amore coglie e lo si vede crescere diventa un valore assoluto, pensai ignaro dell’errore che stavo commettendo. Mi trovavo da solo in un fondo scuro e umido senza nessuno a cui appellarmi. Sentii le lacrime rigare le mie guance e scendere fino all’angolo delle labbra. Sono salate, fu l’ultimo pensiero che mi sorprese prima di addormentarmi. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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