La lunga guardia, Stefano Milighetti

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In uscita il 31/10/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2018 (3,99 euro)

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STEFANO MILIGHETTI

LA LUNGA GUARDIA

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA LUNGA GUARDIA

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-240-9 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Laura, luce nelle notti buie.

“Se un umano passasse proprio in questo istante, potrebbe pensare che il mondo è finito, che l’inferno ha vomitato una tra le sue creature più raccapriccianti e brutali. Se un umano passasse proprio in questo istante, la sua vita finirebbe e, nel modo più violento e atroce, capirebbe che c’è qualcosa di più spaventoso dell’inferno stesso.” Eleonora Della Gatta – Il Pooka


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CAPITOLO UNO

Sara riemerse lentamente dallo stato d’incoscienza provocato dall’infuso che suo figlio Jonathan era riuscito a farle bere qualche ora prima. Non che fosse una vera medicina, serviva soltanto per rallentare la mano della morte che aveva iniziato a stringersi su di lei. Un lento mugolio le salì dalla gola, un rantolo strozzato che divenne un basso grido di pungente sofferenza. Il ragazzo, prigioniero in un bozzolo d’impotenza e odio, fissò sua madre: il viso era bianchissimo, le labbra di uno smunto viola simile a fredde striscioline di carne putrescente. I capelli, in passato di un biondo meraviglioso simile a quello dei covoni di grano, erano adesso appiccicosi e sporchi, lerci di fango e sangue. Gli occhi azzurri, spenti e vitrei, sprofondati nell’immensità della sua agonia. Le strinse la mano con delicatezza. Poteva avvertire il dolore di quel corpo ormai prossimo alla fine, e la rabbia, onda gigante che si gonfiava come l'oceano durante l’alta marea, gli provocò una cupa stilettata allo stomaco, tanto che un fiotto di veleno acido gli corrose la bocca. Fu solo grazie a uno sforzo disumano che riuscì a ricacciarlo indietro, imponendosi di non vomitare. Si sentiva impotente, incapace di prendersi cura di Sara come invece lei aveva fatto da sempre, dandogli cibo quando era affamato, proteggendolo quando un qualsiasi pericolo minacciava la sua esistenza. Digrignò i denti, le lacrime si affacciarono all'orlo dei suoi occhi mentre ripensava a quell’abbraccio che si erano scambiati tanti


6 anni prima. Maledicendosi perché era stata l’ultima volta che si era lasciato stringere da Sara, crogiolandosi al calore buono di quell'amore unico al mondo che lega una madre al proprio figlio. Da allora non aveva mai più mostrato, almeno in modo concreto, l’affetto che provava per lei, tenendolo chiuso e nascosto nella parte più profonda e inaccessibile del suo cuore. Sul punto di scoppiare a piangere, ripensò a quando l'aveva vista nuda, distesa a terra, massacrata nella carne, condannata a morte da un attacco che nessuno dei due aveva ritenuto possibile. «Vigliacchi!» esplose Jonathan in un urlo crudo. Sentendo la sua voce, dalla bocca di Sara fuggì un lunghissimo gemito: dolore e paura, il guaito di un animale succube della morte sempre più vicina. Il ragazzo sgranò gli occhi, sorpreso, poi, dopo aver immerso uno straccio in una bacinella piena d'acqua, glielo passò sul viso, rovente di febbre. La donna sospirò di gratitudine e gli occhi vacui riacquistarono una scintilla di vita: era tornata da lui, libera almeno per un po' dal delirio dell’annientamento. Era tornata in sé forse per l’ultima volta. Riuscì ad abbozzare perfino un sorriso, striminzito e tremulo, ma pur sempre un sorriso, labile come una foglia gialla colpita dalla prima tempesta d’autunno. Non riuscendo più a trattenersi, Jonathan iniziò a piangere. «Non piangere» disse Sara con un filo di voce e, come aveva fatto ogni notte per tutti gli anni della sua infanzia poco prima che prendesse sonno, gli passò una mano sul viso. Un gesto di semplice amore materno che le costò una fatica enorme, ma del quale non poteva privare il figlio. Jonathan si chinò su di lei, affondò la faccia sul petto di sua madre, aggrappandosi a lei: l’odore del sangue era terribile, così vivo e penetrante che gli mozzò il fiato in gola. Incapace di trattenersi, pianse un diluvio di lacrime.


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CAPITOLO DUE

Il cielo era oscuro, velato da un denso e impenetrabile drappo di nubi nere. L’aria, in quel primo venerdì di quasi inverno, era fredda. Guardando la nuvoletta che gli usciva dalla bocca a ogni respiro, Italo si rammaricò di non aver indossato il giaccone pesante, quello che di solito metteva di primo mattino, quando usciva di casa per pensare agli animali nel pollaio e nella stalla. Non che fosse freddo come in pieno inverno, tuttavia il brusco sbalzo di temperatura faceva scricchiolare le sue vecchie ossa malmesse. Il 24 ottobre aveva compiuto settantotto anni e, irritante da ammettere, ormai sentiva tutto il peso del lungo cammino che era stata la sua vita. Godeva ancora di buona salute, tuttavia aveva scoperto di sentirsi ogni giorno più stanco e recuperare un po’ di energia diventava sempre più difficile. In quegli ultimi tempi solo il vino riusciva rinvigorirlo, e proprio per questo aveva preso l’abitudine di concedersi sempre più spesso delle consistenti bevute. Non che si ubriacasse, non lo aveva fatto neppure da giovane, ma gli capitava di ritrovarsi quotidianamente in uno stato di dolce euforia alcolica. Un benessere che lo rafforzava per alcune ore, facendogli vivere vecchie sensazioni perdute, anche se, una volta svanito l’effetto, la sofferenza e la depressione tornavano subito a farsi sentire... così ricominciava daccapo, con qualche bicchiere e i bottiglioni che lentamente si svuotavano, vivendo una mesta illusione di benessere e forza che però non sarebbero mai tornate davvero.


8 Sono in riserva, pensò mentre scrutava il buio davanti a sé. Era seduto nella veranda dove lui e sua moglie Gloria avevano trascorso molte sere, parlando della loro famiglia e di tutto quello che gli succedeva intorno, felici come sempre di essere insieme e della vita che stavano vivendo. Avevano fatto perfino l’amore in quel porticato, soprattutto d’estate, quando il silenzio e la dolcezza della notte li avvolgevano come una coperta di seta ricamata di stelle e sogni. Quelli erano però tristi ricordi lontani, di quando era ancora giovane e il futuro appariva pieno di luce e ricco di allettanti possibilità. Grugnì: Gloria era morta e molti dei suoi desideri si erano spenti nel momento in cui aveva visto sua moglie volare giù da quel maledetto dirupo. Era piombata a peso morto nelle pietre sottostanti, dopo un salto di quasi cento metri, e nonostante fossero passati quasi trent’anni, ricordava quel giorno alla perfezione e ogni volta che vi indugiava, il dolore tornava accecante e vivo come se fosse accaduto solo il giorno prima. Immutato e insormontabile. Era morta a quarantaquattro anni, quando lui ne aveva quarantasette e sebbene ci fossero state delle occasioni ghiotte, delle quali solo uno stupido non avrebbe approfittato, non era più stato con un’altra donna perché anche la sola possibilità di andare a letto con una che non fosse Gloria, gli era sempre sembrata una colossale mancanza di rispetto verso di lei. Da allora, dopo che in quella dannata bara non erano stati solo sepolti i resti mortali di sua moglie, ma anche una parte del suo cuore, Italo aveva vissuto come un eremita in quelle grande casa in mezzo al nulla, nel terreno che apparteneva alla sua famiglia da generazioni. All'inizio, quando avevano iniziato a diventare grandi, aveva sperato che i suoi figli portassero avanti il lavoro che era stato suo e prima ancora di suo padre fino ad arrivare a lontani bis nonni, ma Sergio e Pietro non ne avevano voluto sapere di coltivare la terra e allevare


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animali, così, stretto da necessità economiche sempre più pressanti, aveva prima affittato e poi venduto gran parte dei terreni. Sua figlia, Sofia, si era offerta di prendere in mano tutto quanto e sebbene avesse tentato per un paio d’anni, alla fine aveva rinunciato, preferendo una vita di poca fatica accanto a un marito con un impiego in banca. Aveva comunque dimostrato una capacità innata per il lavoro dell’agricoltore, e il suo più grande successo era stata la firma di un contratto con uno zuccherificio: denaro sonante in cambio di barbabietole. Alla fine però, la prospettiva di un appartamento lussuoso e pieno di ogni comodità aveva avuto il sopravvento sul sudore e la fatica del lavoro nei campi. Italo non provava rancore per le scelte dei figli: il mondo era cambiato e loro non avevano fatto altro che adeguarsi ai nuovi tempi. Sergio era finito a fare il chimico per l’esercito, Pietro si era dedicato ai computer, un settore che, come aveva profetizzato, avrebbe rivoluzionato tutto quanto, semplificando la vita di chiunque. E lui, Italo, arrivato alla soglia degli ottanta, viveva in completa solitudine, a ridosso di una proprietà che per la maggior parte non era più sua, struggendosi di ricordi e, come aveva fatto per quasi tutta la vita, montando la guardia. Rabbrividì nell’aria fredda della notte e le mani si strinsero sul fucile che aveva in grembo. Oliato e perfettamente funzionante, carico e pronto a sparare. Perfino il mirino telescopico era nelle stesse perfette condizioni di quando lo aveva ricevuto, più di cinquant’anni prima, prendendosi cura di quell’arma con la stessa devozione e rispetto con cui aveva cresciuto i suoi ragazzi. Dopo la guerra era arrivato l’ordine di riconsegnare le armi, ma lui, come molti altri, non lo aveva fatto. Si era presentato alla caserma dove un giovanissimo ufficiale dall’inconfondibile accento Yankee gli aveva chiesto il nome, quello della sua brigata e che arma avesse.


10 Italo aveva dato delle generalità false per poi mettere sul tavolo un malandato Kar 98K, sottratto al cadavere di un tedesco dopo l’ultima azione, quella che aveva dato un definitivo calcio nel culo ai nazisti. Quel soldato, un giovane sfortunato che non doveva avere neppure venti anni, era stato ucciso da una granata che gli era scoppiata sulla pancia, sbudellandolo. Non ne era certo, ma aveva sempre creduto che fosse stato Mario, detto Il Colibrì, a colpirlo a morte: oltre al Thompson, era riuscito a mettere le mani su una discreta quantità di bombe a mano che aveva scaraventato senza parsimonia contro i nemici in fuga, cercando così di vendicare la sua famiglia che era stata trucidata durante una rappresaglia tedesca. L’americano aveva guardato il fucile senza dire una parola, limitandosi a mettere una sigla accanto al suo nome. Era stato così che il Garand era rimasto con lui ed era stato un bene, non tanto per la Rivoluzione che molti dei partigiani sognavano, ma perché quel fucile così potente aveva fatto la differenza in quel lontano inverno del 1956, quando aveva affrontato il più temibile e spietato tra tutti i predatori. Quella era stata l’ultima grande avventura della sua vita, una caccia che lo aveva fatto sentire vivo e pieno di energia come durante la guerra, quando si era unito ai partigiani e aveva combattuto i tedeschi con spirito di sacrificio e sogni di riscatto nazionale. Ricordava l’esaltazione di quei giorni, così come l’ombra della morte che aleggiava su tutti loro, un alone di pericolo che tuttavia non li aveva mai fatti desistere, neppure quando tutto sembrava perduto e l’esercito invasore prossimo a schiacciarli. Era stata una lotta dura, estenuante e spietata, eppure undici anni dopo Italo si era visto costretto ad affrontare un nemico peggiore dei tedeschi. Qualcosa di così mostruoso che aveva richiesto un atto di coraggio al limite dell’umano per essere fronteggiato. E fatta eccezione per un altro impavido come lui, un reduce dalle palle d’acciaio della Campagna di Russia, nessuno aveva mosso un dito per fermare la minaccia.


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«Fottuti coglioni» bisbigliò ripensando a quei giorni, quando in molti sapevano cosa stesse succedendo, senza degnarsi però di fare niente, nella speranza che la tempesta passasse da sola. Erano stati... Un fruscio appena percettibile lo fece voltare di scatto verso una zona in ombra, dove erano stati piantati degli abeti. Era stato Andreij, un polacco, ad avviare quel particolare tipo di piantagione destinata al mercato degli alberi di Natale. Italo non sapeva quanto potessero fruttare, eppure gli era sembrata un’idea dannatamente buona. L’anno precedente Andreij aveva venduto un centinaio di abeti in appena dieci giorni e alla fine era stato costretto a mandar via la gente perché non ne aveva più. Per evitare che la cosa si ripetesse, quell’anno ne aveva piantati il doppio e da quello che aveva capito, due terzi erano già stati prenotati. Dimenticando però il fiuto per gli affari del polacco, Italo tolse la sicura del fucile e cominciò a scrutare il buio impenetrabile che aveva davanti. Dato che la sua posizione era studiata nei minimi dettagli, per garantirsi il massimo vantaggio tattico possibile, non era solo a due miseri passi dal portone blindato di casa, ma era a portata di mano di un interruttore che gli permetteva di illuminare a giorno un’area di circa cento metri davanti a sé. Senza aspettare oltre, schiacciò il bottone: il passaggio dal buio alla luce lo costrinse a socchiudere gli occhi, offesi da quel cambiamento così brusco. Dopo una manciata di secondi, tanto fu necessario ai suoi occhi per riprendersi, si alzò, avvicinandosi al basso muro della veranda. Socchiuse gli occhi cercando di aguzzare la vista, ma non vide niente. Forse era stato solo un colpo di vento, o qualche animale notturno in cerca di cibo. Magari una volpe o una faina, più probabilmente uno dei tanti cinghiali che popolavano i boschi circostanti. Certo, era possibile, eppure il suo istinto gli diceva che non era così. C’era qualcosa acquattato nel buio, tra quegli abeti. Qualcosa che lo


12 stava fissando, sentiva il peso di quello sguardo. Era una sensazione irrazionale, che però non aveva mai sbagliato: era la stessa che in guerra gli aveva sempre fatto percepire il pericolo ben prima che si manifestasse, dandogli modo di prepararsi e affrontare ogni situazione al meglio delle sue capacità. Aveva avuto il fiuto del cacciatore ed era felice di scoprire che non lo aveva abbandonato. Alzò il fucile, puntandolo nella direzione del fruscio. Sospirò, con il cuore che batteva a un ritmo furioso: aveva montato la guardia per molti anni, ma niente lo aveva mai spinto ad alzare la sua arma con il proposito di sparare. Non era paura la sua, la paura era lontana quella notte, eppure non poteva nascondere una certa ansia: era passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva preso parte a uno scontro e se ci fosse stato da combattere, la sua età poteva giocare a suo sfavore, così doveva prendersi tutto il vantaggio possibile. Strinse i denti, appoggiò il calcio alla spalla e, dopo un respiro profondo, urlò: «Hai dieci secondi per venire fuori, poi comincerò a sparare!». Il dado era stato lanciato. Respirò a pieni polmoni. «Vieni fuori o sparo!» minacciò. Silenzio. «Allora?». Forse non c’è nessuno, pensò mestamente: forse era stato solo uno scherzo dovuto alla troppa stanchezza. Forse, tuttavia… «Conto fino a tre… uno». Un sospiro. «Due». Un altro respiro. «E…». Dal fitto degli abeti emerse un’ombra: aveva le mani alzate. «Molto bene» disse Italo puntando il Garand al centro di quella massa scura. Se avesse fatto un movimento sospetto, avrebbe aperto il fuoco, centrandolo lì dove supponeva ci fosse il cuore di quell’inaspettato visitatore notturno. «Vieni avanti lentamente e mettiti dove ti posso vedere!».


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L’ombra avanzò di qualche passo per ritrovarsi alla luce di un faretto. Vedendo chi era, Italo abbassò subito l’arma. «Ma porco cane!» urlò. «Ti rendi conto che stavo per sparati?». Italo era fuori di sé dalla rabbia. «Sì, lo so, ma non ho potuto resistere». «A fare cosa?». «A vedere la leggenda che monta la guardia». «Tu devi essere matto» sbraitò il vecchio. «Questo non è un gioco brutto coglione, quindi fammi il piacere di andartene!». «Certo» replicò l’altro mentre infilava la mano sotto al giaccone. Vedendo quella mossa improvvisa, Italo rialzò di scatto il fucile; «Ehi, sto solo prendendo le sigarette!» disse subito e, lentamente, tirò fuori il pacchetto. «Posso venire a sedere lì?». «Perché?» domandò Italo con sospetto. Ancora non aveva abbassato l’arma. «Perché dobbiamo parlare, noi due». «Non è una buona idea!» ribatté Italo spazientito. «E poi non c’è niente che tu possa dirmi che…». «Oh, si sbaglia!» lo interruppe con lo stesso tono di voce di chi sta per rivelare un gustoso pettegolezzo. «Mi creda, questo le interesserà... eccome se le interesserà!». E dopo aver acceso una sigaretta, andò da lui.


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CAPITOLO TRE

Tutto era cominciato con un biglietto passato da Pierpaolo a Dario durante l’interminabile quarta ora del martedì, un polpettone massacrante di letteratura latina che ogni settimana sembrava non dover finire mai. Un po' come una di quelle condanne eterne che gli dei amavano infliggere a chi era tanto sfrontato da sfidarli. I due, compagni di banco da sempre, erano appassionati di storie macabre e dell’orrore, un amore sbocciato grazie ai libri di Stephen King: Pet Sematary era stato il loro punto zero e da quel momento non si erano più fermati, leggendo tutto quello che potesse garantire qualche bel brivido e un pungente terrore notturno. Entrambi ritenevano che Le notti di Salem fosse il romanzo horror perfetto, capace di causare palpitazioni anche ai cuori più duri e imperturbabili. Senza farsi vedere dall’insegnante, un ometto che si cullava nell’illusione di mascherare la calvizie con una folta barba sale e pepe, Dario aveva letto il messaggio: stando a quanto Pierpaolo aveva sentito dire, in una precisa notte di ogni mese, lungo una stradina di campagna compariva un funerale fantasma. Una muta processione di spettri con tanto di carrozza e cavalli dagli alti spennacchi. Dopo una marcia di qualche centinaio di metri, il tutto scompariva davanti a una grossa quercia. Dario lesse un paio di volte la storia poi, sullo stesso foglietto, rispose: “Perché davanti a quell’albero?” “Ci hanno impiccato uno!” Dario inarcò le sopracciglia sul punto di scoppiare a ridere: quel “uno” era la definizione più comica di essere umano che avesse mai


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letto. Da chi si vantava di leggere un centinaio di libri ogni anno, si sarebbe aspettato un vocabolario molto più complesso e colorito. Trattenendo le risate, alzò la testa verso la cattedra: il professore stava leggendo un brano che raccontava dell’improbabile inzuccamento di un imperatore romano. Non c’era pericolo che si accorgesse che non stavano seguendo la lezione. Era successo in passato e in quell’occasione aveva sequestrato il foglio per poi leggere ad alta voce la loro brillante discussione: avevano passato più quaranta minuti in un serrato botta e risposta su quale delle loro compagne avesse il culo migliore. Dato che per alcune, come Simona, Ilaria e Serena, c’erano andati giù pesante, trovando impossibile che delle donne avessero delle portaerei nel fondo dei pantaloni, erano morti di vergogna, prendendosi poi un uragano d’insulti dalle dirette interessate. Serena, che combatteva una difficile battaglia contro tutta una serie di problemi alimentari, aveva perfino rifilato un ceffone a Dario. La ragazza, una biondina dalla faccia paffuta, era disperatamente innamorata di lui e quel foglietto le aveva spezzato il cuore. Con un movimento invisibile, si avvicinò all’amico e, in un bisbiglio, disse: «La vuoi sentire una vera storia dell’orrore?». Pierpaolo si voltò verso di lui, tanto che rischiarono di scambiarsi un involontario bacio sulle labbra. «Che vuoi dire?» domandò: la sua faccia era un grosso punto interrogativo. «Se Chiara riuscirà a convincere una persona, ti farò sentire qualcosa che ti toglierà il sonno per un bel pezzo». «Non prendermi per il culo!» sbottò Pierpaolo. «E chi dovrebbe convincere Chiara?». Sul viso di Dario comparve l’allegro sorriso di chi la sa davvero lunga. «Suo nonno» sussurrò gongolando. «Stai parlando di Italo?» chiese Pierpaolo rimanendo a bocca aperta: Italo era considerato da tutti, o quasi, un autentico eroe. Il Presidente


16 della Repubblica in persona gli aveva conferito un’alta onorificenza per quello che aveva fatto nel periodo della guerra e ogni anno, durante la Festa dalla Liberazione, era sempre in prima fila al momento di deporre la corona ai piedi del monumento ai caduti nei giardini pubblici. Pierpaolo ricordava qualcosa a proposito di una polemica scoppiata un paio d'anni prima perché si era rifiutato di stringere la mano al sindaco che, a suo dire, era di idee troppo vicine a quelle che aveva combattuto in gioventù. Il politico, con un sorriso forzato senza però lasciar trasparire il profondo disprezzo che in quel momento stava provando, si era limitato a ribattere che la grandezza dell'Italia stava nel fatto che ognuno fosse libero di pensare e credere in ciò che voleva. In maniera diplomatica si era poi lanciato in un discorso sul valore della Resistenza e sul mondo che ne era seguito, ottenendo così l'approvazione di tutti. «Sì, mio caro!» annuì Dario. «Proprio…». «Allora!» tuonò il professore. «Laggiù, la vogliamo finire?». I suoi occhi erano due piccoli alveari pieni di furore: non aveva mai fatto niente per darne la prova, ma odiava Dario e Pierpaolo con tutto se stesso. Ogni volta che riusciva a rifilargli una sonora insufficienza, magari un voto così basso da mettere in discussione la loro promozione, provava un viscido senso di compiacimento, godendo dello stesso piacere infimo e meschino di quando si concedeva il lusso di una prostituta. Non lo avrebbe mai confidato a nessuno, neppure per avere salva la vita, ma il suo sogno segreto era quello di investirli con la macchina e schiacciare una volta per tutte la loro insopportabile arroganza giovanile. Erano boriosi e menefreghisti, strafottenti verso gli insegnanti e nei confronti della scuola più in generale. Secondo lui, scapolo incallito che odiava le donne tanto quanto quei due studenti, ragazzi come Pierpaolo e Dario non avrebbero dovuto beneficiare dell'obbligo di un’istruzione. Erano luridi figli di puttana che meritavano soltanto di morire, preferibilmente in modo orribile e doloroso. Li avrebbe uccisi anche


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in quell’istante, ma vista la sua posizione e dato che stava pensando di concorrere per un seggio in Regione, si limitò a fulminarli con lo sguardo, relegando al solo mondo dei desideri irrealizzabili l’idea di farli fuori. Naturalmente Dario e Pierpaolo si zittirono subito, chinando la testa sul libro che avevano aperto sul banco. Il professore li guardò per qualche secondo ancora, poi, con evidente disprezzo, ritornò alla sua lezione, riprendendo a leggere da dove interrotto, con un tono di voce che ricordava un punteruolo sfregato su un pezzo di metallo. Un tono che implicava l’assoluto silenzio da parte non solo dei diretti interessati, ma dell’intera classe: anche se i suoi segreti morbosi erano nascosti, tutti quanti sapevano che era soggetto a continui sbalzi d'umore che avevano ripercussioni pesanti nelle prove scritte e durante le interrogazioni. Dopo una manciata di minuti, facendo la massima attenzione, Dario prese il foglietto e scrisse una sola parola: «Fidati!». Pierpaolo lesse il messaggio, aggrottò la fronte e, per niente convinto, annuì.


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CAPITOLO QUATTRO

Erano tutti morti. Erano arrivati al tramonto e Sara era certa che ci fossero proprio tutti, armati di quello che erano riusciti a trovare. Aveva visto lo scintillio di lame e asce, ma anche attrezzi comuni per il lavoro nei campi. Lei si era addentrata nella foresta insieme al piccolo Jonathan in cerca di castagne e bacche. O almeno era quello che aveva detto a sua madre: in realtà aveva bisogno di stare qualche ora da sola con suo figlio, lontana dal chiasso della sua famiglia. Erano più che altro i suoi fratelli, giovani ed esuberanti, che riuscivano a darle fastidio anche solo respirando. La capacità di darle sui nervi aumentava quando erano costretti a stare chiusi in casa per via del brutto tempo e quella mattina erano stati obbligati da un acquazzone a stare davanti al focolare per riscaldarsi. Suo padre, che odiava la pioggia, non aveva fatto che girellare nervoso e irascibile per le tre stanze, imprecando ogni volta che, aprendo la porta, vedeva che la pioggia non la piantava di venire giù dal cielo. Sua madre Katarina, figura quasi invisibile, senza dire una parola aveva sbucciato patate per il pranzo. Era una donna ingrigita, sopraffatta dal peso della sua famiglia, invecchiata prima del tempo. Parlava poco e solo se interpellata direttamente. Per il resto solo muto silenzio e poche sparute preghiere, rivolte agli spiriti della natura e alle forze che governavano il mondo nella speranza di qualche raro beneficio che in realtà quasi mai veniva in suo soccorso.


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Sara provava un profondo affetto per lei, una donna che si era trovata a vivere una vita così dura che alla fine l’aveva schiacciata. Bastava vedere il brutto colorito della sua pelle per capire che ormai le restava poco da vivere e questo la spaventava a morte perché Katarina era la sola donna presente nella sua vita. Aveva cresciuto tre figli e di bambini sapeva praticamente tutto quello che c’era da sapere. Era consapevole che c’era una sfumatura di egoismo nella sua paura, ma ogni volta che la sentiva tossire o si fermava per riprendere fiato, Sara si chiedeva come sarebbe riuscita a crescere Jonathan se lei fosse morta troppo presto. Erano pensieri orribili che Sara cercava di scacciare il più lontano possibile, ma erano anche pensieri che, in definitiva, non l’abbandonavano mai e turbavano costantemente le sue notti. Nel primo pomeriggio aveva smesso di piovere e tutti avevano tirato un sospiro di sollievo. Suo padre e i suoi fratelli erano usciti per andare a caccia. Sara era rimasta con sua madre poi, dopo aver allattato Jonathan, lo aveva avvolto in una coperta ed era uscita. Aveva seguito un sentiero nascosto che l’aveva portata fino a una piccola grotta che si apriva alla base di una cresta rocciosa. Si era seduta, aveva allattato di nuovo suo figlio e si era gustata la meravigliosa solitudine di quel posto. C’erano ossa di piccoli roditori e di qualche lepre. Ossa vecchie: doveva essere stato l’antico rifugio di un predatore. Immaginò un lupo, o più realisticamente una volpe, mentre faceva cadere ai piedi dei propri cuccioli un coniglio appena catturato. Se non avesse avuto Jonathan a cui pensare, avrebbe abbandonato la casa dei suoi genitori per ritirarsi in quel posto, lontano da tutto e tutti. Era un’abile cacciatrice e sapeva riconosce una gran quantità di funghi e bacche: era certa che sarebbe riuscita a sopravvivere senza


20 troppi problemi, ma questa era solo una fervida fantasia perché prima di ogni altra cosa doveva pensare al piccolo. Odiava la casa di suo padre, ma per un bambino era preferibile vivere sotto a un tetto piuttosto che nel cuore della foresta in una caverna buia e fredda. Si era guardata intorno, studiando le pareti di roccia coperte di muschio: era il solo posto al mondo dove si sentiva bene e in pace con se stessa. Dove si sentiva davvero felice. C’era un mucchietto di pietre annerite: qualcuno, chissà quando, si era riparato lì e aveva acceso un fuoco. Sara, con gli occhi della mente, era riuscita addirittura a vederlo: un giovane bello dalla barba folta e nerissima, un ragazzo che stava aspettando l’arrivo della donna che amava. Un posto segreto per un amore segreto, ostacolato dalle rispettive famiglie. In modo inconsapevole, Sara aveva stretto a sé Jonathan: anche il suo amore con Petr era stato osteggiato e tutto ciò che ne rimaneva era il bambino. Petr era morto e, sebbene non ne avesse la certezza assoluta, era sicura che a ucciderlo fosse stato suo padre. Lui, uomo granitico e orgoglioso delle sue origini, non poteva tollerare che la sua unica figlia si fosse concessa a un uomo qualunque. Che avesse buttato via la sua purezza per chi, dal suo punto di vista, era infimo e insignificante come una manciata di mosche. Quando aveva saputo della loro relazione, aveva annunciato a tutta la famiglia che sarebbero rimasti in quel posto per un altro inverno soltanto e che a primavera si sarebbero rimessi in viaggio. «Ci riuniremo alla nostra gente» aveva detto fissando Sara negli occhi. «E ti troveremo un marito vero!». E pieno di rabbia aveva calato la mano sul tavolo. Poi, qualche settimana dopo, Petr era stato ucciso e a Sara si era spezzato il cuore perché era stato un uomo buono che non meritava di essere fatto a pezzi. Era stato capace di farle vedere il mondo in un modo del tutto nuovo, fino ad allora impensabile. C’era sì tanta violenza e brutalità, ma dove era possibile trovare anche l’amore,


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quello puro e disinteressato. Quello che può unire un uomo e una donna per tutta la vita. Un amore che l'aveva riscaldata come mai nessun fuoco avrebbe potuto, amore perduto per sempre a causa dell'ottusità di suo padre. Era rimasta nella grotta finché c’era stata luce poi, al calare della sera, aveva imboccato la strada del ritorno. Era ancora nel fitto degli alberi quando aveva intravisto per primo il bagliore, poi aveva sentito il vociare isterico della gente. Un brusio acuto, stridulo, una massa indistinta di voci sovrapposte, di uomini che urlavano, di donne che gridavano come vittime di un colossale e collettivo orgasmo mistico. Muovendosi furtiva tra gli alberi, un sospetto impronunciabile aveva iniziato a farsi strada nella mente di Sara che, sgusciante come una donnola, si era avvicinata il più possibile a casa e, dal buio della foresta, aveva visto l’orrore che si era abbattuto sulla sua famiglia. La casa stava bruciando e, appesi a un albero, aveva visto penzolare suo padre e i suoi fratelli. Tutti gli abitanti del villaggio, compresi i bambini, fissavano il fuoco che stava divorando la piccola cascina degli zingari. A capo di tutti il parroco, un corpulento pelato che, come fosse una spada, puntava una grossa croce verso le fiamme. Tutti parlottavano, alcuni piangevano di gioia. Sara intravide addirittura una coppia che, al misero riparo di alcuni cespugli, stava facendo sesso in modo selvaggio, probabilmente per sbollire la tensione accumulata durante l’assalto. Sara guardò la scena con gli occhi spalancati, pieni di lacrime. Odiava suo padre per aver assassinato Petr e non sopportava i suoi fratelli, arroganti e stupidi, ma nel vederli appesi a un albero come bestie, si sentì sprofondare verso il basso, nella parte più profonda della terra. Incapace di muoversi, perfino di respirare, paralizzata dal terrore e dall’odio crescente. Sentimenti che però scivolarono verso


22 il panico quando un unico pensiero s’impose su tutti gli altri: dov’era sua madre? Iniziò a boccheggiare, a respirare a scatti, scossa da un tremito scomposto che per poco non le fece perdere la presa su Jonathan, e solo quando si rese conto che il bambino stava per cadere, riuscì a riprendere il controllo di sé. Strinse il bambino al petto e fissò le fiamme fameliche e distruttrici che avevano annientato tutta la sua vita. Pensieri sconclusionati le dissero che forse sua madre era riuscita a mettersi in salvo, a fuggire, e che magari, proprio in quel preciso istante, anche lei era nascosta nella foresta a fissare quel gruppo di dannati assassini, nella speranza che sua figlia stesse bene. Sara si rese conto subito che era solo un’illusione: Katarina era una donna sfinita, consumata dalla vita, svuotata di qualunque forza e con lucidità cinica, si disse che quasi certamente, quando era stato il suo turno di morire, era andata incontro alla fine con remissione, probabilmente presagendo nella morte un’autentica liberazione. Il viso di Sara era un sudario di lacrime, straziata dal pensiero di sua madre che veniva uccisa, magari legata e lasciata a bruciare viva in casa e per poco non si mise a urlare quando sentì la voce del prete tuonare gonfia d’orgoglio: «Oggi abbiamo servito l’Onnipotente! Con le nostre mani abbiamo estirpato il male che si era annidato nella nostra terra… alleluia, alleluia!». La folla rispose in un coro isterico: «Alleluia!». «I figli del demonio sono morti per mano nostra e proprio com’è scritto nel libro sacro, non abbiamo lasciato vivere neppure la strega! Alleluia!». La risposta arrivò immediata e la crudeltà di quelle parole pugnalarono il petto di Sara: sua madre era stata davvero uccisa dalla loro follia. Non avevano risparmiato neppure lei, donna buona che non aveva nessuna colpa, e mentre il sacerdote iniziava a recitare chissà quale preghiera, seguito a ruota dal gregge belante, pianse tutto quello che era possibile piangere. In silenzio, rosa dalla disperazione più nera.


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Finirono di pregare che era notte inoltrata e nel silenzio irreale di quel preciso attimo nel tempo, l’unico suono che si sentiva era quello della casa che finiva di bruciare. E senza che nessuno dicesse niente, alla fine tutti se andarono, soddisfatti, felici di tornare alle loro vite, fatte per lo più di fatica, dolore e miseria. Dopo un periodo indefinibile, Sara uscì dal suo nascondiglio. Guardò il fuoco morente: i tizzoni rischiaravano il buio di un sinistro e disgustoso rosso sangue. In mezzo a quella fornace di odio e distruzione intravide i resti di un corpo carbonizzato. Pianse ancora, odiandoli tutti, uno per uno, augurandosi che quella terra venisse sconvolta dalla guerra e un esercito spietato li sterminasse, che tutte le donne venissero violentate e sgozzate e i bambini, testimoni ed eredi del massacro della sua famiglia, bruciati com’era stato per sua madre. Sperò che la violenza della natura cancellasse quel villaggio dalla faccia della terra e che alla fine se ne perdesse memoria. Si voltò verso i suoi fratelli che oscillavano, smossi da un vento freddo che soffia da nord. Sembrava che la morte li stesse cullando per quell’ultimo sonno eterno. Erano stati due ragazzi arroganti, in molte occasioni prepotenti, ma non le avevano mai fatto del male e l’avevano sempre difesa quando c’erano stati pericoli imminenti. Avrebbe sentito la loro mancanza e guardando quei visi tumefatti, con le lingue a penzoloni, l’odio trovò nuovo vigore. Era stato di sicuro il prete a istigarli, a mettere in marcia quelle persone che, altrimenti, non avrebbero mai trovato il coraggio per agire con tanta brutalità. Sara s’immaginò mentre afferrava la grossa croce e la usava per sfondare la testa di quel porco con la tonaca. Sorrise violenta: era una bell’immagine, piena di energia. Una giustizia divina per colpire quell’uomo che si comportava come se il villaggio fosse un suo dominio. Perfino lei era stata oggetto del suo particolare interesse. Ricordava quando, sorpresa sola lungo un sentiero, le aveva fatto


24 una lunga predica sul bene e sull’amore cristiano e mentre parlava, con sfacciata disinvoltura, aveva cercato di metterle una mano tra le gambe, sollevando la pesante gonna che portava. Colta del tutto alla sprovvista, per un interminabile attimo non aveva opposto resistenza, tanto che il parroco aveva allungato l’altra mano con l’intento di tirarla a sé. Superato lo sconcerto iniziale, Sara aveva calato un pesante ceffone sulla faccia paffuta del prete che, per il colpo ricevuto, era caduto addirittura a terra. Cogliendo l’attimo, Sara era fuggita, deviando attraverso la foresta, sicura che quel dannato bastardo non l’avrebbe inseguita. Quando la fatica aveva cominciato a farsi sentire, si era fermata e, schiacciatasi contro un albero, aveva permesso alla tensione di prendere il sopravvento: aveva vomitato, sporcandosi gonna e scarpe. Era scivolata a terra e lì era rimasta fino a quando si era calmata, giusto il necessario per tornare sui suoi passi. Una volta a casa non aveva detto niente a nessuno e adesso, davanti ai corpi senza di vita dei suoi fratelli, se ne pentì: se avesse raccontato quello che il porco aveva cercato di farle, lo avrebbero ucciso e forse sarebbero stati ancora tutti in vita. Magari costretti a una fuga disperata, ma ancora insieme e soprattutto vivi. Lasciò per ultimo suo padre, l’uomo scorbutico, brontolone e pieno di pregiudizi che l’aveva cresciuta, che le aveva spiegato tutto quello che c’era da sapere su di lei e sulla loro famiglia. L’uomo che le aveva rivelato tutti i loro segreti e, sebbene lo avesse prima temuto e poi disprezzato, nel vederlo impiccato provò un incolmabile senso di vuoto. Di abbandono: non c’era più nessuno che avrebbe diviso del cibo con lei, che l’avrebbe protetta. Era sola, in balia di se stessa e con un bambino da crescere. Rimasta con i soli vestiti che aveva addosso e nient’altro perché tutto era stato divorato dall’incendio. Si chinò a guardare suo figlio, bocciolo rosa di pace e innocenza. Doveva pensare a Jonathan, metterlo al sicuro, ripararlo dal freddo


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della notte e dagli assassini che se solo avessero sospettato che erano ancora lì, avrebbero fatto di tutto pur di uccidere anche loro. Allungò una mano e sfiorò il piede di suo padre in un ultimo, estremo gesto d’addio, poi, nel silenzio di quella notte di morte, si avviò verso la grotta.


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CAPITOLO CINQUE

Dario e Pierpaolo stavano tornando a casa. Gli zaini, lasciati ciondolare su una spalla, erano pieni zeppi di spillette, giusto per dare prova che anche loro si erano fatti catturare dall’ossessione che imperversava nella scuola: la ricerca della spilla perfetta, quella che avrebbe lasciato a bocca aperta tutti gli altri, generando l’ammirazione e l’invidia di ogni studente dell’Istituto. Un ragazzino del primo anno, una foruncolosa mezza sega che rispondeva all’improbabile nome di Romualdo dei Fioripitti, fino a quel momento era in testa all’assurda classifica che veniva aggiornata ogni giorno nel bagno delle ragazze, dove si riunivano tutti i fumatori durante i dieci minuti d’intervallo. Romualdo ne aveva una soltanto, grande come un piattino da caffè. Su uno sfondo completamente bianco era stilizzato il profilo di un corpo femminile, con le curve del seno in risalto. Scendendo giù, lungo un ventre piatto, all’altezza dell’inguine si gonfiava una protuberanza sospetta. La scritta, in rosso scuro, diceva semplicemente: “Il Grande Bluff!”. Con quella spilla, Romualdo dei Fioripitti, che vantava una linea di sangue con i Medici e qualche altra importantissima e ricchissima casata toscana, era diventato il mito indiscusso della scuola, anche se continuava a essere la mezza sega caccolosa di sempre. Anzi, una mezza sega caccolosa che, grazie a quel picco inaspettato di popolarità, aveva tentato di mettersi al passo con i tempi e seguire la moda che impazzava tra i ragazzi, specie tra quelli che erano considerati dei veri e propri “duri”. E Dario e Pierpaolo ne erano ovviamente le punte di diamante.


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Entrambi vestiti sempre di nero, con lunghi giubbotti di pelle che arrivavano fino alle caviglie. Fumavano solo sigarette fatte a mano: solo le ragazze fumavano quelle già pronte. I duri, quelli con le palle, era il loro motto, le sigarette se le facevano da soli. Niente accendino: i tipi tosti usavano i fiammiferi, sempre e comunque. Sul viso gli immancabili occhiali da sole, indipendentemente dal tempo. Al lobo dell’orecchio, rigorosamente il sinistro per non rischiare di essere etichettati come finocchi, due orecchini: un brillantino rosso, simbolo della loro incrollabile fede politica nel comunismo, del quale non sapevano un bel niente, e una campanella d’oro. Anche Romualdo aveva cominciato a vestirsi in quel modo, a rollarsi le sigarette e a mettere due orecchini, con il catastrofico risultato di essere preso costantemente per il culo da tutti. «Che ne pensi della vecchia?» chiese Pierpaolo nella domanda di rito del giovedì: la “vecchia” era Beatrice Spinelli, insegnante di scienze, arzilla signora con tanto di parrucca bionda e dall’età indefinibile. Narrava la leggenda che fosse in quella scuola fin dal giorno della sua apertura, nel settembre del 1907. «Della Mummia?» uno dei suoi tanti soprannomi. «Ovvio, e di chi se no?». «Be’, magari da giovane un colpetto avrei potuto darglielo» rispose Dario da prassi. «Adesso però le darei un bel colpetto tra capo e collo!». E giù, entrambi a ridere come se fosse lo scherzo più nuovo e divertente del mondo. «Alla Bertaldi invece…». E si cimentò in un risucchio d’aria lussurioso a labbra strette che avrebbe fatto invidia al più navigato e buongustaio degli Hannibal Lecter. Maria Bertaldi, giovanissima insegnate di filosofia, era il sogno erotico di ogni uomo della scuola. Proprio per questo era invece detestata da tutte le donne. Chioma nera fluente, il fisico era perfetto e gli occhi di un verde così luminoso che avrebbero fatto perdere la


28 testa a chiunque. Il viso era dolce e grazioso e ricordava vagamente una Marylin Monroe all’apice della sua bellezza. Pensando entrambi al corpo meraviglioso della Bertaldi, continuarono a camminare, attraversando il labirinto di vicoli che li avrebbe riportati a casa: abitavano l’uno a cento metri dall’altro e l’andata, così come il ritorno da scuola, era una passeggiata che facevano rigorosamente assieme. «Vieni oggi al lampione?» chiese Dario riferendosi al ritrovo abituale del loro gruppo di amici: una piccola piazza nascosta tra i vicoli del centro storico e resa pittoresca dalla presenza di un vecchio lampione a gas. Non funzionava, però nessuno lo aveva mai tolto, così con il passare dei decenni era diventato un piccolo oggetto d’antiquariato urbano. Anni addietro era apparso perfino un articolo sul giornale per festeggiare il secolo di quel buffo dito di metallo. C’era stata anche una foto con chissà quale assessore che sorrideva come un idiota mentre si appoggiava con disinvoltura al lampione. Pierpaolo esalò l’ultimo tiro di sigaretta, poi lanciò il piccolo mozzicone verso un tombino, mancando il bersaglio. «Oggi non posso» rispose seccato. «Domani ho l’interrogazione di biologia… e da quando è iniziata la scuola non ho mai aperto il libro! Non so neppure quello che abbiamo fatto finora». «Allora, vecchio mio, sei nella merda fino al collo!» sentenziò Dario in tono lugubre. «Il piccolo farabutto ha già fatto nove capitoli ed è tutta roba balorda!». «Grazie per l’incoraggiamento» replicò Pierpaolo: detestava la biologia. A lui non importava niente delle cellule, del pancreas o dell’apparato di Golgi. Era un grande appassionato di storia dell’arte e considerava tutto il resto un’inutile perdita di tempo. Un ammasso di informazioni che nella vita non gli sarebbero mai servite. Il suo sogno segreto era quello di fare il postino ed era risaputo che per consegnare buste e pacchi non servivano di certo delle nozioni di biologia.


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«Sarebbe stato peggio se ti avessi detto una balla!» si difese con aria saccente Dario. «Almeno adesso sai quello che ti aspetta» e sghignazzò divertito. «Un durissimo pomeriggio di studio infruttuoso!». Pierpaolo lo guardò per poi alzare il dito medio. «Vaffanculo!». «Grazie Amigo!» e alzò a sua volta il medio. «Dimmi un po’, con Chiara come va?» chiese Pierpaolo che ovviamente sapeva che con la ragazza non era riuscito, e non sarebbe mai riuscito, a combinare niente. «Ehi, dammi tempo e vedrai che presto riuscirò a farle la festa! Me la sto lavorando a puntino e sono sicuro che prima di Natale riuscirò a farmela». Pierpaolo lo guardò con un sorriso sornione: aveva le stesse possibilità di portarla a letto tante quante ne aveva di arrivare in America camminando sopra l'Atlantico. Per Chiara, considerata da tutti e per ammissione unanime la più grande figa dell’universo, Dario era un amico degno delle sue confidenze, non del suo corpo. Tra i due si era instaurato un legame che assomigliava molto a quello tra un fratello e una sorella, anche se Dario continuava a illudersi sulle sue reali possibilità e continuava a struggersi d'amore per lei. «Intanto che cerchi di toglierle le mutande» replicò Pierpaolo, «vedi di lavorartela anche per quell’altra faccenda». «Glielo chiederò oggi pomeriggio» disse laconico. «Dario non prendermi per il culo!» sbottò Pierpaolo. «Sono due settimane che non fai altro che dirmi che glielo chiederai oggi pomeriggio!». «Ma stavolta è vero!» e sottolineò quell'intenzione raccontata un centinaio di volte con un grande sorriso da presa in giro. Erano molto amici, ma quando c’era di mezzo una donna, o meglio quando c’era di mezzo Chiara, Dario non capiva più niente, diventando un egoista inaffidabile bastardo e Pierpaolo detestava


30 quest’aspetto del suo carattere, anzi, per dirla fino in fondo, anche in quel preciso istante aveva una grande voglia di prenderlo a pugni. La curiosità lo stava divorando e non vedeva letteralmente l'ora di sentire quello che l'amico aveva definito un autentico racconto del terrore. «Mi auguro che sia vero, sennò te la farò pagare! Lo giuro su…». «Su chi?» lo interruppe ironico l’altro. «Visto che ti definisci ateo, se giuri su Dio, il tuo giuramento non avrà alcun valore!». Pierpaolo lo guardò di traverso e alzò per la seconda volta il dito medio e disse: «Sei proprio una testa di cazzo!». «Felice di esserlo, mio caro, comunque non cambiare discorso! Su chi giuri?». Pierpaolo sbuffò poi, illuminato, rispose: «Lo giuro sulle tette di Xena!». Dario lo guardò compiaciuto, annuendo. «Allora oggi le parlerò sul serio». «Sarà utile» replicò Pierpaolo. «Ti chiamo dopo cena». Dario annuì, pensando con avidità al seno di Lucy Lawless imprigionato nel meraviglioso corsetto della sua armatura e a come gli sarebbe piaciuto frugarci dentro, prima con le mani, poi con la bocca. I due si salutarono e, mentre Pierpaolo apriva il portone, Dario cominciò a fischiettare l'inconfondibile ritornello di As long as You love me dei Backstreet Boys. Pierpaolo fece una smorfia: che senso poteva mai avere atteggiarsi da duri se poi Dario cascava sulla canzonetta di un gruppo apprezzato quasi esclusivamente dalle ragazze? Scosse la testa ed entrò in casa.


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CAPITOLO SEI

Gli animali avevano cominciato a morire più o meno quando l’inverno era giunto alla fine, uccisi nelle loro stalle. Erano morti maiali, pecore, mucche. Era stata fatta una vera e propria mattanza di cavalli, animali possenti e meravigliosi, alcuni dei quali erano campioni del palio più conosciuto d’Italia, quello di Siena, e venivano allevati da una ricca proprietaria terriera appassionata di equitazione. Poi, con l’estate, era stata la volta degli esseri umani. Il primo era stato un ragazzo di quindici anni, ritrovato nella vigna del podere dove lavorava con suo padre e i suoi fratelli. Si chiamava Giovanni e aveva una storia segreta con Rachele, la figlia del fattore. Erano giovani amanti e niente più: appartenevano a due classi sociali così lontane che solo un miracolo avrebbe reso possibile un matrimonio. Entrambi ne erano consapevoli e proprio per questo non ne avevano mai parlato. I loro erano incontri di sola carne, di solo piacere, tutto il resto non aveva nessuna importanza. Alcuni sapevano di quella insana relazione, ma il solo che aveva tentato di mettere in guardia il ragazzo era stato Fulvio, suo padre. Gli aveva parlato nella speranza che capisse al volo e la facesse finita con quel gioco che alla lunga poteva bruciare non solo lui, ma l’intera famiglia. «Stai attento a quello che fai» gli aveva detto una notte. «Ci sono sbagli che posso portare a grossi guai e quello che fai con Rachele...», e nel dire il nome della ragazza aveva abbassato la voce, quasi come se temesse che il fattore potesse sentirlo nonostante


32 fosse lontano, «...è uno sbaglio gigantesco. Smetti finché sei in tempo!». La saggezza era quella di un uomo che aveva vissuto un’esistenza segnata dal sudore della sua fronte e dalla consapevolezza che per gente come loro non c’era alcuna possibilità di riscatto. Se la ragazza fosse rimasta incinta ne sarebbero stati travolti come da una valanga e solo Dio sapeva cosa sarebbe successo. Il ragazzo aveva annuito, promettendo al padre che non l'avrebbe più incontrata. Come c’era da aspettarsi, erano state solo parole vuote: Giovanni e Rachele avevano continuato ad andare a letto insieme. Ed era successo anche la sera prima, quando si erano dati appuntamento nel solito posto, un piccolo capanno sul fondo del vigneto dov’erano custoditi gli attrezzi per la vendemmia. Lì avevano fatto l’amore due volte, sconvolti dall’estasi dei sensi e dal sapore proibito che questi lasciavano nelle loro anime. Dopo un bacio fugace, si erano separati con la promessa di rivedersi la sera dopo. Era uscita per prima Rachele, poi, dopo qualche minuto, anche Giovanni se ne era andato. Lei era arrivata a casa senza nessun problema, Giovanni invece era morto. La mattina, quando Fulvio aveva visto il letto vuoto di suo figlio, non si era preoccupato più del dovuto: era successo più di una volta che tornasse a dormire, ripresentandosi giusto in tempo per andare al lavoro. Poi però era stato trovato il cadavere e il terrore si era abbattuto su quella fattoria come il dito di Dio che piomba dal cielo per incenerire una città intera. Giovanni era riverso a terra, la gola squarciata, il ventre aperto. Sangue e budella dappertutto. La notizia si era sparsa velocemente e, tra i tanti, accorse anche Italo: conosceva Fulvio da una vita. L’uomo, distrutto dal dolore, era seduto in disparte, lontano da tutto e da tutti, all’ombra di un grosso salice.


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Italo andò da lui per offrirgli il solo tipo di conforto che poteva dare: si accovacciò vicino all'amico e gli passò le sigarette. Fulvio ne accese una e, con la voce rotta dal pianto, confidò di sentirsi in colpa: non si era preoccupato perché non era la prima volta che Giovanni passava la notte fuori casa. Rimasero in silenzio, senza dire altro, Fulvio a rimuginare sul suo dolore, distrutto dalla disperazione, Italo turbato per quello che era successo: era sempre stato un paesino lento e sonnacchioso, dove non succedeva mai niente di grave o di pericoloso. Da quello che ricordava, era la prima volta che qualcuno veniva ucciso in modo così brutale dalla fine della guerra. Finirono di fumare poi, dopo avergli appoggiato un braccio sulla spalla in segno di vicinanza, Italo andò via, voltandosi per un ultimo saluto a Fulvio. Era un uomo avanti con gli anni, diventato padre di Giovanni quando ne aveva cinquantadue e aveva amato quel figlio inaspettato fin dal primo istante. Italo non poteva saperlo, ma l’amico non si sarebbe mai ripreso e di lì a sei mesi un infarto misericordioso avrebbe messo fine alla sua tragedia. Volutamente, Italo passò accanto a dove Giovanni era stato ucciso. Il corpo era stato rimosso, eppure chiunque avrebbe capito che in quel punto era stato massacrato un essere umano. C’era sangue e, guardando bene, notò alcuni pezzi di carne e brandelli di stoffa tra i ciuffi d’erba nel terreno. L'ultima volta che aveva visto qualcosa del genere risaliva ai tempi della brigata e fu costretto a trattenere un conato: nonostante il cadavere non ci fosse, la scena era ancora raccapricciante. Si chinò per osservare il terreno: c’erano impronte, tracce di scarpe, scarponi, zoccoli, stivali di tutti quelli che erano stati lì. Niente d’insolito insomma, niente che potesse spiegare cosa fosse successo la notte precedente. Qualcuno, non sapeva chi, poco più in là stava dicendo che avrebbero dovuto aspettarselo che prima o poi sarebbe successo.


34 «Porco cane» stava sbraitando un uomo voltato di spalle. «Insomma, con tutte quelle bestie morte… mi sorprende che non sia successo prima!». Il gruppetto intorno a lui annuì. «Sappiamo tutti quello che sta succedendo!». Ma a quelle parole, nessuno si sentì in dovere di aggiungere altro. Anche Italo pensava la stessa cosa, anzi, a volte, quando di notte era disteso nel letto e non riusciva a prendere sonno, la sua mente gli suggeriva possibilità terribili che però di giorno riusciva non solo a ignorare, ma addirittura a negare di aver pensato. Nella sua vita aveva visto delle cose raccapriccianti, al limite del possibile, tuttavia quello che mormorava il suo cuore non solo era impossibile, bensì surreale. E lui, per esperienza, aveva imparato che ciò che era impossibile, il più delle volte si rivelava per quello che era: una grande, immane e gigantesca stronzata. Tuttavia, duro da accettare, quello che aveva davanti agli occhi, suggeriva l’esatto contrario. Passandosi una mano tra i capelli in un gesto di sconforto estremo, si rimise in piedi e, in quel momento, salendo dal basso verso l’alto, lo vide. Le viti erano sostenute da lunghe bande di fil di ferro, un sostegno utile e necessario grazie al quale le piante potevano crescere vigorose eludendo la forza di gravità. Impigliato in una giuntura tra il fil di ferro c’era un grosso ciuffo di pelo nerissimo. Italo lo fissò: erano peli lunghi e grossi, simili al crine di cavallo. Nel colore però c’era qualcosa di sbagliato: un nero così intenso, così buio da sembrare innaturale. Per un attimo gli tornarono in mente le striature nere causate del fuoco di un’esplosione. Si guardò intorno a disagio: con gli occhi della mente vide cos’era successo in quella vigna. Giovanni stava tornando a casa, stanco ma felice dopo il suo incontro con Rachele, pensando al corpo della ragazza e probabilmente all’incontro del giorno dopo, quando si sarebbe di nuovo ubriacato di lei. Perso insomma in quei pensieri buoni e caldi che hanno tutti gli adolescenti dopo una piacevole scopata.


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Tra i filari c’era però qualcosa che lo braccava, un predatore silenzioso e invisibile, che aveva nel buio della notte il suo elemento naturale. Strisciava furtivo e silenzioso, sottovento, per non far percepire in nessun modo la sua presenza. L’assalto si era consumato in quel punto, scattando dal basso verso l’alto, prendendo Giovanni alle spalle. Tutto il resto era noto. Italo prese il ciuffo, ne testò la consistenza con le dita: peli duri, compatti e solidi come setole. Aveva inarcato le sopracciglia, pensieroso. In tutta la sua vita, fatta di caccia e guerra, non aveva mai visto niente del genere. Se lo mise nella tasca dei pantaloni e, ignorando ancora una volta pensieri che urlavano di essere ascoltati, si avviò verso casa. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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