In uscita il 20/7/2018 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2018 ( ,99 euro)
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CLAUDIO PAGANINI
LA MANO DEL DESTINO
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni
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LA MANO DEL DESTINO
Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-221-8 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Luglio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Credo che l’inizio di quest’incredibile storia possa attribuirsi, con ogni probabilità, a quell’episodio della mia infanzia, di tanto tempo fa, da essere reputato poco attendibile. Eppure posso affermare, con tutta sincerità, che quello è in assoluto il primo ricordo nitido della mia memoria, quello a cui si sono legati tutti gli altri, anno dopo anno, fino a oggi.
CAPITOLO 1
Avevo quattro anni appena compiuti, ne sono certo, anche perché quello che stavo per vivere era il regalo per il mio compleanno: una giornata spensierata allo zoo con tutta la mia famiglia e i miei amichetti. Al chiosco, posto all’entrata del parco, avevamo comprato tutto l’occorrente per trascorrere una fantastica giornata. Sarebbe stata un’avventura ricca di scoperte entusiasmanti, o così almeno, appariva ai miei giovani occhi quell’assolata mattina d’inizio estate. Visitammo lo stagno, ricco di uccelli variopinti, che riempivano l’aria con i loro versi striduli e i recinti con gli elefanti e gli altri animali esotici, tutti intenti a osservarci e a prendere il cibo che gli offrivamo, con tanta generosità, con dignitoso distacco. Lasciammo la parte dello zoo più interessante, quella degli animali feroci, per il pomeriggio, quando saremmo stati riposati e sazi dopo un pranzo all’aria aperta in uno dei punti ristoro del parco. Ricordo l’eccitazione e la gioia per quella splendida giornata, gli occhi meravigliati dei miei amichetti che potevano osservare, per la prima volta nella loro vita, animali tanto grandi e possenti e il compiacimento dei miei genitori e di quello dei miei compagni per la riuscita di quella festa. Nulla poteva far presagire cosa sarebbe accaduto da lì a poco. In quel momento si sentivano solo le risate di noi bambini e le chiacchiere a mezza voce degli adulti, il tutto arricchito dalla cacofonia del mondo animale che ci circondava. Accadde tutto in un istante, senza il minimo preavviso, senza che nessuno – nemmeno io – potesse intuire cosa stava per succedere. Mi sentii improvvisamente strano, come se il mondo intorno a me avesse cominciato a girare all’impazzata. Non era un semplice capogiro, ma una sensazione netta, precisa, di qualcosa che stava cambiando. Smisi di giocare e andai a sedermi sotto a un grosso albero, all’ombra. Rivivo quegli istanti come se fossero successi ieri e ancora mi meraviglio di come potessi non essere spaventato da quello che mi stava succedendo. Il giramento piano piano diminuì lasciando un senso di attesa, un’ansia appena percettibile che non riuscivo a scacciare. Mio padre e mia madre erano poco distanti, seduti sulla coperta che avevamo adoperato per il pic-nic, del tutto ignari di come mi sentissi. Percepivo la loro allegria e il piacere che provavano nel chiacchierare con i loro amici, come se li
stessi provando io, e questo contribuì a calmarmi. Avevo ancora tutto un pomeriggio intero per divertimenti, compresa la visita alle bestie feroci e nulla avrebbe rovinato la gioia che provavo, o almeno così credevo. Intanto, in un recinto lontano, anche qualcun altro era inquieto, nervoso. C’era qualcosa nell’aria, una vibrazione, un odore forse diverso dal solito che confondeva i suoi sensi. Non era una sensazione di pericolo, di questo era certo ma nonostante ciò, si sentiva inspiegabilmente agitato. Le femmine del suo branco ne avevano percepito l’umore e si tenevano a debita distanza, spaventate da quel repentino mutamento. Loro non avvertivano nulla d’insolito e questo contribuiva a rendere la situazione ancora più strana e pericolosa. Improvvisamente un possente ruggito si contrappose allo stridente frastuono di quel pomeriggio, facendo piombare, improvvisamente, il parco in un angoscioso silenzio innaturale. Non so cosa mi spinse ad alzarmi né tantomeno la ragione per cui mi diressi senza indugio verso la fonte di quel temibile rumore. Sentivo che qualcosa, o qualcuno, mi stava attirando verso un luogo preciso, verso un incontro che avrebbe cambiato la mia vita per sempre. Il recinto dei leoni era più in basso rispetto al sentiero che lo costeggiava, una sorta di enorme vasca circondata da un’alta palizzata che avrebbe dovuto impedire ogni contatto tra gli esseri umani e le belve feroci al suo interno. Nessuno mi aveva seguito quando mi ero allontanato dal gruppo, né aveva cercato di fermarmi quando, aggrappato alle sbarre della recinzione, ero stato per diversi minuti a osservare attentamente uno per uno gli animali che vi erano confinati. Percepivo il loro nervosismo e sapevo che il motivo della loro inquietudine ero proprio io. Uno in particolare sembrava essere stranamente interessato alla mia presenza. Un grosso maschio, dalla criniera lunga e folta, continuava a fissarmi emettendo un impercettibile brontolio dalle fauci appena socchiuse. Era un animale veramente enorme, fiero e possente nonostante la sua prigionia. La sua pelliccia gialla, con riflessi rossicci, sfumava in un marrone scuro intorno al collo, mentre la coda, lunga e nodosa, frustava impaziente l’aria. “Dev’essere morbido…” ricordo di aver pensato mentre m’impegnavo con tutte le mie energie a scavalcare l’unica barriera che mi separava da lui. I suoi occhi giallo ambra fissavano i miei, attenti a ogni mia mossa. Erano bordati di nero, con una pupilla tonda che si stringeva e allargava a seconda dell’intensità della luce. Erano occhi stranamente benevoli, o almeno così mi apparivano in quel momento. Ancora oggi non ho idea di come potessi cogliere tutti quei particolari mentre mi accingevo a fare una cosa così apparentemente assurda, ma avevo i sensi completamente
focalizzati sull’essere che mi stava aspettando poco più sotto e di una sola cosa ero certo: non ne avevo paura. Il salto nel recinto non fu proprio da manuale, ma riuscii, non so come, a non farmi seriamente male. Solo alcune abrasioni alle ginocchia e a un gomito testimoniavano quanto fossi stato fortunato fino a quel momento. Visto dal basso, infatti, il muro del recinto, e la relativa recinzione, sembravano molto distanti, irraggiungibili perfino per la possente muscolatura dei grossi felini che vi erano confinati. Atterrai vicinissimo all’animale che mi stava osservando. Non si era scomposto durante la mia caduta, nemmeno un accenno di movimento. Continuava a fissarmi con le fauci leggermente aperte, la lingua appena visibile tra due file di denti esageratamente grandi e appuntiti. Sentivo il suo fiato caldo arrivarmi direttamente sul collo, ma quello che più mi sorprese, fu la consapevolezza dei suoi pensieri nei miei confronti, quasi come se io fossi lui e lui me. Mi voltai e, per la prima volta nella mia vita, mi trovai davanti a un animale tanto bello quanto maestoso. Nessuno si era ancora accorto di quanto stava succedendo. A quell’ora i turisti erano ancora intenti a pranzare e quasi nessuno percorreva i vialetti del parco. Quella quiete apparente, tuttavia, non sarebbe durata a lungo: presto mi sarebbero venuti e cercare ed era solo questione di tempo prima che qualcuno si accorgesse di un bambino dentro all’habitat dei leoni. Il tempo sembrava essersi fermato. Non avevo ancora capito cosa mi avesse spinto a fare una cosa tanto stupida e, probabilmente, visto che avevo solo quattro anni, non avevo perso un minuto a cercare di capirlo. Mi trovavo dove dovevo essere, né più né meno e solo questo contava, perché lì, ne ero sicuro, avrei trovato la prima di tante risposte a domande che dovevo ancora formulare. Non tutti però sembravano così benevoli nei miei confronti. Le leonesse, forse attratte dall’odore del mio sangue o semplicemente infastidite dalla mia invasione nel loro territorio, corsero verso di me. Le fauci spalancate, ostili ogni oltre misura. Non ebbi tempo di pensare, né di spaventarmi, perché quello che accadde in seguito fu davvero istantaneo. Il leone balzò in piedi e si frappose tra me e le sue compagne. Il ruggito che saliva dalla sua gola era ben diverso da quello che avevo udito fino a quel momento e crebbe d’intensità, fino a squarciare l’aria immobile che ci circondava. Sentivo la pelle vibrare a causa di quel suono tanto potente e, per un attimo, mi sembrò di vedere le leonesse attraverso gli occhi del mio possente salvatore che indietreggiavano impaurite da quell’improvviso e inaspettato impeto di violenza nei loro confronti. Non ci fu un secondo avvertimento. Le femmine si allontanarono da noi, retrocedendo lentamente fino a scomparire dalla nostra vista e, solo allora, sentii i muscoli del mio nuovo amico rilassarsi.
Il frastuono aveva però richiamato l’attenzione di tutti quelli che erano nelle vicinanze e non ci volle molto prima che le urla degli spettatori riempissero l’aria. «Un bambino… c’è un bambino nel recinto dei leoni!» «Mio Dio! Qualcuno faccia qualcosa, chiamate i custodi, presto!» «Johnny, quello è il mio Johnny… Dio mio non ti muovere tesoro, veniamo a prenderti…». La voce di mia madre, come quella di tutti gli altri, sembrava un’eco portato dal vento, tanto lontana quanto incomprensibile. L’unica cosa importante eravamo noi, uno di fronte all’altro, tanto diversi quanto uniti in quel momento in una sintonia totale, quasi mistica. Nell’istante in cui le mie braccia gli cinsero il collo, riuscii a percepire il calore e la morbidezza della sua pelliccia, il suo corpo vigoroso. Non mi curavo del fatto che avrebbe potuto uccidermi, chiudendo le sue zanne sul mio collo, lì, a pochi centimetri dai suoi denti. Non lo fece… anzi, inclinò il capo verso di me, strusciando il suo viso contro il mio. Percepivo chiaramente i suoi pensieri, semplici nella loro complessa primordialità, benevoli e protettivi nei miei confronti, nonostante fosse la prima volta che mi vedeva. Lo accarezzai e lo abbracciai a lungo, mentre la folla, lentamente, ammutoliva di fronte a uno spettacolo così innaturale, incredula a quello che i loro occhi stavano vedendo. Fu lui che, delicatamente, con la punta del muso, mi spinse verso i custodi che erano accorsi in mio aiuto, accompagnandomi quasi per tutto il tragitto che mi separava dalla salvezza. Rimanemmo ancora per un istante vicini, i miei occhi nei suoi, i suoi pensieri nei miei, le mie braccia strette attorno al suo collo, mentre la sua lingua ruvida, così grande, mi leccava tutta la faccia. Fu il suo modo di salutarmi. Lo vidi girarsi e allontanarsi lentamente verso le sue compagne e, solo quando la sua testa si voltò verso di me per un ultimo saluto, capii che non l’avrei mai più rivisto. Da quel giorno mi fu vietato di avvicinarmi a qualsiasi cosa fosse più grande di un cucciolo, ma il suo sguardo, la dolcezza della sua anima, mi accompagnarono per tutta la vita fino a oggi.
CAPITOLO 2
I giornali parlarono a lungo dell’accaduto e così pure tutte le persone che conoscevamo, a partire dai vicini, fino all’ultimo dei conoscenti. Nessuno sapeva darsi una spiegazione di quanto era successo, del perché un bambino così piccolo fosse finito nel recinto dei leoni né del motivo per cui ero ancora vivo, nonostante il fatto che quelli non erano animali addomesticati. Si parlò di evento eccezionale, del fatto che le fiere fossero sazie del pasto appena consumato, perfino di intervento divino, ma nessuno arrivò minimamente a capire cosa realmente fosse accaduto. Neanche io, d’altronde, avevo le idee molto chiare. I miei ricordi somigliavano più a un sogno, come se tutto quello che avevo vissuto non fosse altro che una mia fantasia. Avevo un ricordo chiarissimo, cristallino di ogni singolo istante, ma la mia convinzione che fosse una cosa del tutto naturale era in netto contrasto con quello che asserivano gli adulti che mi interrogavano sull’accaduto, per cui cominciai a credere anch’io che non esistesse spiegazione razionale a quello che mi era successo. Empatia istintiva. Avrei scoperto molto più tardi che cosa significavano quelle oscure parole, troppo difficili per un bambino come me, impossibili anche solo da concepire per la maggior parte degli adulti, ma non per i miei genitori, ancora troppo spaventati per capire che quello era solo l’inizio di qualcosa più grande di tutti noi. Loro sapevano benissimo di cosa si trattava, anche se nessuno dei due l’aveva mai sperimentata a quei livelli. Le loro esperienze si erano limitate a brevi interazioni con gli animali domestici che avevano in casa, più raramente con amici o conoscenti. Percepivano i loro stati d’animo, le loro paure, le loro preoccupazioni e, a volte, erano perfino riusciti a interagire con loro, a rassicurarli, a tranquillizzarli. Non erano preparati a uno sfoggio di capacità istintive a così alto livello e, sul momento, non avevano riconosciuto le mie doti, le avevano volutamente ignorate, preferendo cercare risposte più plausibili, più razionali. Qualcun altro, però, era di diverso avviso. Qualcuno che al momento preferiva agire nell’ombra, lontano da occhi indiscreti, dalle attenzioni
che la gente, morbosamente, manifestava nei miei confronti. Pazientemente in attesa di ulteriori conferme. I giorni passarono, e così pure i mesi. Un velo d’oblio calò su di me e su tutta la faccenda e la gente cominciò a dimenticare, presa da altre vicissitudini che la vita, così prodiga, regalava loro. Anche tra i miei compagni di gioco tutto tornò come prima, tanto che nessuno parlò più di quello che era successo allo zoo. Tutto normale e tranquillo, tranne che per un piccolo particolare: ero io che ora mi sentivo diverso, cambiato. Dapprima in modo impercettibile, poi sempre più radicalmente, fino a raggiungere la consapevolezza che quello che mi era successo non era un caso. Non ero l’unico a pensarla così. Inavvertitamente avevo messo in moto una catena di eventi che avrebbe cambiato la mia vita per sempre ma, nell’inconsapevolezza della mia giovane età, tutto ciò mi sfiorava appena, troppo preso a esplorare quel magico mondo che mi si era appena spalancato innanzi. Quel nuovo modo di percepire la realtà che mi circondava era, allo stesso tempo, entusiasmante e oscuro, a volte perfino spaventoso. Ero intimorito dal modo in cui riuscivo a sentire lo stato d’animo delle persone, le loro ansie, le gioie ma, molto più spesso, le paure e i dolori che le affliggevano, che le tormentavano. Fu un periodo poco felice della mia vita, caratterizzato da sbalzi d’umore incontrollabili, da alternanze di cupi pensieri e momenti di euforia. Tutto spiegabile con il trauma dell’esperienza appena vissuta ma che, con il passare del tempo, preoccupò seriamente i miei genitori. «Cos’hai tesoro mio?» continuava a chiedermi la mamma. Io vivevo la sua preoccupazione come se fosse mia, come se la pena che attanagliava il suo cuore fossi io a provarla e non lei. Un dolore lancinante che mi straziava il cuore. Piangevo per quel sentimento così intenso, mi disperavo senza poterne dare una ragione plausibile e questo non faceva altro che aumentare la sua apprensione e, di conseguenza, aggravare il mio stato emotivo già molto provato. «Dimmi cos’hai, ti prego. Fammi capire perché ti disperi così, perché sei così tormentato…». Fuggivo via, lontano da tutto quel dolore non espresso, dalla fonte involontaria dei miei malesseri, dalla persona che avrebbe voluto aiutarmi ma che era l’unica a non poterlo fare, non nelle sue attuali condizioni. Solo quando ero lontano da tutto e da tutti, la mia sensibilità acquisita diventava un dono e non una maledizione. Il mondo che conoscevo, improvvisamente, si riempiva di suoni, di colori e profumi che solo io riuscivo a sentire. Sensazioni strane ma eccitanti, che assorbivano ogni fibra di quella parte di me stesso che nessuno riusciva a capire, me compreso.
Questi furono i miei primi anni di vita, vissuti nell’inconsapevolezza e nello stupore, in un universo di novità eccitanti e, a volte, spaventose di cui io solo ne conoscevo l’esistenza. Una sorta di strano potere che mi permetteva di capire i pensieri della gente, i loro stati d’animo e che si evolveva giorno dopo giorno rendendomi capace, alla fine, di decidere chi o cosa sentire, escludendo tutto il resto dalla mia mente. Fu comunque un’infanzia solitaria, con poche amicizie e altrettante poche occasioni di farne di nuove. Ero considerato un solitario, un bambino chiuso che difficilmente dava confidenza, poco incline alle attività di gruppo, che amava isolarsi in un mondo tutto suo, in una sorta di “autismo cosciente”, che però mi aveva permesso di non impazzire nelle prime fasi di apprendimento delle mie nuove capacità. Anche i miei genitori, dapprima molto preoccupati, finirono per abituarsi al mio nuovo carattere e, con il tempo, non ci fecero quasi più caso. Ero comunque un bambino pieno di salute e di energie, che amava stare all’aria aperta, che adorava gli animali e dai quali era profondamente amato, disponibile e obbediente. Ero quasi perfetto nella mia asocialità. Fu a scuola che le mie capacità presero una piega inaspettata. Scoprii in modo del tutto casuale che il mio talento non si poteva paragonare a una tavola uniforme, liscia e piatta, ma somigliava sempre di più a un cristallo, che di volta in volta si arricchiva di nuove sfaccettature, la prima delle quali si manifestò una tiepida mattina di primavera, proprio nel cortile della scuola, nell’ora dell’intervallo. Un cane randagio, enorme e sporco, era riuscito chissà come a varcare la recinzione del complesso scolastico ed era rimasto nascosto tutta la mattina tra le siepi che costeggiavano la cancellata del giardino. Nessuno l’aveva notato fino all’ora della ricreazione, quando i bambini e le maestre erano scesi nel piccolo parco della scuola per fare merenda. La giornata era limpida e assolata ma nonostante ciò, l’aria rimaneva piacevolmente fresca. Subito le grida e le risate degli alunni avevano riempito l’aria di un allegro frastuono e il profumo delle merende si era mischiato all’odore dei fiori appena sbocciati. Io mi sentivo inquieto, ansioso, come se intuissi che di lì a poco qualcosa di brutto sarebbe successo. Mi guardavo intorno spaurito, cercando un indizio che mi facesse capire cosa stava per accadere. Avevo già provato quella sgradevole sensazione e ogni volta ero stato testimone di un “evento traumatico”. Fu in quell’estenuante ricerca che i miei occhi incrociarono per un istante quelli del randagio, appena prima che lasciasse il suo nascondiglio e si dirigesse, con una rapida corsa, verso una mia compagna di classe. Urlai. Non ricordo cosa, ma il suono acuto della mia voce sovrastò il vociare degli scolari, tanto che tutto sembrò fermarsi per un lungo, interminabile, istante. Anche il cane si fermò, sorpreso da quel rumore
improvviso. Si voltò verso di me, le fauci aperte e la bava che, lentamente, gocciolava vischiosa a terra: era un’immagine talmente nitida che ancora oggi, a distanza di così tanti anni, ho i brividi quando la rivivo. Sembrò per un attimo che neanche lui sapesse più cosa fare, indeciso se continuare la sua corsa verso la bambina che aveva di fronte, oppure abbandonare il suo primitivo intento per dedicarsi a me. Le sue emozioni, la sua rabbia e i suoi bisogni, colpirono il mio cervello con la forza di un pugno nello stomaco. Era affamato, impaurito da tutte quelle persone e arrabbiato per non avere un posto dove vivere e ripararsi dal freddo e dai pericoli della notte. Percepivo i suoi pensieri come fossero i miei e, per la prima volta, non solo li compresi ma li manipolai, alterandoli per cercare di calmarlo. “Rimani fermo e smetti di ringhiare. Nessuno ti farà del male se per primo tu non ne farai. So che hai fame e che lo stomaco ti fa male come se qualcuno te lo addentasse da dentro ma non devi aggredire nessuno per poter mangiare. Saranno i bambini a portarti il cibo, non tu a rubarglielo. Vedrai, tutto andrà bene a patto che tu rimanga seduto”. Imporre il mio pensiero e avvicinarmi all’animale fu un tutt’uno, tra gli sguardi inorriditi di tutti i presenti. Nessuno aveva avuto il coraggio di muoversi ma, stranamente, non avevano nemmeno cercato di scacciare il cane o correre in aiuto della povera vittima di quell’aggressione. Solo in quel momento mi accorsi che – in modo del tutto improvviso e inconscio – avevo manipolato le loro menti nello stesso identico modo in cui avevo convinto il cane a non muoversi. Mi sedetti sull’erba, di fronte a lui, in modo che il mio viso fosse alla stessa altezza del suo muso. Aveva denti grandi, lunghi e affilati e una lingua rosea che spuntava dalle fauci aperte che si muoveva all’unisono con il suo respiro affannato. Lo sentivo confuso ma tranquillo, fiducioso che di lì a poco i suoi tormenti sarebbero finiti. Gli porsi la mia merenda, un panino, appena sbocconcellato, con prosciutto e formaggio, che divorò senza nemmeno masticarlo. Imposi anche agli altri bambini di fare altrettanto, fino a quando ci trovammo tutti seduti intorno all’animale. Qualcuno aveva riempito una larga scodella con dell’acqua pulita che il cane bevve con avidità, tra una merendina e l’altra, fino a far sparire ogni traccia di bava bianca dalla sua bocca. Io lo osservai costantemente per tutto il tempo, concentrandomi per mantenere il dominio sulla sua mente e, solo nel momento in cui, ormai sazio, voltò nuovamente il suo muso verso di me, mi accorsi della bellezza dei suoi occhi, grandi, languidi e profondi. Li fissai a lungo, come rapito, come se ci fosse un’affinità tra me e quell’animale che solo ora si palesava. «Io sono Johnny…» gli sussurrai, come se fosse in grado di capire le mie parole. Drizzò immediatamente le orecchie, come se il suono del mio
nome gli fosse gradito. Era un cane di grossa taglia, un incrocio tra un pastore tedesco e chissà quale altra razza, sporco e maleodorante ma finalmente docile e affettuoso. “Chi sei tu?” mi domandai tra me e me mentre ancora ero strettamente connesso alla sua primitiva coscienza. Non mi aspettavo di certo una risposta, ma non ero preparato a quello che mi sarebbe successo da lì a poco: ebbi la visione di una distesa infinita di erba gialla, bruciata dal sole e, in lontananza, le vette imbiancate di alte montagne, mentre il rumore degli insetti mi riempiva le orecchie di suoni familiari, da tempo dimenticati. Più in alto, sullo sperone roccioso ai limiti del bosco, un grosso animale mi aspettava, il mantello scuro, lucido, quasi nero e zampe possenti. Ululò per richiamare la mia attenzione e in quell’attimo preciso, capii. “Lupo…”. Il mio fu quasi un bisbiglio, flebile e impercettibile, come l’aria che accarezzava il mio viso, ma fu sufficiente. Il cane alzò il muso al cielo e dalla gola, dapprima lentamente, poi sempre più forte, un lungo ululato uscì dalle fauci socchiuse, suggellando per sempre l’imprinting che avevamo avuto. Fu la campanella che svegliò tutti da quella specie di torpore. Uno a uno tutti i bambini salutarono il cane con una carezza, per nulla intimiditi, come se l’esperienza appena vissuta li avesse legati a quell’animale in una sorta di affettuosa empatia. Anche le maestre si mostrarono cordiali verso il nuovo arrivato e lui ricambiò l’affetto che gli veniva mostrato, distribuendo leccate riconoscenti a tutti, me compreso. Fui l’ultimo a rientrare in classe, non prima di essermi assicurato che il mio nuovo amico rimanesse all’ombra delle siepi, in attesa del mio ritorno. Non eravamo però gli unici ad aver assistito a quel bizzarro evento. Qualcun altro aveva osservato tutto. Qualcuno che da tempo controllava i progressi delle mie capacità e che ora, con un sorriso di soddisfazione sulle labbra, aveva messo in moto la sua automobile e si era allontanato senza fretta, sparendo in fondo alla via.
CAPITOLO 3
Lupo si dimostrò essere un cane docile e affettuoso. Una volta ripulito dallo sporco accumulatosi sul suo pelo da chissà quanto tempo, si rivelò essere un grosso bestione dal mantello marrone scuro che, in alcuni tratti, schiariva fino a diventare quasi biondo. Aveva abbandonato il suo atteggiamento aggressivo, almeno in nostra presenza, in favore di uno molto più consono alle persone che lo circondavano. Era, infatti, un cucciolone pronto a correre e a giocare ogni qualvolta se ne presentava l’occasione, tanto che ormai era diventato la mascotte ufficiale della scuola. Ero rimasto meravigliato della facilità con cui avevo insinuato questo pensiero nelle menti dei docenti e del preside, tanto che fu quasi automatica la sua stabile permanenza all’interno della cinta scolastica. Era un segno del fatto che le mie facoltà andavano ad aumentare più rapidamente di quanto avessi potuto prevedere. Mi sentivo euforico, speciale e, in un certo senso, quasi invincibile, come uno di quei supereroi che si vedono nei fumetti o in TV. “Sono il dominatore delle menti, l’unico in grado di leggere i pensieri e manipolarli a suo piacimento…”, mi divertivo a pensare mentre la mia autostima cresceva a dismisura. “No, non sei l’unico e non sei nemmeno così bravo come credi…”. Fu come se un enorme pugno avesse colpito il mio stomaco, lasciandomi senza fiato. Avevo sentito nitidamente quella voce provenire da dietro di me ma, voltandomi, mi ero accorto con terrore di essere completamente solo. Nessuno avrebbe potuto articolare quelle parole così da vicino e poi sparire nel nulla in una frazione di secondo. Sentivo il mio cuore battere all’impazzata e le mie tempie pulsare, mentre la testa girava alla spasmodica ricerca di una spiegazione. Non potevo essermi sbagliato al punto di scambiare un suono per delle parole. Qualcuno mi aveva parlato e io non ero stato in grado di capire chi fosse. Tornai in classe, girandomi più volte, nella speranza di vedere qualcuno che cercava di nascondersi, ma non c’era nessuno in giardino, tranne me. Lupo mi seguiva trotterellando, tranquillo, contento di accompagnarmi fino all’entrata della scuola per poi tornare indietro, verso il prato assolato. Se ci fosse stato un estraneo, lui se ne sarebbe accorto subito, per cui, questa volta, era stata la mia fantasia a giocarmi un brutto
scherzo. Non potevo sapere che chi avevo cercato con tanto affanno era comodamente seduto in una delle macchine parcheggiate in strada, intento ad annotare su un logoro taccuino le prime di una lunga serie di annotazioni che mi riguardavano. Dal taccuino dell’uomo misterioso I poteri del ragazzo stanno lentamente manifestandosi: non è più semplicemente empatia ma qualcosa di molto più complesso che coinvolge sia la sfera emotiva che quella telecinetica. Sono passati anni dall’incidente allo zoo e cominciavo a perdere la speranza che questo fosse un caso degno di essere seguito. L’attacco del randagio di qualche giorno fa è stato un azzardo ma non potevo continuare ad aspettare. Altre segnalazioni attendono di essere controllate e non possiamo concederci il lusso di tergiversare. Primo giorno di test: Ho messo il cane all’interno del parco di ricreazione della sua scuola. È affamato e di indole aggressiva, necessario per testare al meglio la capacità del soggetto di penetrare nel cervello dell’animale e condizionarlo. Non sarà un test troppo pericoloso, ho preso tutte le precauzioni, compreso un telepate empatico, di assoluta e comprovata esperienza, che bloccherà l’animale nel caso l’esperimento dovesse fallire. Non intendo dare una seconda opportunità al ragazzo, anche perché dubito che sia così promettente come gli altri sostengono. Staremo a vedere. Sono tornato alla base estremamente soddisfatto. Il test si è rivelato una fonte d’informazione preziosa e ha confermato la capacità del soggetto di gestire una situazione critica, senza nessun aiuto esterno. Non solo è stato capace di bloccare l’attacco del cane, ma ne ha soffocato l’aggressività in modo totale e permanente. Ha agito, inoltre, sulla mente di tutti i presenti, trasformando paura e avversione verso l’intruso, in un sentimento di affetto e simpatia, facendogli dimenticare di essere in pericolo. È mio parere che si debba continuare l’osservazione, affrettando il più possibile l’inizio della seconda fase. Terzo giorno: Gli effetti psichici sui soggetti coinvolti nell’esperimento, ivi compreso il cane, sono stabili, tanto che l’animale è stato adottato dall’intera scolaresca. Non mostra nessun segno dell’aggressività precedente, ma piuttosto un forte affiatamento con il ragazzo, tanto che suppongo si sia istaurato un profondo legame tra i due, cosa che potrebbe rivelarsi utile per i progetti futuri. Quarto giorno: Forse ho commesso un’imprudenza, ma la cosa è stata del tutto involontaria e inaspettata. Non potevo sapere che le sue facoltà
maturassero tanto in fretta e ho permesso che un mio pensiero arrivasse fino a lui. Ne è rimasto impaurito e sconcertato, tanto che più volte ha cercato di capire l’origine di quella voce, che sicuramente ha sentito utilizzando, credo inconsciamente, una sorta di scandaglio sensoriale, che però sono riuscito a bloccare abbastanza facilmente. È un ragazzo estremamente dotato, anche se lui non si rende ancora conto delle effettive potenzialità che potrebbe raggiungere sotto la nostra guida. Potrebbe essere addirittura una delle dita della Mano del Destino, ma solo il tempo potrà dirlo. Mi sentivo osservato. Non era solo una semplice sensazione, ma quasi una certezza che attendeva solo di avere la conferma. Sentivo come se qualcuno stesse costantemente alle mie spalle, intento a osservare ogni mia mossa. Era una sensazione spiacevole e irritante, che metteva a dura prova il mio autocontrollo. Avevo cercato di autoconvincermi di aver immaginato tutto. Non era stata solo quella voce a sconvolgermi, ma anche il tono canzonatorio con cui aveva pronunciato quell’unica frase, come se chi l’avesse detta, non solo fosse al corrente delle mie capacità, ma non le reputasse un granché. Avevo passato quasi tutta la mia vita a cercare di nascondere quello che sapevo fare per poi scoprire, di punto in bianco, che non era più un segreto. O almeno, non per qualcuno che – oltretutto – nemmeno conoscevo. Gli impegni quotidiani, la scuola e le varie attività a essa collegate, mi fecero ben presto dimenticare quell’assurda convinzione. Nessuno poteva sapere e nessuno avrebbe mai saputo il mio segreto. Io sentivo i pensieri della gente, i loro stati d’animo e certamente mi sarei accorto del pericolo ancora prima che questo diventasse tale. Ne ero così certo che continuai la mia vita come se nulla fosse successo, del tutto ignaro di essere stato abilmente manipolato affinché facessi mia quell’assurda convinzione. Lupo era diventato ben presto il beniamino del quartiere, tanto che dal giorno della sua comparsa, non c’era stato più bisogno del mio intervento per farlo accettare da tutti. Sotto a quella parvenza di cane feroce, si nascondeva un cucciolo troppo cresciuto, spaventato e bisognoso del calore che solo chi lo aveva accolto sapeva dargli. Percepivo la sua felicità, la pazienza con cui sopportava l’affetto, a volte un po’ troppo materiale dei bambini più piccoli. La gratitudine che provava nei miei confronti per avergli dato la possibilità di una vita migliore, più dignitosa e felice di quella che aveva prima. Rimanevo meravigliato dall’intelligenza e dalla sensibilità di quel grosso animale, qualità che
troppo spesso non ritrovavo tra i miei simili, e ciò contribuì sicuramente a creare un legame molto forte tra lui e me. Passavamo interi pomeriggi sdraiati sull’erba, uno vicino all’altro, apparentemente senza fare nulla. Nessuno avrebbe potuto intuire quale frenetica attività si svolgesse tra di noi su un altro piano esistenziale, molto più intimo e complesso, fatto di pensieri e di emozioni, di ricordi e di sensazioni, come una brezza leggera che, soffiando tra i rami degli alberi, riesce a scuoterli con vigore. Così mi immaginavo lo scambio che avveniva tra di noi in quei momenti, come un ruscello limpido che gorgoglia tra i sassi, come il rumore di un fiore che sboccia alla vita. Pura energia che, invisibile, ci attraversava, unendoci nel profondo dell’anima. Lui condivideva tutto questo con me, con una naturalezza che mi faceva chiedere più volte chi fosse realmente il cane che avevo davanti, così diverso dai suoi simili… e così simile a me. Dal taccuino dell’uomo misterioso Il cane si sta rivelando la carta vincente per stimolare i poteri del ragazzo senza che lui se ne accorga. Non è stato facile inibire la sua naturale diffidenza e fugare il sospetto che qualcuno lo stesse controllando, ma Lupo è un eccellente partner e non avevo dubbi che sarebbe stato estremamente prezioso. Credo sia arrivato il momento di pianificare la seconda fase dell’operazione, in modo da accertarci, senza ombra di dubbio, che non stiamo perdendo tempo dietro l’ennesima “ombra”. Il tempo scivola via troppo in fretta per permetterci un approccio più morbido, ma confido che il soggetto, una volta a conoscenza delle sue potenzialità e del ruolo cruciale nel disegno degli Antichi, accetti di buon grado di aiutarci. Il numero dei soggetti segnalati è cresciuto, e questo indica una cosa sola: l’inizio della profezia è giunto e non ci resta molto tempo per trovare ciò che stiamo, così affannosamente, cercando. “C’è qualcosa che non va…”. Era un pensiero che sempre più spesso si affacciava alla mia mente, improvviso, come un lampo di luce tra le nubi che altrettanto rapido spariva, lasciando però dietro di sé una sensazione strana, come di vaga inquietudine. Ero cresciuto da quello strano episodio allo zoo e con me si erano accresciute le facoltà che possedevo. Quelle capacità che mi rendevano speciale ma anche “strano” agli occhi della gente. Eppure non riuscivo a
liberarmi dalla sensazione che qualcuno mi stesse spiando, che ogni mia mossa fosse osservata, studiata anche all’interno delle mura domestiche. “Stai diventando paranoico? È a questo che ti portano le tue preziose facoltà, i tuoi superpoteri come li chiamavi da piccolo?”, mi domandavo steso sul mio letto, nel buio rassicurante della mia stanza. Tuttavia nemmeno l’auto sarcasmo riusciva a fugare i dubbi che quello che percepivo non fosse solo il frutto della mia ipersensibilità. Io avvertivo realmente la presenza di qualcuno che faceva di tutto per celarsi a me ma che, ormai, era arrivato al limite delle sue capacità. Sorridevo soddisfatto ogni qualvolta percepivo nitidamente i suoi pensieri, godendo quando i suoi tentativi tardivi di occultarsi fallivano miseramente. “Tra poco non mi potrai più sfuggire…”, sussurravo alla sua mente e lui si ritraeva come punto da un calabrone, ferito e spaventato, ma ancora determinato a non lasciarmi in pace. Da troppo tempo mi sentivo prigioniero, una cavia di laboratorio sottoposta a chissà quali esperimenti e non ero più disposto a sopportare oltre. Dal taccuino dell’uomo misterioso Il ragazzo è sempre più forte, tanto che a fatica riesco a compiere le mie osservazioni senza venire scoperto. Credo che sospetti la mia presenza, anche se dubito sappia qualcosa. Sta continuando a inviarmi messaggi sempre più potenti, nella speranza che commetta un errore, ma ormai è arrivato il momento di chiedere aiuto a qualcuno più dotato di me. Non credo di poter celare la mia presenza ancora a lungo e non voglio compromettere la missione proprio ora. Ho avuto notizie dai miei confratelli che una buona parte delle “ombre” è stata rintracciata e il numero delle nuove segnalazioni è in netto calo. Forse siamo alla svolta sperata e per questa ragione devo essere sostituito da qualcuno che abbia le necessarie capacità per passare in modo corretto alla fase successiva, la più cruciale e delicata.
CAPITOLO 4
“A volte l’ignoranza è una benedizione”. Avevo letto questa frase non so dove e sul momento mi aveva solo fatto sorridere. La mia anima e la mia mente avevano così sete di conoscenza, che quella semplice affermazione mi era sembrata del tutto fasulla. Oggi invece, vedendo il mondo – che conoscevo bene fino a ieri – sgretolarsi davanti ai miei occhi, un’affermazione così semplice mi sembra estremamente saggia. Era domenica mattina quando qualcuno suonò alla nostra porta. Un unico breve trillo, garbato, come se la persona fuori dalla nostra porta non volesse svegliare nessuno, oppure sapeva di essere atteso. Era troppo presto perché avessi voglia d’alzarmi, troppo comodo e rilassato per poter anche solo pensare di scivolare fuori dal mio caldo letto e iniziare la giornata. Attesi cercando di percepire i suoni che provenivano dalla casa, nella speranza di sentire qualcuno andare ad aprire la porta. Non dovetti attendere a lungo. Mia madre si era precipitata ad aprire e, dal tono della sua voce, sentii che era contenta e sollevata dalla visita ricevuta. “Ma chi è che rompe le scatole la domenica mattina così presto?”. Ero infastidito da quell’intrusione e, quasi senza accorgermene, cercai di sondare il nuovo venuto, del tutto impreparato a quello che sarebbe successo di lì a poco. “Non è educato cercare di entrare nelle menti altrui senza il loro permesso, non credi?”. La voce era arrivata chiara e nitida alla mia mente, come se chi aveva parlato fosse stato nella mia stanza, a pochi passi da me. Mi ritrassi immediatamente, impaurito da quell’improvvisa esperienza, incapace di comprendere come fosse possibile una cosa del genere. “È inutile chiudersi a riccio, non sei ancora né abbastanza forte né abbastanza bravo per riuscirci. Non con me almeno. Perché non ti vesti e vieni a conoscermi di persona? Ti assicuro che non hai nulla da temere né da me né da quello che sono venuto a dirti”. Per la prima volta in vita mia provai un profondo senso d’impotenza, la certezza che le mie capacità erano nulla se paragonate a quelle del misterioso personaggio che mi attendeva in salotto. Non riuscivo a capire
il motivo della sua presenza in casa mia né del perché i miei genitori fossero insieme a lui, tutti in attesa della mia presenza in mezzo a loro. Controvoglia abbandonai l’effimero rifugio del mio letto, mi lavai e vestii rapidamente e, con il cuore in gola per il timore di ciò che mi aspettava, varcai la soglia della stanza dove si stava tenendo quella strana riunione. «Finalmente ti sei deciso a unirti a noi. Non avere paura Johnny e avvicinati. Io mi chiamo Patrick, Patrick Sinclair e sono amico dei tuoi genitori da tantissimo tempo…». Sentivo la sua voce mentre parlava, una voce calda, quasi ipnotica, probabilmente studiata apposta per mettere a proprio agio l’ascoltatore, per fargli abbassare le difese e renderlo più vulnerabile. Questo pensavo mentre osservavo la scena che mi si era presentata sotto agli occhi: un quadretto domestico del tutto normale ma altrettanto fasullo, almeno per i miei occhi. Mamma e papà sedevano vicini, visibilmente intimoriti dalla presenza di quell’estraneo in casa loro ma, allo stesso tempo, stranamente compiaciuti che lui fosse lì. Lo guardavano malcelando la speranza che qualcosa accadesse, qualcosa d’importante e di straordinario che aveva come fulcro me. Per contro, lo sconosciuto che avevo innanzi si sentiva del tutto a suo agio, nonostante fosse palpabile la tensione che aleggiava nell’aria. Sembrava una persona totalmente in grado di gestire quella situazione che si preannunciava piena di incognite e di domande non espresse, come se affrontare quei delicati frangenti fosse ormai diventato quasi un’abitudine per lui. «Perché non ti siedi? Abbiamo tante cose da dirci e tu hai un’infinità di domande da fare, per cui mi sembra stupido non iniziare subito, non credi? Permettimi di spiegare il motivo della mia presenza in casa tua e del perché io e i tuoi genitori ci conosciamo. Puoi chiedere ciò che vuoi in ogni momento, ma ti consiglio di ascoltare con attenzione dall’inizio alla fine e solo allora fare le tue domande, ci stai?». Non trovai nulla da obbiettare, né un motivo valido per non sedermi ad ascoltare cos’era venuto a dirmi, di tanto importante, quell’uomo misterioso. Ero così a disagio che non vedevo l’ora che finisse e se ne andasse per sempre dalla nostra casa e dalle nostre vite, un desiderio tanto semplice quanto impossibile da realizzare. «Come ti ho detto il mio nome è Patrick Sinclair, ma non mi aspetto che questo ti dica qualcosa. È la prima volta che vengo a far visita ai tuoi genitori, anche se loro sanno benissimo chi sono. Sono qui per te, perché le tue facoltà sono ben note al gruppo che rappresento, e potrebbero essere indispensabili per un progetto che stiamo portando avanti da tantissimo tempo. Come forse avrai già intuito, non sei l’unico a
possedere delle capacità fuori dal comune. Qualità che ti permettono di fare cose che altri possono solo sognare, che ti aprono porte su un universo di conoscenze che nessun altro può immaginare… nessuno che non condivida il tuo stesso potere…». «Tu ce l’hai?» chiesi quasi senza rendermene conto e pentendomi immediatamente di averlo interrotto. Lo vidi sorridere compiaciuto per quel piccolo strappo alla regola che aveva fissato poco prima. «Vedo che non riesci proprio ad aspettare la fine prima di fare domande, vero? E sia… sì, anch’io e molti altri possediamo poteri simili, diversi a volte nelle forme e manifestazioni. Più complessi e articolati dei tuoi, ma fondamentalmente tutti provenienti dalla stessa matrice». «Tu chi sei e chi sono gli altri a cui fai riferimento?» l’indulgenza dimostratami mi aveva dato il coraggio per un’ulteriore domanda, ma non ero certo che questa volta mi avrebbe risposto con altrettanta benevolenza. «Sono venuto qui proprio per spiegarti questo e molto altro, se avrai la bontà di avere ancora un po’ di pazienza. Capisco la tua trepidazione, ma non posso anticipare nulla senza prima averti spiegato a fondo che cosa noi rappresentiamo…». Mi scusai e mi rimisi pazientemente in ascolto, reprimendo la voglia di sapere tutto e subito. Sentivo che la mia vita sarebbe cambiata dopo quell’incontro, ma non ero ancora certo se questo sarebbe stato un bene oppure un male per me e la mia famiglia. «Come stavo dicendo, ci sono al mondo molte persone speciali, alcune molto simili a te, altre del tutto differenti, ma non per questo meno importanti. Ci sono segreti scritti nel nostro DNA, che solo in occasioni del tutto eccezionali si manifestano in modo palese, dando origine a peculiarità fisiche del tutto fuori dal comune: tu, ad esempio hai sviluppato un’empatia del tutto unica verso le forme di vita inferiori già nella tua più tenera infanzia e quell’episodio fatidico allo zoo lo ha ampiamente dimostrato. Non sapevamo ancora all’epoca se eri semplicemente una persona dotata, un’ombra come la chiamiamo noi, oppure un individuo con delle doti speciali, ed è per questo che sei stato messo sotto osservazione per tutto questo tempo. Leggo nei tuoi occhi che quello che ti sto dicendo non è una sorpresa per te e questo avvalora la mia convinzione che non abbiamo sprecato il nostro tempo e capisco che la domanda che stai cercando in tutti i modi di reprimere è: chi siamo noi?». Cominciavo a perdere la pazienza. Un conto era cercare di essere educato verso la persona che avevo di fronte, altra cosa era la consapevolezza che tutti quei discorsi erano fatti ad arte per dire tanto senza svelare nulla e fu proprio in quello stato di frustrazione che la
domanda fu espressa nell’unico modo capace di obbligare il mio interlocutore a dare una risposta. “Chi sei tu?” Era stata un’onda mentale particolarmente violenta quella che avevo inviato nel cervello del nostro ospite, forte come non avevo mai avuto il coraggio di produrre, per paura di arrecare danni. Ero arrabbiato per il suo comportamento e questa fu la sola scusante a quel mio gesto azzardato. L’uomo che avevo di fronte trasalì lievemente, come se fosse stato percorso da un brivido, ma non si scompose, né diede a vedere ai miei genitori di aver subìto un attacco da parte mia. “Notevole, veramente notevole da parte di un ragazzo così giovane e senza addestramento. Forse è meglio accantonare i convenevoli e andare subito al nocciolo della questione. Vuoi veramente sapere tutta la verità? Allora preparati, perché non tutto quello che ascolterai ti piacerà…”. La voce si era formata direttamente nella mia mente, come un’immagine più che una frase pronunciata. Il tono non era quello di una persona arrabbiata, ma piuttosto di una compiaciuta di quello a cui aveva assistito. Ero riuscito a impressionarlo e ora, finalmente, avrei potuto sapere il vero motivo che l’aveva portato qui da noi. «Come dicevo, ti abbiamo osservato per lungo tempo. Un nostro agente ha seguito i tuoi progressi, appurando che potevi essere una delle persone che cerchiamo da tanto tempo, ma nulla sarebbe stato possibile senza l’aiuto e la copertura dei tuoi genitori…». Rimasi sbigottito da quest’ultima affermazione, tanto che non riuscii ad afferrare il resto del discorso. I miei genitori avevano permesso a qualcuno di studiarmi senza che io me ne accorgessi, anzi lo avevano aiutato in modo che potesse portare a termine la sua missione nel migliore dei modi. Ma perché? Perché tradire la mia fiducia, mettendomi, di fatto, nelle mani di quest’individuo e dei suoi compagni? «Non devi incolpare i tuoi genitori. Loro hanno agito per il tuo bene e per quello della confraternita a cui appartengono da quando sono nati. Forse è meglio che ti spieghi prima chi siamo noi e cos’è questa Fratellanza di cui ti ho accennato». Il racconto che ne seguì fu incredibile. Una sorta di favola su un popolo troppo forte e potente da essere immune alla cupidigia e alla sete di potere: i Lemuriani, guardiani di conoscenze aliene donate loro da un popolo antico, proveniente dagli abissi dello spazio profondo. Non erano stati in grado di soffocare i dissapori derivanti dall’uso che si voleva fare di tutta quella conoscenza, arrivando a uno scisma che aveva diviso la popolazione in due opposte fazioni: da una parte i Custodi, che volevano preservare il sapere degli antichi per rivelarlo poi al genere umano qualora si fosse dimostrato degno e maturo per riceverlo, e dall’altra gli
Oscuri, che volevano utilizzare quel potere per governare sulle popolazioni di tutto il pianeta. Da questa contrapposizione fratricida scaturì una guerra segreta, fatta di astuzie e attese, di terribili combattimenti e subdole imboscate, ma nacquero anche due società che avevano come scopo il tramandare alle generazioni future le loro conoscenze e il loro credo, secolo dopo secolo, fino al momento in cui tutto quel terribile potere sarebbe stato, finalmente, disponibile per l’uno o per l’altro scopo. Custodi e Oscuri scandirono con le loro trame l’evoluzione stessa del genere umano, ignaro dell’esistenza stessa delle due fazioni e della presenza di alcuni Antichi tra le fila dei Custodi. Ultimi di una razza ormai estinta, furono proprio loro a portare e a trasmettere i geni che diedero vita a queste straordinarie facoltà. Almeno così si era creduto fino all’unificazione delle due società segrete, avvenuta in circostanze piuttosto drammatiche alcuni anni prima. «Dopo che riuscimmo a ritrovare la pace, dopo che ogni dissapore, ogni divergenza fu appianata, ci trovammo tra le mani una corporazione segreta che si ramificava in ogni strato sociale, talmente estesa da arrivare in ogni angolo del globo. Era impossibile pensare di poterla riorganizzare secondo i canoni di una o dell’altra parte, per cui decidemmo di prendere il meglio di entrambe e fonderle in un’unica globale ideologia, lasciando l’organizzazione e il coordinamento dei vari settori a un’assemblea equamente rappresentata. La parte più consistente della nostra congregazione sono proprio le famiglie come la tua, discendenti dalle fazioni in lotta. Sono i nostri occhi e le nostre orecchie nel mondo, sentinelle dormienti che conducono una vita del tutto normale, perfettamente inserite nel loro ambiente sociale e, proprio per questo, preziosissime per l’apporto che danno alla causa comune. È grazie a loro che abbiamo scoperto e selezionato tutte le persone che, come te, sono dotate di particolari poteri che le rendono speciali, candidati per qualcosa che va oltre l’umana comprensione, probabilmente gli unici in grado di comprendere la minaccia che incombe sul genere umano». «Ma di cosa stai parlando? Io non riesco a capire cosa stai dicendo, che cos’ho di tanto speciale? E chi sono gli altri di cui parli?» «Abbi ancora un attimo di pazienza, perché quello che sto per raccontarti è uno dei segreti meglio custoditi al mondo…».
CAPITOLO 5
I Custodi del Destino Era passato molto tempo da quando Patrick Sinclair era diventato l’uomo più importante del pianeta. Non era stato facile, e nemmeno indolore, mettere fine a una faida millenaria tra le due opposte fazioni, in cui si erano divisi i discendenti del nobile popolo dei Lemuriani: gli Oscuri da un lato e i Custodi dall’altro. Dopo l’incontro con il capo della fazione rivale, sull’altopiano che sovrastava l’antica città di Nagapura1, i cambiamenti avevano preso un andamento frenetico. Vinte le ultime resistenze degli oppositori al nuovo ordine e unite le conoscenze di entrambi i gruppi, si era aperta una nuova era di prosperità per tutto il genere umano che, all’oscuro di tutto, avrebbe beneficiato dei progressi derivanti dalla pace e dalla conoscenza, finalmente riunita sotto il controllo di un unico ordine, quello dei Custodi del Destino. Natoht, l’ultimo sopravvissuto della stirpe di Zaardum, l’antica razza aliena che aveva guidato il genere umano nella sua evoluzione, aveva terminato i suoi giorni terreni, felice che l’obiettivo che si erano prefissati lui e il suo compagno Kosh, fosse stato finalmente raggiunto. Per più di diecimila anni avevano combattuto, prima contro gli Oscuri, poi in favore di una riappacificazione e di una convergenza pacifica in una nuova confraternita, che desse stabilità e speranza al genere umano. Si era spento, circondato dall’affetto e dalla riconoscenza di tutti, non prima però di aver trasmesso tutto il suo sapere a quello che un tempo era stato il leader della fazione opposta: Wening Wulandari. Come Patrick Sinclair prima di lui, anch’egli adesso ospitava la coscienza di uno zaardumiano, un dono prezioso, che apriva nuovi orizzonti mai del tutto esplorati e che portava nuovamente equilibrio nella distribuzione del sapere tra i membri dei Custodi. Fu proprio dall’unione delle conoscenze accumulate da entrambi gli schieramenti, durante i millenni di rivalità, che qualcosa cominciò ad affiorare, dapprima in modo quasi impercettibile, come una sensazione che, man
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Vedi “I Custodi del Destino” 0111 Edizioni anno di pubblicazione 2013
mano che il tempo passava, diventava certezza: i Lemuriani non erano il popolo da cui derivava tutto il sapere, ma soltanto uno dei popoli discendenti da coloro che avevano generato tutta la conoscenza così gelosamente custodita dalla confraternita. Molti erano gli indizi in possesso ai relativi schieramenti, ma troppo frammentati per dare un quadro esauriente della situazione, almeno prima della riappacificazione e della relativa riunione di tutte le conoscenze. Patrick e Wening, con l’aiuto di Kosh e Natoht furono i primi ad accorgersi che qualcosa non andava nella ricostruzione degli eventi avvenuti dopo lo scisma, e sulle incongruenze relative alle convinzioni sull’origine del potere che possedevano i discendenti degli abitanti di Mu, il continente perduto. Neppure gli zaardumiani, che erano stati presenti all’olocausto lemuriano, potevano asserire senza alcun ragionevole dubbio, che quel popolo fosse l’origine e non il prodotto di tali facoltà. Un mistero che apriva scenari inquietanti, sia sul passato che sul futuro di tutto il genere umano. Patrick era seduto davanti a Wening e lo fissava. Chiunque, osservandoli, avrebbe interpretato quella riunione a due come un normale scambio di opinioni tra i leader indiscussi della Fratellanza, ma un occhio più attento avrebbe notato un particolare alquanto strano: nessuno dei due parlava. Erano lì ormai da alcuni minuti, l’uno di fronte all’altro, lo sguardo fisso, interrotto solo dal rapido sbattere delle palpebre, unico segnale di vita in quei corpi immobili. «Ma che cosa stanno facendo?» chiedevano le persone che si trovavano a passare davanti a quella scena irreale e tutti ricevevano la stessa risposta: loro non sono più qui, ma da qualche parte là fuori, intenti a fare cose che nessuno di noi riesce nemmeno a immaginare e non vogliono essere disturbati in un momento così delicato. Da “Memoriale sugli Antichi: libro primo” di Patrick Sinclair La spiaggia era come me la ricordavo. La sabbia, di un bagliore accecante, era lambita dalle onde di un mare cristallino. Dietro di me, la spiaggia saliva per una decina di metri, interrompendosi bruscamente al limitare di un’intricata boscaglia di palme e fitti cespugli. Era stata il mio rifugio, oltre che la mia prigione dopo il naufragio, all’inizio di quello che sarebbe stato il cambiamento radicale della mia vita e di quella di tutta l’umanità. Detto così suonava molto presuntuoso ma i cambiamenti che erano stati generati dalla mia permanenza sull’isola, avevano
coinvolto così tante persone, da influenzare – sia pure indirettamente – il corso naturale della storia futura. Wening era seduto accanto a me, lo sguardo perso verso l’orizzonte, le mani appoggiate delicatamente sulla sabbia, quasi volesse sentire uno a uno i granelli che componevano l’arenile. «Perché siamo qui?» mi chiese senza voltarsi, come se la sua domanda fosse stata fatta con l’unico scopo di rompere il silenzio che si era creato tra noi. «Perché qui è cominciato tutto» risposi semplicemente, senza aggiungere nient’altro. Il mio amico sembrò soppesare a lungo la risposta poi, con un’alzata di spalle, tornò a osservare il mare. «Gli ultimi avvenimenti ci hanno convinto della fondatezza delle nostre scoperte, tanto da concentrare ogni sforzo per risolvere il mistero nel più breve tempo possibile». «Te l’avevo detto che i dati in nostro possesso prima dell’unificazione da soli non avevano significato, ma bisognava aggregarli ai vostri per avere una visione del tutto nuova del passato del nostro mondo. Solo allora la trama di quest’oscuro disegno ha cominciato a prendere forma». «Lo sai? A volte parli proprio come Nathot…» gli dissi mentre il mio pensiero andava inevitabilmente al compagno scomparso. Ne sentivo la mancanza, questo era certo. Dimenticavo, a volte, che sia lui che Kosh erano comunque presenti dentro di noi, nelle nostre menti, nei nostri cuori, fusi nell’aura che guidava ogni nostro passo, ogni nostra decisione. «Ma cos’abbiamo scoperto, finora, di concreto? Cosa può darci la certezza che non stiamo solo sprecando tempo e risorse, inseguendo un miraggio?». Non mi voltai subito, ma continuai a osservare il mare, ponderando bene sia la domanda, sia l’eventuale risposta che ero stato chiamato a dare. Le onde, talmente piccole da sembrare quasi inesistenti, avevano il potere di calmare la mia mente e stimolare quella parte del mio cervello che ponderava e analizzava senza sosta il problema. «È difficile rispondere alla tua domanda in modo diretto. Non abbiamo nessuna prova inconfutabile che sia mai esistito in tempi remoti un popolo così avanzato da tramandare le proprie conoscenze ai lemuriani e a chissà quali altri popoli antichi. Ciò che noi percepiamo di questo mistero è solo l’esito finale, ma ignoriamo quasi tutto dell’origine, un po’ come quando osserviamo queste piccole onde che lambiscono la spiaggia… sembrano insignificanti, per il minimo effetto che provocano, ma dimentichiamo la tremenda forza che le ha generate…». Wening soppesò a lungo le mie parole, osservando attentamente il lambire delle onde sulla battigia, ascoltando il rumore raschiante della
sabbia spostata dal mare poi, come se una voce interiore gli avesse sussurrato qualcosa d’importante, mi fissò, cercando di ordinare quel pensiero in qualcosa di concreto. «Forse il dilemma più grande non è credere o meno a quello che abbiamo scoperto, ma cercare di decifrare il lascito che questo fantomatico popolo ha lasciato a tutta l’umanità, del perché siano scomparsi nel nulla nel giro di pochi secoli e, cosa più importante, come mai troviamo tracce di loro nelle leggende e nel folclore di popolazioni sparse in tutto il globo. Non dimentichiamoci poi della profezia, di quella sorta di monito che sembra pesare come un macigno sul genere umano da tempi immemorabili…». Già, la profezia, quella sorta d’indovinello che avrebbe dovuto svelare chi fossero i prescelti tra tutti quelli che manifestavano i segni della “chiamata”, coloro che avrebbero avuto accesso a quella parte di conoscenza che non era mai stata tramandata a nessuno. Un tesoro tanto ambito quanto oscuro. Perché le facoltà dei predestinati si risvegliavano all’improvviso, in casi del tutto eccezionali ed estremamente rari, tanto che se ne aveva conoscenza solo di altri due nella storia dell’umanità? E il potere che deriverebbe da queste arcane conoscenze è altrettanto tenebroso, oppure è una sorta di ultima salvezza per l’umanità? È seguendo il filo di questi pensieri che le parole cominciarono a prendere forma nella mia mente e in quella di Wening, praticamente all’unisono, come un mantra antico richiamato dalla necessità di comprendere cosa ci avrebbe riservato il futuro. Cinque sono le dita della Mano del Destino. La prima indica il cammino, la seconda comprende il meccanismo, la terza unisce, la quarta penetra nell’angusta dimora, la quinta sigilla il pugno per sferrare l’attacco. Solo la mano completa può risvegliare la coscienza degli antichi e scongiurare la catastrofe incombente. Questa era la profezia completa, frutto dell’unione di tutti i frammenti sparsi per i cinque continenti. Un enigma solo parzialmente risolto, ma che non ci era di nessuna utilità. Il tempo intanto passava inesorabilmente, lasciandoci poco margine per gli errori e troppi dubbi ancora da dissipare. Tornare alla realtà era, ogni volta, spossante. Per alcuni istanti la mente coesisteva su due piani differenti, due realtà completamente diverse, a
volte addirittura opposte, e occorreva sempre qualcuno, una terza persona non partecipante alla traslazione, che stabilizzasse le nostre auree sul giusto piano astrale. Questo compito era riservato proprio a Reginald, l’inseparabile amico di Patrick, il compagno di mille avventure, il fratello che non aveva mai avuto. «Ha funzionato? Siete riusciti a venire a capo di qualcosa?» «Ancora no, mi dispiace. Questa volta è tutto così complicato, così sfuggente, come se le informazioni fossero a portata di mano e allo stesso tempo distanti anni luce, inafferrabili, incomprensibili…». Nel mondo intanto altre persone manifestavano i segni della chiamata. Acquisivano facoltà che in precedenza non avevano, oppure potenziavano a dismisura quelle in loro possesso, in modo disarticolato e del tutto inspiegabile. I capi dei Custodi stavano pazientemente attendendo la fase successiva, quella che avrebbe permesso di capire chi fossero i veri candidati, quelli destinati a diventare la Mano del Destino. La profezia non si limitava, infatti, a una semplice quanto enigmatica filastrocca, ma enunciava le fasi del conseguimento della consapevolezza. Quel particolare stato della mente che fungeva come una sorta di faro e che guidava i prescelti verso l’unione. Non avevamo ancora compreso il meccanismo né come questo si sarebbe manifestato, ma le cronache antiche riferivano di allucinazioni, a volte di bilocazioni del corpo e della mente dei prescelti, fino ad arrivare a delle vere e proprie divinazioni sul futuro e sui pericoli che incombevano sul genere umano. Erano naturalmente supposizioni più che certezze, estrapolazioni di notizie talmente frammentarie da sconfinare tra il mito e la leggenda, ma riscontrate in quasi tutte le civiltà, nei credo e nelle superstizioni di troppi popoli distanti tra loro migliaia di chilometri per poter essere considerate semplici casualità. «Non ci resta che attendere e sperare di avere a disposizione abbastanza tempo. Noi conosciamo solo i racconti di quando tutto andò bene ma quante volte nell’arco dell’intera esistenza degli esseri umani i prescelti avranno fallito?». Mi girava la testa. Mamma aveva acceso la luce della stanza e solo ora mi accorgevo che fuori era diventato buio. Il tempo era letteralmente volato via, trasportato lontano sulle ali di quel racconto, talmente assurdo, da poter essere vero. «Voi… voi appartenete a questa specie di setta segreta? Mi avete tenuto all’oscuro di tutto sapendo cosa stavo passando? Perché non mi avete
detto nulla, perché non mi avete spiegato che non ero un fenomeno da baraccone ma una persona speciale come molte altre? Mi sono sentito un emarginato, diverso dagli altri miei amici, un mostro deforme e un supereroe allo stesso tempo. Riuscite a capire che cosa mi avete fatto?». Papà teneva lo sguardo basso e non parlava, ma da come si martoriava le dita della mano, capivo che stava soffrendo. Mi ero ben guardato da usare la mia empatia, conscio che sarei rimasto sommerso da un fiume in piena di sentimenti contrastanti, sicuramente dolorosi e angoscianti per tutti, ma specialmente per me. Mamma piangeva, poco distante da me, in silenzio. Grosse lacrime le rigavano lentamente il viso e ricadevano sul grembiule che indossava. Mi sentivo in colpa per le parole che avevo appena pronunciato, ma la rabbia che avevo provato nell’apprendere tutte quelle cose, aveva soffocato ogni sentimento nei loro confronti, impedendomi di riflettere prima di parlare. «Scusatemi… io non volevo dire quelle cose, non in quel modo almeno…». «Hai tutte le ragioni di essere arrabbiato con noi, ma se siamo qui oggi è per farti comprendere che il mondo che tu conosci è solo la facciata di quello che realmente è. Per diecimila anni ci siamo combattuti, ognuno credendo di essere nel giusto e tutti gli sforzi che abbiamo fatto separatamente hanno comunque avuto un unico obiettivo comune: proteggere il genere umano da se stesso e da tutto quello che poteva minacciarlo. Non siamo una setta, come ci hai definito, ma soldati di un esercito enorme, che difende senza sosta tutti favorendo contemporaneamente il progresso e il benessere di ogni singolo individuo. Ognuno con un compito adatto alle proprie capacità, alle proprie attitudini, che mette costantemente al servizio di tutti. I tuoi genitori sono gli eroi di una guerra dimenticata, ma non per questo meno pericolosa. Gli artefici insieme a tutti quanti noi della realtà che tu conosci e che dai per scontata. Ricordati, però, che gli equilibri su cui si regge il mondo sono così sottili che basta un nulla per spezzarli definitivamente, dopo niente sarebbe più come prima…». Non ero sicuro se fossero state le lacrime di mia madre, il palese imbarazzo di mio padre o le parole sferzanti del nostro ospite a farmi cominciare a comprendere il gigantesco disegno di cui facevo parte. Probabilmente le mie facoltà si erano messe in moto da sole, fornendomi i tasselli che mancavano per comprendere appieno ciò che mi stavano rivelando le persone che avevo di fronte. Forse era solo pura e semplice empatia quella che provavo nei loro confronti, ma finalmente capivo cosa avevano passato i miei genitori in tutti questi anni, le ansie e le paure di una missione così importante quanto segreta e, cosa ancora più
sconcertante, credevo a ogni singola parola del racconto che avevo appena ascoltato, come se tutto quanto fosse sempre stato sepolto in un angolo della mia mente, in attesa di poter uscire alla luce del sole. Quello che non avevo ancora ben chiaro era il mio ruolo in tutta questa faccenda, il perché loro credessero che io potessi essere uno dei prescelti. Le mie facoltà non erano nulla di eccezionale, se paragonate ad esempio a quelle dello stesso Patrick, e il fatto di entrare empaticamente in connessione con le persone non faceva di me un eroe, né tantomeno un prescelto. «Devi avere pazienza. Non è detto che tu lo sia ma sicuramente sei uno dei candidati più promettenti. Le informazioni che abbiamo sugli altri due casi documentati ci portano a credere che si manifesteranno altri segni che ridurranno, in modo drastico, il numero degli aspiranti, ma non possiamo dire con certezza quali siano. Per questo occorre che tu venga con me in un posto dove le tue facoltà saranno monitorate costantemente e dove potrai, finalmente, conoscere altre persone dotate come te…». Non si era mai parlato di un trasferimento, di lasciare la mia casa, i miei amici, la vita che conoscevo per qualcosa che al solo pensiero mi riempiva di ansie e di paure. Cercai risposte sui volti dei miei genitori, ma trovai solo dolore e rassegnazione. «Perché dobbiamo trasferirci? Come farà papà con il lavoro? E io? I miei amici, la scuola? Io non voglio andarmene da casa mia…». Sentivo le lacrime riempirmi gli occhi, mentre il cuore aveva accelerato i battiti. Avevo l’impressione che tutto fosse rallentato, i miei pensieri, le mie azioni, perfino la luce della stanza sembrava diversa, poi, come un flash, captai un unico pensiero proveniente proprio dalla mente di Patrick: “loro rimarranno qui…”. Per un attimo avevo infranto le barriere mentali del nostro ospite e avevo visto ciò che non dovevo vedere, non ancora almeno. Lui aveva demandato a mamma e papà il compito di prepararmi a quell’inevitabile distacco, e quell’improvviso sfogo da parte mia lo aveva colto impreparato. «Non voglio andar via senza di loro, non voglio…» furono le uniche cose che riuscii a dire mentre un pianto inarrestabile sconquassava il mio petto. Patrick si alzò per osservarmi. Leggevo rammarico sul suo viso e dispiacere, ma i suoi occhi dicevano altre cose. La scintilla che vi si era accesa era di puro orgoglio, di soddisfazione per qualcosa che avevo fatto e di cui non mi rendevo ancora conto. «So che ora provi solo dispiacere, dolore per quello che hai appena appreso. Non doveva andare in questo modo, ti assicuro, ma ormai non posso fare nulla se non lasciare ai tuoi genitori il compito di spiegarti che
è un sacrificio necessario, per il bene di tutti, anche per quello di tuo padre e di tua madre. Solo un’ultima cosa voglio dirti prima di lasciare questa casa, nessuno era mai riuscito a penetrare le mie barriere mentali, specialmente da quando la coscienza di Kosh si è unita alla mia. Tu sei stato il primo e, probabilmente, sei l’unico in grado di farlo. Vorrei che riflettessi su questo e sull’importanza della missione che ti attende. Non posso dire con certezza quale sarà il tuo ruolo in questa storia, ma credo che potresti essere proprio tu la persona che potrebbe fare la differenza…». Lo vidi salutare i miei genitori con affetto, voltarsi verso di me un’ultima volta per poi sparire oltre la porta di casa. Ero contento che se ne fosse andato, ma ero comunque certo che l’avrei rivisto presto, e questo aumentava il nodo alla gola che provavo guardando mamma e papà. «Non voglio andare via, non voglio lasciarvi qui» continuavo a ripetere con un filo di voce, tra un singhiozzo e l’altro, incapace anche solo di pensare a una vita senza di loro. «Tesoro mio, è tardi e tu devi andare a dormire. Domani ci aspetta una giornata veramente pesante e ci sarà tutto il tempo per parlare e per rispondere a tutte le tue domande. Ci sono tante cose che ancora non sai e noi siamo qui proprio per raccontartele, ma ora vai a nanna, ti prego». Le parole di mia madre erano più una supplica che un ordine, e io, a malincuore, obbedii senza fare altre domande. Volevo rimanere solo per pensare, per capire cosa realmente fosse successo quella sera in casa mia e per piangere in santa pace, facendo uscire tutto il dolore che avevo dentro. Sapevo che sarebbe stata una lunga notte, ma non ero preparato a quello che mi aspettava tra le mura della mia cameretta.
CAPITOLO 6
L’aria era fresca e mi accarezzava il viso, scompigliandomi i capelli. Il rumore delle fronde agitate dal vento e il canto allegro degli uccellini erano i soli suoni che udivo e ciò mi sembrava strano, ma piacevole. Abituato al frastuono della città, quella piccola pausa mi faceva sentire sereno, rilassato, pronto ad assaporare ogni istante di quell’improvvisa vacanza. Il prato su cui mi trovavo declinava leggermente verso le sponde di un piccolo laghetto dalle acque chiare, cristalline, mentre alle mie spalle il boschetto di larici e betulle creava una sorta di barriera variopinta. Un grosso tronco – ricordo forse di un’antica piena – era l’unico oggetto visibile sulla stretta striscia di ghiaia fine che costituiva l’arenile. Una nota “quasi stridente” in quel panorama “quasi perfetto”. Sfiorai con la punta delle dita la superficie immobile del lago, come per sincerarmi che tutto quello che vedevo fosse reale. “È fredda…”, pensai mentre osservavo dei piccoli pesci nuotare lungo la parte sommersa di quel grosso pezzo di legno. “Che voglia che ho di fare un bel bagno…”. Mi trattenni dallo spogliarmi e dall’immergermi in quell’acqua cristallina, non tanto per il freddo, quanto per un improvviso senso di pudore. L’idea di rimanere nudo mi metteva a disagio, nonostante non ci fosse nessuno intorno, e questo non faceva che rendere ancora più bizzarra quella strana esperienza. Provai ad aprire la mia mente, per cercare una traccia che spiegasse il mio imbarazzo ma, fatta eccezione per la fauna che popolava quel luogo, non riuscii a captare nulla di anomalo. «Chi sei?» udii all’improvviso una voce nella mia mente, limpida e sicuramente femminile, ma così inaspettata da farmi sussultare. Non avevo percepito nulla fino a quel momento e quel repentino suono mi aveva sconcertato e spaventato allo stesso tempo. «Scusami, non volevo spaventarti, ero curiosa di sapere chi fossi. È da un po’ che ti osservo e mi sembravi così contento di quello che vedevi che mi sono chiesta come mai non mi avessi fatto prima tu questa domanda».
«Io… io non ti avevo sentita…» balbettai cercando di celare l’imbarazzo «forse ero troppo preso a guardarmi intorno. È talmente bello e tranquillo qui… ma dove ci troviamo? Non ero mai stato in un posto come questo…». La vidi arrivare ancor prima di sentire la sua voce giungere dolcemente alle mie orecchie. Stava risalendo la sponda alla mia sinistra, dove un piccolo canneto faceva da schermo al resto del lago. Il suo passo leggero non faceva il minimo rumore, mentre i suoi piedi, a contatto con l’acqua, creavano piccole increspature che si irradiavano dalla riva verso il largo. Era una ragazza poco più grande di me, dalla carnagione scura e dai lunghi capelli neri, raccolti in una spessa treccia che le scendeva fino in fondo alla schiena. Avanzava lentamente, sorridendo e mostrando i suoi denti bianchissimi. La sua felicità metteva ancora più in risalto i grandi occhi, leggermente allungati, di un bellissimo verde intenso. Continuai a fissarla, incapace di dire una sola parola, fino a quando me la trovai di fronte. Il suo viso, a pochi centimetri dal mio, era un volto simpatico, particolare, con un nasino piccolo ma dalle narici larghe, due labbra carnose e le sopracciglia sottili, come le ali di una rondine. Capii subito che era una ragazza asiatica, filippina o forse indonesiana, ma il tilaka2 che spiccava tra le sue sopracciglia non lasciava dubbi. Anche a scuola avevo visto altre ragazze con quel segno, fatto per lo più con matite da trucco colorate. Un simbolo di buon augurio, come mi aveva spiegato una di loro, tipico della cultura indiana a cui appartenevano. «Strano, io mi sono accorta di te quasi subito. Hai una mente aperta con pensieri molto forti, che attirano immediatamente l’attenzione. Sei come una luce nella notte che attrae le falene, come un faro nel mare in tempesta… forse mi trovo qui proprio perché tu mi hai chiamato». «Ma io non ho fatto nulla, almeno niente che ricordi. Ero steso sul mio letto dopo una giornata decisamente difficile e credo di essermi addormentato. Forse questo è semplicemente un sogno e, quindi, tu non sei altro che parte di esso…». «L’ultima cosa che ricordo io è che mi trovavo al tempio di Vaitheeswarankoil, nei pressi di Chidambaram nel Tamil Nadu. Sono stata mandata a studiare il loro tesoro più prezioso: i Naadi Shastra, una sorta di antichissima predizione delle conoscenze passate, presenti e future di migliaia di vite umane, che hanno il compito di cambiare il
2
Il tilaka è quel pallino rosso che portano le donne indiane al centro della fronte. Il cerchietto è preparato con polvere di curcuma rossa o ossido di zinco, amalgamati con vaselina ed è posizionato in corrispondenza del sesto chakra detto “anche terzo occhio”.
destino del mondo3. I Custodi erano certi che le mie facoltà particolari mi avrebbero aiutato a comprendere cosa si celava dietro a quelle millenarie iscrizioni sanscrite. Credo di essermi addormentata un attimo, oppure l’intensa calura potrebbe avermi provocato un malore. Il risultato è che mi sono trovata anche io qui, con i piedi in quest’acqua meravigliosamente fresca, sommersa dai tuoi pensieri…». «I Custodi? Conosci anche tu i Custodi? Come mai? Chi sei tu?» «Certo che conosco i Custodi. La mia è una delle più antiche famiglie della Fratellanza di tutta l’Asia ed è stata la prima ad appoggiare il clan Wulandari nella lunga strada per la riappacificazione. Io sono Sushma della famiglia Ambani e tu chi sei?» «Io… io sono John Casey e abito a Bethlehem, nello Stato della Pennsylvania. Anche la mia famiglia appartiene ai Custodi, ma non so dirti altro perché l’ho scoperto solo da poco. È stato Patrick Sinclair a raccontarmi tutto, a spiegarmi di come i miei genitori mi abbiano tenuto all’oscuro dei loro segreti per tutta la vita…». «Tu conosci Patrick Sinclair? Di persona? Davvero?» aveva spalancato i suoi occhi color smeraldo in un’espressione di autentico stupore, come se quello che aveva appena udito fosse qualcosa di veramente incredibile «come fai a conoscerlo? Sinclair è una specie di leggenda vivente, forse la persona più importante che sia mai esistita in questi ultimi secoli, colui che ha riunificato tutti i discendenti dell’antico popolo dopo millenni di guerre fratricide. Poterlo incontrare è sempre stato il mio desiderio più grande fin da quanto ero piccola…». «È venuto lui da me, per parlarmi delle mie facoltà e di come potrebbero essere utilizzate. Mi ha raccontato di una sorta di profezia che coinvolgerebbe delle persone speciali e di come l’unione di queste facoltà potrebbe salvare tutti noi da una catastrofe incombente…». «La Mano del Destino? È di questo che stai parlando? Anche io sono una delle prescelte, una di quelle persone speciali che potrebbero portare a compimento la profezia. Non è un caso, allora, che ci troviamo entrambi qui in questo luogo e nello stesso momento…». Risvegliarsi da quel sogno fu come risalire un pozzo profondo e scuro. Vedevo un puntino di luce davanti a me, fioco e lontano che piano piano
3
Queste antiche predizioni vennero scritte tramite una specie di chiodo che incideva sulla foglia. Esse poi venivano, e vengono tutt’ora, preservate spargendovi sopra un olio di pavone. Oggi sono conservate nella biblioteca Mahal Saravasti di Tanjore.
si allargava. Era l’unico punto di riferimento tra le tenebre che mi avvolgevano, la sola speranza di poter tornare alla realtà. Mi svegliai madido di sudore in un letto incredibilmente disfatto, come se avessi dovuto lottare per riguadagnare la lucidità. Rammentavo tutto, nitidamente, parola per parola, ma più di tutto ricordavo lei, quella graziosa ragazza indiana dagli occhi verdi e dal sorriso così simpatico, ed ebbi la sensazione che ci saremo rivisti presto. “Sushma…”, sussurrai un’ultima volta tra le labbra, prima di ripiombare in un sonno ristoratore senza incubi né sogni. Dal diario segreto di Sushma Ambani È divertente avere un diario che nessuno può leggere. Posso lasciarlo in bella vista, certa che mai nessuno conoscerà i miei segreti e i pensieri che qui custodisco, poiché è scritto sfruttando le mie qualità particolari che mi permettono di vedere ciò che altri non vedono. Fin da piccola mi bastava uno sguardo per riuscire a comprendere quello che si celava tra le righe. I pensieri nascosti di chi aveva scritto un determinato testo, tutto quello che non appariva a una lettura sia pure attenta e accurata. Sono figlia di una famiglia che ha votato la sua intera esistenza alla causa della Fratellanza, come i miei nonni prima di noi e come i nostri avi ancora prima. Da quando i Custodi ci chiamavano ancora “gli Oscuri” e noi vedevamo in loro il nemico da combattere. Il mio talento sarebbe stato utile anche a loro, ma in quest’epoca di pace e di armonia, dove finalmente i discendenti degli antichi si sono nuovamente riuniti, la mia dote è diventata una risorsa preziosa per il nuovo progetto comune, ossia lo studio degli antichi manoscritti, alla ricerca di ogni traccia che possa avvalorare la teoria dei Protettori. Già, perché il mito secondo cui tutto il sapere gelosamente custodito da entrambi gli schieramenti e proveniente unicamente dai Lemuriani e dai loro fratelli di Zaardum, si è infranto nel momento in cui comparammo millenni di ricerche e di informazioni frammentarie, raccolte separatamente da Custodi e Oscuri. Capimmo in questo modo che le intuizioni su un popolo arcaico, antecedente la stirpe di Mu, ancora più progredito dei nostri progenitori, non solo avevano un fondamento di verità, ma erano addirittura una certezza supportata da prove scientifiche. Fu proprio grazie alle persone come me, con talenti unici, che tutti gli indizi raccolti cominciarono a comporre un puzzle gigantesco, un disegno cosmico dalle proporzioni inimmaginabili. Non voglio sembrare né superba né egocentrica, ma buona parte del merito di questa strabiliante scoperta è del mio gruppo e delle scoperte
che abbiamo fatto, fino ad arrivare addirittura a una versione comprensibile della profezia che i Protettori hanno lasciato prima di scomparire improvvisamente dalla faccia della terra… Non credevo che il sogno fatto la notte precedente avesse un senso, né che fosse di qualche utilità per la missione accennata da Patrick Sinclair. Ero ancora nella fase dell’elaborazione, confuso da tutte quelle informazioni che non avevo avuto ancora il tempo di metabolizzare. La mia vita era cambiata nel giro di una sola sera, come pure era radicalmente mutata la realtà in cui avevo vissuto fino a poco prima. Mi sentivo come se fossi stato improvvisamente catapultato nella trama di un film di spionaggio, dove nulla e nessuno era come appariva, un enorme cumulo di bugie e finzioni, che mi aveva inesorabilmente travolto. Lasciai Bethlehem e la Pennsylvania due settimane dopo quella stranissima sera, tra le lacrime mie e dei miei genitori. Patrick era venuto a trovarci spesso, rispondendo con pazienza a tutte le mie domande e rassicurando i miei genitori su quello che mi aspettava una volta partito dalla mia casa natale. Nonostante fosse motivo d’orgoglio poter servire la causa in modo così attivo e determinante, la pena che provammo al momento del distacco fu tremenda, tanto che per tutta la durata del viaggio mi chiusi in un ostinato mutismo. Non sapevo dove fossimo diretti e i miei sforzi per riuscire a carpire qualche informazione, si frangevano, inesorabilmente, contro le barriere mentali dei miei accompagnatori. «Ci sarà anche Sushma nel luogo in cui mi porterete?» chiesi più per sfida che per curiosità. Non ero certo che una ragazza con quel nome esistesse realmente, né che quello che mi aveva detto nel sogno fosse vero. Non mi aspettavo di certo una risposta, ma dallo sguardo di Patrick, capii di aver fatto centro. «Chi?» mi rispose quasi con noncuranza, cercando di celare troppo tardi la sorpresa. «No… nessuno…» risposi con lo stesso disinteresse, ormai certo che quello che avevo avuto era qualcosa di più di un semplice episodio onirico. Dal diario segreto di Sushma Ambani Il fatto di essere la più giovane del team a volte mi penalizza e mi fa infuriare. Ho notato spesso comportamenti di sufficienza nei miei
confronti, specialmente all’inizio, quando la mole di dati era così grande da scoraggiare chiunque. Separare gli indizi più promettenti dalla marea di dati inutili, o contraddittori, aveva impegnato un numero esorbitante di tecnici e analisti per anni, tanto che più di una volta c’era stata la tentazione di abbandonare l’impresa. Era stata la perseveranza dei nostri leader e i preziosi suggerimenti dei loro alter ego alieni a far comprendere a tutti l’importanza e l’urgenza di arrivare a un risultato nel più breve tempo possibile. Il numero dei candidati era in aumento esponenziale e questo era l’unico dato inconfutabile di cui avessimo l’assoluta certezza. Il meccanismo della profezia si era messo in moto e non si sarebbe arrestato fino all’arrivo della catastrofe annunciata, di qualunque natura fosse. Era stato lo stesso Wening Wulandari a sottoporre ai test i candidati più promettenti, scegliendo i più abili proprio per essere utilizzati nella ricerca della conoscenza dei Protettori, prima tra tutti io. «Il tuo talento è così prezioso che, se ti avessimo avuta da subito nel gruppo di ricerca, a quest’ora non saremmo ancora in alto mare. Tu hai la capacità innata di vedere ciò che altri non vedono, ombre di un passato fissate tra le righe di antichi manoscritti, verità celate tra mille menzogne. Non c’è codice o sotterfugio che ti impedisca di arrivare al nocciolo della questione e il mio unico cruccio è di non avere altri come te, almeno per ora…». Le sue parole avevano avuto lo stesso effetto di sua scossa elettrica. Mi avevano lusingata e responsabilizzata allo stesso tempo, fornendomi uno scopo per la mia vita futura e una gratificazione che non avevo mai provato.
CAPITOLO 7
Dal diario segreto di Sushma Ambani Stanotte ho fatto un sogno strano. Di solito non ricordo quello che sogno oppure i frammenti di memoria sono così brevi da impedirmi di ricostruirli per intero. Questa volta però è stato diverso, più intenso, quasi come una visione, come se la mia mente si fosse proiettata in un altro luogo e il mio corpo l’avesse seguita. Ricordo che il caldo era opprimente e stentavo a prendere sonno, tanto da dover utilizzare una di quelle tecniche yoga che ci insegnano fin da piccole per liberare la mente e rilassare il corpo. “Darei qualsiasi cosa per un po’ di fresco…”, ricordo di aver pensato nell’istante in cui stavo scivolando nell’oblio, inconsapevole che, per qualche strano scherzo del destino, sarei stata presto accontentata. L’acqua era piacevolmente fredda e i piedi, immersi in quel meraviglioso liquido rinfrescante, facevano quasi male. Avevo indugiato a lungo, ferma sul bagnasciuga di quel magnifico laghetto circondato da un bosco rigoglioso, rinfrescata da una brezza che muoveva le fronde degli alberi tutt’intorno. Davanti a me un piccolo canneto ondeggiava pigro nell’acqua, oscurandomi la visuale, mentre il coro degli uccelli creava una dolce melodia rilassante. “Che sogno meraviglioso…” mi ero scoperta a pensare “se l’avessi saputo prima, non avrei perso tutto quel tempo a sudare e meditare sdraiata sul mio letto…”. L’acqua cristallina, leggermente increspata dal vento, rifletteva la mia immagine. Non avevo mai molto tempo da dedicare alla mia persona, ma in quel momento sembrava la cosa più naturale del mondo osservare il mio corpo e il mio viso riflesso in quello specchio liquido. Indossavo una maglietta stretta color turchese, con dei motivi floreali ricamati in oro sul petto e un paio di pantaloncini corti di lino chiaro che mettevano in risalto il mio corpo snello, forte, ma armonioso. Non erano gli indumenti che di solito mettevo per andare a letto, ma piuttosto qualcosa che avrei indossato volentieri in un momento di relax, in un
giorno di pausa da quel lavoro che assorbiva ogni ora del mio tempo e ogni briciola di energia. Indugiai ancora un istante sul mio viso, reso luminoso dalle splendide sensazioni che stavo provando, e sui lunghi capelli neri che, intrecciati, mi scendevano fino a sfiorare il bordo della cintura. Erano il mio orgoglio e il mio vanto fin da bambina, quando mia madre pazientemente li spazzolava a lungo per mantenerli lisci e lucenti. Non riuscivo a scorgere nessuno in quel piccolo paradiso, non un’anima viva con cui condividere quelle bellissime sensazioni, per cui feci la cosa più naturale che mi venne in mente: spalancai il mio chakra ed estesi il più possibile le mie percezioni per assaporare appieno quella sensazione di beatitudine. Ma non ero sola. Me ne accorsi immediatamente, nell’attimo stesso in cui la mia mente si schiudeva verso l’esterno. Qualcun altro stava assaporando le mie stesse sensazioni, poco distante da me, ignaro della mia presenza, nonostante che le emanazioni della sua mente fossero incredibilmente forti e assolutamente non schermate. Un’esperienza nuova per me, abituata a frequentare persone che mantenevano un rigido controllo sulle proprie manifestazioni psichiche. «Chi sei?» Avevo proiettato questa semplice domanda direttamente nella sua mente, certa che mi avrebbe sentito ancor prima di vedermi sbucare tra i giunchi della riva, incurante del fatto che poteva rivelarsi un amico, oppure una potenziale minaccia. “Questo è il mio sogno, perciò non può esserci nulla di pauroso o di pericoloso, giusto?”, avevo pensato subito dopo essermi accorta dell’imprudenza che avevo appena commesso. Ci avevano insegnato che la prima regola a cui ci si deve attenere, è di annunciare la propria presenza a chiunque fosse dotato di poteri mentali, in modo da non scatenare una reazione difensiva automatica da parte della mente ricevente e, proprio ora che ne avevo trovata una così potente, avevo dimenticato le “buone maniere”. Lo sentii sobbalzare mentre il contatto si stabiliva, ignaro della mia presenza, troppo rapito dalle sensazioni che provava, per adottare le più elementari norme di sicurezza. “O è talmente forte da reputare inutile schermare i suoi pensieri, oppure… non ne è a conoscenza. Ma, in questo caso, la domanda diventa ancora più vitale: chi diavolo è questo ragazzo?”, pensai mentre cercavo di ritardare il nostro incontro. C’era qualcosa in lui che mi attirava come una falena verso la luce, ma allo stesso tempo sentivo timore e ansia in un modo che non avevo mai provato prima. Fu lui a rompere quel silenzio imbarazzante che si era creato. Avevo rallentato il passo sperando di scorgerlo tra le fitte canne della riva, ma ogni tentativo si era rivelato vano. Avrei dovuto avvicinarmi ancora di più, ma questo
mi avrebbe esposta, rivelandomi al suo sguardo e allora sarebbe stato troppo tardi per una ritirata strategica. Sentii la sua voce titubante, quasi cercasse le parole giuste per esprimere sorpresa o imbarazzo. “Sembra stia balbettando…” mi scoprii a pensare, mentre un sorriso involontario nasceva sulle mie labbra. Ci incontrammo proprio su quel tratto di riva dove lui mi attendeva immobile, come se fosse suo diritto aspettarmi e non venirmi incontro. Era un atteggiamento di superiorità che all’inizio mi fece infuriare, ma capii immediatamente che non c’era nulla di altezzoso nel suo modo di fare, ma solo tanta timidezza e una grande incertezza su cosa fosse meglio fare in quel frangente. Quel suo modo di fissarmi, ad esempio, mi aveva messa a disagio, quasi volesse farmi capire che sia la mia figura, sia il mio abbigliamento non erano consoni a quell’incontro. Ero così furiosa che, non appena giunsi vicino a lui, quasi senza riflettere lo aggredii verbalmente: «Qualcosa non va? Cosa c’è che non è di tuo gradimento? Mi hai fissata dal primo istante e anche ora non la smetti di squadrarmi come se fossi un fenomeno da baraccone. Avanti, abbi almeno il coraggio di dirmi cos’è che ti dà così fastidio della mia persona» dissi, cercando di apparire più sicura e padrona della situazione di quello che realmente ero. La potenza della sua mente era veramente incredibile ma, nonostante tutto, ancora acerba e in gran parte latente, come se le sue capacità si fossero risvegliate da poco. Ero cosciente di essere stata inutilmente sgradevole e ingiusta, ma ormai era troppo tardi per ritornare sui miei passi. Vidi i suoi occhi sgranati per lo stupore, mentre i suoi pensieri si fecero confusi, come se cercasse di trovare un senso a quello che avevo appena detto. «Io… no, scusa non volevo essere così… è che non pensavo ci fosse qualcun altro qui… credevo di sognare, ma quando mi hai parlato non sono più riuscito a capire cosa stesse succedendo… scusami se sono rimasto a fissarti… ma sei così bella…». Mi sentii in colpa, una brutta persona che non era stata in grado di capire, troppo pronta ad aggredire piuttosto che a riflettere. Cercai di alleggerire l’atmosfera sorridendo, ma nonostante questo, i suoi occhi rimasero fissi nei miei. «E ora che altro c’è?» chiesi, cercando di non sembrare contrariata. In verità ero io a sentirmi in imbarazzo, disarmata da tanta ingenuità, lusingata da così tante attenzioni. L’ambiente in cui ero stata abituata a vivere, non favoriva certo questo tipo di approcci né altre gratificazioni che non fossero esclusivamente a livello professionale, e questo mi rendeva del tutto impreparata a gestire correttamente quella strana situazione.
“Non può essere semplicemente un sogno perché se lo fosse, non dovrei sentirmi così vulnerabile, così impreparata. Chi è veramente questo ragazzo?” pensai prima di udire la sua risposta. «Non riesco a distogliere lo sguardo dai tuoi occhi. Scusami se sembro maleducato, ma non ne ho mai visti di eguali, di un verde così intenso da far pensare a una foresta in primavera o ad uno di quegli smeraldi, talmente puri, da poterli vedere solo in televisione… perdonami…». Aveva distolto lo sguardo, lasciandolo vagare lontano dalla mia persona, ma avevo chiaramente percepito lo sforzo che gli era costato accontentarmi. Mi sentivo talmente in colpa che cercai in ogni modo di rimediare, per cui decisi di portare il discorso su qualcosa di “meno personale”. «Che questo non è un comune sogno ormai lo abbiamo capito entrambi. Resta da scoprire cosa sta succedendo e perché siamo tutti e due qui, davanti a questo lago. Sei stato tu, oppure…». «Io non ho fatto proprio niente» rispose come se lo avessi incolpato di qualcosa «ricordo di essere andato a dormire, dopo una delle giornate peggiori della mia vita e, zac, mi sono trovato qui. Tu piuttosto, non è che questo è merito tuo?» «Io mi trovavo al tempio di Vaitheeswarankoil, nei pressi di Chidambaram nel Tamil Nadu, a studiare il loro tesoro più prezioso: i Naadi Shastra, le antichissime predizioni delle conoscenze passate, di questo ne sono sicura. Credo di essermi addormentata a causa dell’intensa calura e di aver desiderato di essere in un posto fresco, dopo di che mi sono trovata qui con te. Se i Custodi sapessero che invece di analizzare i reperti sto beatamente dormendo, non ne sarebbero affatto contenti…». Quando nominai i Custodi lo vidi trasalire, come se fosse sorpreso del fatto anch’io li conoscessi. Gli chiesi, con cautela, il motivo di tanto stupore: «Tu sai chi sono i Custodi? Ma chi sei?». Sentii la sua mente chiudersi immediatamente, in un modo talmente potente da scuotermi. Ero così sconcertata che impiegai un po’ per riprendere il controllo delle mie emozioni e allora dissi risoluta: «Chi sei tu? Io conosco i Custodi. La mia famiglia appartiene all’Ordine da sempre ed è stata la prima ad appoggiare il clan Wulandari durante la riappacificazione. Io sono Sushma della famiglia Ambani, ma non ho ancora capito chi sia tu». Involontariamente ero tornata di nuovo sulla difensiva. Avevo dato per scontato che anche lui facesse parte della Fratellanza, ma ora nulla era più chiaro e il timore di trovarmi di fronte a un potenziale nemico, mi aveva fatto tornare nuovamente aggressiva.
«Io… io sono solo John Casey, un ragazzo qualsiasi che abita a Bethlehem, nello Stato della Pennsylvania. Anche la mia famiglia appartiene ai Custodi, ma non so altro perché l’ho scoperto solo oggi. È stato Patrick Sinclair a raccontarmi tutto, a spiegarmi di come i miei genitori mi abbiano tenuto all’oscuro dei loro segreti per tutta la vita…». “Patrick Sinclair? Quel Patrick Sinclair, fautore della riunificazione, il più potente Custode che sia mai esistito?”. Fu solo un lampo nei miei pensieri, ma capace di chiarire molte delle domande che mi ero posta fino a quel momento. Capii finalmente come una mente così brillante e potente potesse essere anche così impreparata e poco disciplinata. Non ne avevo più paura e l’attrazione che le nostre due auree percepivano, poteva essere spiegata solo in un modo: “Che sia lui una delle dita della Mano del Destino? E in questo caso, potrei esserlo anch’io?”, pensai mentre, a fatica, tornavo cosciente nella calura indiana del tempio di Vaitheeswarankoil. Fine anteprima. Continua...
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