La Moschea

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In uscita il 23/12/2015 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2016 ( ,99 euro)

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LAURA VARGIU

LA MOSCHEA

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www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA MOSCHEA Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-939-5 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Dicembre 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

Ogni riferimento a fatti, persone e santi è assolutamente casuale. Tranne ciò che non lo è.


Ad Angelo



“Ce que tu donnes, Momo, c’est à toi pour toujours; ce que tu gardes, c’est perdu à jamais!” (Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran, E.-E. Schmitt)

“Quel ch’è presso di voi rapido passa, quel ch’è presso Dio dimora in eterno”. (Corano, XVI:96)



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Capitolo 1

Quella mattina don Eusebio, riposti in tutta fretta i paramenti con cui aveva celebrato messa, uscì di corsa senza nemmeno ripassare dalla canonica. L’orologio del campanile segnava sette minuti alle otto allorché lui prese a scapicollarsi giù per la gradinata della chiesa. “Iniziamo bene la settimana!” borbottò tra sé, mentre finiva di abbottonarsi il cappotto per strada. “Che diavolo sarà mai successo? Che Dio mi perdoni!” La sera precedente una strana quanto inattesa telefonata da parte del sindaco aveva interrotto la cena e occupato i pensieri insonni del sacerdote fino a notte fonda. «Una questione delicata, padre. Meglio parlarne di persona…» si era sentito rispondere con tono solennemente preoccupato, appena aveva domandato di che cosa si trattasse. E gli era stato


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dato appuntamento presso la sala consiliare del comune alle otto dell’indomani mattina. Per rispettare l’orario convenuto, e non venir così meno alla sua nota puntualità, quel giorno don Eusebio s’era dovuto spicciare più del solito; in verità, già di per sé, non era certo prete che amasse tirarla troppo per le lunghe nell’esercizio delle sue funzioni, ancora meno durante la prima messa del mattino che, nonostante il suo inizio fosse stato via via posticipato nel corso degli anni, continuava a essere frequentata per lo più da vedove e vecchie zitelle il cui numero ben di rado superava quello delle dita di una mano. Ma, in particolare negli ultimi due lustri, l’affluenza ai riti liturgici, in qualsiasi fascia oraria della giornata si svolgessero, si era di molto affievolita e solo la messa domenicale e quelle delle festività più solenni registravano una presenza accettabile per la quale valesse ancora la pena di aprire l’antico portone della chiesa e far suonare le non meno vetuste campane custodite dalla torre. Lontani i tempi in cui qualcuno dei fedeli sgomitava per trovar posto tra i banchi affollati della domenica, o quelli in cui i ragazzini facevano a gara per indossare gli ambiti panni da chierichetto; persino le lezioni di catechismo si svolgevano ormai in sede diversa e a seconda dei


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giorni e degli orari più comodi alle famiglie che vi mandavano i figli. Non che tutto ciò facesse dei parrocchiani di don Eusebio dei cattivi cristiani, al contrario: tutta gente rispettosa e timorata di Dio, per carità! Tuttavia, era innegabile il fatto che i pignoli costumi religiosi di una volta fossero andati incontro a una certa inevitabile rilassatezza che, evidentemente, aveva indotto molti a considerare la strada che da casa propria conduceva fino a quella di Nostro Signore troppo lunga e faticosa perché potesse essere percorsa spesso. Forse la colpa era di tutte quelle distrazioni moderne che anche in paese iniziavano ad ammiccare agli abitanti, per tacere poi dei capricci del tempo atmosferico che, con il freddo d’inverno e il caldo d’estate, in un modo o nell’altro assecondavano la pigrizia dei fedeli nel farsi vedere in chiesa. E che cosa poteva farci un povero prete ingrigito da cinquanta e passa anni, se non continuare a svolgere con pazienza il suo dovere e accontentarsi di quel che di volta in volta si presentava? Con questi e simili pensieri, frammisti alla curiosità di conoscere il motivo della convocazione, don Eusebio varcò trafelato la soglia della sede del municipio prima ancora che le campane della sua chiesa battessero le otto.


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«Buongiorno, caro padre! Si accomodi pure: aspettavamo solo lei!» lo accolse il primo cittadino appena la sua tonaca fece capolino nella sala al primo piano dove il consiglio comunale, già schierato al completo, sembrava essersi riunito con largo anticipo. Nell’aria si avvertiva un insolito misterioso imbarazzo. “Non manca proprio nessuno!” pensò il sacerdote, notando subito, oltre a quella dei dodici consiglieri capeggiati dal sindaco, anche la presenza del comandante dei vigili urbani e, soprattutto, del professor Arricciasassi, esimio cittadino al quale la comunità tributava il titolo di professore senza sapere con esattezza che cosa lui avesse insegnato, dato che nelle scuole cittadine, e così pure altrove, non aveva mai avuto cattedra. Né si era a conoscenza in quale campo si fosse laureato quarant’anni prima. Era costui esperto di tutto e niente e più dichiarava d’intendersi del primo, più dimostrava in realtà d’intendersi del secondo; era, inoltre, il noto autore di un libro semisconosciuto che dai polverosi scaffali della biblioteca comunale era forse uscito in prestito sì e no dieci volte in dieci anni. Da tempo immemorabile sosteneva di essere molto impegnato nella stesura di una seconda opera che, tuttavia, tardava a essere data alle stampe, forse perché il professore, scapolone impenitente e poco ambito, era solito intrattenersi piuttosto ai tavolini dei bar in piazza che alla scriva-


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nia del suo studio. Più presunta che accertata, la sua fama di uomo di lettere superava di gran lunga quella di maestro Bianchi, il vicesindaco, che uomo di lettere lo era per davvero, dal momento che lui le lettere, quelle dell’alfabeto, le insegnava da oltre due decenni ai bambini della locale scuola elementare. E, non a caso per via dei suoi impegni didattici, fu proprio quest’ultimo, a sollecitare l’inizio ufficiale della riunione. Riprese allora la parola il suo superiore in grado, con la pacatezza che di consueto distingueva il suo parlare: «Padre, anzitutto perdoni se ci siamo permessi di convocarla qui oggi, così all’improvviso. Beninteso, questa è una riunione informale, che ha luogo oltretutto in orario non certo abituale per il nostro consiglio comunale. Abbiamo ritenuto opportuno informare anche lei di una questione; il professor Arricciasassi ne è già al corrente. Ho preferito invece non avvisare il maresciallo dei carabinieri, almeno per ora...» «Venga al punto, signor sindaco!» lo esortò don Eusebio che ben sapeva, e temeva, quanto l’altro fosse capace di girare a lungo attorno a un argomento prima di affrontarlo. Il sindaco Nicolino Fanti, ragioniere vecchio stampo ormai in pensione, era tipo avvezzo a far economia di tutto fuorché delle parole. Del resto, già al secondo mandato, non era stato rieletto a


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furor di popolo per aver scialacquato le risorse delle casse comunali che la sua giunta amministrava anzi con una strenua parsimonia che sarebbe stata degna di ammirazione da parte dei più abili contabili costretti, a superiori livelli di amministrazione, a fare i salti mortali in tempi di tagli e revisione della spesa pubblica. Alle sue rigide direttive di governo, riflesso – malignava qualcuno – di taccagneria in primo luogo personale, si conformava l’operato di giunta e consiglio, i cui membri lavoravano insieme nell’interesse della comunità e al di là della rigida quanto sterile contrapposizione delle categorie di minoranza e maggioranza. Le due o, assai sporadicamente, tre liste civiche che si presentavano alle elezioni comunali, chissà perché, non avevano mai aderito alle logiche di destra e sinistra dei partiti tradizionali, vecchi o camuffati da nuovi che fossero, tant’è che da quelle parti sia rossi sia neri non s’erano più visti dagli ormai remoti tempi di guerra e immediato dopoguerra. Nemmeno le campagne elettorali dei candidati provinciali e regionali vi facevano più tappa, ché laggiù la politica, quella delle grandi promesse e dell’inconcludenza, proprio non riusciva ad attecchire. E così, vegliato dalle montagne, il piccolo paese era rimasto lì, intorpidito e accovacciato nell’isolamento della sua valle solo in parte


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spezzato dai programmi della televisione e dal passaggio sporadico di qualche corriera giornaliera. Al riparo senz’altro da molte cose, ma non da tutto. «Ebbene!» guizzò il sindaco. «Al qui presente assessore Bourmot è stata riferita una notizia che ha trovato un riscontro alquanto preoccupante. A dire il vero, molto preoccupati lo siamo già…» E tutti ad annuire, confermando gravemente. «Ascolti, ascolti, don Eusebio!» s’intromise l’assessore in questione, portatore della misteriosa novella. «Se qualcuno spiegasse infine pure a me…» ribatté il prete che, sotto sotto, già iniziava a spazientirsi. Fanti proseguì: «Le dicevo, il nostro Bourmot ha saputo, avendoglielo raccontato i due fratelli Roreto, quelli del tabacchino, i quali l’hanno appreso a loro volta dalla viva voce della vedova Botto, la sarta, l’ultima volta che questa è andata a fare una delle sue solite puntatine al lotto, a cui è stato confidato dalla signora Glossalonga, con la consueta discrezione che distingue il suo lavoro allo sportello della banca, che…» e qui fece una pausa dopo tutta una tirata, «…che molti di loro hanno ritirato all’improvviso, nel giro di pochi giorni, parte dei propri risparmi depositati presso il medesimo istituto di credito».


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«Mi scusi, non la seguo…» fece don Eusebio, persosi per davvero lungo quella ingarbugliata concatenazione di fatti e persone. «Mi lasci finire, padre. Certo, fin qui niente su cui sindacare: ognuno, ci mancherebbe, è libero di disporre dei suoi quattrini come e quando meglio crede. Non è questo il punto, naturalmente». «E quale sarebbe, il punto?» «È presto detto: il possibile utilizzo di quel denaro in contrasto con gli interessi della collettività!» «Giustissimo!» si sentì in dovere di commentare a gran voce Arricciasassi, senza che nessuno gli avesse chiesto niente. «La ringrazio, professore. Ma vado a precisare meglio e a concludere, in modo tale che ne possa convenire anche don Eusebio». “Dio sia lodato!” non poté trattenersi dal pensare quest’ultimo che ancora ne sapeva quanto prima. «Allora, a breve distanza dall’indiretta notizia dei citati prelievi bancari, manco a farlo apposta, lo stesso Bourmot ne ha appresa direttamente un’altra che, ora come ora, ci fornisce un quadro della situazione a dir poco chiaro e completo: sabato scorso, ovvero due giorni fa, l’assessore si trovava in farmacia in attesa del proprio turno allorché uno di loro – lei sa bene quanto sia picco-


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lo il locale del dottor Anselmi e quanti clienti spesso vi si accumulino a causa della lentezza del servizio – iniziò a scambiare qualche chiacchiera con i propri vicini della fila, raccontando, forse vantandosene, che pure loro avranno un luogo di ritrovo e preghiera per il quale stanno provvedendo a una sorta di colletta, appunto tra loro… Mi dica lei, padre, se due più due non fa quattro!» E a ogni loro fino a quel momento pronunciato il sindaco aveva calcato la voce, rimarcando con cura quello che dunque non era un semplice né anonimo pronome. «Se non bastasse la testimonianza di Bourmot, chieda, chieda pure ad altre persone presenti quel giorno in farmacia, come Remigio il capocaccia o Ninetta la miracolata, due dei suoi parrocchiani più assidui a quanto si sa: tutti hanno potuto sentire le loro intenzioni!» «Ma, scusi signor sindaco, loro chi?» «Loro, gli immigrati!» Passasse Ninetta, una delle stagionate zitelle che affollavano in genere la prima funzione del mattino, detta la miracolata perché tale si era sentita e dichiarata a seguito di un viaggio in un noto santuario d’oltralpe (tuttavia, secondo don Eusebio, qualche merito doveva pur averlo il medico che l’aveva operata poco prima


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a un’ernia), ma da quando Remigio il capocaccia era uno dei “parrocchiani più assidui” se alla messa della domenica aveva sempre preferito il tiro agli uccelli o a selvaggina d’altra specie, anche nei periodi in cui l’attività venatoria risultava formalmente chiusa? Forse fu più per questa azzardata affermazione di Fanti, e non per l’ultima parola da lui pronunciata, che sul volto del sacerdote si dipinse per qualche istante una sconcertata espressione d’incredulità, con tanto di bocca aperta. «Gli immigrati!» ripeté il sindaco. «Chi altri, se non gli stranieri? C’è rimasto di sasso pure lei, eh padre?» Nell’aula esplose di colpo un brusio generale, nel quale ognuno dei presenti riversava il proprio personale commento sul fatto all’ordine del giorno. E, a giudicare dal polverone sia pur invisibile che esso già sollevava, all’ordine del giorno ci sarebbe stato per molti e molti giorni a venire. «Signore, signori, colleghi… Silenzio, per favore!» si erse in tutta quella confusione la voce autorevole del primo cittadino. «Lasciate che adesso il comandante Benincasa esponga anche a don Eusebio che cosa ha saputo, a dimostrazione di come la situazione potrebbe prendere davvero una brutta piega».


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Il capo della polizia municipale, tutto impettito e quasi sull’attenti, scattò dunque riferendo ciò che era pervenuto alle sue, non per niente, vigili orecchie attraverso l’antico ma sempre efficace metodo del passaparola: stando a fonti anche in questo caso attendibili e d’indiscutibile prestigio popolare, loro, gli immigrati, erano già in trattative con gli eredi del cavalier De Bernardis, buonanima, per l’acquisto del vecchio rudere all’ingresso del paese. «Capisce, don Eusebio?» riattaccò Fanti. «Quelli vogliono comprare la malconcia proprietà di De Bernardis, che oramai cade a pezzi e non è più buona neanche per ripararvi il bestiame…» «Ma siamo sicuri che i figli del cavaliere siano disposti a vendere?» lo interruppe il prete. «Se siano disposti a vendere?» gli fece ironica eco Arturo Fragorella, assessore all’ambiente e ai lavori pubblici. «Non sembrerà loro vero di riuscire finalmente a disfarsi di quell’ammasso di calcinacci! Che se ne fanno? Da anni vivono in città, qui nessuno li ha più visti passare nemmeno per sbaglio!» «Altroché!» aggiunse qualcun altro tra i banchi del consiglio. Il sindaco riagguantò il filo del discorso: «Il rischio è grosso, padre! I De Bernardis, vendendo, faranno di certo un buon affare, ma coloro che ne faranno uno pessimo saremo noi perché è


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più che probabile che quegli altri vogliano buttar giù il rudere per far sorgere sul medesimo terreno uno dei loro posti di ritrovo, uno di quei… Come caspita si chiama? Professor Arricciasassi, mi aiuti lei che ne sa più di tutti…» «Mo-sche-a!» sillabò prontamente l’interpellato, il quale prese a declamare come se avesse avuto davanti agli occhi una pagina di enciclopedia: «Chiamasi moschea quell’edificio di culto atto a raccogliere i musulmani in preghiera». Nell’udire codeste parole scese all’improvviso su quella assemblea un silenzio profondo che manco al cimitero s’era mai sentito. Un poco in imbarazzo toccò a don Eusebio spezzarlo: «Ma qualcuno di voi ha provato a parlare della questione con gli interessati?» «Beh, no… Non ancora, padre. Sia certo però che si provvederà al più presto poiché una spiegazione ce la devono, eccome se ce la devono! Una moschea qui, nel nostro paese! Mi dica lei: quando mai si è vista?» si scaldò Fanti in modo insolito. «Ma dove credono di essere? A casa loro?» se ne uscì l’ultrasessantenne signorina Amelia Passinnanzi, assessore alle politiche familiari (lei che, di famiglia, non ne aveva mai messa su una propria) con delega, per di più, a quelle giovanili.


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Qualcosa dello stesso genere bofonchiò anche l’altra donna delle istituzioni comunali, la più giovane consigliera Celestina Leo; tra lei e la Passinnanzi – spesso si faticava a comprendere chi tra le due fosse la più indisponente – si esauriva la rappresentanza femminile nell’ambito dell’intensa politica locale. Ulteriori commenti seguirono a ruota libera, esprimendo pensieri che, con buona probabilità, fino ad allora non erano mai stati oggetto di tanta riflessione da parte di nessuno: «Chi ce lo garantisce che una moschea serva soltanto per pregare?» si preoccupava qualcuno. «Pure questa sarà dotata di campane, come la chiesa?» s’interrogava qualcun altro. «C’è poi la storia poco chiara di quel loro profeta… » si allarmava un altro ancora. «E pensare che sembravano pure brave persone…» biasimavano e concordavano in molti. Perplesso e disorientato, don Eusebio ascoltava tutti e tutto, senza sapere bene che cosa pensare. Del resto, riflessivo e meditabondo per natura, non aveva affatto l’abitudine di giudicare persone o cose in modo frettoloso, sia pure davanti a prove evidenti; ecco perché, quando il professor Arricciasassi gli si rivolse domandandogli quale fosse la sua opinione in merito alla fac-


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cenda, lui non poté che rispondere confusamente: «Occorre valutare bene, capire le reali intenzioni…» «Non c’è molto da capire: due più due fa quattro, le ho già detto e, mi pare, dimostrato!» esclamò il sindaco che, punzecchiandolo, aggiunse: «L’idea di una cosiddetta moschea a poche centinaia di metri dalla sua chiesa non credo la lasci indifferente o le faccia fare i salti dalla gioia: non è così?» «Effettivamente…» farfugliò il sacerdote, oramai sopraffatto da tutto quel parlare. «Comunque, caro don Eusebio, avrà modo di capire e valutare per bene, come dice lei. A questo punto, infatti, urge convocare quanto prima una nuova assemblea, alla quale stavolta prendano parte anche loro! Non tutti insieme, intendiamoci, quanto meno chi li rappresenta, primo fra tutti quel Mustafà che sembra essere il capo!» «Sì, sì, convochiamolo qui e presto!» convennero all’unanimità i presenti, tutti tranne maestro Bianchi che al trillo della campanella, sebbene non si fosse certo udito fin là, era corso a scuola dai suoi giovani allievi senza che nessuno dei politici colleghi se ne fosse accorto. E con la promessa, o la minaccia, di una prossima e più accesa riunione, anche tutti gli altri, compreso don Eusebio, tornarono ai propri impegni e occupazioni di ogni giorno. Soltanto con qualche pensiero in più. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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