FABIO PARIETTI
LA PIAZZA DELLE CINQUE VITE
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LA PIAZZA DELLE CINQUE VITE Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-470-3 Copertina: “L’Attimo” di Paolo Redondi
Prima edizione Dicembre 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono. (A.Einstein)
Inverno
7
1.
L’orologio sul cruscotto segna impietoso le otto e cinque minuti di quella caotica e gelida alba di febbraio. Lei rallenta la sua auto, non solo a causa del traffico congestionato, tipico delle mattinate invernali, ma soprattutto per abbassare il vetro e lasciare che il profumo del pane fresco, l’aroma di focacce e brioche, si fonda con quello più acre e velenoso dello smog che opprime auto e persone, alberi e strade di quel paese di transito. Non è golosa, non nel senso classico del termine, ma è frequente vederla mangiare con soddisfazione cose genuine, fatte in casa. Così, quelle delicate fragranze che escono dall'appannata vetrina del panificio sul bordo della strada le provocano sempre un certo languore. Ogni mattina inforca a passo d’uomo quello schizofrenico crocevia di lamiere a motore, di semafori e attraversamenti pedonali, provando a isolarsi per riuscire ad annusare un refolo d’aria nostrana: un alito di natura che possa alleviare la claustrofobica idea di doversi rinchiudere in ufficio, e relazionarsi con un PC d’ultima generazione per le sei lunghe ore che il suo sottopagato impiego part-time le impone ogni giorno. Transitare davanti al panificio e rubare un po’ di quelle fragranze è il momento più piacevole delle sue giornate. Vorrebbe fermarsi ed entrare per comprare un paio di focacce, proprio com’era solita fare quindici anni prima quando, tutte le mattine, s’intrufolava nel forno di suo nonno per salutarlo e sgraffignare un paio di quelle sane, unte e salate bontà; ma l’orologio sul cruscotto segna impietoso le otto e cinque minuti, che significa essere in ritardo, come quasi tutte le mattine da ormai dieci anni. E non servirebbe nemmeno comprare un croissant per ognuno dei suoi colleghi, perché il capo la rimprovererà comunque: niente potrebbe addolcirlo davanti al suo ennesimo ritardo. Acceleratore, frizione, freno. Automatico, come una danza, come uno dei ritmi latini con cui si dimena ogni giovedì, assieme al marito, nell'unica
8 fredda e squallida sala da ballo del paese in cui vive. Percorre qualche decina di metri, poi stop, la fila d'auto davanti alla sua la costringe ad arrestarsi ancora. Un rumore improvviso, sinistro, cattura la sua attenzione più del profumo di pane fresco, più del timore del suo capo. Un rumore inizialmente lontano, uno strano gracchiare: forse un motore scarburato o, chissà, una marmitta bucata. Guarda nello specchietto retrovisore per cercare di individuare la provenienza di quel noioso frastuono, così riesce a scorgere l’avvicinarsi a grande velocità di uno scooter barcollante e instabile. E’ un’immagine buffa anche da quella prospettiva rovesciata: un motorino non troppo grosso, anzi decisamente piccolo, guidato da un tipo lungo e visibilmente smilzo, zigzaga spedito nel traffico sfiorando e scartando all’ultimo istante tutti i veicoli in coda su quell’affollato tratto di strada provinciale. Un sorriso leggero, appena accennato, abbellisce il volto di lei mentre assiste al ronzante incedere di quelle due ruote disassate e tenute assieme con il filo di ferro. L’ultima deviazione, l'estremo brusco tentativo di evitare l’auto di lei fallisce. Un colpo sordo scuote un poco l'auto e il corpo della donna. Dallo specchio retrovisore lei riesce solo a intravedere la figura del goffo cavaliere inclinarsi paurosamente verso il ciglio della strada, e scomparire come una nave inghiottita dall’oceano, dopo essere stata speronata di lato. Resta immobile all’interno dell’abitacolo per alcuni istanti. Il sorriso è ancora stampato sul suo volto, ma a vederla lo si direbbe dovuto a una paralisi momentanea. Dopo alcuni interminabili attimi di sgomento, la donna scorge finalmente il ragazzino che riemerge da dietro l’auto, con l’espressione stralunata e sfinita di un alpinista giunto in vetta e pronto a piantare la bandiera del trionfo. A quel punto anche lei si riprende: ancora in confusione accosta l’auto e scende. Il profumo del pane fresco è improvvisamente svanito, come se l’incidente, o lo spavento, le avessero anestetizzati i sensi. Si avvicina titubante al ragazzo che nel frattempo è riuscito, non senza sforzi, a rialzare da terra anche l’ammasso di ferraglia che si ostina a utilizzare per spostarsi da un lato all’altro di quell’anonima provincia veneta. La gente che si era fermata per prestare soccorso, o per semplice curiosità, inizia a diradarsi. Il ragazzo risponde con gesti scomposti alle domande di un paio di passanti che se ne vanno tranquillizzati, subito dopo. Rimangono soli, lei e il tipo smilzo dello scooter. La testa del ragazzo diventa enorme nel momento in cui si leva il casco: una folta chioma riccia, crespa, esplode letteralmente invadendo lo spazio circostante. Le orecchie e la fronte scompaiono sotto i capelli, e ci manca davvero poco che anche gli occhi si nascondano, intimiditi, dietro quei folti boccoli neri. Dopo aver
9 adagiato il motorino sopra il cavalletto, lui inizia a ispezionarsi le mani e le ginocchia per capire se vi siano ferite più profonde, oltre alle inevitabili, leggere abrasioni. «Ti sei fatto male ragazzino?» «No, almeno non mi sembra. Ho spaccato i pantaloni… Adesso, almeno, sono come quelli dei miei compagni di classe...». Lei non capisce il senso di quell’affermazione, ma il viso ironico del ragazzo la induce, di riflesso, a sorridere fingendo di aver compreso lo spirito di quella che deve essere una battuta. Poi torna seria, almeno ci prova. «Andavi un po’ troppo forte! Perché non hai frenato?» «Ho calcolato male gli spazi, pensavo di riuscire a schivarti... Ma ho sfregato il cavalletto contro il marciapiede e ho sbandato un po'. Così non mi è riuscito di passare a destra. E tu? La macchina? Si è fatta qualcosa?» «Non m’importa della macchina.» «Mi spiace, scusa. Ti lascio il mio numero di telefono, e anche quello di casa. Anzi, se vuoi possiamo passare da mia madre adesso... così sistemiamo...» «No, ora non ho proprio tempo. Ti chiamo io, più tardi». Lei piega, senza leggerlo, il foglietto su cui il giovane ha scritto i propri recapiti telefonici, quindi risale in auto e riprende la marcia verso il posto di lavoro. Lui riavvia lo scooter con una sequenza di vigorose pedalate sopra la malcapitata leva dell'accensione e, risalito in sella, ricomincia a scorrazzare proprio come qualche minuto prima, sbandando e rischiando di colpire un furgone in sosta poco più avanti. Ancora spaventata, non dall’incidente ma per come il ragazzo stia nuovamente disegnando rischiose traiettorie su quell’insidioso tratto d’asfalto, la donna compone un numero sul telefonino. Dall’altra parte dell’apparecchio, una voce maschile risponde dopo qualche squillo. «Ciao amore, sai cosa mi è appena successo? Sono stata tamponata da un ragazzino in scooter...» «Si è fatto male qualcuno? Com’è successo?» «No, niente. Tranquillo. A quanti anni si può guidare uno scooter?» «A quattordici.» «Allora doveva avere quattordici anni, non di più. Era troppo sfigato. Avresti dovuto vederlo, magrissimo con una testa piena di ricci come quello che fa le gare in moto, l’amico di Valentino, come si chiama... Va beh! Andava come un pazzo e ha detto di non essere riuscito a frenare in tempo.»
10 «La macchina?» «Ha rigato un po’ il paraurti e ha fatto un piccolo bozzo, ma visto com’è già conciata, non me la sento di farla sistemare e fargli pagare un sacco di soldi. Però andava davvero come un pazzo, mi sono spaventata. Mi ha lasciato i suoi numeri di telefono, il cellulare e quello di casa. Vorrei chiamare sua madre e avvisarla comunque. Insomma, vorrei dirle che il figlio è un po’ scapestrato.» «Beh, sempre che ti abbia dato i numeri giusti e non li abbia inventati... A quell’età...» «Mi è sembrato sincero. Aveva una faccia molto simpatica, era davvero un tipo buffo.» «Vedi tu se è il caso di avvisare la madre... Non mettiamolo nei casini, se hai deciso di non denunciare l’incidente». Arriva in ufficio in ritardo e, come previsto, subisce le ire del suo capo. Prova a spiegare ciò che le è successo, l’incidente, ma non è trattata meglio del solito. Decide che chiamerà la madre del ragazzo, durante la pausa pranzo. Compone il numero e il segnale di linea libera risuona sorprendendola un po’. Poi una voce giovane ma profonda risponde al telefono. «Pronto, ciao, sono la ragazza che hai tamponato stamattina, mi chiamo Ilaria.» «Ciao, sono Andrea». E’ proprio lui, Andrea è il nome che ha lasciato. E ha risposto. Il numero è dunque vero, autentico. S’interrompe un istante, forse sorpresa del fatto che il ragazzino sia stato sincero. Ilaria chiede ad Andrea di poter parlare con la madre. Passano alcuni secondi di vuoto in cui lei non sente niente, quindi non immagina cosa stia accadendo in quegli istanti di probabile, fitto dialogo tra il ragazzino e la madre. Poi, improvvisa ma ferma, una voce femminile rompe il silenzio. «Pronto? Mio figlio mi ha appena detto quello che è successo. Non so davvero come scusarmi.» «Non importa. La sto chiamando solo per informarla che non ho intenzione di denunciare l’incidente, ma vorrei metterla in guardia sul fatto che suo figlio ha una guida diciamo... allegra.» «Lo so. E non sa quante volte ho cercato di fargli capire di darsi una regolata quando è sulla strada: ma sa com’è, a diciassette anni, è difficile che ascoltino i genitori. Lei ha provato a dirglielo?» «Come? Diciassette anni? Suo figlio ha davvero diciassette anni?»
11 «Sì! Quasi diciotto!» «Pensavo fosse molto più giovane...». Il resto del dialogo tra le due donne è molto cordiale. Traspare una certa complicità, nonostante non si siano mai incontrate né sentite prima di allora. E’ come se entrambe fossero mosse da una sincera preoccupazione per il comportamento un po’ scriteriato di Andrea. Ciò è ovvio e comprensibile da parte della madre, ma perché Ilaria sia così interessata alle sorti del ragazzo, perché si senta così coinvolta da quel tipo smilzo con i ricci, non se lo riesce proprio a spiegare. «Perché non passa qui in negozio così ci conosciamo, e le do quanto dovuto per il danno all’auto?» «Non ci sono problemi per l’auto, davvero. Però in negozio passerò, così ci conosciamo». Scopre dunque di parlare al telefono con la proprietaria del panificio che ogni mattina stimola il suo olfatto e la sua fantasia. Quello stesso panificio non distante da dove è stata tamponata da Andrea. Riattaccano il telefono. Ilaria è certa di aver fatto la cosa più giusta. Non ha infierito sul ragazzo e, nello stesso tempo, ha segnalato alla madre la necessità di controllarlo più da vicino. Continua a riflettere su quanto si sia sbagliata nel valutare l’età di quel tipino tutto ossa. Era seriamente convinta, prima di sapere dalla madre l’esatta età di Andrea, che il ragazzo non potesse avere più di quattordici anni. Invece ne ha diciassette, quasi diciotto: non certo un uomo, ma una persona da cui aspettarsi qualcosa in più, sì! Quel suo aspetto da bambino cresciuto, chissà perché l’ha colpita, cosi come quel suo modo di vestire tanto diverso dai suoi coetanei, quel sorriso fanciullesco e quei capelli davvero improbabili. Per contro, il fatto che le abbia lasciato dei riferimenti precisi, e che abbia raccontato l’incidente alla madre, depone a suo favore, dimostrando una maturità forse solo accennata ma comunque già apprezzabile. Rientrando dal lavoro, quella sera, Ilaria passa dal panificio per conoscere Tatiana, la madre di Andrea. Rientra a casa con in mano un sacchetto contenente due focacce e la certezza di avere incontrato una persona gradevole, che potrebbe diventare un’amica in un futuro non troppo lontano.
12
2.
L'autobus color rosso rallenta la sua corsa e si arresta bruscamente, minando l'equilibrio delle persone ammassate nel corridoio centrale della vettura. Le porte si aprono e la ragazza bionda dalle vistose scarpe rosa scende imbarazzata e titubante, guardandosi attorno quasi stordita. Davanti ai suoi occhi la scena che le si presenta è sbalorditiva. Un'immagine ammirata mille volte in televisione, in fotografia e sul web, nei giorni della preparazione del viaggio, ma che dal vivo le appare ancora più magnificente. Una lieve e rada nebbia ammanta la tipica, fitta pioggerella della metropoli inglese, donando a Trafalgar Square un’immagine tremendamente stereotipata di quel luogo, come un’istantanea appena catturata per le pagine di un dépliant turistico. Gira la testa più volte come a cercare di orientarsi, come a voler marcare nella sua mente precisi punti di riferimento. Incurante della pioggia e dell'ingarbugliato traffico dell’ora di punta, attraversa una delle vie laterali per raggiungere il pub nel quale è fissato l’appuntamento con Mr. Seeking, il suo contatto, il suo tutor per quell’anno di studi che trascorrerà a Londra. Entra, timida, nel locale. Ammira lo stile anglosassone di quel pub del centro con le luci basse, il fumo sospeso tra i tavoli, il soffitto e le pareti in mogano. Sulla parete più lontana dall’ingresso c’è il bancone del bar. Sparsi, quasi alla rinfusa, ci sono una decina di tavoli di legno con sgabelli e sedie di diversa forgia. Tutto è esageratamente tipico in quel posto, quasi come un set cinematografico: anche il barman e i clienti sembrano comparse di un film con Hugh Grant. Alcuni di loro si voltano quando la porta del locale sbatte dietro le spalle di quella ragazza bionda, alta e con un’abbronzatura davvero improbabile per quelle latitudini. Gli sguardi che la penetrano con diretta curiosità la costringono a uno stentato sorriso a cui segue un sussulto della testa, un mezzo saluto elargito a tutti, solo per dovere. Uno degli uomini seduti vicino all’ingresso ricambia il sorriso. Le persone in quel posto sono quasi tutte vestite in modo elegante e formale. Immagina si tratti di un locale dove gli uomini d’affari trascorrono la pausa pranzo.
13 S’incammina verso uno dei tavoli liberi alla destra dell’ingresso. Dà uno sguardo fugace all’orologio e scopre di essere in anticipo di un quarto d’ora. Uno dei clienti, un uomo biondo, elegante e piuttosto attraente, sposta leggermente verso di lei una delle sedie vuote, invitandola a unirsi a lui, ma lei declina con un cenno della mano e uno sguardo dolce, mentre i suoi occhi schiudono una fessura da cui traspare l'imbarazzata scusa per il rifiuto. L’uomo alza le spalle come per dire “sarà per la prossima volta...” La ragazza si siede, estrae dalla borsa una mappa del centro di Londra, e inizia a osservare la posizione di tutti i punti d’interesse che si è prefissa di visitare nei suoi primi giorni di permanenza nella capitale inglese. Il suo volto è stupito, forse allibito dalle dimensioni della città, tanto più grande rispetto al posto in cui era sempre vissuta in Italia. Un luogo che, per quanto meraviglioso, ha iniziato a starle stretto. Abita su un’isola, una delle più grandi d’Italia, nel centro di un paesino abbarbicato sopra una collina. Un minuscolo, vecchio borgo, percorso da due sole strade principali che s’incrociano formando un’unica piazza principale, e da una strada periferica che lo cinge in modo da veicolare il traffico all’esterno del piccolo centro storico. La sua casa dista solo un paio di chilometri da una delle più belle spiagge dell’isola. Una cala dalla sabbia bianca, pura e finissima, protetta alle spalle da colline puntellate da macchia mediterranea e rinchiusa ai lati da alte scogliere. E’ una spiaggia raggiungibile solo da un sentiero pedonale, un’ex mulattiera che, negli anni, è stata sistemata e resa più comoda. Lei ci va da sempre, da quando era bambina, e conserva vivi i ricordi di tutto quello che ha vissuto in quel luogo per lei così magico. I libri divorati negli anni, seduta assorta in riva al mare, con il vento che le s’insinuava tra i capelli. Lì, a dodici anni, aveva spiccato il grande salto dalle letture più leggere al suo primo grande classico, un mattone di Dostoevskij, e sempre lì, qualche anno dopo, ha sognato guardando l’orizzonte tingersi di rosso al tramonto, sfogliando le pagine del suo libro preferito, ‘La casa del sonno’. E sempre lì ha studiato per l’esame teorico della patente, superato brillantemente. Su quella bianca distesa sabbiosa, le piace fare gli esercizi di yoga. Ci va nei periodi più morti dell’anno per essere sicura di non essere disturbata dai chiassosi turisti che d’estate affollano quel tratto di mare di fronte alla Toscana; un’orda di barbari che ogni anno arriva stipata su traghetti sempre più grossi e sbarcando sull’isola caos, traffico e le proprie nevrosi cittadine. E con loro arriva anche il flusso di denaro che alimenta quella sorta di spaccio in cui la natura è stuprata, senza disciplina né remore, in cambio di qualche euro. Per fortuna questo
14 stato delle cose dura solo poche settimane, e con la fine di agosto tutto torna alla normalità. Gli abitanti dell’isola possono riappropriarsi dei propri spazi e dei propri angoli di intimità, custodi silenziosi di ricordi d’infanzia, emozioni e suggestioni, che non possono in nessun modo essere carpite dalle migliaia di avide fotografie scattate dai turisti. Quella spiaggia è il suo riparo, una dependance, all’aperto, di casa sua. E’ il suo giardino, la sua veranda sul mare: è l’unico motivo per il quale abbia messo in dubbio la sua decisione di partire per Londra e passare un anno lontana. Quello oltremanica è il primo viaggio che affronta da sola: rimarrà lontana da casa per dodici lunghissimi mesi. Ha da poco compiuto vent'anni e si è appena diplomata al liceo artistico. Dopo la fine della scuola, disorientata dagli accadimenti degli ultimi tre anni della sua vita da adolescente, ha faticosamente deciso di frequentare un corso di design della durata di un anno, proprio in Inghilterra: un po’ per prepararsi a un eventuale inserimento nel mondo del lavoro in quello specifico campo, un po’ per cercare di migliorare la sua conoscenza della lingua inglese... E un po', forse, alla ricerca di un rifugio e di una protezione che quella spiaggia così vicina a casa non riusciva più a garantirle. Ha trovato, grazie a un annuncio, un posto dove stare. E’ un appartamento appena fuori la zona ovest di Londra: una casa in cui dovrà convivere con altre tre persone, la sua nuova famiglia. Ci andrà nel tardo pomeriggio di quel suo primo giorno inglese, dopo aver visitato il college dove studierà per il prossimo anno. La porta del locale si apre e un uomo sui trentacinque anni entra scrollandosi la pioggia dalle maniche dell’impermeabile. Inavvertitamente alcune gocce cadono sul quotidiano che uno dei clienti sta avidamente leggendo. Il tipo del giornale gli lancia un’occhiataccia esplicita. Lui risponde con un cenno di scuse brusco e improvviso, che causa nuovi e involontari schizzi sulle pagine del giornale. Se ne accorge, ma fa finta di niente, preferendo allontanarsi rapidamente dall’uomo che lo fissa irritato, sollevando lo sguardo dal quotidiano. Si toglie di dosso l’indumento bagnato e lo appende a un gancio sulla parete. Poi si sistema i pantaloni dando un paio di strattoni alla fibbia della cintura. Si accorge di avere una delle scarpe slacciate e si china per allacciarla, appoggiando imprudentemente il ginocchio a terra, proprio nel mezzo della piccola pozza d’acqua che si è formata appena di qua dell’ingresso. Una smorfia esprime compiutamente il suo stato d’animo, una sorta di lieve disprezzo per sé e per quelle sue continue disattenzioni.
15 Ripresosi, lancia un’occhiata curiosa all’interno del locale e si sofferma con un’aria interrogativa sul volto della ragazza che lo scruta sforzandosi di non sorridere, di non cedere all’ilarità delle scene alle quali ha appena assistito. Lui alza leggermente la testa abbozzando un timido e imbarazzato cenno di saluto. Lei è certa si tratti di Mr. Seeking. Incespicando nelle gambe di uno sgabello, l'uomo raggiunge il tavolo della giovane. Scosta una sedia e si sistema di fronte a lei. Appoggia le mani sul tavolo attirando l’attenzione della ragazza, poi se le strofina con veemenza. «Good afternoon!» lo incalza lei. Lui prova a rispondere con un italiano stentato. «Buongiorno. Io sono Seeking. Tu deve essere la Italian girl.» «Sì, sono io. Sono Silvia».
Primavera
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3.
Due mesi dopo l'innocuo incidente stradale, l’amicizia tra Ilaria e Tatiana, la madre di Andrea, si sta consolidando giorno dopo giorno. Il primo effetto è che ogni mattina Ilaria arriva in ufficio con due focacce, ma soprattutto in perfetto orario. Ha, infatti, un appuntamento fisso con Tatiana: alle sette e trenta precise toglie dal forno insieme all'amica le focacce appena pronte. Le piace osservare la preparazione del pane e degli altri prodotti, le ricorda, ovviamente, il nonno e tutte le mattinate trascorse con lui al forno. In quei pochi minuti che passano assieme ogni mattina, o durante le ore che riescono a ritagliarsi lungo la settimana, le due donne scoprono di avere in comune molte cose. Hanno pressoché gli stessi gusti musicali: adorano i cantautori italiani degli anni settanta. Nella panetteria non manca mai un disco di Guccini, anche se il preferito, almeno da parte di Tatiana, è Venditti. Tatiana è più vecchia rispetto a Ilaria: è nata esattamente dieci anni prima della sua nuova amica. I nonni di entrambe erano apprezzati fornai, ma il padre di Ilaria aveva deciso di cessare quell’attività e di dedicarsi a un più tranquillo e riposante lavoro impiegatizio. I genitori di Tatiana, invece, continuarono con la bottega di famiglia e ora anche lei è, a tutti gli effetti, un’operatrice del pane. E’ piuttosto brava, avendo carpito tutti i segreti delle generazioni precedenti, così il negozio è sempre ben frequentato. In quella panetteria transita e si ferma tutta la gente del paese, portando con se le storie, i pettegolezzi e i segreti, quelli noti e quelli meno. La chiamano la psicologa, un po’ per gli studi che aveva intrapreso da giovane, poi abbandonati, un po’ perché riesce sempre ad avere una parola giusta quando i clienti approfittano della sua disponibilità per scambiare quattro chiacchiere e sfogare così le loro quotidiane frustrazioni. Le piace quel tipo di rapporto complice che è riuscita a instaurare con i suoi clienti; le
20 piace meno il fatto che alcuni di loro le raccontino pettegolezzi e maldicenze riguardo altre persone del paese. Lei sta in mezzo, deve ascoltare tutti e non lamentarsi mai, una specie di custode discreta di storie, beghe, amori clandestini, tradimenti e divorzi. Nonostante tutto ciò, non aveva mai sentito nulla a proposito di Ilaria prima dell’incidente del figlio, ne ignorava persino l'esistenza. Nessuno le aveva mai confessato nulla riguardo quella misteriosa donna che ogni giorno entra sorridente in negozio. Frequentando Ilaria ha dunque racimolato le prime informazioni, ha scoperto che ha trentuno anni e che da cinque è sposata con un uomo della sua stessa età, un operaio, un brav’uomo. Uno di quelli che ha sempre desiderato per sé solo la fortuna di avere un lavoro, una famiglia e dei figli: uno che ha dedicato la sua gioventù a quella donna e al suo bene, cercando di renderla felice assecondandone i bisogni. Un uomo al quale Ilaria è sinceramente riconoscente, conscia di avere accanto a sé un marito e un futuro padre a regola d’arte. Tatiana si è però accorta in quei due mesi di frequentazione, che Ilaria non ha mai detto, nemmeno una volta, di essere innamorata del marito. Dice, convinta, di essere felice con lui, di non desiderare nient’altro rispetto a quello che già possiede: ha più volte cantato le lodi di suo marito, anche come amatore, ma mai si è lasciata prendere da entusiasmi e slanci passionali parlando di lui. Questo fatto ha creato un po' di disorientamento in Tatiana, soprattutto perché sotto quell'aspetto le due donne sono molto diverse... Lei, infatti, adora il marito. L’ha conosciuto da giovanissima, a quindici anni, e l’ha sposato a ventidue. Lui, dopo un paio d’anni, aveva mollato il suo lavoro da fabbro per rilevare, assieme a Tatiana, la panetteria della famiglia di lei. Qualunque cosa lui faccia è incensato e osannato da parte della moglie, che non riesce a trovare in lui alcun difetto: anzi, quando è messo in discussione da qualcuno, lei è sempre la prima a prendere le sue difese. La donna è ricambiata tanto che, guardando il marito, chiunque può percepire chiaramente la smodata considerazione di cui lei gode ai suoi occhi. Questo un po’ infastidisce le altre persone, le mette a disagio: quel loro essere la coppia perfetta alimenta non poco le invidie altrui. E poi c’è Andrea, il frutto del loro amore. Se la buona riuscita di un figlio dipendesse in maniera proporzionale dall’amore reciproco dei due genitori, Andrea sarebbe un genio della fisica, della musica, un atleta di primo livello e un apprezzato attore. Infatti, poco ci manca! Ilaria ha presto scoperto che quel ragazzo all’apparenza un po' sfigato, smilzo, dinoccolato e poco aggraziato, nasconde talenti non comuni. Quel tipo che l’ha tamponata solo due mesi prima è un genio
21 dell’informatica, una delle prime menti in Italia in quel campo. Dai vari racconti della madre, scopre che all’età di otto anni era già in grado di padroneggiare perfettamente complicatissimi software. All’età di quindici anni era riuscito a sviluppare e rendere funzionante un suo sistema operativo, una sua creazione distribuita in modalità open source in rete. E’ riconosciuto dalla comunità di internet come uno dei massimi esperti mondiali di Linux e si dice sia riuscito a violare alcuni dei siti più sicuri della rete. Ilaria pensa, per quel poco che conosce di quegli argomenti, che Andrea sia uno di quelli che sono definiti hacker, probabilmente uno di quelli bravi. La casa di Tatiana sembra, infatti, la torre di controllo di un aeroporto: ci sono monitor con strane scritte sparsi ovunque, una mezza dozzina di PC, tutti connessi tra loro, come una rete, o almeno così ha capito da una delle confuse spiegazioni di Andrea. Lui è un genio e, come la maggior parte dei geni, ha delle serie difficoltà a rendere comprensibile a tutti una qualsiasi discussione riguardo agli argomenti in cui eccelle. La prima volta che Ilaria aveva provato a chiedergli un consiglio riguardo a un problema che aveva con il PC, il ragazzino aveva iniziato una complessa spiegazione tecnica, condita da bit, hardware, software, connessione, lan, TCP/IP, multilayer, cpu, alu, server, client e altre astruserie del genere che avevano stordito Ilaria senza portarla alla soluzione del problema. Fu costretta a consegnargli fisicamente il PC per vederselo restituire, dopo due giorni, totalmente modificato: il sistema era funzionante, ma il ragazzo aveva sostituito tutti i programmi che erano installati, con alcuni a licenza libera, direttamente scaricati dalla rete. Non c’era più alcuna traccia di Microsoft nel sistema. Non c’era più nessun software installato per cui vi fosse bisogno di licenze a pagamento per il loro corretto funzionamento. Andrea era convinto di aver fatto la cosa più utile al mondo, avendo liberato Ilaria dalla schiavitù di MR Gates. Era rimasto un po’ deluso quando lei, dal basso della sua scarsa conoscenza della materia, non era riuscita ad apprezzare immediatamente i suoi sforzi e i suoi risultati . L’informatica non è l’unica scienza nella quale il ragazzo eccelle. E’ un matematico formidabile, tanto che ha partecipato, vincendo, alle selezioni italiane per le Olimpiadi della matematica. Poi, allo step successivo si era ritirato senza dare spiegazioni. Andrea è in grado di risolvere calcoli complicatissimi con il solo aiuto della sua mente. Come spesso accade, un genio può nascondere una seconda faccia, un retro della medaglia che non sempre è all’altezza del proprio lato migliore. Ilaria ci ha messo poco per scoprire il punto debole di Andrea: i rapporti interpersonali. E' timido, così introverso da non riuscire a
22 socializzare facilmente con i suoi coetanei. Il suo aspetto non lo aiuta certo a essere popolare. Non che sia brutto, anzi. Una delle prime cose che Ilaria aveva notato guardandolo con più attenzione e frequentandolo, era il fatto che si potrebbe trovare perfino attraente, ma che la sua scarsa attenzione al modo di vestirsi, di pettinarsi e il fatto di non riuscire a combattere con efficacia l’acne tipica della sua giovane età, creassero un velo di anonimo distacco nei suoi confronti. E’ pulito, uno dei pochi della sua età a non avere un tatuaggio o un piercing. Ne va fiero, sostiene di non voler alterare nemmeno un po’ il suo aspetto. Per questo motivo non usa prodotti aggressivi contro l’acne; pensa che quel difetto cutaneo che gli sfigura il giovane volto se ne andrà da solo, prima o poi. Non vuole fare nulla contro la natura, tanto che per lui è uno sforzo perfino tagliarsi le unghie. Ma le cura, eccome! Non se le mangia. Dopo queste considerazioni è stato facile per Ilaria spiegarsi anche quel cespuglio nero che lui ha in testa. Devono essere anni che non si taglia i capelli, ma anche quelli, come le unghie, sono puliti e curati. Ilaria, invece, porta i capelli corti perché le dà fastidio doverli curare, asciugare e pettinare dopo la doccia: non riesce neppure a immaginare il tempo che Andrea dedica alla cura della sua folta chioma. Per lei sarebbe una tortura insopportabile. Guarda quel ragazzino e tutte le persone dai capelli ricci, con grande ammirazione e invidia: ha da sempre un debole e si sente attratta da quel tipo di capigliatura. Ha l'irrazionale convinzione che le persone ricce siano più felici, creative, come se i capelli fossero idee che si rifiutano di rimanere imprigionate all'interno del cranio e cercano così lo spazio per maturare. Ogni volta che incontra Andrea gli corre incontro festante, gli infila una mano tra i capelli e glieli scompiglia con veemenza. Lui reagisce sempre con il solito freddo aplomb: non dice nulla e, dopo aver accennato un timido sorriso, china leggermente la testa per nascondere l’imbarazzato rossore che sente comparire sul suo volto. E' tuttora intimidito da Ilaria e nonostante quella di lei sia ormai una presenza frequente, lui non ci si è ancora abituato. Quando lei e Tatiana s’incontrano resta in loro compagnia, quasi sempre in silenzio, in disparte per non disturbare, ma attento ad ascoltare tutte le loro chiacchiere. Non si perde una parola, le scruta con attenzione come se stesse tracciando un chissà quale profilo psicologico delle due donne: ma i suoi occhi sono in realtà catturati da Ilaria, dal suo aspetto, lei così diversa da tutte le ragazze che conosce. E' attratto dalle mani morbide e lineari della donna, dai suoi modi cortesi, dalle sue gambe, che gli ricordano la splendida amazzone dell'insopportabile pubblicità dei telefonini. E poi è geloso: geloso dell’attenzione che sua madre dedica,
23 negli ultimi tempi, a quella donna venuta fuori da un’auto che lui stesso ha urtato e che quindi considera, in un certo senso, una sua scoperta: qualcosa che appartiene a lui prima che a sua madre, un rapporto di cui vorrebbe essere il titolare esclusivo. Questo è il vorticoso flusso di bit che intasa la sua testa quando osserva Ilaria e sua madre insieme. Sono cose inconfessabili, che non vuole dire, ma che qualora decidesse di esprimere sarebbero complicate per lui. Infatti, nonostante Andrea sia perfettamente in grado di sostenere una conversazione riguardo qualsiasi argomento comune fornendo prova di intelligenza, acume e proprietà di linguaggio, lui sembra spesso a disagio in mezzo alla gente. Si sente osservato, guardato in modo strano, diverso rispetto agli altri. Un po’ per la sua fama di piccolo genio smanettone, sfigato e, nell’immaginario popolare sempre rinchiuso nella sua stanza a digitare incomprensibili codici macchina a velocità supersoniche, e un po’ per il fatto di non essere molto socievole, la sua immagine risulta alquanto distorta. Le pochissime persone con cui riesce a entrare in sintonia lo trovavano sensibile, dolce, altruista e perfino simpatico. I silenzi dietro i quali spesso si protegge sono accompagnati da sguardi intensi, carichi di sentimento ed espressività. Lui, dal canto suo, non fa nulla per farsi voler bene. Non si sforza di cambiare il suo atteggiamento sempre così poco incline ad aprirsi. E’ diffidente nei confronti di tutti: teme di dare cattive impressioni e per evitare di essere oggetto di chiacchiere e pettegolezzi, si rinchiude dietro una riservatezza che è frequentemente scambiata per scortesia. Con lei, con Ilaria, le cose sono diverse, pensa. E' stato colpito immediatamente dalla dolcezza di Ilaria, dal suo modo di essere così sinceramente interessata a lui, tanto da telefonare alla madre per metterla in guardia dopo l'incidente. Trova simpatica quella donna che nonostante abbia tanti anni più di lui, non dà l’impressione di essere una vecchia rompipalle. Nei mesi in cui Ilaria e sua madre hanno legato, lui ha spesso tentato di entrare più in confidenza con la nuova amica. Il fatto di averla così spesso vicino, lo sta convincendo che debba diventare una compagna anche sua. E’ una delle poche persone con cui Andrea sente davvero il bisogno di instaurare un rapporto. Forse è solo una normale reazione all’attaccamento reciproco tra Ilaria e la madre, un tentativo di inserirsi in quella coppia che involontariamente lo sta escludendo. Le attenzioni della madre nei suoi confronti non sono cambiate, ma il fatto di non avere più quella speciale esclusiva del rapporto madre-figlio gli rode un poco. Lui vorrebbe essere l'unico per sua madre e il solo anche per Ilaria, dunque la sintonia totale che si è creata tra le due donne lo
24 spaventa: teme di restare solo, per sempre solo. CosÏ un lunedÏ pomeriggio, mentre è intento a osservare madre e amica che ridono e scherzano come spesso fanno, lui prende la decisione di intervenire, di fare qualcosa per interrompere quell’idillio, o almeno per farne parte.
25
4.
Silvia si muove agile nella cucina della sua nuova casa. Sta preparando la colazione secondo le sue abitudini italiane. Un'abbondante tazza di the, qualche biscotto ai cereali e un bicchiere di succo d'arancia rossa. Mentre manda giù con sorsi lenti e brevissimi il the ancora bollente, osserva l'ambiente intorno a sé. Le mattonelle color crema del pavimento della cucina, le pareti del soggiorno, il divano e il tappeto rosso che s’intravedono dalla porta. L’appartamento alla periferia di Londra è caldo, accogliente e ben tenuto. Ormai, dopo alcuni mesi, Silvia ci si è abituata e si sente come a casa. Ha scoperto, nelle persone con cui convive, tre soggetti davvero particolari e interessanti. C’è Lukas, un venticinquenne norvegese. Vive a Londra da ormai sei anni ed è sempre vissuto all’interno di quelle quattro mura. E' stato presentato a Silvia come una specie di padrone di casa, un custode. Lui ha visto cambiare, durante lo scorrere degli anni, moltissimi coinquilini. Il suo ruolo ormai è istituzionale: tramanda le regole della casa e gestisce, come un manager, turni, responsabilità e conflitti. La sua lunga permanenza in quel luogo gli ha permesso, nel tempo, di acquisire il diritto d'insediarsi nella stanza migliore dell’appartamento. Una grande camera a pianta quadrata, nel punto più lontano dall’ingresso dell’abitazione. La vetrata della stanza offre un’ampia veduta sulla parte del sobborgo londinese che lo sta ospitando in quella sua avventura in terra straniera: dal quinto piano di quel fatiscente fabbricato urbano, il panorama è estremamente intrigante e misterioso grazie al fascino post-industriale dei palazzoni e dei capannoni che circondano la zona. Ha arredato il locale in modo estroso, imbiancando le pareti con colori diversi l’uno dall’altro. Sul muro di fronte al letto un amico di Lukas ha dipinto uno splendido murale raffigurante la copertina di uno dei più famosi album dei Pink Floyd. Lukas appare a tutti come un tipo interessante e spassoso. Il suo inglese è praticamente perfetto. Qualcuno sostiene che abbia acquisito
26 anche il particolare accento londinese. Lavora da tre anni in una multinazionale, impiegato come operatore telefonico presso il call center del servizio assistenza tecnica di un’azienda che produce e commercializza fotocopiatrici. Quello che colpisce al primo istante è il fascino di Lukas: alto, biondo, decisamente scandinavo. Il suo fisico sportivo non passa certo inosservato agli occhi delle disinibite, ma un poco sciatte, ragazze londinesi. Non ha una fidanzata o qualcosa che somigli a una relazione seria. Silvia non riesce a spiegarsi come un ragazzo tanto affascinante possa essere ancora libero, ancora in cerca di una persona con cui condividere le proprie giornate. L'altro ragazzo dell'appartamento si chiama Mark. E’ inglese, anche lui venticinquenne. E’ il secondo in termini di anzianità di residenza. E’ un personaggio un po’ schivo. Di lui Silvia conosce ancora poco. Viene da Manchester e si è trasferito a Londra per provare a realizzare il sogno di aprire una libreria nel centro della città. E’ un grande esperto di libri e, soprattutto, un gran lettore: la leggenda narra che sia riuscito a leggere “Il Signore degli Anelli” senza mai interrompersi. Senza dormire. Nessuno sa se sia vero, ma questo strano primato getta su di lui un’ombra di folle mistero. E’ impiegato in una delle librerie più importanti della City, ed è sempre alla ricerca dell’occasione giusta per iniziare la sua attività: il posto giusto, il momento giusto, la persona giusta, il nome giusto, la strategia giusta per dare il via al suo progetto. Fino ad ora ha trovato tutte queste cose solo separatamente e in modo non compatibile tra di esse. La sua idea stenta a decollare, il suo sogno è fermo, impantanato, così negli ultimi mesi il suo umore non è un granché. A Silvia era stato descritto come una persona piacevole e positiva nonostante la sua riservatezza, ma da quando lo conosce non ha mai avuto la fortuna di vederlo ridere, mai un piccolo segno di gioia o di soddisfazione. Silvia è molto dispiaciuta nel vederlo così, soprattutto per Alice fidanzata e convivente di Mark. Alice è una ragazza irlandese di circa vent’anni che Silvia ritiene essere la più bella donna che abbia mai incontrato. I canoni con cui Silvia misura la bellezza sono particolari e il suo standard è piuttosto elevato: adora le donne dai capelli rossi, dalla pelle chiara e con le lentiggini, l’esatto identikit di Alice. Quando le fu presentata, rimase impressionata dalla sua avvenenza. Tutto in Alice è straordinariamente armonico, il suo corpo asciutto ed essenziale, le spalle, le gambe e perfino i piedi: tutto in lei è perfetto, un'opera d'arte tremendamente viva e vitale. Il sorriso rilassante, la sua espressione stralunata e gli sguardi sempre interrogativi, ammalianti e ipnotici che hanno il potere di scaldare il cuore di chiunque, maschio o femmina,
27 abbia la fortuna di scambiare con lei qualche parola. Il suo modo di parlare è compassato ma ricercato, spesso coinvolgente. Lei è perfettamente conscia di come sia vista dagli altri, ma riesce sempre, e comunque, a mantenere la sua innata spontaneità. Silvia e Alice hanno legato da subito. Si sono capite immediatamente. Una questione di sguardi, forse di pelle, un'affinità appena sospettata ma già evidente. Alice è a Londra per studiare, frequenta un corso universitario in psicologia. Nella casa ovviamente condivide la stanza con il fidanzato; sono una coppia molto discreta e il loro stare assieme non disturba né interferisce con il quotidiano scorrere della vita nell’appartamento. L’ultima stanza disponibile nella casa è quella occupata da Silvia. La chiamano la stanza “Sleep and go”. E’ una definizione creata da Lukas per indicare la stanza che è assegnata a coloro che credono di fermarsi lì solo per poco tempo. Ci sono due letti e al momento è occupata solo da Silvia. Dopo essersi sistemata, Silvia, ha iniziato il suo corso per designer, ma ha capito ben presto lo scarso contenuto didattico del corso stesso. Così, dopo sole due settimane, ha deciso di abbandonarlo per iscriversi all’università, alla facoltà di architettura. Non si è posta il problema di essere “in trasferta”, si è iscritta e basta. Alla fine dell’anno prenderà la decisione più opportuna: sceglierà se continuare gli studi in Inghilterra o rientrare in patria e proseguirli in uno dei numerosi atenei italiani. Da poco passata l'alba, Silvia esce di casa: cammina per strada, si dirige verso la fermata della metropolitana. Le piace camminare lenta su quei cinquecento metri di asfalto dritti e punteggiati da vetrine, negozi e bar. Non sa perché, ma quella via, quello stretto susseguirsi di lampioni, di muri color rosso argilla, di neon (alcuni luminosi, altri sfocati), le ricordano il fitto dedalo di stradine e viuzze del suo paese, la sua isola: il corso lastricato che taglia a metà il borgo fino ad arrivare al belvedere dove, a ogni ora del giorno e della sera, signore di tutte le età si atteggiano in pose assai improbabili prima di essere immortalate dai rispettivi compagni armati di costose macchine fotografiche. Dietro di loro un panorama di mare, onde che s’infrangono impetuose e impertinenti contro la scogliera, invincibile baluardo a protezione del paese che dall’alto sembra dominare quella distesa azzurra in cui i pensieri di Silvia si perdono fino all’orizzonte. Come ogni giorno percorre quella sua nuova via inglese, con il volto che tradisce il fervido mescolarsi di ricordi e sottili nostalgie. Scende la scalinata che porta nel cuore sotterraneo della città, la metropolitana, con
28 l’espressione corrucciata che inconsapevole le modella il viso. Sale sul vagone. Un viaggio di circa trenta minuti la attende prima di scendere nei pressi dell’università. Solitamente esce da casa intorno alle sette. Preferisce arrivare a scuola presto e approfittare di ogni momento disponibile per studiare. Alle sette, sui freddi e interrati vagoni d'acciaio, ci sono solo poche persone. Londra si sveglia più tardi, di solito. Si siede sul primo posto che trova libero e toglie dal suo zainetto gli auricolari dell’i-pod. Preme play: una sinfonia di Beethoven scorre fluida attraverso i sottili fili di rame fin nelle sue orecchie. Silvia chiude gli occhi. Il suo volto ora è rilassato, nessuna contrazione, la pelle perfettamente distesa, morbida. Si lascia cadere indietro, abbandonata contro lo schienale, incrociando le braccia a protezione dello zaino adagiato sopra il suo ventre. Silvia si assopisce, forse non se ne accorge. Il ritmico sobbalzare del treno che corre ad alta velocità la culla dolcemente, concilia il suo sonno. Quei pochi istanti di tranquillità prima di iniziare la giornata la tradiscono avvolgendola in una sorta di anestetico torpore. Si risveglia quasi istintivamente poco prima che il treno arrivi alla sua fermata, come se un orologio interno l’avesse allertata del rischio di rimanere sopita sul treno. Si alza e si fa largo tra la gente che nel frattempo sta iniziando a popolare la metro. Qualche minuto più tardi è già all’ingresso dell’università. Lo stile tipicamente anglosassone della biblioteca le ispira lo studio; i massicci legni con cui è arredato quell’immenso locale stipato di pesanti volumi la fanno sentire come la protagonista di uno dei tanti romanzi ambientati nella Londra del diciannovesimo secolo. Silenziosamente prende posto, accende una lampada da tavolo e apre lo zaino. Qualcosa attira la sua attenzione. Guarda sorpresa e con un certo stupore dentro lo zainetto dal quale toglie un foglietto ripiegato con cura. Lo prende e lo rigira tra le dita prima di aprirlo. Il suo viso è incuriosito. “Grazie per avermi permesso di ammirarti mentre dormivi. Tu non avrai mai la fortuna di godere della splendida immagine che mi ha stregato. Wayne”. Alla fine del misterioso messaggio c’è un numero di telefono. Silvia perplessa, cerca di immaginare da dove possa provenire quel criptico foglietto. E' certa di non averlo notato quando aveva preparato lo zaino con i libri prima di uscire di casa. Prova a ricordare se qualcosa possa essere accaduto sul treno. Si sforza di ricordare se, durante il sonno, abbia avuto l’impressione che qualcuno si sia avvicinato per infilare quel biglietto nel suo zaino. Scuote la testa, lenta e assorta. Il suo viso ora è
29 un po’ teso, sospettoso. Rilegge il messaggio una volta ancora, poi ripiega il biglietto e lo infila, come un segnalibro, tra le pagine del testo di storia dell’arte. La sera, a casa, racconta ad Alice quanto successo. Le due ragazze sono nella stanza di Silvia, stese sopra al letto, entrambe a piedi nudi. I loro fianchi si toccano. Guardano in alto e Alice socchiude per un istante gli occhi mentre Silvia legge a voce alta il contenuto di quel foglietto recapitatole dallo sconosciuto spasimante. Poi Alice prende una mano dell’amica e la stringe, poggiandosela sul petto. «Senti? Questa cosa mi sta facendo emozionare. Senti il mio cuore?». Alice è una ragazza romantica. All’interno del gruppo è soprannominata “Honey” per la sua tendenza a essere sempre troppo mielosa. Si commuove spesso davanti a film romantici. Si racconta che abbia pianto per giorni interi alla fine di “Titanic” e che abbia scritto, piccata, una lettera di protesta contro la casa di produzione per come finisce la storia, chiedendo una riedizione con un finale diverso, dove Rose e Jack si sposano a bordo di una delle scialuppe di salvataggio. Lei nega strenuamente questo bizzarro aneddoto, senza tuttavia riuscire a essere credibile fino in fondo. «E’ fantastico. Che cosa romantica...» «Non ne sono così convinta... Come si è permesso di infilarmi un biglietto nello zaino. Come si è permesso di aprirmi lo zaino e di mettere le mani nelle mie cose!» «Non essere così severa. Io credo che sia una cosa davvero galante. Se fosse accaduto a me lo avrei già chiamato...» «Finiscila. Tu non lo faresti mai. Alice tu non sei proprio il tipo. Tu sei solo una teorica del romanticismo. All’atto pratico sei molto più risoluta... e Mark lo sa bene, poveretto!» «Forse hai ragione, ma... le parole che ti ha scritto sono davvero carine, intense. Pensaci: una persona ha passato del tempo guardandoti, ammirandoti, e poi ha deciso che meritavi una dedica. Ha voluto che tu sapessi di averlo colpito. Guarda che è fantastico che qualcuno ti apprezzi e te lo dica!» «Cerca di essere seria... Non l’ho colpito, semplicemente cerca l’approccio. Un modo come un altro...» «Sei troppo dura con questo ragazzo. Magari lo hai davvero stregato. Io lo chiamerei, anche solo per ringraziarlo per avermi dedicato un po’ di attenzione. In fondo se lo merita. Pensa se lo beccavano mentre ti apriva lo zaino e lo scambiavano per un ladro...» «Magari gli passava la voglia di infilare le mani nelle mie cose!»
30 «Dai finiscila. Lo so che muori dalla curiosità di sapere chi è, come è fatto...» «Questo sì, un po’ di curiosità c’è. E’ tutto il giorno che provo a immaginare la faccia di questo tipo. Provo a ricordare, invano, se c’era qualcuno di carino, o di particolare, sul mio vagone, ma non ricordo nessuno tanto affascinate da meritare una telefonata...». Silvia ora sorride, Alice raccoglie con lo sguardo vispo la sua ironia. Ormai ha imparato a conoscerla, a capire i suoi occhi e le sue espressioni. Pur vivendo insieme solo da pochi mesi, le due sono già molto affiatate. Ogni tanto Alice chiama l’amica Sister, e Silvia risponde con un intenso abbraccio. Entrambe sono lontane da casa, senza la famiglia. Alice ha Mark accanto a sé, e per lei quindi è un po’ più facile, mentre Silvia non ha nessuno, non vuole nessuno: una volta aveva raccontato ad Alice di non volersi imbarcare in alcuna storia, finché non avesse chiaro cosa fare alla fine del suo anno da studentessa all’estero. Le aveva detto di non voler iniziare una relazione destinata a finire forzatamente per il fatto di dover tornare a vivere in Italia. «Allora se sei curiosa chiamalo! Dai, chiamiamolo assieme, ora!» «Credo che tu sia più curiosa di me...» «Se non lo chiami tu, lo faccio io!» «Ok, ok. Ma solo per sentire chi è. Non gli lascerò il mio numero. Lo chiamo, lo ringrazio, gliene dico quattro per aver infilato le mani nelle mie cose...» «Va bene, va bene. Ma fallo!». Silvia digita con un po’ di titubanza i numeri sul display. Nel ricevitore il segnale echeggia per due volte. Una voce corposa, da uomo della pubblicità, sentita mille volte per radio, risponde dall’altra parte. «Hello?» «Hello! Sono Silvia, parlo con Wayne?» «Sì sono io. Con chi ho il piacere di parlare?» «Sono Silvia. Sono la ragazza che... che dormiva sul treno!». Chiude gli occhi un istante e aggrotta la fronte. Si mordicchia le labbra mentre aspetta, con lieve impazienza, la risposta del suo interlocutore senza volto. La voce di lei è stata inspiegabilmente tremolante, come se il timbro, il tono e la calma con la quale il ragazzo ha iniziato la telefonata, avesse inibito la sua solita sicurezza. Alice la guarda e con una smorfia cerca di fare capire all’amica che non si deve emozionare. Muove le labbra per dirle, senza voce, di stare calma. «Chiedigli quanti anni ha!». Silvia risponde all’amica tirandogli un cuscino in faccia. Lei reagisce
31 scoppiando in una silenziosa risata, tradita soltanto da qualche spasmo che non riesce comunque a filtrare attraverso il telefono. Intanto dall’altra parte il ragazzo sta parlando. «Silvia? Di dove sei? Non mi sembra che tu sia inglese!» «Sono italiana.» «Italiana? Ero certo che una tale bellezza non potesse essere stata generata dalla nostra terra, da quest’arida isola». Silvia guarda l’amica e si porta l’indice contro la tempia, ma sorride. Poi cerca di far capire ad Alice di stare zitta, perché vuole mettere la telefonata in viva-voce per farla ascoltare anche a lei. Alice annuisce e si sforza di tornare seria. Fa sparire dal suo volto quel sorriso che Silvia non si stanca mai di guardare. «Tu di dove sei?» «Io sono un figlio di questa città. Sono nato a Londra, da genitori di Londra, nonni di Londra. Io sono il classico ragazzo di Londra, cresciuto sotto il grigio mantello della città.» «Senti... Ma chi sei? Insomma, voglio dire, non ho notato nessuno sul treno questa mattina.» «Sono salito e tu già dormivi. Ti ho vista e sono rimasto in piedi paralizzato ad ammirare il tuo volto». L’ho fotografato nella mia mente, ho cercato di fissare nel mio cervello quanti più particolari potessi, per ricostruire quando ne avessi voglia, la tua immagine. Ti ho pensata tutto il giorno. Alice si alza. Si mette una mano sulla bocca. Esce di corsa dalla stanza trattenendo a stento un impeto di risa. Silvia non si scompone. Adesso sembra più calma. Osserva l’amica chiudere la porta della stanza dietro di sé. «Sei molto gentile...» «No. Dico solo quello che ho provato. Mi sono seduto davanti a te pensando cosa avrei dovuto fare per avere il sublime piacere di poter parlare con te. Ho creduto che se ti avessi svegliata non l’avresti presa bene. Ho pensato allora di lasciarti quel messaggio e far decidere a te la strada da prendere.» «Guarda, ti ho chiamato per ringraziarti per il messaggio, mi ha fatto piacere. Anche se non ho gradito troppo il fatto che tu abbia messo le mani nel mio zaino.» «Mai avrei voluto violare la tua privacy, ma quello era l’unico modo che avevo per essere certo che avresti letto il messaggio oggi stesso, l’unico modo sicuro per raggiungere il tuo cuore e provare ad aprire una piccola breccia».
32 Silvia non risponde subito, così Wayne continua a parlare. «Silvia, tu non hai idea di come sei bella quando dormi. Sembri rapita da un angelo, tu che sei bella come un angelo. Ti ho fissata, ho provato a immaginare cosa stessi sognando, cosa stessi ascoltando. Ho provato a immaginare noi due insieme... Ho cercato d'immaginare dove vivi, cosa ti piace. Poi mi sono un po’ spento, eclissato: ho capito che la tua immagine mentre dormi sarebbe stata l’unica per me. Ho pensato che non avrei mai avuto la fortuna di poter vedere i tuoi occhi aperti, di avere l’emozione di essere guardato da te dritto negli occhi, di vederti sorridere... Quindi sono sceso dal treno. Non sarei riuscito a resistere un attimo di più seduto davanti a te, senza fare nulla.» «Wayne, sei davvero dolce, quasi finto! Io ti ringrazio ancora per il bel gesto. Sono a Londra solo da poco e probabilmente ripartirò tra qualche mese. Sono qui per studiare e non voglio distrazioni. Non voglio rischiare di dover lasciare qui il mio cuore... o un ragazzo. Sto cercando accuratamente di evitare qualsiasi possibilità di incontrare gente. Non esco spesso, non vado a feste o altro. Rifiuto continuamente appuntamenti che mi vengono proposti dai miei amici. In questo momento non me lo posso permettere e nemmeno lo voglio...» «Silvia, Fermati ti prego. Ho capito... Senti... Ti va di incontrarci?!» «Sì! Finalmente! Speravo che me lo chiedessi.»
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5.
«Ciao Taty, adesso scappo! Devo tornare a casa. Marco ha il turno di notte questa settimana e devo preparagli la cena un po’ in anticipo.» «Ok, ci vediamo domani». Ilaria lascia l’abitazione dell’amica come tante altre volte. Esce dal cancello e si dirige verso casa. Le due amiche hanno preso l’abitudine di vedersi il lunedì pomeriggio, perché per entrambe è il giorno libero. Durante la settimana, invece, si vedono di sfuggita in negozio, nel tardo pomeriggio, quando Ilaria rientra dopo il lavoro, o più saltuariamente di sera quando suo marito fa i turni di notte. La casa di Tatiana non è distante da quella di Ilaria così di solito lei ne approfitta per lasciare ferma l’auto e fare due passi a piedi: gira l’angolo della strada e inizia la salita che la porterà fuori casa sua di lì a un paio di chilometri. Dopo alcuni minuti di passeggiata Ilaria vive un dejavu: sente un rumore gracchiante avvicinarsi velocemente dietro di lei e, dopo essersi voltata per scoprire cosa stia succedendo, vede uno scooter azzurro barcollante con un tipo smilzo e lungo alla sua guida. Riconosce immediatamente la bizzarra sagoma di Andrea. Si ferma per farsi raggiungere dal ragazzo. Quando sono vicini lui spegne il motore e si toglie il casco. Accenna un sorriso, timido. Poi china leggermente la testa. Dopo il primo momento di stupore, Ilaria lo guarda senza dire nulla. Poi sorride e rompe per prima l'imbarazzato silenzio. «Cosa ci fai qua?» «Ehmm... Niente... No... Niente.» «Mi seguivi? Ho dimenticato qualcosa a casa vostra?» dice con fare concitato toccandosi le tasche ed estraendo da una di esse il suo telefono. «No, non ti stavo seguendo... In un certo senso sì... Insomma, volevo chiederti una cosa...» «Coraggio, dimmi. Tira su quella testa. Guardami in faccia dai!».
34 Lei cerca di avere nei suoi confronti un atteggiamento amichevole, comprensivo. Sembra capire il suo disagio. Lui, incoraggiato dalla donna, alza la testa ma non riesce a nascondere un pallido rossore sulle sue guance, un rossore solo un po’ mascherato dall’acne. Lei allora prova a rassicurarlo. «Dai, non avere problemi con me. Ormai ci conosciamo da diverso tempo. Mi sei pure venuto contro in moto...». Ilaria accentua quella frase con un sorriso sincero, grazioso, ammaliante. E’ il suo sorriso, quello di sempre, quello che ha per tutti. Ma è un sorriso che su un adolescente intimorito può procurare ancor più imbarazzo, ancor più timidezza. «Ilaria, io volevo chiederti...». Poi fa un respiro profondo e tutto di un fiato lascia che le sue parole formulino finalmente una frase di senso compiuto. «C’è una festa, un ritrovo, in un parco. Fanno musica, da bere e da mangiare. Ti va di venirci con me stasera? Ho sentito che non c’è tuo marito, così se ti annoi e hai voglia di stare un po’ in giro... Io ne sarei contento». Ilaria non lascia che il sorriso scompaia dal suo volto da trentenne, forse per non voler dare un segnale negativo ad Andrea, per non deluderlo dopo il grosso sforzo fatto per riuscire a superare la sua consueta timidezza. Fa un passo indietro e si appoggia alla recinzione che separa il marciapiede da una delle villette che costeggiano la strada. Per alcuni istanti continua a guardare il viso del ragazzo con aria quasi divertita, mentre lui china nuovamente la testa come se stesse verificando che le punte delle proprie scarpe siano ancora al loro posto. Ilaria, con un gesto che potrebbe essere frainteso, allunga un braccio e delicata gli prende il mento; poi cerca di far rialzare la testa ad Andrea e quando il contatto visivo è ristabilito, lei inizia a parlargli con tono calmo e disteso, quasi materno. «Andrea, grazie dell’invito. Mi fa piacere che tu voglia andare a questa festa assieme a me, ma sai, ci sono alcuni problemi. Io sono un po’ troppo grande per partecipare a una festa di adolescenti, sarei fuori posto, non credi?» «No, non è una festa come pensi tu, a inviti o con solo un certo tipo di gente. C’è questo parco, grande, bello, dove hanno messo un chiosco, suonano e si mangia... ci vanno tutti, di tutte le età. Anche genitori con bambini. E’ solo per passare un po’ di tempo fuori. Io mi rompo le palle tutte le sere chiuso in casa.» «E perché non ci vai con i tuoi amici?»
35 «Perché non ho amici. La cosa che somiglia di più a un’amicizia sei tu. Io ho solo un sacco di amici in rete, da tutte le parti del mondo. Io conosco gente solo tramite internet.» «Andrea, dovresti provare a socializzare un po’ di più con i tuoi coetanei. Dovresti mollare un po’ il PC e dedicarti di più alle persone vere, dovresti uscire. Perché non chiedi a qualche tuo compagno di scuola di venire con te! Credo che qualcuno disposto ad accompagnarti lo trovi». Lo sguardo vispo che brilla sempre sul volto di Andrea si spegne, intristito, come a sottolineare quelle parole dell'amica, dette senza cattiveria ma che ormai gli hanno procurato dolore. Un istante dopo anche Ilaria si accorge di aver usato le parole sbagliate, così prova a rimediare. «Sto solo cercando di dire che se hai deciso di uscire un po’ di più, di passare un po’ di tempo con persone reali, dovresti iniziare a farlo con qualcuno della tua età... La cosa più naturale, più facile, è uscire con i tuoi compagni di scuola. Insomma, sono persone che vedi tutti i giorni. E’ più facile legare con loro che con altri. Sono persone che in fondo conosci già.» «Anche tu... Cioè... anche te vedo tutti i giorni. Posso legare anche con te...» «Certo e mi piacerebbe tanto. Possiamo diventare amici, questo di sicuro, ma non posso essere l’unica amica che hai. Dovresti...» «Se non vuoi venire basta che lo dici chiaramente! Non stare a farmi prediche. Devi solo dire le cose come stanno». L'espressione del ragazzo rafforza, se ve ne fosse bisogno, l'inconsueta rabbia con la quale si sta esprimendo. «Non ho intenzione di fare delle prediche e non ho detto che non voglio venire. E’ solo che...». S’interrompe per alcuni istanti. Sembra pensierosa, cerca disordinatamente nel repertorio delle buone intenzioni la frase giusta, la scusa più opportuna da sfoderare in quella situazione non convenzionale. «E’ solo che? Cosa?» «Solo che non so se mio marito sarebbe contento se uscissi mentre lui è al lavoro.» «Non sei obbligata a dirglielo...» «Andrea, non funziona così. E’ una questione di rispetto!» «Sarà, ma a me sembra solamente che tu non voglia venire. Non parliamone più! E scusa se te l’ho chiesto...» «Non prendertela. Avrei dovuto saperlo un po’ prima, magari mi sarei potuta organizzare.»
36 «Sono scuse, solo scuse. Lasciamo stare». Andrea risale sullo scooter, lo rimette in moto con fatica e brucia le poche centinaia di metri che lo dividono da casa con un unico, vigoroso colpo d'acceleratore: la spessa scia di fumo odoroso scaricata dietro di sé, è fastidiosa quanto l'alone di incomprensione calato sul viso di Ilaria. Il ragazzo rientra in casa senza salutare la madre e sale rapidamente nella sua stanza, spalanca la porta e si siede alla sua scrivania davanti a un grosso monitor. Digita nervoso qualcosa. > ciao Luna > ciao Morfeo. come va? > bene anche se sn un po’ inkazzato > come mai? problemi? > ho avuto una discussione con Ilaria > ancora l’amica di tua madre? > sì > devi lasciarla perdere > te l’ho già detto, non posso > ha quasi il doppio della tua età > lo so. ma sono innamorato. io la adoro è fantastica > non puoi farci niente. lei nemmeno ti vede > non è vero > te lo ripeto, lasciala perdere > è l’unica che mi interessa > stronzo > no scusa, lo sai che se abitassimo vicini sarebbe diverso tra noi > non so se ti devo credere quando mi dici così... > credimi Luna, credimi > vorrei che ci potessimo incontrare un giorno, vorrei che potessimo stare assieme > si piacerebbe anche a me > lo dici solo per farmi piacere. Lo so che tu vuoi solo Ilaria > Ilaria?? Ilaria la voglio perché è bella, perché è più grande di me... non so come spiegarlo. Tu invece mi capisci, sei sensibile. saresti la mia ragazza ideale se non fossi così lontana > ti voglio bene Morfeo > anche io Luna. Ti penso sempre Nel frattempo, poco lontano dalla casa di Andrea, seduta al tavolo apparecchiato per la cena, Ilaria sta raccontando al marito quello che le è appena accaduto con il giovane figlio dell'amica.
37 «Allora a un certo punto mi chiede se lo voglio accompagnare a questa festa, in un parco. Cosa ha detto? Ah sì, fanno musica, da bere e da mangiare...» «E tu? Cosa gli hai detto?» «Io non sapevo cosa rispondergli. Ovviamente non ci voglio andare, ma è un ragazzo così timido e sensibile... quindi non volevo certo trattarlo male o deluderlo troppo». Il marito accenna un sorriso divertito, poi con un'aria di ironica sfida, assolutamente fuori luogo, le chiede candidamente: «Quindi, hai accettato?» «Ma sei scemo? E’ solo che non riuscivo a trovare una scusa per rifiutare l’invito. Quindi, alla fine, ho dato la colpa a te. Gli ho detto che tu non saresti stato d’accordo. Che ti saresti arrabbiato a sapermi là mentre tu eri a sgobbare in fabbrica.» «Brava, così per non disilludere un ragazzino di diciassette anni ti sei inventata che sono un pazzo psicopatico, geloso di uno che non ha ancora finito la scuola superiore!» «Dai, non alzare la voce, non prendertela. In quel momento mi sembrava la cosa più facile da dirgli. Io quel ragazzo lo vedo praticamente ogni giorno. Non volevo essere troppo dura con lui. Ha bisogno di essere rassicurato e di credere di più in sé.» «Stai forse dicendo che ha bisogno di essere incoraggiato?» «Il tuo tono non mi piace, Marco, ti ho già chiesto di non alzare la voce. Non puoi essere davvero geloso di lui. Ha tredici anni meno di me.» «Hai detto che lo vuoi incoraggiare, cazzo! O me lo sono solo immaginato?» «Non urlare! Non ho detto che lo voglio incoraggiare. Apri quelle maledette orecchie invece di continuare a sbraitare! Ho solo detto che sto cercando di disilluderlo con un po’ di tatto. Credo che sia una delle prime volte che s’innamora e non voglio che perda la già poca considerazione che ha di se stesso.» «Innamorato? A quell’età ti vuole solo scopare. Come può innamorarsi di te!». Quella frase, urlata, mette fine alla discussione. Lei si alza da tavola con la faccia scura e si ritira in camera da letto. Pochi minuti dopo il marito esce senza salutarla, senza aver detto nemmeno una parola dalla fine del litigio. Ilaria si sdraia per alcuni minuti nella sua metà del letto matrimoniale restando assorta, con gli occhi chiusi, in chissà quali pensieri. Resta immobile: il silenzio in quella casa è assordante, rotto di tanto in tanto dalla voce dei vicini che filtra attraverso i muri o da
38 qualche auto che sfreccia rombante fuori dalla finestra lasciata aperta. Un cane abbaia stancamente, lasciandosi strozzare in gola un’intenzione di ululato. Una leggera brezza soffia dalle montagne sulla schiena ritta e orgogliosa di quel paesino di fondovalle. Scuote le piante, accarezza il campanile della chiesa e i tetti delle variopinte villette aggrappate alle colline, sfondo ideale per i filari delle vigne che disegnano imperfette geometrie dai verdi toni. Il caldo soffocante del pomeriggio, anomalo per la stagione, concede finalmente una tregua: una magnifica serata di fine primavera sta sbocciando, una di quelle sere da non trascorrere in casa. Una di quelle sere che sarebbe un delitto trascorrere da soli. «Pronto?» «Ciao Andrea, sono Ilaria...» «Ti passo la mamma?» «No, cercavo proprio te. Volevo sapere se l’invito per stasera è ancora valido... La festa al parco...». Per alcuni istanti non sente nulla dall’altro capo del telefono e solo un lieve sospiro le rivela che Andrea è ancora aggrappato al ricevitore, in attesa di trovare le parole giuste per reagire a quell’inaspettato colpo di scena. «Certo... Pensavo di non andarci, ma se ti fa piacere accompagnarmi ci vengo volentieri. Ma... ecco... non saprei come portarti. Non posso col mio motorino... e non ho la patente per l'auto...». Ilaria sorride divertita ma in silenzio, senza farsi sentire per non ferire nuovamente l’aspirante principe azzurro senza cavallo. «Passo io in macchina. Sono dieci anni che non mi portano su un motorino. E poi ricordati che ho visto molto da vicino il tuo modo di guidare... Quindi preferisco evitare». Andrea non risponde. «Guarda che sto scherzando. E’ solo che in macchina siamo più comodi. Sei sicuro che tua madre non avrà nulla in contrario se andiamo assieme a questa festa?» «Certo. Nessun problema. Basta che faccio il tuo nome...» «Va bene. A che ora è meglio andare?» «La gente inizia ad arrivare alle dieci e mezza, ma se vuoi possiamo andare anche prima... o dopo... o se vuoi possiamo...» «Tranquillo, non ti agitare. Passo a prenderti alle dieci, poi vediamo. Ok?» «Ok! A dopo». Ilaria tronca la comunicazione premendo il tasto rosso del suo telefonino,
39 brusca, per impedire alla sua parte razionale ogni possibilità di rimangiarsi tutto e annullare l'uscita. Osserva la scritta “Chiamata Terminata” sfumare dal display, i titoli di coda di quella che lei pensa possa essere una cazzata. Si riaccomoda a tavola e finisce di mangiare senza accendere la televisione né la radio. Ancora silenzio intorno a lei. Un silenzio che amplifica i suoi rumorosi pensieri, il frastuono interno che la metà logica e razionale del suo cervello sta creando. Prende il telefonino tra le mani e inizia a rigirarlo giocandoci un po’ con le dita affusolate che tanto piacciono ad Andrea. Apre, quasi senza rendersene conto, il menu degli SMS e digita il messaggio con il quale si scusa con Andrea per il fatto di dover disdire l’appuntamento della serata. Il tasto “Invia” le sembra così piccolo in quel momento, così difficile da premere. Lascia pendente quell’SMS, nascosto da qualche parte tra il suo telefono, le intenzioni e il cellulare di Andrea. Si alza da tavola e si dirige verso la stanza da letto. Si ferma davanti al grande specchio che è adagiato contro una delle pareti della stanza. Osserva con attenzione la sua intera figura, scruta severa la donna in piedi davanti a lei, come farebbe una madre nei confronti di una figlia indisponente. Stringe le mani sui fianchi fino a farvi aderire il già stretto vestito che indossa. Solleva leggermente l’abito fin sopra le ginocchia, poi ancora un poco più su. Ammira sorpresa, come in una foto di tanti anni prima, le sue gambe asciutte e modellate dagli anni di sport praticato da giovane. Con un gesto sensuale, a uso e consumo intimo, solo suo, solleva i capelli sopra la nuca, scoprendosi il collo e il piccolo triangolo di nei alla base della nuca. Si gira verso destra per ricevere dallo specchio la sua immagine di trequarti. Il suo sguardo languido, provocatorio e la bocca semiaperta, seducono quei due metri quadrati di vetro riflettente. Apre l’armadio e, senza troppo indugiare tra i vari capi appesi all'interno, toglie un vestito forse troppo estivo. Due minuscole spalline reggono un abito scuro piuttosto scollato, sia davanti che dietro, che lei abbina a un paio di scarpe basse, aperte. Torna in cucina e afferra di nuovo il suo cellulare; preme il tasto giusto, quello con la scritta “cancella SMS”. Ilaria si presenta sotto la casa di Andrea in anticipo rispetto agli accordi. Fa uno squillo con il telefonino per segnalare il suo arrivo ad Andrea, per fare in modo, se possibile, che la sua presenza non sia rivelata anche a Tatiana. Spera che il ragazzino scenda in fretta, così da andarsene al più presto dalla casa dell’amica e da eventuali altri sguardi indiscreti. Il ragazzo appare sulla porta di casa scortato dalla madre sorridente e, come al solito, piena di gentili convenevoli. Ilaria reagisce con un sorriso
40 di circostanza che nasconde, quanto basta, il senso di colpa che sente crescere dentro di sé. «Ciao Tatiana, spero che non ti dispiaccia se porto un po’ in giro Andrea, stasera.» «No affatto. Anzi, non esce praticamente mai...» «Te lo riporto a casa presto ok?» «Non c’è problema». Poi si rivolge al figlio. «Non fare troppo casino quando rientri, ok?». Andrea salta i tre gradini che separano la porta di casa dal vialetto in fondo al quale Ilaria, in piedi, nascosta dietro la sua auto, aspetta quel tipo smilzo, lungo, dinoccolato e con la pelle brufolosa. Salgono in auto e Ilaria parte velocemente, quasi per volersi lasciare alle spalle l’immagine di Tatiana che, sorridente e chiassosa, li accompagna con lo sguardo. L’inizio del breve viaggio è faticoso per entrambi. Nessuno dei due sembra essere a proprio agio in quella situazione un po’ nuova. E’ la prima volta dal loro primo, fortuito incontro, che restano completamente soli. Ilaria cerca, senza farsi notare, di osservare il ragazzo curiosa di vedere come si è vestito per l'occasione. Si sente un poco scalfita nell'autostima quando nota che non c’è niente di diverso in lui rispetto al solito. Le solite scarpe, il solito tipo di shorts e la solita maglietta troppo larga. Solo una cosa balza subito all'occhio, anzi, all'olfatto: c’è del profumo in quell’auto, una fragranza che non è quella che usa Ilaria. Non è un’essenza da donna. «Ti sei messo del profumo?» «Ehm, no... Non credo». Ancora una volta Ilaria fatica a tenere chiuso tra le sue labbra un sorriso. «Non credo cosa significa?» «Significa che... Dai non voglio raccontare.» «Racconta invece, credo sia divertente». Il ragazzo sembra sciogliersi un po’, sprofonda nel sedile dell’auto e, senza guardare mai verso la donna, inizia a parlare. «E’ stato un attentato.» «Un cosa?» «Un attentato! Sono sceso dalle scale per uscire, quando hai telefonato, e da dietro quella stordita di mia madre mi ha spruzzato questa robaccia addosso. Poi mi ha detto “così magari fai colpo su qualche ragazza”. Mamma mia che imbarazzo...» «Certo che tua madre è proprio un bel tipo.»
41 «Sì, ma a volte esagera.» «Cioè? Non mi sembra cattiva!» «Non dico questo, dico che esagera. Lei sembra sempre così tranquilla... Ma non è così. So che è molto preoccupata per me. Ha paura che io sia uno sfigato, uno senza amici e senza ragazze. Pensa che io sia diverso dagli altri; credo che mi veda un po’... un po’ tardo forse. Così fa pressione su di me perché mi svegli, perché finalmente cominci a uscire con delle ragazze e a diventare “normale”.» «Hai mai avuto una ragazza? O... qualcosa di simile?» «No. Non in carne e ossa... Cioè, c’è una tipa in rete, si fa chiamare Luna. Ecco sono molto legato a lei. Abita distante, non so dove, ma solo che non è qui al nord. E’ l’unica cosa che so di lei... mi piace un sacco e io piaccio a lei. Ci sentiamo tutti i giorni in chat. Io le dico tutto di me e della mia vita e lei fa lo stesso con me. E’ un po’ come se fossimo insieme. Oggi è stata la prima volta che mi ha detto di volermi bene e di provare qualcosa per me...» «E tu gliene vuoi?» «Sì, almeno mi sembra. Penso che se vivessimo vicini sarebbe la mia ragazza. Staremmo insieme. Ho provato a spiegarglielo, ma non credo mi abbia capito bene.» «Non vi siete mai incontrati?» «No mai. Ci sentiamo da un anno e molte volte ci siamo detti che sarebbe bello incontrarci, ma non ne abbiamo mai parlato seriamente.» «Foto?» «No, mai vista. E lei non mi ha mai visto.» «Perché?» «E' una specie di tacito accordo. Forse nemmeno tanto tacito. Ci siamo detti che sarebbe bello mantenere la curiosità, non rivelarci i nostri veri nomi, nulla rispetto alle caratteristiche fisiche e nemmeno dove abitiamo. Lo stesso per le foto. Sarebbe bello restare nel dubbio e non avere un’immagine dell’altra persona fino al giorno in cui ci incontreremo... ma sono solo palle.» «Palle? Cosa stai dicendo?» «Che è solo una tattica di autodifesa, per proteggerci. Io non le ho mai mandato una mia fotografia perché non sono così contento di mostrarmi. Insomma non sono bello abbastanza per queste cazzate. Se ci scambiassimo delle foto e lei scoprisse che non le piaccio fisicamente, la magia finirebbe subito. Io tornerei a sentirmi solo e sfigato. Non voglio che succeda, quindi va bene così. Le lascio l’illusione di chattare con Robert Pattinson...»
42 «Chi?» «Lascia stare, sei troppo vecchia per sapere chi è...» «E tu sei troppo stronzo! Comunque credo che tu dovresti mandargli una tua immagine. Non sei mica brutto tu... Sei un po' stronzo, ma non brutto.» «Hai detto a tuo marito che saresti venuta qua stasera?» «Lascia perdere. Hai mai sentito quel detto che dice di non mettere il naso negli affari tra moglie e marito?» «Scusa!» «Niente, figurati. Comunque no, non gliel’ho detto. E non voglio che lo sappia, capito? Lo dirò anche a tua madre, di non farselo scappare… Però, adesso, parlami ancora di Luna: tu non sei curioso di sapere com’è?» «Sì, ma immagino che anche lei non sia bellissima. Altrimenti, vanitose come siete voi donne, una foto sarebbe stata la prima cosa che mi avrebbe mandato.» «Come ti permetti di essere così insolente? Guarda che ti lascio qui e te ne vai a piedi!» «Tanto siamo arrivati. Gira qui e parcheggia dove trovi». Ilaria riesce a trovare un buco per lasciare l’auto. Scendono e solo in quel momento Andrea nota il vestito di Ilaria. Si scontra, improvviso, contro la visione della lunga scollatura sulla schiena, le scapole sensuali della donna e la farfalla tatuata sulla spalla destra. I suoi sensi da adolescente vengono sollecitati vigorosamente dalle gambe di lei, mai così scoperte da quando si conoscono. Non può non pensare, anche se per un solo istante, di strapparle di dosso il drappo di stoffa scura che strizza quel corpo perfetto che da giorni tormenta le sue disinibite fantasie. Mentre cammina due passi dietro di lei, inizia a domandarsi se con quel tipo di abbigliamento Ilaria stia veicolando un qualche messaggio che lui dovrebbe cogliere, s’interroga su quale motivo possa averla spinta a mostrarsi tanto sexy solo per un'uscita con un ragazzo banale come lui». Passano attraverso la grande cancellata che introduce al parco. Nonostante sia ancora presto, c'è già molta gente lì attorno. Ilaria si guarda attorno con sospetto cercando di intuire in quale genere di situazione si potrebbe trovare. Nota con sollievo la presenza di famiglie con figli, coppiette, persone che passeggiano con i loro cani: insomma, oltre ai più giovani, ci sono persone di qualsiasi età. Ilaria e il suo giovane accompagnatore passano la prima mezz'ora di quell'approssimativo appuntamento passeggiando attorno al laghetto posto al centro del grande parco. Quella zona non è molto illuminata e
43 nella penombra s’intravedono giovani coppie sdraiate sull'erba, nella ricerca di un po' d’intimità, disturbate solo dalle zanzare che già da qualche settimana hanno ripreso a tormentare le calde serate di primavera. Poi si dirigono verso la zona bar dove si siedono a uno dei tavoli del chiosco. Andrea si guarda attorno con aria impaziente, come se stesse cercando qualcosa o qualcuno. Ilaria si sforza di sembrare tranquilla, ma dai suoi atteggiamenti trasuda ancora un certo disagio dettato, forse, dal sentirsi fuori luogo in compagnia di quel ragazzino. Dopo qualche minuto di superficiale e stentata conversazione un gruppetto di giovani, approssimativamente della stessa età di Andrea, si avvicina a loro con decisione, come se avesse trovato in quella direzione, a quel tavolo, quello che stava cercando. «Ciao Andrea». Andrea volta rapidamente la testa in cerca dell’origine di quei saluti, poi una volta identificato il gruppetto di coetanei, getta verso di loro un incerto sorriso. «Ciao ragazzi, anche voi qui...» «Noi veniamo tutte le sere. Possiamo sederci con voi qualche minuto? Solo fino all’inizio del concerto.» «Chi suona stasera?» s’intromette Ilaria quasi d’istinto. «Un gruppo ska, non so chi sono, ma non importa. L’importante è muoversi un po’», replica quello che sembra essere il più spigliato del gruppo. «Io sono Simone, loro Fabio e Sergio. Loro due Marika e Giulia.» «Piacere, io sono Ilaria, un’amica di Andrea.» «Noi siamo suoi compagni di scuola», dice Simone accennando con il capo in direzione di Andrea che, a testa bassa, sorride nel tentativo di simulare una tranquillità che è solo di facciata. Dopo un giro di strette di mano i compagni di Andrea si accomodano al tavolo. «Andrea, non ci hai mai parlato di questa tua amica.» «Ci conosciamo da poco. Ehm, voglio dire, usciamo da poco». Ilaria non replica a quell’affermazione. «Come vi siete incontrati?» «Per caso. Nel mio negozio». Anche stavolta Ilaria non batte ciglio. I ragazzi cercano di coinvolgere Andrea nelle loro discussioni, ma senza successo. Lui non riesce proprio a reggere la conversazione con quei compagni che sembrano così disponibili nei suoi confronti. La musica inizia, e dopo le prime note Ilaria si alza e prende la mano di
44 Andrea; prova a sollevarlo di forza dalla panca, sorride e regala un rapido giro di sguardi agli altri ragazzi rimasti seduti. «Vieni Andrea. Andiamo a muoverci un po’», dice indicando la zona sotto il palco, dove un discreto numero di persone ha già iniziato a dimenarsi. Andrea cede allo strattone e si alza quasi controvoglia. Appena in piedi, Ilaria gli infila una mano tra i capelli e tirandolo a sé gli stampa un affettuoso bacio sulla guancia, molto, molto vicino alla bocca. Poi senza dargli il tempo di reagire lo porta via. I due si allontanano con passo svelto, mano nella mano, con Ilaria a condurre sicura la loro fuga. La donna si dirige in riva al laghetto, come alla ricerca di un nascondiglio d’ombra poco frequentato. Si siede a terra trascinando accanto a sé il ragazzo che non ha ancora detto una sola parola dal momento del bacio. «Perché lo hai fatto?» «Dovevo intervenire. Dovevo toglierti da quel momento di difficoltà in cui mi sembrava fossi finito.» «Quale difficoltà, Ilaria?» «Quella in cui ti stavano mettendo i tuoi compagni… anche se involontariamente.» «Non ero in difficoltà! Cosa stai raccontando!» «Ah no? Come mai non hai detto una parola? Come mai te ne stavi lì, fermo, in silenzio mentre tutti attorno a te parlavano e cercavano di coinvolgerti?» «Non è come dici!» «Allora com’è?» «Non è...». Il rumore dell’acqua che si muove sulla superficie del lago copre gli attimi di silenzio trai due. Poi lui riprende il filo dei suoi pensieri per dare loro voce. «Quelli non mi hanno mai considerato in vita loro. Io li vedo tutti i giorni e loro non mi hanno mai degnato di uno sguardo, mai un saluto. Non ti sembra strano che stasera fossero così gentili con me?». La donna dall’abito scuro forse troppo spinto non risponde, così Andrea prosegue il suo monologo. «Sto dicendo, se ancora non lo hai capito, che sono stati gentili con noi solo perché c’eri tu. Volevano solo sapere qualcosa di te. Erano interessati a te. Loro non sono abituati a donne come te…» «Questo l’ho capito sai! Ho trent’anni, non novanta. Ho visto come mi guardavano. Ho visto come cercavano di attirare la mia attenzione. Pensi
45 forse che non abbia colto alcune delle loro battute? Te lo ripeto, ho trent’anni non novanta. Dieci anni fa ero come te, come loro. Non credere che io non capisca l’effetto che può fare una donna di trent’anni sull’immaginazione di voi maschietti adolescenti e perennemente eccitati. Non pensare che non sappia che cosa stanno pensando e dicendo di me, adesso, quei tuoi amici. So benissimo che domani, quando li incontrerai, loro saranno gentili con te e un minuto dopo ti chiederanno cosa c’è tra noi e se mi hai già portata a letto. Conosco perfettamente tutte queste cose, ma quello che non so, però, è ciò che gli dirai tu…». Ilaria pronuncia le ultime parole di quella frase scandendole come un dettato di seconda elementare, creando ad arte una suspense che lei stessa ammazza un istante dopo. «Se tu fossi come loro, staresti al gioco e gli racconteresti un mucchio di colorite palle partorite dalla tua immaginazione, così, solo per farli morire un po’ d’invidia. Ma tua madre su una cosa ha ragione: tu sei diverso. Tu domani dirai solo la verità, che questa è la prima volta che tu ed io usciamo soli e che quel bacio è il primo che hai ricevuto da me e rimarrà l’unico». Ilaria parla tenendo una mano di Andrea tra le sue: istintivamente lo accarezza dolcemente con le sue dita morbide, lunghe e magre. Sfiora ritmicamente il dorso della mano di lui, poi con la punta delle dita gli massaggia il palmo. Forse ignora che quei gesti, così innocenti e volutamente materni, potrebbero essere male interpretati dal ragazzo. Andrea sente di essere confuso: il suo cervello sembra non essere più in grado di seguire i discorsi della donna, ma ha iniziato a vagare solitario in un mondo di allucinate illusioni. Guarda l’acqua, poi si volta nel tentativo fulmineo di baciare Ilaria. Prova a poggiare le sue labbra su quelle della donna che, mantenendo la calma e sfruttando la scarsa esperienza del ragazzo in quel genere di approcci, gli appoggia con fermezza una mano sul petto per frustrane le intenzioni. Lui si ferma immediatamente senza mostrarsi stupito del rifiuto. «Scusa...», sussurra con un filo di voce che Ilaria percepisce appena. «Non fa niente. Non mi hai offesa, anzi.» «Scusa, ma tu mi piaci... molto.» «Sì, lo so. L’ho capito. Non voglio essere troppo dura con te, ma io per te posso solo essere un’amica. Non pensare a me in quel modo. Sei giovane, non sprecare tempo ed energie corteggiandomi. Sarebbe solamente una perdita di tempo, anche se è brutto dirlo. Non ci potrà mai essere niente tra noi.» «Ma prima mi hai baciato davanti a quei ragazzi.»
46 «L’ho fatto per aiutarti, credimi. Di certo non per illuderti. Andrea, tu hai solo bisogno di credere un po’ di più in te stesso. Potresti avere una di quelle ragazze che erano sedute con noi al tavolo, una di quelle che stavano con i tuoi amici. L’unica cosa che devi fare è cercare di aprirti di più, devi lasciare che la gente abbia la possibilità di conoscerti e di apprezzarti per ciò che sei e vali. Il bacio che ti ho dato era per cercare di dare ai tuoi compagni un’idea delle cose un po’... diversa. Volevo che loro cominciassero a darti maggior credito, che ti dessero un po’ di considerazione in più. E da parte di quelle ragazze, sicuramente, hai acquisito un po’ di considerazione. Loro pensano che stai uscendo con una ragazza di tredici anni più grande, più esperta, una donna. Anche se so che mi staranno chiamando tardona o zoccola o altro... ma non m’interessa, se questo può aiutarti.» «Sì, ma è tutto falso, un'illusione e io lo so. E questo mi basta per continuare a sentirmi uno sfigato. Se pensi che quel bacio mi abbia dato un po’ più di fiducia in me stesso... beh non è andata proprio così. Non hai visto come sono rimasto imbambolato ed ebete dopo il bacio?» «Non è andata così, credimi. Ti ho trascinato via come se volessimo andare a ballare. Nessuno si è accorto di niente. Io li ho guardati i tuoi compagni: hanno assistito a quella scena stupiti quanto te e, forse, di più. Erano troppo intenti a chiedersi se quello a cui stavano assistendo fosse vero, per rendersi conto della tua sorpresa. Ti hanno guardato con invidia.» «Non me ne faccio niente della loro invidia, perché dentro di me, io so la verità. So che non te ne frega niente di me. So che continuerò a essere uno sfigato che non è in grado di conquistare una ragazza.» «Andrea te lo ripeto. Non devi pensare questo di te. Altrimenti davvero diventerai quello che dici di essere. Sei un bel ragazzo, sei intelligente, sei interessante. Credi che se io ti ritenessi uno sfigato o che stare con te fosse una rottura di palle, sarei venuta qua stasera? Pensi che avrei davvero corso il rischio di litigare con mio marito per passare una serata diversa con uno sfigato?» «Hai litigato con tuo marito?» «Non sono affari tuoi». La risposta è brusca sia nelle parole che nei toni. Andrea nell’atteggiamento scostante di Ilaria decodifica chiaro il messaggio. «Mi spiace che abbiate litigato per colpa mia, ma questo in tutta onestà un po’ mi fa felice...» «Questa è una cattiveria. Non dovresti...» «Intendo dire che sono un po’ onorato che tu abbia litigato con tuo
47 marito per stare con me». Ilaria guarda il ragazzo in modo duro, quasi volesse rimproverarlo per quello che sta dicendo. «Non prendertela. Non riesco a farmi capire dalle ragazze... E’ la solita storia, vedi?» «Non cercare scuse, non fare la vittima. Sai benissimo cosa hai detto e cosa intendevi dire. Ti ho già spiegato cosa significa per me questa serata. Ti trovo un tipo interessante e così ho voluto passare qualche ora con te, piuttosto che stare in casa sola». Questa volta è Andrea che squadra la donna con uno sguardo minaccioso e velato di rancore. Non lascia cadere quella frase, ma inizia a tirare fuori qualche impeto di orgoglio, la voglia di rimettere al suo posto quell’amica di sua madre. «Così sei qui solo perché non hai di meglio da fare? Hai trent’anni, ma non sei messa meglio di me, se devi ricorrere a un ragazzino per trovare qualcosa da fare la sera...» «Andrea, adesso smettiamola. Siamo qui perché tutti e due volevamo passare la serata insieme. Smettiamola di dire cattiverie. Magari le ragioni sono diverse, ma sia io che te, siamo qui perché lo abbiamo deciso. Tu me lo hai chiesto e io ho accettato.» «Senti, ti voglio confessare una cosa.» «Dimmi.» «Ti ho chiesto di uscire con me stasera per due ragioni. La prima è che lo volevo fortemente. Voglio passare del tempo con te. Voglio conoscerti e sapere tutto di te, come eri alla mia età, quali erano i tuoi sogni, le tue speranze, come sei diventata la donna che sei oggi...» «La seconda?» «La seconda... Perché volevo che accadesse esattamente ciò che è successo. Sapevo che ci sarebbero stati alcuni dei miei compagni qui, stasera. Volevo che mi vedessero con te, con una donna bellissima, più grande di me, volevo che pensassero che usciamo regolarmente, che tra noi c’è qualcosa, che tra noi...» «Andrea lo puoi dire. Non essere timido, volevi che pensassero che tu fai sesso con me. Non ci trovo niente di strano in questo. Come ti ho detto è una cosa che capisco.» «Ma io ti ho usata. E’ una cosa brutta.» «Lascia stare! Continuando a crescere, scoprirai che in fondo tutti usano tutti. Non ti preoccupare per me. Io non sono offesa da quello che hai fatto, anzi. Sono felice che tu abbia scelto me per raccontare la tua piccola bugia ai tuoi compagni. Significa che mi apprezzi, spero non solo
48 per come mi vedi esteticamente, perché io, in fondo, non sono così bella come dici. Sono molto più contenta perché mi hai detto che mi vuoi conoscere meglio, che sei interessato a come ero e a come sono, ai miei sogni. Questo è bello da parte tua.» «Grazie, sono contento che tu non ti sia offesa. Senti, te lo devo chiedere... Cosa devo raccontare di noi a quei ragazzi, quando mi chiederanno come è finita la serata». Ilaria fa una smorfia, poi un sorriso malizioso. Accarezza la ruvida guancia di Andrea seguendone il morbido profilo fino a fermasi sul suo mento pizzicandolo con simulata cattiveria. Poi con sguardo volutamente ammaliante aggiunge: «Non lo so... La serata non è ancora finita!». Per qualche istante Andrea rimane sospeso guardando Ilaria (o la sua caricatura), poi si scioglie in un sorriso, misto tra rimpianto e fastidio, che gli adombra il viso. «Smettila di prendermi in giro. Non si scherza su queste cose.» «Vedi che hai afferrato che sto giocando... Se io pensassi che tu possa fraintendere o che non capisca gli scherzi, non mi permetterei di comportarmi così con te...» «Ok, ma preferisco che tu non lo faccia.» «D’accordo. Non lo farò più.» «Cosa vuoi fare? Vuoi restare qui tutta la sera in riva al laghetto?» «Non abbiamo detto ai tuoi amici che andavamo a ballare? Andiamo. Facciamoli morire d’invidia.» «Non so... Non so ballare.» «Andrea, è ska. Basta che ti muovi in modo concitato, dinoccolato e scoordinato», dice Ilaria pensando tra sé che la differenza rispetto al solito non si sarebbe mai notata. «Ok, andiamo. Ma non mettermi a disagio». La musica finisce intorno a mezzanotte e i due improvvisati ballerini si ritirano sudati sotto il chiosco del bar per rifocillarsi. S’intrattengono per altre due ore sotto quel tendone, fino a che sono letteralmente sbattuti fuori dalle ragazze del servizio che stanno pulendo e chiudendo. Poco dopo le due di quella notte, l’auto di Ilaria raggiunge la casa di Andrea, riportando alla propria dimora il novello Cenerentolo. La serata è fresca e non c’è alcun segno di vita in giro per il paese. Anche le insegne degli ultimi due bar aperti si sono ormai spente, e solo la luce gialla lampeggiante di un semaforo regala uno sprazzo di chiarore all’ingresso di quella via buia e solitaria dove Andrea vive.
49 «Mamma mia che ora si è fatta! Io domani alle sette sono in piedi per andare al lavoro. Certo che questa serata è proprio volata. Grazie per avermi invitata, Andrea.» «Grazie per essere venuta. Spero ti sia divertita davvero.» «Non avremmo fatto notte se mi fossi annoiata. Testone». Pronuncia l’ultima parola come sempre infilando la mano nei ricci di Andrea e scuotendo energicamente quella massa incolta. Trascorre mezz’ora e i due sono ancora nell’auto a chiacchierare: o meglio, è Andrea che continua a parlare, sollevando argomenti e stimolando discussioni. «Andrea, per me è tardi. Mi spiace devo andare.» «Sì, ok, però...» «Ho capito. Ho l’impressione che tu stia cercando di prolungare la serata e che non scenderai mai da questa macchina se non ti sbatto fuori io.» «E' solo che mi piace un casino parlare con te.» «Ho capito. Senti, sono stata anch’io adolescente. Anch’io, come te, sono stata innamorata di uomini più grandi di me. E avevo solo un desiderio: che si accorgessero di me, che mi degnassero di qualche attenzione. Quelle poche volte che mi rivolgevano la parola... beh toccavo il cielo con un dito. Volevo che quei momenti non finissero mai». Ilaria si accosta lentamente ad Andrea, fissandolo. Lui sente un'emozione che non riesce a riconoscere perché lo sguardo provocante di lei si avvicina ancora un po’ al suo. Sente il braccio morbido e nudo della donna che gli sfiora il collo per poi stringerlo a se. Andrea riesce a vedere gli occhi di Ilaria che si chiudono prima di accorgersi che le labbra carnose ed esperte della donna trentenne si sono appoggiate, sensuali, sulle sue più ingenue e chiuse. Ilaria forza leggermente con la lingua la minima resistenza che Andrea oppone per lo stupore, sicché diventa poi facile trovare quella di lui. Quel bacio dura solo pochi istanti. Ilaria si stacca dalle labbra del suo giovane amico. «E’ il primo bacio della tua vita?» «Non il primissimo, ma non ho molta pratica. Si capisce vero?» «Credo di sì, ma poteva essere peggio». Ilaria riprende le spalle del ragazzo e lo riporta vicino a sé. Lo bacia ancora, più a lungo e appassionatamente. «Come pensavo, sei sveglio. Impari in fretta. Questo era molto meglio.» «Ilaria, non capisco cosa è successo.» «Niente. Hai avuto quello che volevi. Volevi infilare la lingua nella bocca della tua amica trentenne. Volevi qualcosa da raccontare. Non
50 saresti tornato a casa a mani vuote, non saresti mai sceso da quest’auto.» «No, non...» «Non ti sto accusando, rilassati. Te l’ho detto, sono stata giovane anch’io. Avrei dato tutto, quindici anni fa, per avere un bacio da un amico di mio padre che non ho mai dimenticato. Ti ho fatto una specie di regalo. Adesso però ascoltami bene. Hai avuto quello che volevi e ora devi decidere. Dormici sopra. Questo è tutto ciò che ti ho potuto dare e non succederà più! Non chiedermi di più. Decidi: se dopo questo vuoi ancora vedermi per conoscerci meglio, per diventare amici, come hai detto prima, per me è ok. Devi solo dimenticare questo bacio, pensare che non sia mai successo. Se invece credi di aver ottenuto ciò che volevi, una serata diversa e un po’ trasgressiva con una donna più grande, tieniti il ricordo di questo bacio, raccontalo pure ai tuoi amici, ingigantiscilo, nessun problema. Ma sappi che non succederà più. Voglio essere chiara con te: è stato un regalo, qualcosa per aiutarti. Non ti devi fare illusioni: tra noi ci potrà essere solo amicizia... se vorrai». Andrea non dice nulla; fa solo un cenno di assenso con la testa, annuisce per dimostrare alla donna di aver compreso il senso delle sue parole. Poi scende dall’auto salutandola con la mano, senza dire una parola. C’è un sorriso ambiguo, smarrito, stampato sul suo volto, mentre infila la chiave nella serratura della porta di casa cercando di fare meno rumore possibile. Si gira un’ultima volta verso Ilaria, che dall’auto lo osserva. La sente sussurrare qualcosa abbastanza forte da essere udita. «Ciao Andrea. Buona notte. Ricordati, solo amicizia».
51
6.
Silvia spalanca la porta del locale con aria affannata. Ha corso per l’intera distanza tra la fermata della metropolitana e il pub dove è fissato l’appuntamento; pensa di essere in ritardo e la cosa la disturba, specie perché si tratta del primo incontro con Wayne, il ragazzo del messaggio nello zaino. Si sente colpevole per essersi attardata davanti allo specchio interrogando in modo ossessivo se stessa, e Alice, riguardo all’abbigliamento scelto per l’incontro con il misterioso ragazzo. Alla fine le due amiche hanno optato per un abitino sobrio, scuro, stretto in vita e scampanato, di colore verde. Silvia ha raccolto i suoi capelli biondi in una coda lisciata e ben pettinata, un’acconciatura tenuta ferma da un vecchio fermaglio di pelle e da un’ingente quantità di schiuma fissante. Indossa una vistosa collana di fattura africana. Per l'occasione si è truccata, proprio lei che non lo fa quasi mai: un leggero velo di phard, un lieve tratto di matita e un rossetto perlato addolciscono un po’ i forti tratti del suo volto. Adesso, dopo la breve corsa che ha dovuto sostenere, si sente sudata, teme che il make-up ceda di schianto. Appena dentro il locale fissa con sollievo il grosso orologio appeso alla parete, scoprendo di disporre di un patrimonio di tre minuti prima che Wayne arrivi; decide che quei tre minuti debbano essere inevitabilmente investiti nel bagno del pub, controllando che il trucco e il vestito siano ancora come quando è uscita di casa. Attraversa il salone accorgendosi di attirare gli sguardi, alcuni incuriositi, altri affascinati, degli uomini presenti in quel pub del centro. “E se uno di questi fosse Wayne?” pensa tra sé e sé, rendendosi conto per la prima volta, solo in quell'istante, di non sapere nulla della persona che sta per incontrare. Lui, invece, sa come è fatta Silvia: lui ha avuto venti lunghi minuti sul treno per ammirare e memorizzare il volto della ragazza italiana che lo sta aspettando all’interno di quel pub di Londra. Silvia raggiunge la porta della toilette. E’ un bagno di quelli con entrata
52 unica per uomini e donne, con il lavabo in comune. Solo il locale WC è separato. Silvia si piazza davanti allo specchio e comincia ad accarezzarsi i capelli seguendo la direzione dell’acconciatura. Poi si gira di tre quarti per controllare che il phard renda ancora l’effetto desiderato. Sente la serratura di una delle due porte sbloccarsi e dal WC degli uomini esce un ragazzo. E’ intento a sistemarsi la cintura così quando rialza lo sguardo, incontrando quello di lei, quasi non riesce a credere di trovarsi proprio davanti a Silvia. E’ visibilmente imbarazzato, ma non ha altra scelta. «Silvia? Ciao, io sono Wayne». Anche Silvia è sorpresa. Resta per un istante con una mano sulla guancia, poi la allunga verso il ragazzo. «Ciao. Sono Silvia, piacere di conoscerti.» «Ehmm... Lascia che mi lavi le mani prima di scambiarci i saluti...». Il ragazzo diventa immediatamente rosso in volto, in crescente imbarazzo. Silvia capisce il senso delle sue parole e guarda con ironico sorriso il proprio braccio destro disteso nell’intento, fortunatamente rivelatosi vano, di ricevere una stretta di mano da Wayne. Distoglie quindi lo sguardo dal ragazzo e ritrae il braccio. «Già, forse è meglio che ti lavi...». Il giovane inglese apre il rubinetto dell’acqua e preme contro il dosatore di sapone. Mentre si strofina le mani con vigoroso impeto, prova a iniziare una conversazione. «Non è certo il modo in cui pensavo ci saremmo incontrati. Speravo che arrivassi in ritardo, come tutte le donne. Speravo di vederti aprire la porta del pub: così, appena entrata, io mi sarei alzato per venirti incontro con il mio sorriso migliore. Mi sarei presentato e avrei cercato di tirar fuori tutto il mio charme... purtroppo, invece...» «Non ti preoccupare. Ho visto di peggio». Wayne si asciuga le mani. Si volta verso Silvia stendendo la mano destra verso di lei. «Adesso, possiamo finalmente presentarci». Dopo una poco più che distaccata stretta di mano, i due si avvicinano e si scambiano un paio di baci. Non c'è un contatto troppo intimo tra i due, solo le guance che si sfiorano formali e quasi di sfuggita. Sono ancora all’interno del bagno: nessuno dei due ha ancora pensato di sospendere quell’incontro e riprenderlo qualche secondo più tardi in un luogo più consono, seduti a un tavolino, sorseggiando un the come nella miglior tradizione britannica. «Così tu sei quello che ha infilato le mani nel mio zaino, tra le mie
53 cose...» «Sì, sono io! Scusami, ma la tentazione di comunicare con te era troppo forte. Desideravo a tutti i costi dirti che il tuo viso mi ha colpito, stregato. Non potevo permettere che tu scendessi da quel treno senza che tu sapessi di aver fatto battere forte il cuore di un uomo. Senza sapere che ho passato tutto il tempo del viaggio immaginando il tuo nome, la tua voce, i tuoi occhi e la tua vita.» «Sei molto dolce... Dopo un primo momento in cui sono rimasta... come dire... spiazzata, il tuo messaggio mi ha fatto piacere. E' stata una cosa molto particolare, insolita.» «Sono contento. E adesso so per certo che ne è valsa la pena. Perché sto parlando con te, perché ti sto guardando negli occhi, così espressivi e profondi. Il loro colore è davvero emozionante!» «Smettila o rischio di crederti...». Non è la prima volta che qualcuno si accorge del verde intenso che colora gli occhi di Silvia, della trasparenza che il suo sguardo trasmette quasi per compensare la riservatezza dietro la quale lei si trincera all'inizio di ogni nuova conoscenza. «E’ tutto vero, non lo dico per adularti. Non m’interessa farlo...» «Sarà perché ho il mare nei miei occhi!» dice Silvia enfatizzando, con una smorfia, il tono di voce che sottolinea, ironico, la piega troppo sentimentale che il discorso ha già preso. Wayne osserva, senza aggiungere altro, la sconosciuta ragazza in piedi davanti a sé. E’ appoggiato con il sedere al bordo del lavandino e stringe il telo di carta assorbente con il quale si è asciugato le mani. «Non guardarmi così, io sono italiana, lo sai. Io vengo dal mare.» «Da dove?» «Un’isola, si chiama Elba.» «Non la conosco...» «Conosci Firenze?». Wayne fa una smorfia di ovvia conferma. «Ecco, poco distante da lì.» «E’ un bel posto?» «E’ il posto dove sono nata... Come potrebbe non piacermi?» «Io sono nato a Londra, ma non per questo credo che questa città sia la più bella del pianeta. Anzi, sono convinto che esistano migliaia di posti molto più affascinanti e vivibili di Londra, e che molti di essi siano proprio in Italia. Credo che l’Italia sia il massimo della vita. Insomma, c’è tutto quello che una persona può desiderare. Arte, cultura, cibo e belle donne... Sono stato in Italia proprio qualche mese fa, a Venezia e
54 Verona.» «Davvero? E per quale motivo, lavoro?». Improvvisamente la porta del bagno si apre e una donna entra scrutando con fare sospettoso e poco amichevole i due ragazzi che, imbarazzati, provano a fingere di essere sul punto di uscire da lì. «Forse dovremmo continuare il discorso di là. Non voglio che tu debba ricordare questo pomeriggio come l’incontro nei bagni di Mc Hillis». Silvia annuisce e non oppone alcuna resistenza quando Wayne le prende la mano e la riaccompagna nel salone del pub, dove prendono posto a uno dei tavoli liberi. I due si siedono uno accanto all’altra e iniziano a dare un’occhiata alla lista delle bevande. Guardano la stessa lista, così si sorprendono inaspettatamente vicini, troppo stretti l’uno all’altra. Le loro braccia si toccano e si sfiorano più volte in un gioco di sensi, volutamente solo accennato. «Mi stavi dicendo del tuo viaggio in Italia...» «Sì sono stato da voi perché volevo vedere Venezia e vivere un po' di quella meraviglia. Poi sono passato di corsa da Verona per vedere l’Arena, ma soprattutto la casa di Giulietta. Per un inglese sarebbe stato un delitto non farci un salto...» «Quanti anni hai Wayne?» «Ho trent’anni, ma per questa sera le domande sono finite, se sei d’accordo. Non vorrei che tu esaurissi tutta la tua curiosità in una sola uscita. Rischierei di non poter avere un’altra occasione per incontrarti. Anzi, facciamo un patto. Possiamo farci solo tre domande personali per ogni incontro che avremo da oggi in poi. E non possiamo farci le stesse domande a vicenda nello stesso appuntamento...». Lo sguardo della ragazza diventa interrogativo e sorpreso per quella particolare proposta, ma l'espressione sorridente e sicura di Wayne la tranquillizza. Lui pare essere molto sicuro di sé, così Silvia accetta quel gioco. «Quindi, se ho capito bene, tu oggi non mi puoi chiedere l’età, giusto?» «Sì, corretto. Me l’hai chiesta prima tu. Adesso però tocca a me farti una domanda... Vediamo... Cosa vorresti portare a Londra dalla tua isola?» «La risposta è facile... il mare. Il mio mare. E poi...» «No, ferma, solo una cosa, pensaci bene: solo il mare?» «Sì, il mare... ti prometto che se avremo modo di conoscerci meglio ti porterò in Italia, sulla mia isola, nel mio mare. Solo così potrai capire di cosa parlo.»
55 «Va bene, ti prendo in parola. Spero la manterrai». Il cameriere arriva e interrompe quel dialogo appoggiando sul tavolo due pinte di birra. «Vado con la seconda domanda. Con quante altre donne hai utilizzato il trucco del messaggio infilato dentro lo zaino?». Un lampo di divertita ironia accende il volto di Wayne che non arrossisce, ma che anzi risponde in modo spavaldo e sorprendentemente pronto. «Solo altre tre volte. Ma non sempre nello zaino. Una volta in un libro, un’altra nel reggiseno e a un'altra, non ci crederai, sono riuscito a infilarlo nell’elastico dello slip... mentre dormiva, capisci? Non si è accorta di nulla... Quello è stato il mio più grande colpo, un capolavoro di cui vado molto fiero». Silvia è esterrefatta, ma subito i suoi occhi incontrano quelli vispi di lui, così non servono altre parole per capire che si tratti di uno scherzo. «Silvia, che tipo di persona pensi che io sia? Tu sei la prima che mi abbia indotto a comportarmi così per cercare disperatamente il modo di mettermi in contatto con te. Credimi, non ho mai sentito un così forte bisogno di conoscere una donna. E’ come se vedendoti su quel treno una voce mi avesse detto “se non la fermi adesso la perdi per sempre”. Dovevo fare qualcosa... E quella è stata l'unica cosa che mi è passata per la mente». Silvia fissa la birra davanti a sé, intimidita da tanta sfrontatezza, forse lusingata da quello spudorato corteggiamento. Wayne percepisce il suo disagio e prova a togliere un po' della pressione che sta schiacciando le spalle della ragazza, impedendole di sciogliersi. «Non voglio metterti in imbarazzo, né sembrare uno che corre troppo. E’ solo che io sono fatto così, sono sincero. Mi piace esprimere i miei sentimenti alle persone. Credo sia una cosa...» «Non c’è bisogno che ti giustifichi. Mi piace il tuo modo di fare. E’ solo che io sono un po’ diffidente con chi si apre totalmente già dalle prime uscite. Credo che dovresti andarci piano... insomma, ancora non mi conosci. Potresti rimanere molto deluso. Potrei essere la persona peggiore del mondo.» «Impossibile. Le persone brutte si capiscono al primo sguardo, alle prime parole... Già dal telefono ho capito che sei una ragazza speciale.» «Basta, fermati davvero, adesso! Andiamo oltre. Ho ancora una domanda per te, giusto?» «Sì. Hai la terza domanda. Prima, però, tocca a me... la mia seconda per te...»
56 «Giusto. Dai spara!» «Hai un sogno ricorrente? Non intendo un desiderio, ma qualcosa che sogni spesso quando dormi...». Silvia è stupita da Wayne per l'ennesima volta in quel pomeriggio, da lui e da quelle domande, così strane, così atipiche per un primo incontro. Lei scruta veloce nella sua mente tra i vari sogni che spesso le capita di fare. Come se sfogliasse rapide le pagine di una rivista, in cerca di un articolo notato mille volte di sfuggita, ma ora così difficile da ritrovare. Poi ha un lampo. «E’ un brutto sogno. Non brutto... però un po’ mi angoscia. C’è un ragazzo, senza volto e senza nome. Nel sogno sono attratta da lui. Mi piace. Siamo in giro, assieme, in un posto buio. Entriamo in uno spazio chiuso, tetro, oscuro, qualcosa tipo un capannone industriale. Questo capannone è vuoto. Io sono a disagio in quel posto, mi angoscia. Poi guardo il ragazzo e noto che indossa uno strano paio di occhiali rossi, dalla montatura enorme, davvero orrendi. Lo guardo in modo strano. L’atmosfera e quel luogo m’incutono timore, una paura ingiustificata. Chiedo al ragazzo di portarmi via, lo imploro ma lui non vuole. Prova a tranquillizzarmi e toglie dalla sua tasca un paio di occhiali. Me li dà e mi chiede di indossarli. Quando lo faccio, tutto intorno a noi inizia a cambiare, poco alla volta. Il buio inizia a colorarsi e una luce, dapprima soffusa poi calda e forte, illumina l'interno del capannone che progressivamente si trasforma in una casa: diventa un luogo caldo e accogliente, così io inizio a sentirmi meglio. C’è uno specchio, mi guardo e noto che gli occhiali che indosso sono identici a quelli che indossa il ragazzo che è con me. Ma adesso, con quel chiarore e in quella casa, gli occhiali non sono più tanto orrendi. Anzi quasi mi piacciono e l'enorme montatura sembra donarmi, sembra essere perfetta per il mio viso. Guardo il ragazzo senza volto, sono felice. All'improvviso la sua faccia comincia a prendere forma, i lineamenti iniziano a definirsi. Riconosco il suo volto. Solo nel sogno, però. Nella realtà non ho mai visto quel ragazzo. Poi niente: non ricordo di aver mai sognato oltre questo punto. Questo è tutto. Chissà se significa qualcosa...» «I sogni hanno sempre un significato.» «Secondo te cosa potrebbe voler dire, allora?» «Non sono un esperto di sogni e nemmeno uno psicanalista. Ma una specie di interpretazione la posso azzardare. Senza la pretesa di indovinare o peggio di analizzarti.» «Prova, dai. Sono curiosa...» «La spiegazione più immediata che mi viene è che tu senti il bisogno di
57 qualcuno accanto a te. Anzi, forse sei attratta da qualcuno che magari esteticamente non è bello, cioè il magazzino buio, o da qualcuno che non hai mai visto... l’uomo senza volto. Questa persona ha il dono straordinario di vedere il mondo e la vita nel tuo stesso modo. Infatti, quando entrambi indossate gli stessi occhiali, tutto cambia in meglio. Tu stai bene, il luogo buio diventa accogliente come una casa e anche il misterioso ragazzo svela il suo volto. Gli occhiali possono essere il simbolo dei filtri con cui tu e lui vedete la vita. Possono rappresentare principi o ideali e sogni comuni. Insomma, qualcosa che vi unisce e che vi da la stessa direzione per la vita, lo stesso modo di interpretarla. Questo è il significato che io darei al tuo sogno». Silvia osserva attonita Wayne proteso verso di lei con i gomiti sul tavolo. E’ affascinata dall’interpretazione che le ha appena dato di uno dei suoi sogni più comuni e angoscianti. E’ stata toccata, in particolare, dall’ipotesi di essere attratta da qualcuno non ancora incontrato, mai visto. Adesso, nel suo intimo, sa che quella è più di un’ipotesi, che quella potrebbe essere davvero la lettura più probabile. «Sai, sono stupita. Ho pensato un sacco di volte al significato di questo sogno, ma non mi aveva mai sfiorato nulla di quanto tu hai appena detto. Non so se sia la corretta interpretazione, ma trovo molto interessante questo tuo tentativo. Ci voglio riflettere. Potresti esserci andato molto vicino...». Alcuni istanti di silenzio, sospendono il dialogo, ma non il contatto tra i loro occhi. «Adesso mi resta l’ultima domanda», esclama Silvia sollevando la sua birra e affondando le labbra nella schiuma: un breve sorso, una smorfia, come a prepararsi per un grande evento, come a voler lanciare la sfida decisiva. «Humm, vediamo... Me la voglio giocare bene, perché dalla tua prossima risposta dipenderà il fatto di rivedersi ancora oppure no». Silvia socchiude gli occhi. Fa un’altra smorfia e li riapre illuminando Wayne in trepidante attesa. «Ecco, Wayne, dimmi come ero vestita in treno l’altra mattina». Adesso è Wayne a essere disorientato: abbassa la testa, poi la rialza scuotendola leggermente mentre la sua bocca e i suoi denti bianchissimi disegnano un sorriso divertito e impenitente. «Non so se riesco a essere preciso, ma ci provo... Portavi un paio di pantaloni verdi, con molte tasche: precisamente due sulla gamba destra e tre su quella sinistra. Indossavi una maglietta a maniche corte, con uno strano disegno davanti, una specie di drago vestito da pompiere. La
58 maglietta era corta e il tuo ombelico era scoperto. Così ho notato quel piccolo tatuaggio che hai appena sopra le ossa del bacino, una piccola tartaruga. Avevi una felpa appoggiata sulle spalle, arancione, con le maniche bianche. C'era un grosso fermaglio scuro che ti reggeva i capelli, ma non lo stesso che hai oggi. Uno diverso, più grande, una specie di ragno. Poi gli orecchini a pendente, due anelli d'argento che sobbalzavano ritmicamente con il movimento del treno. Portavi un braccialetto di stoffa color arancione, al polso sinistro. Mi spiace che tu non lo indossi anche stasera, mi piaceva... Hai tolto anche la fedina di legno che indossavi sul mignolo della mano destra. Le scarpe... Un paio di scarpe Levi’s di tela, basse, color rosa. I lacci bianchi, pulitissimi, infilati in maniera diversa rispetto al solito. Non so come dire, orientati in avanti anziché all’indietro, non riesco a spiegare...» «Ok, fermati... Volevo solo capire se realmente mi avevi guardato così bene come dici e... è stupefacente. E’ come se davvero, in quei venti minuti, tu non abbia mai distolto gli occhi da me... è incredibile. E un po' preoccupante, anche. Non sarai mica una specie di psicopatico serial killer?» «Silvia, spero che quello che ti ho detto ti abbia convinta che non sono uno che racconta storie. Quello che dico è vero. Quello che vedi, sono io...». Senza domandarsi le conseguenze del gesto che sta per compiere, lui allunga una mano e la appoggia delicata sul collo di lei. Con il pollice la sfiora delicatamente, fino al mento. Lei chiude gli occhi per non perdersi nemmeno una delle sensazioni che stanno vibrando dentro di lei. «Sai, ho memorizzato tutto di quella mattina, ma la cosa che più ho desiderato guardandoti, era toccare il tuo collo. Mentre dormivi, con la testa leggermente calata sulla spalla, non ho potuto smettere di ammirare il tuo collo, così magro, dalle dimensioni così perfette...». Silvia resta immobile e ancora a occhi chiusi risponde. «Non sono sicura che sia un complimento, ma grazie comunque!» poi in modo risoluto ma gentile sposta la mano di Wayne, la allontana dal collo e se la porta davanti al viso, a pochi centimetri dal verde dei suoi occhi. La gira e rigira più volte osservandola con attenzione. «Hai delle belle dita, le unghie curate. Che lavoro fai?» «No! Mi spiace, domande esaurite per te! Io, invece ne ho ancora una.» «Hai ragione, dimmi.» «C’è qualcuno nella tua vita?» «Certo, un sacco di gente. Mamma, parenti, amici e amiche. Coinquilini, compagni di scuola, un cane, una tartaruga, il Livorno calcio, Gandhi, il
59 ristorante sotto casa mia... e un sacco di altre cose». Wayne ascolta divertito la ragazza che snocciola, alla rinfusa, tutto ciò che ritiene essere importante nella sua vita. Poi la interrompe. «E... un fidanzato?» «Mi spiace, domande esaurite anche per te!». FINE ANTEPRIMA Continua...