In uscita il 31/3/2017 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine mrzo e inizio aprile 2017 ( ,99 euro)
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PIETRO SOLIMENO
LA PORTA CHIUSA
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LA PORTA CHIUSA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-083-8 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Marzo 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
I personaggi citati sono frutto della fantasia dell’autore e hanno lo scopo di conferire verosimiglianza alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
Don’t kid yourself and don’t fool yourself this love’s too good to last and I’m too old to dream. Muse - Blackout
5
Controllavo ancora una volta le nuove routine inserite nel programma;
tutto rispondeva alla perfezione. La parola “bug” non rientrava nel mio vocabolario, il lavoro scorreva in modo naturale, come se le mie intuizioni non fossero altro che pura essenza. Le righe del codice avevano una logica quasi umana, non la normale programmazione con le solite routine; io ero andato oltre, creando un sistema che permetteva di costruire intere forme biologiche tridimensionali sfruttando la caratteristica del “così è, così lo vediamo”. In parole semplici, tramite quel software e un ecografo abbinato a un certo tipo di monitor, l’ecografo stesso era in grado di ricostruire tridimensionalmente e in alta definizione una qualsiasi parte biologica umana anche se questa era visibile solo parzialmente. Il software, basandosi sulle informazioni inserite dal medico, era in grado di ricreare autonomamente la parte non distinguibile o nascosta per svariati motivi. Un supporto diagnostico di elevata importanza, uno strumento che tutti i medici avrebbero voluto nel loro ambulatorio. Spensi il computer; era giunto il momento di tornare a casa. Ero stanco, e non solo di lavorare sul programma. Ero stanco di tutto, di quel tipo di vita che iniziava ad annoiarmi, a starmi stretta, a farmi perdere di vista lo scopo della mia stessa esistenza. Nella vita è bello cambiare, inventarsi qualcosa che dia nuovi stimoli, che faccia continuare ad alzarsi la mattina con la voglia di vivere, di fare qualcosa di diverso. Qualcuno ha affermato che è più facile quando i soldi non mancano, e a me non mancavano. Tuttavia non riuscivo a svincolarmi dal sistema, ormai ne ero completamente soggiogato, succube. La mia azienda stipulava contratti a cascata, tutti volevano assicurarsi la nuova tecnologia per partecipare alla realizzazione di nuove periferiche specializzate sul mio software. Tutti volevano rendere ancora più efficace il mio programma. In verità tutto ciò mi interessava sempre meno; cercavo di ricostruirmi una parvenza di vita normale, e non basata solo sul profitto del lavoro. Desideravo solo un nuovo futuro.
6 Il telefono sulla scrivania mi distrasse momentaneamente dai pensieri. Già sapevo chi era e cosa voleva. E come sempre, nel momento meno opportuno. «Ciao Nadia, che ti casca?» «Se fossi un uomo ti darei una risposta adeguata, ma visto che fino a prova contraria non lo sono, posso solo confermarti che a me non casca proprio nulla! Tutto di me si tiene ancora molto bene, anzi direi molto meglio di prima, e questo ormai dovresti saperlo. Ora ascoltami, si tratta della solita riunione mensile; pensi di esserci?» «Non lo so, non ne ho molta voglia. Tanto sono sempre le solite cose, i consueti discorsi con i nostri collaboratori. Tu ci sarai?» «Ho poco tempo, siccome devo fare anche quello che spetterebbe a te. Confidenzialmente posso dirti che mi sono stufata. Sei diventato apatico, assente, non ti capisco.» «Ciao Nadia.» «Aspetta!» Riattaccai il ricevitore, poi lo alzai di nuovo e lo misi sulla scrivania, così non avrebbe richiamato. Il mio cellulare era perennemente spento.
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1
L’auto percorreva la provinciale in direzione di Firenze. Non sapevo neanche io perché mi recavo là, sembrava che la macchina seguisse una rotta prestabilita di cui ero solo il pilota passivo, l’ospite di bordo. Non avevo voglia di niente e di nessuno. Il lavoro mi stressava sempre di più, la mia vita era ormai inesistente, piatta, priva di emozioni. Le soddisfazioni le avevo lasciate alle spalle, la solitudine me la portavo dietro come un fardello a cui non riuscivo più a rinunciare. Facile a dirsi “ricomincio da capo” ma il capo dove lo avrei trovato? Ormai vivevo per inerzia, lasciandomi trascinare da tutto quello che mi ero costruito intorno. *** Posteggiai la macchina e lasciai le chiavi al parcheggiatore, poi presi la strada in direzione della sede principale dell’azienda; avevo voglia di passeggiare, come sempre. Un chilometro a piedi mi avrebbe fatto bene, almeno nel fisico. Le persone mi passavano accanto sfiorandomi, riuscivo a percepire i loro pensieri, le loro espressioni tutte uguali, incolori. Guardavano fisso davanti a loro senza curarsi assolutamente degli altri, di chi viveva nello stesso spazio. Tante persone, ognuna nel suo mondo, tutte con gli stessi problemi; solo io non mi sentivo più così, io non cercavo più nulla, avevo tutto quello di cui non sentivo più il bisogno. Quando la mia analista mi aveva parlato di crisi esistenziale, avevo sorriso: cercava inutilmente di scoprire qualcosa che io riuscivo a nascondere molto bene, anche a me stesso. La Micronet Corporation era a poche decine di metri, il cancello era aperto. L’usciere si alzò e mi venne incontro. «Buongiorno dottore, non sapevamo che sarebbe arrivato anche lei.» «Non lo sapevo nemmeno io. Ci sono tutti?»
8 «Sono al piano riunioni, nella sala grande.» «Vado da loro. Mi faccia una cortesia, non dica che sono arrivato.» «Va bene, lei è entrato proprio nel momento in cui sono andato in bagno.» «Perfetto, grazie. Aspetti, dimenticavo; c’è anche la signorina Rinaldi?» «È stata la prima ad arrivare, e come sempre sarà l’ultima ad andarsene.» “Ti pareva che mancava lei” pensai fra me mentre salivo la scala che portava alla sala grande. Nadia Rinaldi, una trentacinquenne che ha sempre detenuto la palma della perfetta rompicoglioni, una che non riesce mai a farsi gli affari suoi. Continuai a pensare a lei. Mentre camminavo lungo il corridoio, in lontananza, potevo sentire la sua voce squillante, alterata. In tutte le riunioni voleva sempre avere l’ultima parola su tutto, anche se dovevo ammettere che era un’ottima amministratrice. Sedetti fuori dalla sala; non avevo proprio voglia di entrare, ma ormai il viaggio l’avevo fatto. Rimasi seduto ad ascoltare alcune frasi di quello che dicevano, poi faticosamente mi alzai. Bussai alla porta prima di entrare. La solita voce squillante chiese: «Chi diavolo è?» Non risposi, qualcosa dentro di me mi consigliava di scappare. «Francesco! Non ti aspettavamo. Entra, entra e accomodati, siamo felici della tua presenza» disse Nadia sorridente. «Continuate pure, signori, fate come se non ci fossi, tanto l’argomento della riunione non è di mia competenza. Diciamo che mi limito a fare da auditore.» La riunione terminò dopo circa un’ora. Tra uno sbadiglio e l’altro giravano sempre intorno allo stesso argomento: il consolidamento della nostra presenza nei mercati orientali. Probabilmente a qualcuno piaceva sentire la propria voce. Erano tutti usciti fra strette di mano e auguri per le nuove prospettive, sembravano ragazzini felici per un gioco ben riuscito. Nadia era rimasta nella sala. «Sono contenta che tu sia venuto, stiamo insieme oggi?» «Nadia!» «È un mese che non ci vediamo.» «Non lo so, e non so neanche perché sono venuto a Firenze.» «Vieni a pranzo da me, lo sai che adoro cucinare, specialmente per te.»
9 *** Un’ora dopo ero comodamente seduto a tavola cercando di capire cos’avessi davanti. «Non dirmi che non ti piace perché questa è una crema di riso tartufata.» «Nadia, lo so che fai di tutto per rendere la tua cucina delicata, direi a volte anche raffinata. Ma per una volta, perché non fai qualcosa di semplice, di appetibile per qualsiasi essere umano?» «Tu hai sempre contestato la mia cucina, nonostante io ce la metta tutta per soddisfarti. Sei un ingrato!» «È la prima cosa che ha detto mia madre quando sono venuto al mondo.» «Assaggia, vedrai che non è così male come sembra. Dopotutto è sempre qualcosa che si mangia, no?» Non era poi così male, e il mio raffreddore mi aiutò. Quando il naso è chiuso i sapori sono sempre attenuati; bontà divina. Riuscii a mangiarne più della metà prima di arrendermi di fronte alle contrazioni del mio stomaco. Aveva detto basta, avvertendomi in modo inequivocabile che se avessi continuato a mandar giù quella roba si sarebbe vendicato, inesorabilmente. «Sai, questa crema di riso è ottima, stai veramente migliorando. Ieri sera però ho mangiato troppo, e il mio stomaco si rifiuta di ricevere altro cibo. Peccato davvero, è molto buona. Per caso hai qualcosa per digerire?» «La prossima volta mi porti in un ristorante da cento euro a coperto, così sarai più contento.» «Non cerco la cucina raffinata, ormai dovresti saperlo. Tu piuttosto, ammettilo che cucini da schifo, così risolviamo il problema. Io non invento più scuse mentre tu la smetti di propinarmi cibi indigeribili e dal sapore tutto da definire.» «In effetti ammiro la tua sincerità. Lo so che come cuoca non sono un granché, però devi ammettere che sono brava in altre cose.» «So perfettamente che nel tuo lavoro non hai rivali, sei una brava amministratrice.» «Non intendevo questo. Accidenti a te non capisci mai! Oppure fai finta di non capire? Certo che fai finta, sei sempre stato così! Mi vuoi dire una cosa? È tanto che voglio chiedertela. Perché trascuri la tua azienda? Hai delegato a noi tutti i tuoi compiti e le tue responsabilità. Ti sei forse rotto le scatole?»
10 «Sei una donna intelligente, riesci subito a capire tutto.» «Allora è vero! Ma sei impazzito?» «Chiamala pure pazzia se vuoi, ma devo ammettere che mi sono stancato. Ti sconvolge tutto questo?» «Non più di tanto; da te mi aspetto questo e altro. Sono sicura che il bello debba ancora arrivare.» «Brava Nadia, ero sicuro che avresti capito. Ma stai tranquilla, non ho nessuna intenzione di creare dei problemi, almeno finché l’azienda sarà ancora nelle mie mani.» «Non vorrai vendere tutto, spero? Stiamo guadagnando tanti di quei soldi da far impallidire multinazionali a livello mondiale. Non fare lo scemo adesso, per favore!» «Non lo farò, ho in mente ben altre cose.» «A me puoi dirlo, che ti ruzzola per la testa?» «Cara la mia Nadia, per il momento non è dato a nessuno di sapere cosa “ruzzola” nella mia testa.» «Va bene, non aggiungo altro, l’azienda è tua e decidi tu, a parte i vari azionisti. Ma da quello che ho saputo ultimamente, la maggioranza è sempre nelle tue mani. O sbaglio?» «Non sbagli.»
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2
Era ormai sera quando ripartii per casa; ero affamato. Quella brodaglia mi aveva bloccato temporaneamente l’appetito. Il ristorante che avevo sempre notato ogni volta che andavo a Firenze era a poca distanza; non mi ci ero mai fermato, era arrivato il momento di provare la loro cucina. Pochi chilometri e avrei mangiato qualcosa di almeno discreto, niente brodaglie o cose simili. In fondo cosa c’è di meglio di un bel piatto di bucatini, magari all’amatriciana? Il ristorante era pieno zeppo di gente, un posto davvero molto frequentato. Riuscii a sedermi proprio accanto all’ingresso. Il cameriere si avvicinò al mio tavolo senza dire una sola parola, il “dica pure signore” oppure “in cosa posso servirla”, o almeno “buonasera, cosa vuole mangiare?” Non faceva parte del suo vocabolario, stava lì imbambolato ad aspettare l’ordinazione. Continuava a fissarmi con la sua faccia ebete mentre io guardavo lui con una faccia più ebete della sua, si capiva chiaramente che non aveva voglia di parlare, forse era arrabbiato. Qualcuno di noi prima o poi doveva farlo. Decisi di fare la prima mossa. «Scusi, ma qui si mangia?» Il cameriere tirò indietro la testa emettendo l’aria dai polmoni, sembrava avessi detto qualcosa di veramente strano. «Certo signore, e tutti i giorni! In questo ristorante cu-ci-nia-mo!» «È meraviglioso!» risposi «pensavo fosse solo una sala d’attesa e che lei fosse qui davanti a me per bellezza, come per dar lustro alla sala.» «Desidera mangiare o vuole continuare a fare lo spiritoso?» Si era offeso. Mi era passata la voglia dei bucatini, decisi di passare direttamente al secondo piatto. Quando capita certa gente sarebbe meglio alzare subito i tacchi e filarsela. Se cucinano come servono… «Mi porti una bistecca al sangue, e tolga la sua faccia dalla mia visuale.» Si allontanò ancora più indispettito di prima mentre lo guardavo sorridendo. Mi fanno imbestialire le persone così!
12 Dopo una ventina di minuti il cameriere tornò con la bistecca fumante. «Spero le vada di traverso, signore!» In certe situazioni devi prendere una decisione veloce. O fai finta di niente e mangi la tua bistecca, oppure la bistecca la fai mangiare al cameriere, senza fargliela masticare però. Preferii la seconda scelta. Il cameriere si ritrovò sdraiato a terra con la bistecca sulla faccia, e il piatto ancora intatto sul pavimento. La massa dei clienti presenti puntò subito gli occhi su di me, alzai le braccia come per dire: “Io non ho fatto nulla, è stato lui!”. La risposta del cameriere fu quasi immediata. Passato il primo momento di stupore, si alzò e si gettò su di me con le braccia alzate, forse voleva strozzarmi. Riuscii a schivarlo alzandomi precipitosamente dalla sedia. Cadde di nuovo a terra; il poverino era inciampato sul mio piede e aveva sbattuto la faccia sul pavimento. Due poliziotti entrarono precipitosamente nella sala, ormai la frittata era fatta. Mi costrinsero a seguirli dove avevano parcheggiato la loro auto; erano fermi di pattuglia - quando si dice “la fortuna” - proprio davanti al ristorante. Dopo avermi chiesto i documenti mi fecero soffiare nell’etilometro. Naturalmente non avevo bevuto, non quel giorno almeno, e poi non ne avevo avuto il tempo. Il cameriere non mi aveva neanche portato da bere! Riempirono il verbale con il mio nome e tutti i dati che avevano acquisito dai documenti, poi mi chiesero spiegazioni in merito. La mia risposta fu chiara quanto esaustiva: «Il cameriere è una testa di cazzo!» «Dottor Berni, lei è una persona molto conosciuta, ma non per questo ha il diritto di maltrattare le persone. La prossima volta ci pensi bene prima di farlo; è già molto che il cameriere non abbia sporto denuncia.» Mi lasciarono andare pregandomi di non tornare più in quel ristorante, disposizione alla quale avrei ottemperato ben volentieri. Mai avere come nemico un ristoratore o chi lavora per lui, non sai mai cosa ti fanno mangiare. ***
13 Arrivato a casa mi gettai sul letto senza neanche spogliarmi. Ero troppo stanco, ma non per pensare, anche se Nadia mi aveva sfinito con le sue manie sessuali. Staccai la mente dalla solita persona e la rivolsi a Nadia, a quella giovane che avevo conosciuto circa cinque anni prima. Avevo subito capito che sarebbe diventata qualcuno, e noi avevamo bisogno di una come lei. Aveva già avuto esperienze lavorative in altre realtà imprenditoriali di piccole dimensioni. Si sentiva “tarpata” come diceva lei “impedita nelle scelte, non aveva mai avuto l’opportunità di aprire le ali”. Nella mia azienda le ali le aveva aperte davvero, e aveva imparato a volare come meglio non ci si poteva aspettare. Aveva bruciato tutte le tappe sbaragliando molti altri con esperienza superiore alla sua; una in gamba. E pensare che la prima volta a provarci fui io. Lei non si azzardava a tenere gli occhi fissi sui miei, e se ci provava non superava i due secondi; sembrava una ragazza molto timida, forse troppo. Mentre i miei di occhi erano sempre incollati sulle sue minigonne. Allora mi chiamava “Dottor Berni”, con molta soggezione. Una sera la invitai nel mio ufficio. Lei entrò e rimase in piedi davanti a me sapendo sicuramente cosa sarebbe accaduto; non era ingenua come voleva far credere. Quando udì gli scatti della serratura che si chiudeva si tirò istintivamente giù la gonna per coprirsi le gambe, probabilmente si era insospettita. Ricordo ancora la scena come fosse appena avvenuta; una falsa ingenuità, appunto. Mi guardava con una certa titubanza, sempre con l’espressione timorosa. Da quella volta non perse occasione per rimanere sola con me, anche più volte al giorno. Dimostrò di essere una donna piena di energia e di tanta, tanta voglia di sesso. *** Mi svegliai verso le sette del mattino; non avevo voglia di fare nulla, come sempre del resto. Accesi il portatile e controllai le quotazioni: il Nasdaq mostrava un +5.7, le cose andavano sempre meglio. Digitai l’indirizzo dell’Ansa per conoscere le ultime notizie, poi capitai per caso in un sito Internet dove parlano di amicizie e di ricerca di persone che non vedi da molto tempo. Provai a scrivere alcuni nomi di amici e amiche conosciuti tanti anni prima e che poi avevo perso di vista. Nessuno appariva nella lista dei risultati della ricerca; significava che
14 erano sposati o sposate, che probabilmente il numero telefonico della loro abitazione era a nome del marito o della moglie, che non erano presenti per loro decisione, o chissà cosa. Mi ritornò in mente lei, Anna, cosa che mi succedeva molte volte il giorno, come sempre direi. Una ragazza per cui avevo perso completamente la testa. Fu lei a lasciarmi, dicendo che era meglio così, che stavamo troppo lontani e che non avrebbe potuto funzionare. Era meglio troncare subito la relazione prima che divenisse insostenibile. Eravamo davvero molto giovani. Lei abitava a Milano e io in Toscana. L’unico mezzo che avevo a disposizione per andare da lei era il treno. Migliaia di chilometri macinati ogni mese solo per starci insieme una mezza giornata. È pazzesco quello che si fa quando si perde la testa per una ragazza. Faresti qualsiasi cosa pur di starle accanto. Mi sarebbe piaciuto rivederla, parlare con lei, magari ricordare insieme i pochi attimi condivisi. Forse avrebbe fatto piacere anche a lei. Chissà se si era sposata, se aveva dei figli, se era ancora viva. Provai a scrivere il suo nome e premetti il pulsante invio con un senso di leggera eccitazione; forse speravo di non trovarla sull’elenco, avevo stranamente paura. Invece era lì, con scritto l’indirizzo e il suo numero di telefono. Sentii il cuore aumentare le pulsazioni; ero davvero emozionato, e forse anche impaurito. Abitava sempre nella sua casa di Milano. Viaggiavo con la fantasia cercando di immaginare cosa facesse nella vita. Mi ripeteva sempre che il suo sogno era fare il chirurgo, ma che forse non ne avrebbe mai avuto il coraggio; le faceva troppa impressione il sangue. Lo ripeteva sempre, incessantemente. Un’idea pazzesca mi ronzava per la testa, una cosa incredibile. Ma considerando la mia situazione in quel periodo della vita, la parola “pazzo” non si discordava molto dal modo in cui vivevo. Spensi il computer e uscii da casa; se mi fossi sbrigato in meno di cinque ore sarei arrivato a Milano. Ma sarei riuscito a trovare il coraggio per presentarmi? Magari prima potevo telefonarle, ma per dirle cosa? “Ciao, ti ho ritrovata tramite Internet e ho pensato di uscire di nuovo con te, ti va?”. Pazzesco, ma cosa mi passava per la testa? Magari si era completamente dimenticata di un ragazzo che aveva perso la testa per lei, era passato troppo tempo. Sicuramente dopo di me aveva avuto molti uomini.
15 La sua statura mi sovrastava, quasi centottanta centimetri, con i capelli castani lunghissimi e arricciati. In confronto a lei sfiguravo, me lo dicevano tutti che era troppo per me, in tutti i sensi. Misi in moto la macchina e partii per Milano; nella peggiore delle ipotesi avrei fatto un giro, niente di più. *** Un ottimo pranzo, anche se mi avevano fatto aspettare un po’ troppo. Alla fine del pasto mi accorsi che erano le tre del pomeriggio. Mi alzai frettolosamente, la prossima tappa sarebbe stata casa sua. La via dove abitava era abbastanza tranquilla, poche macchine e bellissime case. Il suo era un appartamento singolo in una palazzina in stile antico con un giardino pieno di fiori davanti all’ingresso. Non trovavo il coraggio di suonare, ero rimasto come un idiota a guardare il portone, aspettando qualcosa che mi convincesse a farlo. A un certo punto - era passata più di mezz’ora - la porta d’ingresso si aprì e uscì una ragazza sui vent’anni, forse diciotto, vestita come una sciagurata; in pratica di femminile aveva solo il viso. “Come diavolo si vestono questi ragazzi?” pensai tra me “sarà che io vesto sempre in giacca e cravatta!” Anche quando ero molto giovane vestivo sempre abbastanza elegante, senza lasciarmi trascinare da mode assurde. Non mi è mai piaciuto diventare una persona “standard”, non mi è mai interessato vestire uguale agli altri, più che altro farmi vestire dagli altri. Sembravano tutti delle fotocopie incolori. Possibile che non riescano a capire che in questo modo non acquistano personalità ma, al contrario, la perdono? La ragazza si allontanò, non prima di aver mandato a quel paese un motociclista che non si era fermato in prossimità delle strisce pedonali. Cercavo ancora il coraggio di presentarmi a lei ponendomi un milione di domande. Se era sposata, sicuramente suo marito a quell’ora era al lavoro, quindi era sola in casa, sempre che fosse in casa. E se invece era con lei? Cosa gli avrei detto? “Amico, guarda che tua moglie era la mia ragazza”, oppure “passavo di qua per caso e allora ho pensato di salutare la mia ex fidanzata”.
16 Niente di tutto ciò; se avesse aperto lui, gli avrei detto che avevo sbagliato indirizzo e che cercavo un’altra persona. “Ottima idea” pensai “è il momento di buttare la faccia, non posso restare tutto il pomeriggio in macchina ad aspettare che esca.”
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3
Il dito sul campanello tremava, avevo una paura incredibile, incontrollabile; un pensiero mi perseguitava: “Ma guarda se uno alla mia età si mette a fare certe cose”. Il suono del campanello mi fece scorrere l’adrenalina in tutto il corpo in maniera vertiginosa, forse era troppa. Volevo correre via, ma ormai non avrei più fatto in tempo; qualcuno stava aprendo la porta. Una signora anziana si presentò davanti all’ingresso, mi guardava come se fossi un venditore di aspirapolvere che non sa più a che santo rivolgersi. «Abbiamo già tutto, grazie, non ci serve nulla.» Rimasi per qualche attimo inebetito, non sapevo più cosa fare e cosa dire, poi presi coraggio. «Mi scusi signora, non sono venuto da lei per vendere elettrodomestici.» «Non c’interessano neanche i tappeti. Ne abbiamo già troppi, poi tocca a me toglierci la polvere da sopra.» «Le sembro un venditore ambulante?» «No, in effetti no. Cosa fa? L’assicuratore?» «No che non faccio l’assicuratore, sto cercando la signora Olivari, Anna Olivari. Abita qui?» «Lei chi è?» «Sono un suo vecchio amico, passavo da queste parti e ho pensato di venire a salutarla.» Mi fissò dritto negli occhi per momenti interminabili, come volesse scoprire qualcosa in più su di me, poi si decise a parlare. «La dottoressa è ancora in ospedale. Ha chiamato avvertendomi che avrebbe tardato, doveva terminare un intervento importante. Mi scusi, entri pure.» Entrai nella casa con molta soggezione. La signora mi fece accomodare in biblioteca, era sicuramente la sua governante. “C’è riuscita” pensai sorridendo “è diventata un chirurgo, quello che aveva sempre sognato.”
18 «Si metta comodo. Le chiedo ancora scusa per prima, ma in questa zona veniamo disturbati ogni giorno da venditori di qualsiasi cosa. Ormai abbiamo una vera repulsione verso di loro.» «Non si preoccupi, succede anche dalle mie parti.» «Lei è toscano? Si capisce da come parla.» «È così palese?» «Siete inconfondibili, vi si riconosce subito. Avete un modo di parlare che ci diverte molto.» Non risposi alla sua affermazione, forse perché in realtà aveva ragione. «Posso offrirle un caffè? Oppure vuole qualcos’altro?» «La ringrazio per la gentilezza, ma sto bene così. Grazie ancora.» «Si prenda pure un libro o una rivista. Io adesso devo preparare qualcosa per la signora, la lascio solo. Se ha bisogno mi chiami pure, io sono Tina.» «La ringrazio di nuovo, lei è molto gentile. Prima che se ne vada, posso farle una domanda?» «Prego, mi dica.» «Prima di entrare ho visto una ragazza che usciva da questa casa. È forse la figlia della signora?» «Sì, si chiama Mary. È un bel peperino, ma si sa, quando i figli nascono senza un padre… mi scusi, questi non sono affari miei, forse ho parlato più del dovuto.» «Non si scusi con me; chi meglio di lei può dare un giudizio? È molto che lavora per la signora?» «Da prima che rimanesse incinta, sono più di vent’anni.» «Prima mi ha fatto capire che Mary non ha un padre. Gli è forse successo qualcosa?» «Questo non posso dirglielo.» Stava diventando sospettosa, ma allo stesso tempo aveva voglia di parlare. «La signora non è mai stata sposata, furono i genitori a chiedermi di occuparmi di lei. Adesso sono morti, pace all’anima loro. Erano delle brave persone, però si intromettevano troppo nella vita della figlia.» La signora si allontanò, ma prima di farlo si fermò per guardarmi ancora, come se cercasse di ricordare. La biblioteca era ben fornita. Centinaia di testi riguardanti la medicina; dalle pratiche chirurgiche dei primi del novecento fino a oggi.
19 In una zona della biblioteca c’erano alcuni testi di narrativa, erano presenti opere di Isabel Allende, James Graham Ballard e tanti altri. In un angolo erano stivate alcune riviste, in posizione tale da non essere molto in vista, ma io le scorsi ugualmente. Mi avvicinai e ne presi una, tanto per vedere qual era l’argomento trattato. Le riviste erano di medicina. Trattavano le nuove tecniche ecografiche tridimensionali, tra cui il nuovo software sviluppato dalla Micronet. Lessi alcune righe dell’articolo, non lo avevo mai letto, diceva così: “Il nuovo software è in grado di simulare la visualizzazione tridimensionale ricostruendo virtualmente anche le parti difficilmente visibili o non accessibili, creando una simulazione compatibile al novantotto per cento con la morfologia della zona inesplorata in base ai calcoli e alle analisi effettuate sul paziente dallo stesso programma…” Mi faceva piacere che Anna custodisse quella rivista che trattava del mio lavoro, il programma su cui avevo dedicato gran parte della mia vita. Sfogliando ancora la rivista, nascosta tra le pagine notai una foto. In quella foto c’ero io tanti anni prima, in un posto che ricordavo molto bene, un giardino poco lontano dalla sua casa. La foto era cerchiata con un pennarello rosso, sopra aveva scritto “da ricordare, sempre”. Altre foto caddero a terra, quelle non le avevo mai viste, a me non le aveva mai date. In quelle foto eravamo insieme sorridenti sulla spiaggia. In alcune ci baciavamo, in altre ci rincorrevamo; le foto erano state scattate dalla sua amica, la stessa che faceva da tramite, quella che mi consegnò l’ultima sua lettera. Un nodo alla gola mi costrinse a sedermi, non avrei mai immaginato che si ricordasse ancora di me. Rimasi seduto ad aspettare e ricordare per un periodo interminabile, non riuscivo più a considerare il tempo che scorreva. Ero tornato indietro negli anni, quando con un amico, l’unico che aveva una macchina, ci fermammo per dare un passaggio a quelle due ragazze che camminavano in direzione del mare. Ripensavo alle serate trascorse insieme, al primo bacio strappato nella pineta, a quella volta che avevamo fatto l’amore, la prima e l’ultima con lei. Un ricordo ancora vivido, come se la lontananza e il tempo non avessero mai scalfito il nostro rapporto. Tante emozioni che tornavano alla mente una dopo l’altra, emozioni che mi avevano segnato per il resto della vita. Lei era stata l’unica, e lo sarebbe rimasta per sempre.
20 La voce della signora che mi aveva aperto mi fece tornare alla realtà; era entrato qualcuno. Avevo paura, paura di cosa sarebbe potuto accadere. E pensare che fino a qualche ora prima non avrei assolutamente pensato di trovarmi nella sua casa, di tornare da lei o di far rivivere così realmente tanti ricordi nella mia mente. In quel momento non li nascondevo più, li facevo riemergere da quell’angolo oscuro della memoria per riproporli a lei. Finora il suo ricordo era stato come qualcosa da amare, da custodire segretamente, pronto a uscire allo scoperto quando si fosse presentata l’occasione. E l’occasione si era davvero presentata in quel preciso momento. Sentivo la sua voce, era inconfondibile, delicata come sempre, tenue, quasi timorosa. Chiedeva a Tina chi fosse la persona che l’aspettava. Tina non sapeva darle una risposta, si limitò a dire che mi ero presentato come un amico e che ero passato per salutarla. Sentivo che rassicurava la governante dicendole che si sarebbe occupata lei di me, e che doveva stare tranquilla. La porta della biblioteca era chiusa, la guardavo emozionato aspettando che si aprisse, per rivederla dopo quasi vent’anni. Finalmente la porta si aprì. Ero rimasto seduto nella poltrona aspettando ansioso, con addosso tutta la paura del mondo.
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La sua figura apparve lentamente, come se per il fatto di non sapere chi ci fosse al di là di quella porta avesse paura di aprirla. Forse sentiva che la persona che avrebbe trovato non era solo un amico che non vedeva da tanto tempo; avrebbe ritrovato l’uomo che le aveva cambiato la vita. Non era possibile, non sapeva di me, non poteva assolutamente immaginare che quel giorno mi sarei ripresentato così, all’improvviso, senza avvertirla. Probabilmente pensava a qualche collega di lavoro che era venuto a farle visita, magari a qualche vecchio compagno di scuola, chissà. Ero rimasto immobile, seduto, aspettavo che fosse lei a dire la prima parola. I suoi occhi mi fissarono per capire chi era veramente l’uomo che aveva di fronte, poi lentamente si avvicinò. Il suo viso era sempre lo stesso, gli stessi bellissimi capelli, lo stesso sguardo di una volta, i suoi meravigliosi occhi che emanavano una luce dolcissima. Mi alzai senza staccare gli occhi dai suoi. Il suo sguardo era diverso, quasi stupito. Pronunciò il mio nome sottovoce mentre la sua voce si rompeva; fece ancora un passo mentre anch’io mi avvicinavo a lei. Era di fronte a me, vicina, mi guardava come se chiedesse qualcosa, poi mi cinse il collo con le braccia e appoggiò la testa sulla mia spalla. Fu una sensazione che non dimenticherò mai più; la sentivo piangere in silenzio. Le alzai la testa per guardarla in viso, le lacrime le scendevano copiose lungo le guance, era bellissima ma triste, troppo triste. La signora che mi aveva aperto era rimasta sbigottita, non riusciva a capire cosa stesse succedendo, probabilmente non l’aveva mai vista così. Chiuse la porta in silenzio e se ne andò per non disturbare. «Scusami Anna, non volevo creare questa situazione, ma avevo tanta voglia di rivederti.» «Dio, quanto tempo è passato. Sei molto cambiato, sai?»
22 «Tu invece no, sei rimasta sempre la mia piccola Anna, quella che mi ha fatto impazzire dal dolore quando mi ha lasciato. Quella che ha cambiato inesorabilmente la mia vita.» «Anche la mia è cambiata, non sono più stata la stessa.» «Sei stata tu a lasciarmi, non dimenticarlo.» Anna si staccò da me, sembrava avessi detto qualcosa che l’aveva contrariata, poi si sedette di fronte. A volte sorrideva, a volte invece stentava a trattenere le lacrime. «Scusami se mi sono presentato all’improvviso. Questa mattina mi sei venuta in mente come sempre, come ogni giorno. Questa volta però ho avuto il coraggio di cercarti, e ti ho trovata. È successo tutto all’improvviso. Anna, tu sei rimasta sempre dentro di me, in tutti questi anni il mio pensiero prima di dormire è sempre stato per te.» Lei non diceva nulla, mi guardava cercando di trattenere le lacrime. «Ho visto che hai una figlia, una bella ragazza che ti somiglia molto, anche come carattere. Non ha perso l’occasione per mandare al diavolo uno che non si è fermato al passaggio pedonale, mi ha ricordato te.» Finalmente si riprese e iniziò a parlare. «Mia figlia Mary è più impulsiva, ha un caratteraccio, è sempre arrabbiata con tutti. A scuola litiga sempre, è intrattabile. Il preside del liceo mi chiama in continuazione. L’ultima volta ha dato uno schiaffo alla sua insegnante di greco.» «Anche tu mi hai dato uno schiaffo, non ricordi?» «Quella volta te lo sei meritato. Mi avevi detto che ero una stronza solo perché avevo tardato a un appuntamento.» «È vero, hai ragione, lo ricordo benissimo. Non immagini quanto mi sia dispiaciuto. Non ti ho mai maltrattata, però quella volta me l’avevi fatta grossa, lo ricordi?» «Certo che lo ricordo, ti ho detto che eri un grandissimo rompiscatole. Ma devo confessarti una cosa: sapessi quanto ha pesato quello schiaffo sulla mia coscienza. «So che adesso sei un medico, un chirurgo. Me l’ha detto la tua governante.» «Questo lo devo a te. Ricordi quando ti dicevo che avevo paura del sangue? Tu mi ripetevi sempre di non pensarci perché il sangue non era il mio. Ho terminato l’università riflettendo sempre sulle tue parole.» «Lo sai che sei ancora bellissima?»
23 Un silenzio pieno di ricordi s’intromise nella nostra conversazione. Troppi ricordi che emergevano come una marea che non trovava la sua fine. «Grazie. Tu invece sei migliorato, prima eri più brutto.» «Mi hai lasciato perché mi consideravi brutto?» «Se ti avessi considerato brutto non mi sarei mai messa con te. Tu per me sei sempre stato bellissimo, e lo sarai sempre.» «Allora perché? Vuoi dirmi perché?» Avevo alzato la voce, mi era tornata in mente la sua lettera e quello che c’era scritto: “Un giorno forse sorrideremo insieme di quello che è stato”. Io non avevo mai sorriso, e probabilmente neanche lei. «Non ti arrabbiare Francesco. Ti prego, non farlo.» «Scusami, non ne ho il diritto, anche se ho qualcosa che mi rode dentro e non immagini quanto.» La voce della governante ci distolse dai pensieri. «La signora vuole mangiare qualcosa?» «No, grazie Tina, ho mangiato alla mensa dell’ospedale. Magari ci porti un caffè? Credo che il signore ne abbia bisogno.» La governante si allontanò incuriosita; chissà cosa pensava di me. Rimanemmo in silenzio solo a guardarci per minuti che sembravano un’eternità; era troppo bello averla ancora una volta davanti a me. Ero assorto nei pensieri, mi ero estraniato. Lei era ancora di fronte, cercava di dirmi qualcosa. «Ti va di restare a cena? Ti prego non dirmi di no. So che sei una persona impegnata, ho seguito tutta la tua carriera, adesso sei uno che conta. Ricordi quando ero io a pagare la pizza? Tu non avevi nulla, spendevi tutto quello che ti passavano i tuoi genitori nei biglietti del treno per venire da me.» «E chi se lo scorda? Sapessi quante volte sono rimasto senza soldi lontano da casa… per fortuna c’eri tu, altrimenti sarei morto di fame.» «Adesso invece ne hai fatti molti, vero?» «Non mi mancano, ma non me ne frega più nulla del denaro, ero più felice quando ero senza ma avevo te.» Ancora una volta il suo viso cambiò espressione. Un senso di colpa era trapelato all’improvviso, non sapeva più cosa dire, non riusciva più a parlare. «Scusami, non ho il diritto di dire certe cose, perdonami.»
24 «Non scusarti, in fondo hai ragione, la colpa è stata mia. Resti a cena da me?» «Non implorarmi, non cerco altro.» Anna si alzò, mi tolse di mano la rivista e la rimise al suo posto, per farmi capire che quello era l’angolo segreto dove custodiva i suoi ricordi. Notò che le foto non erano più all’interno della stessa pagina, fece un sorriso triste poi se ne andò nell’altra stanza per aiutare la governante, lasciandomi solo. Forse voleva scomparire per un attimo, il tempo di rimettere a posto le sue emozioni. *** Tina preparava il caffè quando Anna entrò nella cucina. «Anna, chi è quell’uomo? Non ti ho mai vista così, sta succedendo qualcosa?» «Tranquilla, non sta succedendo nulla. A proposito, stasera è nostro ospite a cena.» «Va bene, non ci sono problemi, lo sai che farei tutto pur di vederti felice, ma oggi sento che c’è qualcosa che non va. Ti ha forse turbata, quell’uomo ti ha forse rattristata?» «Quell’uomo non potrà che rattristarmi, perché è la felicità che ho perso per colpa mia, solo mia.» La macchinetta del caffè cadde dalle mani della governante, era visibilmente scossa, non riusciva più a fare nulla. «Ti prego Tina, non dire nulla, per nessun motivo.» *** Anna era tornata in biblioteca, si era di nuovo seduta di fronte a me. «Dimmi una cosa, è vero che non ti sei mai sposato? Ho letto qualche gossip su di te, ti attribuiscono un sacco di avventure.» «Io sposato? Mai. In quanto alle avventure, devo ammettere che qualcuna ne ho avuta, ma non quelle che scrivono certe riviste. Sono tutte invenzioni, tanto per vendere.» «Però hai molte donne che ti ronzano intorno.» «I soldi sono come il miele, attirano sempre.» «E pensare che i miei genitori ti hanno sempre considerato come un perdente, uno che nella vita non avrebbe mai combinato nulla.»
25 «Loro non mi sopportavano, lo si capiva dai loro sguardi; non gli sono mai stato simpatico, mi hanno sempre considerato di un livello inferiore al loro. In parole povere hanno sempre avuto la puzza sotto il naso.» «Tu però devi ammettere che non hai fatto nulla per conquistare la loro simpatia.» «E cosa avrei potuto fare? Non potevo neanche entrare a casa tua! Ci incontravamo sempre fuori, ricordi? Solo una volta sono venuto da te, di nascosto. Per poco non mi tocca saltare dalla finestra per uscire, dalla tua camera si sentivano le loro urla, quando gli sono passato accanto per scappare mi avrebbero fulminato. Mi guardavano come si guarda un essere inferiore. Come potevi pretendere che mi avvicinassi a loro?» Il cellulare si mise a squillare ossessivamente, immaginavo già chi fosse. Guardai nel display e sospirai. «Scusami, è la mia amministratrice.» «Nadia, cosa c’è che non puoi risolvere da sola?» «Dove sei?» «Sono a Milano, in vacanza.» «A Milano in vacanza? E che diavolo ci fai lassù?» Anna poteva sentire la voce squillante di Nadia; dovevo sempre tenere l’orecchio staccato dal cellulare altrimenti mi rimbecilliva. «Lascia perdere cosa ci faccio a Milano, ti ho detto che sono in vacanza. Mi vuoi dire perché mi hai chiamato?» «Sei sempre il solito! Mi rispondi sempre male! Comunque ti ho chiamato per dirti che la settimana prossima dobbiamo andare a Hong Kong per firmare un contratto. Sarà il caso che vieni anche tu.» «Avete la mia delega, potete firmarlo anche voi quel contratto, io non ho assolutamente voglia di venire fin là.» «Ma è una cosa importante! Guarda che si tratta di un sacco di soldi!» «E allora? Ascolta, facciamo così, appena rientro a Firenze ne parliamo, d’accordo? Adesso devo lasciarti.» «Dimmi almeno quando rientri!» «Non lo so, adesso stacco, ciao.» «Scusami, problemi di lavoro.» «Ho sentito qualcosa. Chi era la donna al telefono?» «L’amministratrice della mia azienda. Una in gamba, ma una gran rompiscatole.»
26 «Sbaglio o mi è parso che abbia parlato di molti soldi?» «Non sbagli. Si sentiva bene la sua voce, urla sempre!» «Ci vai a letto?» «Lasciamo stare questo discorso, è solo la mia amministratrice.» «Però ci vai a letto?» «Sì, ci vado a letto. Ma è solo sesso, niente di più.» «Va bene, scusami, non ho nessun diritto di entrare nella tua vita privata. Perché non mi accompagni in centro? Devo fare alcune spese e poi tornare in ospedale per controllare le condizioni di un paziente. Ti va?» «Certo che mi va, non voglio certo rimanere solo in casa ad aspettarti. Andiamo?»
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La sua auto sfrecciava zigzagando tra le macchine. Correva troppo, fortunatamente il traffico la costrinse a rallentare. «Corri sempre così? Mi hai quasi atterrito!» «Scusami, è una mia abitudine. Se non approfitti quando il traffico lo permette, non arrivi mai. Comunque ora ci tocca sorbire questo ingorgo. In compenso ci siamo quasi, il negozio è dietro l’angolo.» Parcheggiò la macchina a pochi metri dal negozio, naturalmente in divieto di sosta. «Scendi, vieni con me. Non vorrai aspettarmi in macchina?» «Che cosa devi comprare?» «Devo fare un regalo a mia figlia, oggi è il suo compleanno.» «Quanti anni compie?» «È un segreto, non vuole che nessuno lo sappia.» «Come nessuno? Mi vuoi dire che io non devo saperlo?» «Esatto. Mia figlia è particolare. E poiché questa sera a cena ci sarai anche tu, se sa che ti ho detto la sua età, s’infuria.» «Bel tipino tua figlia. A proposito, come mai il padre non c’è?» «Un errore di gioventù. Lui è sparito poco dopo, sua figlia non l’ha mai vista.» «Mi dispiace.» «Non dispiacerti, non serve a nulla. Sbrigati, hai il passo lento come sempre.» Il negozio era una boutique che vendeva biancheria intima molto raffinata, le vetrine erano immense. Anna mi tirava per un braccio, non aveva tempo da perdere. «Che ne pensi di questo completino? A Mary piace molto la biancheria intima di questo genere, anche se veste come un maschiaccio.» «È molto carino. Perché non ne prendi uno anche per te? Ricordi che mutandoni portavi?»
28 «Smettila! Allora andavano di moda, e poi non erano mutandoni, erano culotte; sono un’altra cosa. Tu le mutande me le hai sfilate solo una volta e riesci ancora a ricordarti com’erano fatte?» «Non ricordi che non te le ho più rese?» «È vero! L’avevo dimenticato. Non dirmi che le conservi ancora!» «Certo, normalmente le tengo nel cassetto insieme alle mie. Pensa, una volta mentre mi vestivo al buio me le sono infilate! Le ho portate per mezza giornata. Solo quando sono andato in bagno mi sono accorto di cosa avevo indossato. Mi è preso un colpo!» «Sei incredibile, sei sempre stato distratto. Pensa se ti capitava di spogliarti davanti a qualcuna delle tue donne…» «Lasciamo stare, è meglio non pensarci.» La commessa ascoltava la nostra conversazione incuriosita; non ci eravamo accorti della sua presenza, stava dietro di noi con un completo tra le mani, lo stesso tipo che guardava Anna ma di un colore diverso. Anna arrossì in modo vistoso, mentre io sorridevo; a me non interessava proprio nulla se aveva ascoltato tutto quello che ci eravamo detti. «Anna, mi permetti di fare un regalo a tua figlia?» «Non è il caso, ma se a te fa piacere penso che anche a lei non dispiaccia. Che cosa vuoi comprarle? Spero niente di intimo.» «Non sono così imbranato, ti pare che regalerei un paio di mutande a tua figlia? Neanche la conosco! Ci penso io, ho visto un negozio qui accanto, tu aspettami qua.» Il negozio vendeva orologi. Il proprietario mi guardava con soddisfazione mentre sceglievo; mi aveva messo davanti agli occhi alcune marche molto costose, aveva capito subito che non avrei badato a spese. Ne scelsi uno elegante, qualcosa che le sarebbe rimasto per sempre. Scelsi un Baume & Mercier. Il pacchetto fu preparato in pochi minuti. Anna mi aspettava, si guardava intorno. Ero rimasto incantato a osservarla. Era stupenda, tutti giravano la testa quando passavano accanto a lei. I suoi capelli lunghi sciolti sulle spalle le davano una femminilità senza uguali. Il maglioncino di cachemire le faceva risaltare il seno, sempre prosperoso. Poi si girò verso di me e mi vide mentre la guardavo, imbambolato. «Non dirmi che sei entrato in quel negozio per fare il regalo a Mary?» «Perché? Ci hai forse litigato?» «Ma no! È carissimo! Ha solo prodotti di alta gioielleria.»
29 «E allora? Lo sai che i soldi non mi mancano. Mi piace spenderli per far felice qualcuno, d’accordo?» «D’accordo, ma non dovevi; tu mia figlia neanche la conosci.» «Mi basta conoscere te. Da come l’hai descritta, avrà sicuramente lo stesso tuo carattere.» «Non contarci troppo, è sempre incavolata con tutti. Adesso andiamo, devo tornare in ospedale.» «Dove lavori?» «All’Ospedale Maggiore. Stamattina abbiamo effettuato un trapianto di fegato, è riuscito alla perfezione. Voglio solo controllare che il paziente stia bene, anche se ci sono i miei colleghi voglio comunque andarci. Dove lavoro sono tutti in gamba, fanno bene il proprio lavoro, siamo una bella équipe.» «Portami nel tuo regno.» Avevo una tremenda voglia di riabbracciarla, di sentire il suo corpo tra le mie braccia come una volta. Quella sensazione era rimasta sempre in me, come se fosse passato solo un giorno e non vent’anni. «Seguimi. È chiaro che tu non potrai entrare in terapia intensiva, mi aspetterai fuori. Quindici minuti al massimo.» «Va bene, vorrà dire che cercherò di conoscere qualche infermiera carina. Chissà, magari…» «Smettila di fare lo scemo, almeno quando sei con me.»
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Ero tranquillamente seduto su una panchina della sala d’attesa. Alcune persone mi erano accanto; sembrava che aspettassero l’orario per entrare. Alcuni camici sterili, di quelli che si usano in sala operatoria, erano ripiegati e impacchettati su un ripiano all’ingresso della stanza. Sicuramente erano utilizzati dai familiari degli ammalati che si trovavano in intensiva. Le loro espressioni erano incolori, neanche tristi, sembravano in uno stato di totale apatia. Nessuna emozione traspariva dai loro sguardi. Un medico entrò nella stanza e si avvicinò a una signora, probabilmente per portare notizie. Era il marito quello di cui parlavano. Lo sguardo del medico era serio ma rassicurante, la signora annuiva a ogni sua parola. Restarono a parlare nell’angolo della stanza per diversi minuti, mentre le altre persone presenti nella sala tenevano puntati gli occhi su di lui, forse sperando che dicesse qualcosa anche a loro. Poi il medico girò lo sguardo verso di me e rimase a fissarmi. Mi voltai alla mia destra pensando che si fosse seduta qualche altra persona accanto. Non c’era nessuno, il medico guardava me. Salutò la signora e si avvicinò con la mano tesa, quando fu vicino a dove sedevo, si presentò. «Buongiorno, sono il dottor Anselmi. Se non sbaglio lei è Berni, Francesco Berni.» Mi alzai, non capivo chi fosse. Vista la mia sbadataggine poteva essere qualcuno che avevo conosciuto in qualche convegno, ma non ricordavo nulla di lui. «Salve. Sì, sono Berni, ma non riesco a ricordarmi di lei. Le chiedo scusa, ci siamo forse conosciuti da qualche parte?» «No, mai personalmente. L’ho riconosciuta perché nel mio ambulatorio oltre a usare il software che ha progettato ho anche alcune riviste mediche che parlano di lei, e ci sono delle sue fotografie.» «Spero parlino bene; una volta mi hanno quasi linciato incolpandomi di essermi arricchito sul male degli altri.»
31 «Lasci perdere. So chi ha scritto quell’articolo, è uno pagato dalla stessa casa che produceva il vecchio software, quindi vanno considerate come osservazioni di parte.» «Lei usa la nuova tecnica tridimensionale?» «Io come tanti altri, è veramente rivoluzionaria. Perché non viene un momento nel mio ambulatorio? Vorrei farle alcune domande.» Rimasi interdetto, e poi non avevo molta voglia di allontanarmi. «Mi perdoni, se lei è qui è perché probabilmente ha qualcuno ricoverato. Le chiedo di nuovo scusa, sono stato troppo invadente.» «Non si scusi, non ho nessuno che sta male. Sono insieme alla dottoressa Olivari, mi ha chiesto di aspettarla qui. Vorrei venire con lei ma se esce e non mi trova rischio grosso.» «Se è solo per questo ci penso io. L’avverto con l’interfono, le dirò che siamo nel mio ambulatorio e che potrà raggiungerla da me. Le va bene?» «Va bene, mi faccia strada.» L’ambulatorio era ben attrezzato, la macchina per l’ecografia in fondo alla stanza era rimasta accesa. «Vede, ormai sono quindici mesi che usiamo il software da lei progettato, ma sono sicuro, e anche i miei colleghi lo sono, che questo programma potrebbe fare molto di più.» «Mi faccia vedere per cortesia.» Mi sedetti davanti al computer che interfacciava la macchina. La versione del software era la 1.0; dopo di quella ne erano state rilasciate altre, fino alla uno punto cinque. In seguito il software era stato migliorato, fino ad arrivare alla versione 2.0, l’ultima appunto. «Mi spiace, ma questa versione è la prima che è stata immessa sul mercato e non è mai stata aggiornata. In confronto alla versione 2.0 mancano diversi moduli. Anche se il motore frattale è presente, nella 2.0 abbiamo potenziato la velocità di elaborazione e la qualità grafica permettendo di ricostruire alcune parti degli organi esaminati molto più fedelmente. Oserei dire che siamo arrivati al cento per cento e in alta definizione. In più non state utilizzando computer tridimensionali. Con questo tipo di monitor l’immagine è scarsamente simulata. Con quelli che normalmente vendiamo insieme al software si ottiene un effetto quasi reale. Comunque le consiglio di restare ancora con questa strumentazione per un po’ di tempo, dato che stiamo per immettere sul mercato qualcosa di veramente rivoluzionario, ma che per il momento non posso dirle.»
32 «È incredibile quello che ha fatto, non può rendersi conto di quanto ha migliorato il nostro lavoro e di conseguenza la cura di certe malattie. Con questa macchina possiamo vedere l’impossibile, come se fosse reale. Non potrebbe accennarmi qualcosa? Ormai ha smosso la mia curiosità.» «Deve però garantirmi che nessuno dovrà sapere nulla. Anche se non credo che gli altri ci possano arrivare prima di noi, siamo molto più avanzati di tutti quelli che lavorano in questo settore in quanto allo sviluppo del software. Diciamo che dal prossimo anno non ci sarà più bisogno di un sistema come lo intendiamo adesso. Di più non posso dirle.» «Olografia? Lo sapevo!» disse urlando con la faccia piegata verso il soffitto «la prossima frontiera non può essere che questa.» La porta dell’ambulatorio si aprì proprio mentre il medico saltava dalla gioia. Anna lo guardava come se avesse visto un deficiente. «Marco? Che stai facendo?» «Scusami, il signor Berni mi ha svelato un segreto.» «Posso conoscerlo anch’io questo segreto oppure deve rimanere tale?» «A te dirò tutto dopo» dissi ad Anna «ora andiamo; sono quasi le otto, abbiamo già perso un sacco di tempo.» Salutai il medico e mi allontanai con Anna tenendola per un braccio, sotto agli sguardi incuriositi dei suoi colleghi. «Cos’è, non ti hanno mai vista con un uomo?» «Esatto, non mi hanno mai vista con un uomo, e tu mi stai mettendo in imbarazzo tenendomi il braccio.» «Scusami, ti lascio subito.» «Non ti azzardare! Anzi, avvicinati ancora di più, così almeno la smetteranno di chiamarmi “zitellona”.» «Davvero ti chiamano così?» «Sì. Ho sentito qualche diceria, qualcuno ha sparso anche la voce che non mi piacciono gli uomini.» «Ah, non so quanto sei cambiata, potrebbe anche essere.» «Smettila di fare lo scemo. Il tuo spirito non l’hai perso, sei tale e quale a prima.» «Mi rendo conto che invece tu sei molto cambiata. In un primo momento non mi sembrava, ma adesso mi sto convincendo che è così. Sei più comprensiva, più tranquilla, più dolce, più “zitellona”.»
33 *** La casa era tutta illuminata, sembrava non badassero a spese in fatto d’illuminazione. «Tenete sempre le luci accese in tutte le stanze?» «Non dimenticare che in casa siamo tre donne sole, quindi abbiamo anche un po’ di paura. Entriamo, sicuramente ci stanno aspettando.» La tavola era apparecchiata in modo raffinato; un candelabro posto al centro e alcuni fiori di lavanda sparsi apparentemente a caso. La tovaglia era di lino lavorato a mano, i piatti sicuramente di porcellana cinese, dato che in ognuno c’era un ideogramma che rappresentava un segno zodiacale. I bicchieri erano in cristallo. Festeggiavano veramente qualcosa? «Tina, è arrivata Mary?» «È in camera sua. Vuole che vada a chiamarla?» «Grazie, vado io, così la preparo all’incontro con Francesco. Meglio evitare sorprese. Tu Francesco siediti, ora ci prendiamo un aperitivo insieme. In salone, non in sala da pranzo, lì ci sediamo dopo.» Il salone era completamente rivestito di legno con dei quadri antichi appesi alle pareti, alcune lampade con il vetro verde a coprire la fluorescenza della lampadina; uno stile impeccabile, raffinato, inglese. Mi sedetti sul divano. La casa era molto grande e molto bella, anche lei non se la passava così male. Dopotutto i suoi genitori erano pieni di soldi, quindi essendo figlia unica era anche stata l’unica erede. La governante entrò nella sala poggiando il vassoio con gli aperitivi sul tavolo di cristallo. Mi guardava come se volesse studiarmi. Seguivo i suoi occhi; ogni tanto aggrottava le sopracciglia, poi si guardò intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno. Quando fu sicura di essere sola si avvicinò a me tenendo la schiena piegata, la sua faccia era all’altezza della mia. «Che intenzioni ha?» «Prego? Che significa?» «Lo sa bene cosa significa. L’avverto, se la fa soffrire ancora gliela faccio pagare!» Si allontanò camminando di spalle per non staccare gli occhi dai miei. Stavo per scoppiare a ridere, certe situazioni mi fanno questo effetto. Dovevo forse avere paura di lei? E poi non ero certo io quello che fatto soffrire Anna. Semmai il contrario! Mi era presa la voglia di alzarmi e di
34 andare a urlarglielo in faccia. La voce della padrona di casa mi fece desistere. «Ecco la mia bambina. Scusa per la sua maglietta, ma non sono riuscita a fargliela cambiare.» Nella maglietta c’era stampata una scritta che diceva: “Fotti e lascia fottere, tanto siamo tutti fottuti”. Indossava un paio di jeans a vita bassa, s’intravedevano i peli pubici. Un bel tipino. «Ciao, io sono Francesco, puoi semplicemente chiamarmi così.» «Perché? Hai forse due nomi?» chiese la ragazzina con un sorriso di sfottimento. «Intendevo dire che puoi darmi del tu.» «L’avrei fatto ugualmente.» «Bene» disse Anna per rompere la tensione «io vado a cambiarmi, voi intanto cominciate pure con gli aperitivi, arrivo subito.» La ragazzina si sedette accanto a me, mi guardava come si guarda un animale raro fuggito da qualche parco naturale. «Te la scopi?» «Sei scema? Ti sembra questo il modo di parlare di tua madre?» «Sto parlando di te! Ti ho chiesto se te la scopi!» «No! Contenta?» «Peccato, ne ha proprio bisogno.» «Ma senti che linguaggio, e che considerazione hai di tua madre. Per chi l’hai presa?» «Per una che è una vita che non si fa una scopata mega galattica, così si rilassa un po’. Non sei d’accordo?» «No che non sono d’accordo. Tu almeno, visto che sei così sveglia, spero che prendi le tue precauzioni.» «Non sono scema come lo è stata mia madre, io non mi faccio mettere incinta da nessuno, non voglio fare la sua fine.» «Perché? Secondo te che fine ha fatto?» «La fine di una che si è fatta mettere incinta da uno che poi è sparito.» «Ah! E tu l’hai conosciuto?» «No, è sparito molto prima che nascessi. Spero per lui che non si faccia vivo, altrimenti prendo la pistola che mia madre tiene nel cassetto e gliela scarico dove dico io!» «Tu sei completamente di fuori!»
35 I passi di Anna interruppero la nostra conversazione. Si era cambiata d’abito, indossava un vestito nero da sera con una sola spallina e alquanto scollato. Le stava benissimo, faceva risaltare in modo inequivocabile la sua bellezza. «Guarda come si è vestita mia madre, te l’ho detto che…» «Se non smetti, ti mollo un ceffone.» «Non provarci nemmeno, non sai come divento quando qualcuno mi mette le mani addosso!» «Vi siete conosciuti? Sembra proprio di sì. Che effetto ti ha fatto mia figlia?» disse Anna sorridendo. «È adorabile, vorrei averla io una figlia così!» Lo sguardo di Mary fu più che eloquente, cambiai discorso. *** Dopo l’aperitivo ci spostammo in sala da pranzo; la governante apparve dopo pochi minuti servendoci dei crostini ai funghi come antipasto. «Spero ti piacciano i funghi; in questa casa non riusciamo a farne a meno.» «Li adoro, mi piacciono moltissimo.» Mary alternava lo sguardo tra me e sua madre, sembrava che ci stesse analizzando. «Parlami un po’ di te, Francesco. Com’è che sei diventato un grande programmatore? Nel campo medico poi, non è facile.» «Niente di particolare, è nato tutto per caso quando ho dovuto sottopormi a un esame ecografico; non riuscivo a comprendere come il medico potesse capire quello che il monitor visualizzava. L’utilizzo degli ultrasuoni è stata una grande invenzione, ma poco approfondita e mai migliorata, almeno secondo me. Pensai subito che quello che serviva per rendere più efficace una diagnosi sarebbe stato lo studio di un software in grado di migliorare la visualizzazione, permettendo così un’analisi più specifica e chiaramente più decifrabile, senza incorrere in rischi di errata interpretazione, o addirittura che il medico non riuscisse a capire perfettamente cosa stesse analizzando. Prima era molto facile farsi sfuggire cose importanti ma difficilmente visualizzabili se non si avevano le adeguate conoscenze ed esperienza nel settore. Oggi invece è tutto più semplice ed efficace. Con le mie capacità nel campo della programmazione mi sono prefisso di trovare il sistema che avrebbe
36 rivoluzionato il settore ecografico. Da lì è nato il mio primo programma, seguito poi da altri sempre più perfezionati. Le case produttrici di hardware ecografico hanno lottato per accaparrarsi l’esclusiva del nostro software. Dico nostro perché in seguito ho fondato la Micronet, un’azienda composta da decine di programmatori che hanno sfruttato il mio codice sorgente migliorandolo, portandolo a dei livelli che fino a poco tempo fa erano inimmaginabili. E pensare che i programmatori che lavorano per me provengono tutti da scuole di videogiochi.» «È incredibile quello che hai fatto. Lo sai che il primo ecografo tridimensionale acquistato dal nostro ospedale l’ho usato io? Quando ho visto il tuo nome nel manuale delle istruzioni non sono rimasta sorpresa, era come se l’avessi sempre saputo. Ho sempre pensato che un giorno avresti combinato qualcosa di grande.» «Anna, quando ci siamo conosciuti non sapevo neanche il significato della parola software!» «Lo so, ma c’era qualcosa di strano in te, di diverso. Sentivo che saresti uscito dagli schemi.» Mary guardava sua madre storcendo la bocca, si era rotta le scatole. Non ne poteva più dei nostri discorsi. «Che c’è, Mary? Ti stiamo annoiando?» Mi rivolsi a lei con il mio migliore sorriso, tanto per farle capire che non doveva fare la stronzetta. «Tranquilli, ho sopportato di peggio.» «Mary! Per favore. Non devi permetterti di rivolgerti a Francesco in questo modo. La tua è mancanza di rispetto.» «Sì, certo, scusatemi.» Il suo “scusatemi” era chiaramente uno sfottò, l’aveva lasciato intendere. Anna era imbarazzata, ma guardandola e sorridendole le feci capire che non mi aveva assolutamente offeso. Eravamo arrivati al momento del dolce, quello in cui le avremmo consegnato il regalo. Anna prese il suo pacchetto e lo mise nelle mani di Mary, che lo scartò incuriosita; cercava di capire cosa ci fosse dentro. «Wow! È bellissimo mamma, sai quanti ragazzi ci faccio arrapare con questo!» «Mary! Ti sembra questo il modo di esprimerti? Dio Francesco, scusami, non riesco più a controllarla.»
37 «È classico della sua età, non preoccuparti. Non è facile con i figli oggi. Per loro è tutta una sfida, anche se non sanno neanche loro cosa devono sfidare.» «Ma cosa ho detto, mamma? Uffa! Non fai altro che rimproverarmi, qualsiasi cosa dico trovi sempre il modo di zittirmi!» «Scusami Mary, ma non mi sembra molto appropriato che tu faccia certe osservazioni quando abbiamo un ospite a cena.» «Ma smettila, mamma! Te lo si legge in faccia che non vedi l’ora di portartelo a letto. Non riesco a capire perché non ci abbia ancora provato.» Uno schiaffo colpì Mary. Rimase in silenzio, non una parola usciva dalla sua bocca, poi gettò il regalo sul tavolo e se ne andò nella sua camera lasciandoci come due deficienti. «Anna, non essere così dura con tua figlia, cerca di capire la sua situazione. È un’età particolare. Ti considera come una che non è riuscita a trovarsi una persona con cui vivere, quindi non può prenderti come esempio, è molto semplice.» «Ti ci metti anche tu? Ma per piacere!» Anche Anna se ne andò correndo, probabilmente per rintanarsi anche lei nella sua camera, lasciandomi con il bicchiere dello spumante tra le mani. La governante si avvicinò al tavolo e disse: «Prima di dirne un’altra delle sue, lo vuole il caffè?» Poi ammiccando mi indicò con un gesto il piano di sopra. Salii le scale e mi fermai davanti alla porta della camera di Anna. La sentivo piangere, e ciò mi fece sentire un verme; mi capitava sempre più spesso ultimamente. Aprii senza neanche bussare ed entrai. Era sdraiata sul suo letto, teneva la faccia nascosta tra i cuscini e singhiozzava. Sembrava una ragazzina amareggiata. Il vestito le era salito quasi fin sulla schiena; mi veniva da sorridere, le si vedevano le mutandine, sempre le solite, sempre le culotte. Mi sedetti sul letto carezzandole la schiena per calmarla; si comportava come una gattina a cui piacciono le coccole, anche se continuava a piagnucolare. «Stammi a sentire Anna, tu non devi arrabbiarti con tua figlia perché ci sono io. Non ha senso, le capisco perfettamente certe situazioni, è normale che succeda tutto questo. Non voglio insegnarti nulla perché sei
38 tu che l’hai cresciuta, di conseguenza chi meglio di te la conosce? Ma un consiglio voglio dartelo: non comportarti così con lei, non lo merita. Ha solo bisogno di comprensione, di essere assecondata nelle sue scelte, nel suo modo di essere, nel modo di porsi verso di te. Per lei è come una sfida per esorcizzare una paura, la paura di non avere un padre accanto. Devi capirlo, e devi darle anche atto che è molto intelligente, percepisce subito tutte le sfumature. Sai cosa mi ha detto quando eravamo soli? Mi ha detto che tu avevi bisogno di un uomo, che non potevi restare sola per sempre. Questo è segno di maturità da parte di tua figlia. Prendi di lei i lati positivi, quelli negativi lasciali stare, scompariranno lentamente col tempo, sono solo una difesa che si è costruita. Non vedi che sta combattendo qualcosa dentro di sé? Sta soffrendo, cerca di capirlo. Se tu capirai quello che ti ho appena detto, vedrai che sarà tutto molto più semplice, tutto si aggiusterà, e il tempo farà la sua parte. Lasciala crescere. Ti chiede solo questo, anche se non te lo ha mai detto.» Anna si era seduta sul letto, adesso non piangeva più, anche se alcune lacrime scendevano sulle guance. «È bellissimo quello che hai detto, l’ho sempre pensato che sei molto sensibile, che sei diverso da tutti, la persona che credevo che fossi. Vai da lei ti prego, dille che mi dispiace e che sono stata ingiusta a dirle certe cose, e a darle quello schiaffo.» «Va bene, vedrò cosa posso fare. Ora asciugati quelle lacrime, ti è colato il trucco sulle guance. Sembri un clown appena struccato. Rimani seduta, ci penso io, lasciati togliere il trucco da me, tanto sei bella ugualmente. Presi un fazzolettino di carta e cominciai a toglierle il trucco dalla faccia, ero vicino a lei, a pochi centimetri da suo viso. Potevo percepire il suo respiro, i suoi occhi erano fissi sui miei, anche lei mi guardava. Era tanto che non toccavo più una donna se non per farci sesso. Sentivo una strana sensazione allo stomaco, volevo che quel momento non finisse più, era come se tutti i più bei ricordi che conservavo di lei stessero riaffiorando ancora una volta costringendomi a non smettere. Aveva chiuso gli occhi. Il fazzolettino scorreva sul suo viso lentamente, volevo fermare il tempo. Cambiai fazzoletto diverse volte, cercavo di essere il più delicato possibile, non volevo arrossarle la pelle, e non volevo smettere di essere così vicino a lei, finché non le diedi un piccolo bacio sulla bocca, sfiorandole delicatamente le labbra.
39 La sua reazione fu un riflesso istintivo, quando mi staccai lei si avvicinò per cercarmi, ma non ebbi il coraggio di riprovarci, forse perché aveva riaperto gli occhi, mi guardava. La lasciai seduta sul letto e mi recai nella stanza di Mary. La porta era socchiusa. Mi avvicinai per sbirciare dentro cercando di non farmi notare. Lei non piangeva, aveva acceso il suo stereo e ascoltava della bellissima musica. Bussai, ma la musica era a volume alto. Pensavo non mi avesse sentito e invece la sua voce mi chiese di entrare; aveva capito che ero io. La sua stanza era un caos incredibile, normale alla sua età. Appesi alle pareti c’erano vari poster; uno era dei Muse, un altro era di Lene Marlin e un altro era di Dido, come il brano che ascoltava, Hunter. Mi fece cenno con la mano di sedermi accanto a lei; mi sorrideva, ma si vedeva chiaramente che anche lei aveva pianto. Vedermi nei panni del consolatore mi sembrava assurdo. Io a consolare gli altri, chi lo avrebbe mai detto. Un tipo come me, mai stato in grado di mantenere un rapporto duraturo con qualsiasi persona, messo dalla situazione in una nuova condizione: fare almeno da paciere. Io che riuscivo a diventare sempre antipatico a tutti. Ho sempre dato l’impressione di essere un menefreghista, e in questo il mio carattere mi aveva aiutato molto. «Bella questa musica, potresti alzare il volume? A me piace ascoltarla fino a che non ti spacca i timpani.» Mi guardò incredula, poi prese il telecomando dello stereo e aumentò il volume fino a farlo diventare insopportabile. Adesso parlare sarebbe stato molto più difficile. «Sai Mary, io e te ci assomigliamo. Anch’io ero sempre arrabbiato con tutti. Non perdevo mai l’occasione di farlo presente a chi mi circondava.» Lei sorrideva. «Sono appena stato da tua madre, l’ho trovata che piangeva. È molto dispiaciuta, non voleva colpirti, e non è stato facile farla smettere di piangere. Si è sentita offesa perché c’ero io, uno stronzo qualunque, tanto per intenderci. In realtà sono uno qualunque davvero. A me la vita non ha mai dato nulla, ho sempre cercato di ritrovare qualcosa che pensavo di aver perso per sempre. La mia vita è stata molto difficile - come forse anche la tua, non lo so - ma tu sei stata fortunata, in fondo hai una madre
40 che nonostante tutto ti adora. Sai, non ha fatto altro che parlarmi di te, e siamo stati insieme solo per poche ore, almeno oggi.» Mi fermai, era come se stessi ancora cercando di ricordare tutti i momenti meravigliosi passati con lei. «Dicevo oggi, vero?» Continuava a sorridermi mentre le parlavo, forse era proprio quello che voleva sentirsi dire, anche se tentava di capire qualcosa di più. «Facciamo finta che non sia successo nulla. Torniamo tutti in sala da pranzo, ci mangiamo il dolce e ci ubriachiamo con lo spumante. A proposito, anch’io ti ho comprato un regalo. Niente mutande, ho pensato a qualcosa di più duraturo, di più delicato, qualcosa che ti farà ricordare di me anche quando me ne sarò andato, quando sparirò di nuovo dalla vostra vita. Sai, ci tengo molto che tu non ti dimentichi di me.» A quel punto non sorrideva più; prese il telecomando e abbassò il volume, voleva essere sicura di quello che dicevo. «Mi hai fatto un regalo? Ma se neanche mi conosci?» «Sì che ti conosco, è come se ti avessi sempre conosciuta. Sei tale e quale a tua madre. Tu non lo sai, ma è tanto che la conosco.» «Eravate fidanzati? Non dirmelo, non ci posso credere, due vecchie fiamme che si ritrovano dopo tanto tempo.» «Vada per le fiamme; il vecchio lasciamolo perdere, non mi ci ritrovo proprio nella tua osservazione.» «Ma dai, stavi con mia madre? Che figata, non credevo che anche lei si fosse fatta qualche extra.» «Extra? Ah, già. Diciamo che quella matta che sta di là mi ha fatto perdere la testa quando eravamo molto giovani.» «Perché vi siete lasciati?» «Non chiederlo a me, io avevo perso completamente la testa per lei, te l’ho detto; è stata tua madre a lasciarmi.» «È sempre stata strana. A volte non la capisco; non le manca nulla! Lo sai che tu sei il primo uomo, a parte i suoi colleghi per parlare di lavoro, che entra in questa casa? A proposito, com’è che sei venuto a cercarla dopo così tanto tempo?» Rimasi per qualche attimo senza parlare. I suoi occhi mi scrutavano nel profondo per cercare di capire qualcosa, mentre io stavo ancora ricordando la prima volta che avevo stretto Anna a me. «Vedi Mary, io tua madre non l’ho mai dimenticata, mi è sempre rimasta dentro. Questa mattina mi sono svegliato presto e mi è tornata in mente,
41 come sempre, come tutti i giorni. Ma questa è stata una mattina particolare, perché ho trovato il coraggio di cercarla e di venire fin qui.» «Dio, è bellissimo, dopo tanti anni non sei riuscito a dimenticarla. Lei lo sa?» «Sì, credo di sì, ma cerca in tutti i modi di nascondere i suoi sentimenti, sempre che provi ancora qualcosa per me.» «Come si fa a lasciare una persona come te?» Quelle parole mi fecero capire che le piacevo, che probabilmente con lei avrei avuto un buon rapporto. «Va bene Francesco, scendiamo insieme e facciamo finta che non sia successo nulla, però devi farmi una promessa.» «Dimmi, che promessa vuoi da me?» «Che non te ne andrai finché non sarà lei a mandarti via.» «Lo sai quello che mi stai chiedendo?» «Ti sto chiedendo di prendere coraggio e di fare quello che hai sempre sognato: rimetterti con lei. Mi farebbe molto piacere, davvero!» Me la ritrovai abbracciata. Tenevo le braccia alzate, non sapevo se anch’io dovevo stringerla a me oppure rimanere così. Una cosa incredibile, che non mi sarei mai aspettato, una sensazione meravigliosa. Mi limitai a poggiarle le mani sulle spalle per poi dirle: «Mary, ora fammi tu una promessa: quando scendiamo, vai da tua madre e baciala, d’accordo?» «Promesso, non cerco altro.» *** Anna era seduta e rigirava la forchetta intorno al dolce; la tavola era ancora apparecchiata. Quando ci sentì arrivare s’irrigidì, forse aspettava una sentenza. Mary si avvicinò a lei, si fermò proprio di fronte per guardarla negli occhi, poi l’abbracciò. Mi allontanai, sentivo che la mia presenza in quel momento era inutile. Andai in cucina, anche perché quella fu la prima stanza che trovai per allontanarmi da loro. La governante si era voltata. «Siamo tornati. Ci porterebbe un po’ di ghiaccio? Fra cinque minuti però, di là fa ancora caldo.» Non sapevo cosa diavolo dire. Lei mi guardava come si guarda un deficiente, ed era proprio l’impressione che avevo dato in quel momento. Tornai in sala da pranzo. Erano tutte e due più rilassate, sorridevano.
42 «Allora, lo mangiamo questo dolce? Forza Anna, passami la mia porzione, non vorrai mangiarlo solo tu.» «Grazie Francesco, non so come hai fatto ma grazie.» «È un segreto mio e di Mary, che ci porteremo fino alla tomba. Vero Mary?» «Vero Francesco. Alla mamma non diremo mai nulla. A proposito, non hai detto che hai un regalo per me?» «Ah sì, certo. Scusa, quasi dimenticavo. Ecco, aspetta, mi si è incastrato nella tasca… maledette tasche, ci entra di tutto ma non esce mai niente. Eccolo, tieni, con tanti auguri da un matto.» Mary prese il regalo, aprì la custodia ed estrasse il suo orologio. La sua espressione fu di pura meraviglia. Prese l’orologio tenendolo per il cinturino, lo fece vedere alla madre, anche lei con la bocca aperta. Mary si gettò letteralmente su di me riempiendomi di baci, mi aveva sbaffato dappertutto con il suo rossetto nero. Anna sorrideva incredula e scuoteva la testa. «Sei un gran bel matto, Francesco. Questi sono diamanti? Guarda mamma, intorno al quadrante ci sono dei diamanti! Sono veri?» «Certo che sono veri. Per te solo cose autentiche, come te appunto. Però adesso devi dirmi la tua età.» Si gettò di nuovo su di me tempestandomi ancora una volta di baci, mi soffocava. «Diciotto anni.» Mary pronunciò la sua età come fosse qualcosa di molto importante, l’inizio di un’indipendenza familiare, qualcosa che certificava un suo nuovo stato sociale. Anna era commossa, poi si alzò anche lei e mi diede un bacio sulla guancia. Mary si allontanò per lasciarle spazio, si gustava la scena. «Tu sei matto, ma quanto hai speso? Quest’orologio costa una fortuna, ma sei impazzito?» «Sì, sono impazzito, e la colpa è tua.» Anna si allontanò subito e si sedette di nuovo, seria. Forse sarebbe stato meglio se non avessi pronunciato quella frase. Mary la guardava come volesse dirle “smettila, non se lo merita!”. Il cellulare suonò di nuovo, era sempre Nadia. «Nadia… la smetti di rompermi? Ti ho detto che sono in vacanza.» «Stammi a sentire invece di brontolare!»
43 Urlava come sempre; Anna e Mary ascoltavano la conversazione. «Cosa c’è di così importante? Non ci eravamo già detti tutto?» «Ci sono stati dei cambiamenti, l’incontro per la firma del contratto è fissato fra tre giorni, ma c’è dell’altro. Il delegato cinese ci ha fatto capire che se tu non sei presente l’affare salta. Loro vogliono trattare solo con te.» «Trattare con me? La cifra è già stata stabilita! Fammi un piacere, fai capire a questo tizio che non si tratta. Se non gli sta bene, digli di andare a farsi fottere, ne troveremo altri interessati, nel suo paese.» «Non intendo questo, la cifra gli sta bene, ma sai come sono fatti, vogliono vedere di persona colui sui cui basano la loro fiducia, è la loro cultura.» «Ma quale fiducia personale, siamo seri, Nadia, il prodotto… è quello che fa la fiducia, non la persona.» «E io cosa posso farci? Sono stati tassativi in questo. Ti prego Francesco, non fare sbagli!» «Va bene, va bene! Verrò a Hong Kong!» «Bravo, è così che ti voglio. Che fai, parti direttamente da Milano oppure passi prima in sede?» «Parto da Milano, ciao.» Stavo pensando a qualcosa che forse avrebbe fatto piacere anche a loro, ma non sapevo da dove cominciare per dirlo, finché mi feci coraggio. «Perché non venite con me a Hong Kong? Passiamo qualche giorno insieme, che ne pensate?» Mary cominciò a saltare dalla gioia, mentre Anna era rimasta in silenzio, pensava e scuoteva la testa in segno di diniego. «Che c’è Anna, hai problemi a partire?» «Mi piacerebbe molto, ma fra tre giorni abbiamo un intervento molto importante. È un mese che lo stiamo studiando, non possiamo rimandarlo, abbiamo già aspettato anche troppo. Non è possibile posticiparlo oltre e non voglio che siano altri a eseguirlo. Mi ci sono impegnata da ormai troppo tempo, è una cosa importante per me, non posso rinunciarvi.» «Hai ragione, è troppo importante. Pazienza, magari ci andremo tutti insieme un’altra volta.»
44 Il disappunto di Mary fu più che comprensibile. Era rimasta seduta a testa bassa, però aveva avuto l’accortezza di non brontolare; sapeva che il lavoro di sua madre era sopra di tutto. Anna era molto dispiaciuta. Guardava me e guardava sua figlia che era rimasta in silenzio; pensava qualcosa. Poi fece un lungo sospiro e mi guardò negli occhi. «Francesco, perché non porti Mary con te? A lei farebbe molto piacere. Ti crea qualche problema?» Mary aveva alzato di nuovo la testa, mi supplicava con i suoi occhioni da gattina ferita. «Nessun problema, cercherò solo di non gettarla dall’aereo mentre siamo in volo.» Me la ritrovai che mi stringeva per ringraziarmi, mi aveva avvinghiato completamente con le sue gambe, non sapevo più cosa fare. «Basta così Mary» disse sua madre «vedi di non esagerare, non è mica il tuo ragazzo!» Telefonai a Nadia pregandola di prenotare due posti sul volo del giorno dopo con partenza da Milano Malpensa. La sua voce cambiò immediatamente quando lo dissi. Non fiatò, i conti li avremmo fatti sicuramente dopo. Mi chiese tutti i dettagli, dalla scelta delle camere all’autista che avrei voluto trovare in aeroporto. La cena ebbe fine, si era prolungata fino a mezzanotte. Ero stanco, e inoltre dovevo ancora trovarmi un albergo. A quell’ora non sarebbe stato facile, anche perché non avevo troppa voglia di mettermi a girare per Milano. Forse era meglio chiamare prima, così sarei andato a colpo sicuro. «Anna, per favore puoi darmi un elenco telefonico?» «Certo, te lo prendo subito, ma a chi devi telefonare a quest’ora?» «Devo cercare un albergo, non ho voglia di dormire su una panchina.» «Questa notte resti da me, sei mio ospite. C’era bisogno che te lo dicessi? Ho già fatto preparare la tua camera da Tina. Vieni ti accompagno. Tu Mary vai in camera tua, credo sia tardi anche per te. Seguimi Francesco, la tua è al piano superiore, accanto alla mia.» La camera era molto grande, nel bagno c’era una vasca con l’idromassaggio, avevo voglia di un bel bagno. «Buona notte Francesco e… grazie di tutto.» Anna si allontanò senza voltarsi, poi aprì la porta della sua camera e scomparve dietro di essa.
45 M’infilai subito nella vasca, non vedevo l’ora, era davvero rilassante. Dopo una quindicina di minuti mi ero messo un pigiama; l’avevo trovato sul letto, mi dava l’impressione che fosse del tipo unisex, probabilmente era uno di quelli che usava lei. M’infilai il pigiama e scivolai sotto le coperte. Non feci in tempo a spegnere la luce che qualcuno bussava alla porta. Mi alzai imprecando sotto voce e aprii. Era Mary, mi guardava come si guarda uno che non ha capito nulla. «Che fai? Ti sei messo a dormire?» disse Mary continuando a guardarmi con aria stupita. «Scusa, perché? Cosa avrei dovuto fare?» «Sei proprio imbranato con le donne. Cos’aspetti a infilarti nel letto di mia madre? Un momento, quel pigiama è il suo! Ti sta proprio bene, sì sì, un po’ lungo ma ti sta bene.» Si mise a ridere con la mano sulla bocca per non farsi sentire. «Entra, io e te dobbiamo parlare.» La feci entrare in camera, si era seduta sul letto, aveva l’aria divertita. «Secondo te adesso dovrei entrare in camera di tua madre e infilarmi sotto le sue coperte? Ti sembra una cosa normale?» «Sì che lo è! Non ti è passato per la testa che lei non aspetta altro? Dove sei vissuto finora? Mi sa che a forza di scoparti la segretaria ti si è spappolato il cervello.» «Non è la mia segretaria, è la mia amministra…» Non riuscii a finire la frase; mi aveva fregato e se la rideva come una matta. Speravo solo che Anna non sentisse nulla, sarebbe stato veramente imbarazzante se fosse entrata in camera in quel momento. «Francesco, adesso torno nella mia camera, ma tu non aspettare; quando pensi possa ricapitarti un’altra occasione così?» Mary uscì strizzandomi l’occhio, in quella situazione si era dimostrata molto più sveglia di me. Non è che non ci avessi pensato, intendiamoci, è che non trovavo il coraggio di farlo e allora facevo finta di non pensarci, tutto lì. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD