La Processione

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In uscita il 31/5/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2017 (3,99 euro)

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ANTONIO DAL CANTON

LA PROCESSIONE

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LA PROCESSIONE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-103-7 Copertina: Sorrento, la processione del Venerdì Santo. Fotografia di Francesco Rastrelli

Prima edizione Maggio 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A un giorno di Marzo



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A Sorrento quell’anno la sera del

Venerdì Santo era incantevole. Sopra il profilo dei colli, il cielo era blu come quello di carta dei presepi, l’aria era tiepida e una brezza leggera mischiava odori di terra e di mare. Il tramonto era spettacolare. Vittore, salendo dal porto, sostò sulla terrazza della villa Comunale e, con i gomiti appoggiati alla balaustra del belvedere e il viso tra le mani, attese che il sole affondasse sotto l’orizzonte, in un mare che sembrava una fusione di mercurio e di rame. “Così è la vita, si perde in un attimo” pensò e fu preso da un’emozione tanto forte da provare una sensazione di vertigine. Ma ormai si stava spegnendo anche l’ultimo bagliore del crepuscolo, così Vittore riprese il cammino verso la piazzetta di Sant’Antonino con passo svelto, per giungervi in tempo per assistere alla processione della Congrega della Misericordia. Quando vi arrivò, il Miserere già faceva vibrare l’aria con le sue note cupe, funeree. Il Miserere era un coro breve e ripetitivo, intonato esclusivamente da voci maschili di basso e baritono. I coristi erano disposti in fila nella parte centrale della processione ed erano divisi in gruppi, ciascuno dei quali cantava una parte del testo. Il canto partiva dal gruppo in coda e avanzava componendo la frase musicale fino a spegnersi dietro ai crociferi in testa. Era una melodia mobile come un serpente vocale, ondulata, inquietante, carica di una sacralità misterica. Quel Miserere evocava in Vittore il pensiero dell’indecifrabile senso della morte e produceva in lui una malinconia struggente, che talvolta precipitava in una forma


6 di panico, quando si affacciava alla sua mente la sensazione di vuoto del nulla. Anche quella sera la processione si era fermata nella piazzetta dedicata al Patrono, in modo tale che la colonna dei coristi vi fosse contenuta tutta. Era il momento atteso da Vittore: alla suggestione del canto si aggiungeva lo scenario inquietante degli incappucciati neri, illuminati dal riverbero delle candele, in un’aria densa di fumo e di profumo d’incenso. Ma quella sera la sosta nella piazzetta si stava prolungando troppo, al punto che il coro, dopo varie ripetizioni, aveva smesso di cantare. «Sarà il solito “scostumato” che ha parcheggiato la macchina nel vicolo lungo il percorso della processione» disse una donna provocatoriamente scollata, vicina “di marciapiede” di Vittore. Era un tipo di donna frequente nella variopinta antropologia napoletana: sui quarant’anni, da ragazza doveva essere stata piacente per gli occhi neri e la bocca sensuale ma ora la sua figura era lievitata come una brioche. In particolare, aveva un seno prorompente e ostentava questa sua ultima possibilità di attrazione esponendo una scollatura tagliata al centro da un solco profondo come un canyon. Vittore sostò per un attimo con lo sguardo su quell’abbondanza pensando che assomigliavano a due mozzarelle di bufala, ma tanto per non essere scortese rispose: «sembra che la processione sia stata fermata dalle guardie comunali». Infatti, in testa al corteo si notava un assembramento di gente concitata, tra cui spiccavano i berretti bianchi della polizia locale. Improvvisamente, una sirena sovrastò il mormorio della folla e, dopo essersi avvicinata fino a diventare assordante, si spense in un punto dietro l’angolo della piazza da cui iniziava la calata a Marina Grande, la stessa da cui poco prima era arrivato Vittore. «Si sarà sentito male qualcuno» disse la donna a Vittore guardandolo un po’ troppo intensamente, tanto che lui si sentì un poco a


7 disagio. Anche per scollarsi da quello sguardo, Vittore salì sul muretto circolare che delimitava un’aiuola al cui centro svettava una palma e stese un braccio per sostenersi al tronco di questa. Ora poteva vedere tutto ciò che succedeva nella piazza e nel tratto iniziale dei vicoli che vi confluivano. «Qual è il problema?» chiese la donna «Deve essere qualcosa di più di una semplice urgenza medica. Oltre all’ambulanza, c’è un’auto dei Carabinieri» rispose Vittore senza voltarsi verso di lei. Subito dopo, una spinta da dietro a metà schiena, breve ma forte, lo sbilanciò, costringendolo a scendere dal muretto. «Ciao, sapevo che ti avrei trovato qui» disse Franco, sorridendo alla vista dell’espressione sorpresa e irritata di Vittore, che si era girato di scatto pensando di essere stato spostato intenzionalmente da qualcuno che voleva prendere il suo posto. Sei venuto dal porto?» aggiunse Franco, indicando la sacca da marinaio che Vittore aveva appoggiato a terra. «Ah, sei stato tu! Ciao Franco. Sì, oggi il tempo è stato davvero magnifico. A mezzogiorno si è levata una brezza fresca, ho fatto un lungo bordo di bolina da punta Campanella ai Faraglioni, poi il vento è diminuito e sono tornato lentamente al lasco. Comunque sono arrivato in tempo per assistere alla processione. Mi suggestiona soprattutto il Miserere che, nella sua semplicità, ha una drammaticità struggente. Stasera però qualcosa non funziona, deve essere successo qualcosa di serio, tanto da far fermare tutto». «Non so nulla di preciso. Un attimo fa mi ha telefonato Maria che è bloccata sul Corso. Non le hanno permesso di passare neanche in motorino. Una guardia comunale le ha spiegato che è stato trovato il corpo di un uomo senza vita in una casa situata sul percorso della processione. Pare che sia stato ucciso, quindi l’accesso alla casa è stato bloccato in attesa dei rilievi del medico legale e


8 della polizia scientifica. Temo che per quest’anno la processione sia finita così. Io me ne torno a casa. Anzi, vieni anche tu con me. Quando, poco fa, ho detto a Maria che ti avevo visto tra la folla, mi ha incaricato di invitarti a cenare con noi. Cucinerà una magnifica pezzogna!». «Hai ragione, qui tutto è fermo e chissà se la processione proseguirà. Una pezzogna! Non la mangio da un secolo! All’acqua pazza o in umido?». «No, al forno, è troppo grande per essere cucinata in altro modo». «Va bene, grazie. Passo un attimo da casa e vi raggiungo. Porto io il vino…Gewurztraminer. Ciao, ci vediamo tra poco». «Ciao! Portane due di bottiglie, per favore, verranno pure Gianfranco e Ida». Vittore aveva conosciuto Franco poche settimane dopo il suo trasferimento da Padova a Sorrento. Entrambi viaggiavano tutti i giorni sul treno della Circumvesuviana delle 7.05 per Napoli e abitualmente salivano nella carrozza di testa per essere tra i primi a raggiungere la stretta scala di uscita dalla stazione, evitando di essere intrappolati nella massa di pendolari. Era stato naturale passare dal saluto a qualche scambio di frasi e da queste a una conoscenza che era diventata amicizia, facilitata dal fatto di essere coetanei, entrambi alla soglia dei quarant’anni, e di condividere le motivazioni, le ambizioni e i problemi della loro professione di docente universitario. Franco, professore associato di Geologia, sorrentino, aveva studiato a Napoli e lì aveva svolto tutta la sua carriera. Vittore, invece, era di una piccola frazione nella valle del Piave poco distante da Feltre e doveva il suo nome alla devozione dei suoi per San Vittore, titolare nella cittadina Veneta di un antico Santuario rupestre. Nato in una zona di montagna scarsa di risorse, in cui l’emigrazione era da sempre la via più comune per


9 sfuggire alla miseria, non aveva avuto remore a cambiare Università, trasferendosi da Padova a Napoli, dove aveva vinto un concorso di Associato. Aveva partecipato pur sapendo che il ruolo era destinato a un Ricercatore con meno titoli di lui, ma appartenente alla scuola locale. Dalla complessa procedura di nomina della commissione giudicatrice, però, era sortita una maggioranza di docenti che avevano fatto prevalere il valore scientifico, così Vittore si era trovato inaspettatamente professore a Napoli. Il suo inserimento non era stato facile, ma il buon carattere e la validità scientifica di Vittore avevano creato poco per volta un clima amichevole nei suoi confronti, salvo che nel piccolo gruppo di allievi del prof. Boccini, il maestro del ricercatore perdente. Anzi, Boccini aveva pubblicamente dichiarato che la carriera di Vittore era finita e non avrebbe mai consentito il suo passaggio al ruolo di ordinario. Tuttavia, Vittore opponeva a queste minacce una riconosciuta capacità nel suo campo di studio, che era l’Epigrafia Antica e Medievale. In particolare, aveva acquistato fama per avere scoperto, in un incunabolo dimenticato tra le ragnatele di uno scantinato in un convento Domenicano, un lungo frammento di testo amarico che descriveva con realismo il trasporto dell’Arca dell’Alleanza da Gerusalemme al mitico Regno di Saba. Come sempre, supeando il portone nel muro di cinta del giardino della vecchia casa di tufo di Franco, Vittore pensò a quanto era bella la terra di Sorrento. In particolare, ancor più dei paesaggi spettacolari della costa, trovava struggente la dolcezza intima, privata, degli aranceti, lì definiti “giardini”, un ambiente in cui la Natura e l’Uomo si scambiano vicendevoli doni. Il contrasto cromatico tra il colore acceso dei frutti e il verde scuro del fogliame degli aranci, i tronchi rampicanti delle viti simili a colonne tortili sembrano un’invenzione fiabesca. La luce filtra attraver-


10 so stuoie di canna che coprono gli aranci e le viti, conferendo all’ambiente un’aria da interni. L’umidità trattenuta nel suolo di tufo, la moderazione della luce e la stabilità della temperatura creano un microclima in cui ridondano perenni felci e trifoglio e nel susseguirsi delle stagioni fioriscono anemoni rosa, grappoli bianchi di aglio selvatico, ciclamini. Attraversando il giardino di Franco, Vittore si disse che il suo trasferimento era stato una fortuna e non solo per la bellezza della natura, ma anche per aver incontrato nuovi amici accomunati da una leggerezza dello spirito e un’ironia sottile che gli erano prima sconosciute. Così, gli venne da sorridere pensando alla simpatia dei suoi ospiti e degli altri invitati, Gianfranco docente di Medicina e Ida, ricercatore di Storia Medievale, con cui avrebbe trascorso la serata. Maria gli aprì la porta con un sorriso che esprimeva sincera simpatia e strinse al petto con un gesto teatrale una delle due bottiglie di Gewurztraminer che Vittore aveva portato come promesso. «Evviva!» disse in falsetto, «che delizia, questo è il mio vino preferito! Non capisco come una cosa dal gusto così raffinato possa essere stata inventata da montanari nordici! Uh, scusa, anche tu sei un polentone, ma convertito però!». Vittore pensò che Franco era fortunato ad avere una moglie così, non bellissima ma sicuramente piacente con quegli occhi neri, ma neri davvero, e un corpo piccolo ma ben disegnato da rotondità equilibrate. Pensò che doveva far bene l’amore e una naturale associazione di idee deviò il suo pensiero agli occhi verdi e al corpo perfetto di Giulia, la sua amante, con cui viveva già da due anni una passione clandestina travolgente, totalizzante. Un: «ciao, come va?» di Gianfranco, con la sua piatta banalità, lo distrasse dal pensiero di Giulia e lo riportò a contatto con la realtà.


11 «Bene grazie e voi?» rispose a Gianfranco, includendo nel convenevole anche Ida, la sua compagna. «Tiriamo avanti verso l’inevitabile fine» scherzò Gianfranco, poi aggiunse: «immagino che stasera tu fossi tra quelli che assistevano alla processione». «Sì certo, ma me ne sono andato prima che finisse perché è stata interrotta. Non ho capito perché». «Come, non lo sai? Hanno trovato Gigino il Benedettino morto ammazzato in casa sua». «Gigino?» quasi urlò Vittore, diventando d’un colpo rosso come per una vampata di calore. «Ma sei sicuro? E come è stato ucciso?». «Di preciso non so, pare che gli abbiano sfondato la testa». «Certo che è davvero strano» commentò Maria, mentre poggiava una bottiglia di Campari su un tavolino rococò in un angolo del soggiorno. «Servitevi, ora vi porto anche qualche patatina, olive e varie cose sfiziose. Era un brav’uomo» continuò riallacciandosi al discorso che aveva interrotto, «aveva un mestiere senza concorrenti, ma certo non era tanto ricco da indurre ladri professionisti a scegliere la sua casa come bersaglio. E credo che una persona così non avesse nemici. Sarà stato un balordo, un drogato o uno di quei clandestini che hanno invaso il Paese. Sarà entrato in casa per rubare, Gigino avrà reagito e avrà avuto la peggio». «Così si estingue una secolare tradizione di arte navale, è un vero peccato» commentò Franco, mentre tentava di trafiggere un’oliva che non ci stava e guizzava via dalla forchettina come se fosse stata viva. «Non so come te la caverai ora a mantenere la tua barca così perfettamente in ordine come lo è stata finora» aggiunse, voltandosi verso Vittore che dopo la reazione iniziale era rimasto in silenzio, guardando a terra come se avesse voluto appartarsi, preso da un


12 pensiero greve, doloroso. E poiché Vittore sembrava non voler rispondere, Franco continuò: «A Sorrento ormai era l’unico mastro d’ascia che sapesse metter le mani su barche di legno con competenza e passione. Per trovarne un altro dovrai andare a Castellammare, ammesso che là sia rimasto qualcuno che faccia ancora bene quel mestiere». «Sì, mi mancherà» annuì Vittore, «non solo per quello che sapeva fare, ma anche per la cultura marinara che conservava, come un libro antico, una copia unica». «A tavola, a tavola, basta parlare di morti, piuttosto decidiamo dove andremo a Pasquetta» ordinò Maria che non sopportava davvero discorsi sulla morte, una faccenda che in ogni caso non la riguardava. «Sono curioso di leggere cosa ne racconterà il Mattino domani» chiosò Franco, «guardate che meraviglia questa pezzogna!».


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UN OMICIDIO INSPIEGABILE

L’indomani, tutta Sorrento non parlava d’altro e il Mattino dedicava all’omicidio mezza pagina nella cronaca regionale. Vittore era uscito di buon’ora per procurarsene una copia, sapendo che la curiosità dei Sorrentini per un evento così straordinario e la notorietà della vittima avrebbero esaurito rapidamente le copie disponibili. La mattinata era un po’ fresca ma limpida e prometteva bel tempo e una brezza sostenuta. Vittore, seduto a un tavolino all’aperto del Caffè “Tasso” nella piazza principale, aspettava un caffè e la sfogliatella calda che era il pezzo forte del locale. Volgendo il viso al sole con il capo un poco reclinato all’indietro, aprì il giornale con un gesto elegante e si concentrò nella lettura dell’articolo sull’omicidio, che titolava a grandi lettere: “UCCISO BARBARAMENTE NOTO ARTIGIANO SORRENTINO. UNA MORTE MISTERIOSA” e continuava: “il corpo senza vita di Luigi Giordano, noto come “Gigino il Benedettino”, è stato scoperto per caso da un turista durante la processione del Venerdì Santo. Il turista, Jean Gudronne, 65 anni, di Lione, stava facendosi strada tra la siepe di spettatori che aspettavano la processione con il suo cane, un pastore Bernese di grandi dimensioni, quando il cane con uno strattone strappava il guinzaglio dalla mano del padrone e si infilava nel portone socchiuso


14 della casa della vittima. Gudronne inseguiva il cane che, incurante dei suoi richiami, attraversava il piccolo cortile interno e s’introduceva nell’appartamento a piano terra del Giordano, come se fosse guidato da un preciso segnale. Entrando a sua volta nell’appartamento, la cui porta era semiaperta, Gudronne scopriva il corpo della vittima a terra. Da una ferita era uscito molto sangue e l’odore di questo deve aver attratto l’animale. Infatti, così dichiarava Gudronne, il cane era appartenuto alla polizia scientifica e era stato addestrato a scoprire tracce di sangue, prima di essere ceduto a lui perché aggressivo con i compagni di canile. La vittima, proseguiva l’articolo, era ben noto nell’ambiente del porto, ove teneva un cantiere in cui costruiva e riparava barche di legno, continuando la tradizione dei mastri d’ascia di cui era ormai l’ultimo rappresentante. Per ora gli inquirenti non hanno rilasciato dichiarazioni e sembra che non abbiano una pista precisa su cui indirizzare le indagini. Giordano lascia una figlia di 33 anni, Maria, che ha appreso la notizia rientrando ieri sera tardi da Napoli dove gestisce un negozio di abbigliamento.” L’articolo era accompagnato da due fotografie che occupavano più spazio della cronaca dell’omicidio. Una rappresentava Gudronne con il suo cane e balzava agli occhi la straordinaria somiglianza di tratti che li accomunava, dal colore rosso del pelo e dei capelli, alle guance lasse e cadenti, all’espressione degli occhi, quello sguardo dall’aria un po’ attonita e dolcemente ottusa che si trova solamente in gente dei Paesi del Nord e comunica il senso di una vita fatta di solide abitudini, pasti abbondanti e incrollabile semplicità di ragionamento. Il sorriso comparso sul volto di Vittore nel notare la parentela fisionomica del cane con il suo padrone, si bloccò trasformandosi in un’espressione di stupore alla vista dell’altra fotografia, una foto che egli stesso aveva donato al


15 Benedettino. Mostrava il Benedettino con lui e altre tre persone davanti all’ingresso del suo cantiere. Vittore vi spiccava per la statura, ma anche per il portamento e una bella figura. Il suo viso era di profilo in una zona d’ombra, ma ben riconoscibile con quel naso pronunciato aquilino che gli donava un aspetto elegante come quello di certi profili coniati in monete antiche. Era una foto scattata in occasione del varo della barca di Vittore, uno sloop classico di 35 piedi di Sparkman e Stephens, dopo un lungo rimessaggio in cui era stata rinnovata dalla chiglia alla testa d’albero. In quell’occasione Giulia gli aveva regalato un gobbetto di terracotta vestito da marinaio, un portafortuna raro, che aveva trovato dopo una lunga ricerca a San Gregorio Armeno, a Spaccanapoli. Vittore lo aveva portato al varo e nella foto lo esibiva mostrandolo con un braccio alzato. Da quel giorno il gobbetto era perennemente nella sacca da marinaio che Vittore portava con sé a ogni uscita in barca. Vittore sollevò la testa che aveva chinato verso il giornale per mettere meglio a fuoco la fotografia e notò che un’ombra, evidentemente di una persona ferma in piedi alle sue spalle, attraversava il tavolino. Dall’ombra si concretizzò una voce profonda, da basso, un po’ impastata, simile al rumore di un diesel marino che esce dal tubo di scappamento sott’acqua e ne emerge con un rimbombo rotondo. «Lo conoscevate bene, vero?». Vittore riconobbe dalla voce il maresciallo Amatruda e quando, volgendosi, lo vide non poté fare a meno di pensare come la Natura si fosse divertita ad associare una voce così robusta a un fisico simile a una lisca di pesce. Il maresciallo, infatti, pareva la controfigura di Eduardo De Filippo, sia nella secchezza del corpo, sia nelle scavature del viso, ma la sua struttura muscolare era ancora più esile, al punto che sembrava che dentro al suo abito vi


16 fosse solo aria. Amatruda gli rammentava anche una facezia che aveva imparato al liceo sulla magrezza del poeta Talete di Mileto, di cui si diceva che zavorrasse le scarpe con pesi di piombo per non essere portato via dal vento. Quando parlava, però, il Maresciallo faceva dimenticare presto la sua apparente fragilità fisica, non solo per il timbro della voce, ma anche e soprattutto per la lapidaria arguzia con cui esprimeva i suoi pensieri, con una straordinaria parsimonia di parole che erano tuttavia sempre precise e dirette come pallottole sparate da un tiratore scelto. Era un dono naturale, una dote che restituiva con avanzo alla sua persona l’apparente mancanza di solidità del fisico e suscitava un’istintiva cautela nei suoi confronti. Infatti, egli aveva fama di essere un investigatore intelligente, dal “naso fino” e ostinato come un cane da caccia. E senza ricambiare il «buongiorno, come va?» di Vittore, il maresciallo continuò: «Ha dato lei la foto al giornale?». «No, anzi vederla sul giornale mi ha sorpreso. Ne avevo fatto stampare e incorniciare una copia dal fotografo di piazza Lauro per donarla al Benedettino. Il giornalista la avrà avuta dal fotografo. Si sieda Maresciallo, le posso offrire un caffè?». «Un caffè no, ma bevo volentieri un bicchiere di acqua. La divisa di lana comincia a far sudare. Mia moglie non ha ancora fatto il cambio di stagione! Tornando al Benedettino, era una persona molto riservata, non frequentava nessuno, non aveva veri amici. Lei forse era l’unica persona con cui aveva un rapporto che non fosse solo di lavoro». «Avevamo in comune un grande interesse per le barche, un argomento su cui lui aveva un’esperienza e una cultura eccezionali». «Gli altri nella foto chi sono?».


17 «Questo a sinistra lo conosco solo di nome, Mario. Ha un monotipo di 10 metri costruito da Baglietto negli anni ’60, gran barca, ma lui non ne è all’altezza. Gli altri due sono velisti di Napoli, se non ricordo male del Circolo Nautico Virgilio, ma non so nient’altro di loro. Quel giorno scambiammo solo qualche frase banale. Mi chiesero se ero soddisfatto del lavoro del Benedettino. Erano venuti da lui per accordarsi sulla data in cui tirare a secco la loro barca per fare la manutenzione annuale della carena». «Cosa ne sa del Benedettino?» incalzò il Maresciallo. «A dir la verità di lui come persona, intendo dire della sua vita privata, non so quasi niente. Come le ho detto, con lui parlavo di barche, di marineria». «Perciò non sa l’origine del suo soprannome Benedettino?». «Da alcuni cenni indiretti, mi sembra che fosse rimasto orfano quando era piccolo, ma non mi ha mai parlato della sua infanzia». «Una storia drammatica. La sua famiglia era di Montecassino e i suoi genitori svolgevano servizi per il convento fondato da San Benedetto e vi avevano in cambio un quartierino in cui alloggiavano. Morirono sotto il bombardamento che distrusse tutto il complesso monastico. In realtà, furono dichiarati dispersi perché i loro corpi non furono ritrovati. Si pensò che si fossero rifugiati nei sotterranei del convento, che costituivano un vero labirinto sviluppato su più piani, con ramificazioni abbandonate da secoli. Il crollo dell’edificio causò il collasso delle volte sotterranee e tutto ciò che si trovava là sotto vi è rimasto sepolto per sempre. Invece il Benedettino, che aveva allora otto anni, si salvò in modo che parve miracoloso: fu ritrovato illeso in un casotto che serviva da ripostiglio per strumenti di lavoro nei campi, a un centinaio di metri dal convento, tutto sporco di terra. Nonostante fosse visibilmente spaventato, era cosciente e raccontò che San Benedetto gli era apparso di persona e lo aveva salvato guidandolo sottoterra


18 attraverso stretti cunicoli fino all’uscita tramite una botola nel pavimento del ripostiglio in cui fu trovato. Non credo che qualcuno abbia mai esplorato dove conducesse la botola, che fu ricoperta di terra nei successivi lavori di pulizia e riassetto del territorio e ricostruzione del monastero». «E com’è che si è trovato a Sorrento?». «Aveva qui un lontano parente che viveva solo e lo accolse in casa sua come un figlio. Fu lui a metterlo a bottega da un mastro d’ascia a Marina Grande». «Ma, perdoni la domanda indiscreta, Maresciallo chi può avere avuto un motivo per ucciderlo? Non vorrei sembrare indiscreto, ma in giro si dice che gli hanno fracassato la testa, cosa che fa pensare a un atto non premeditato, per esempio la reazione di un ladruncolo, vero?». «Caro professore, risponderò alla sua domanda, purché anche lei mi dica tutto quello che sa del Benedettino. Ebbene sì, è stato colpito alla testa con un corpo contundente duro e irregolare, ancora non identificato». «La ringrazio per la fiducia e naturalmente sono a sua disposizione per aiutarla, ma non creda che noi due fossimo tutto culo e camicia. Al massimo gli avrò fatto visita a casa sua una volta al mese. Lui, poi, era una persona estremamente riservata». «Be’, in ogni caso ci risulta che lei sia l’unica persona che lo frequentava con una certa regolarità fuori dal lavoro. Avrà pur detto qualcosa di personale, per esempio non le ha mai parlato di sua figlia? Fino a qualche tempo fa lei viveva con lui, poi andò a vivere sola, dicono i vicini, dopo un periodo in cui li avevano sentiti spesso discutere alzando la voce come se litigassero». «No, no, Maresciallo, non mi ha mai parlato dei suoi affari privati. Solo in un’occasione, si era nei giorni dei Morti, mi disse che


19 avrebbe chiuso bottega nel pomeriggio per andare al cimitero di Castellammare dove era sepolta sua moglie». «Va bene, ma ci pensi professore, anche piccoli particolari apparentemente insignificanti possono essere indizi preziosi. Ora però la devo salutare. Auguri di buona Pasqua». «Auguri anche a lei» rispose Vittore e pensò al colloquio appena terminato con un senso di stranezza. In fondo, conosceva il Maresciallo in modo superficiale, per averlo incontrato al bar del porto qualche volta e aver scambiato banali osservazioni sul calcio, tifosi di due squadre, Napoli e Juventus, nemiche da sempre. In ogni caso, decise di chiedere informazioni sulla figlia di Gigino a Giulia, che a Sorrento conosceva quasi tutti e poteva aver sentito su di lei qualche pettegolezzo.


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UNA STORIA D’AMORE

Vittore sapeva che, uscendo dal breve tunnel scavato nello sperone roccioso alto sul mare, avrebbe provato come sempre stupore e ammirazione per la poetica bellezza del fiordo di Furore, un luogo incantato, come fuori dal tempo. Quel grappolo di ruderi abbandonati, la spiaggetta ghiaiosa interrotta dalla foce di un torrentello, le pareti verticali di roccia simili a quinte di teatro disposte per enfatizzare la scena e, dietro, la forra stretta coperta da una fitta vegetazione, erano talmente pittoresche da sembrare un artificio. Ma ancor più, gli sembrava impossibile che lì ad aspettarlo ci fosse Giulia, ad aspettare proprio lui. Non che a Vittore fossero mancate donne che si erano innamorate o semplicemente interessate a lui. Era anzi consapevole di avere un certo fascino, di piacere nell’aspetto fisico quel tanto che bastava a permettergli di guadagnare terreno nella seduzione usando la sua arma principale, che era la parola. Aveva una dote naturale per il racconto e un repertorio ricco di aneddoti. Inoltre, aveva un interesse istintivo e un’inesauribile curiosità per la Natura. Per anni aveva esplorato i territori italiani, dalle alte vie alpine, alla pianura fluviale, alla gariga mediterranea, per imparare a riconoscere fiori, cespugli, alberi, pietre che erano comuni nel paesaggio. Una delle espressioni della Natura che lo attraeva maggiormente erano le stelle, che sapeva riconoscere con una sicurezza che appariva sbalorditiva a chi, ed era la stragrande maggioranza, a stento riusciva a identificare l’Orsa Maggiore.


21 Con Giulia avevano funzionato proprio le stelle. Si erano conosciuti una sera d’estate, il 7 Luglio, Vittore lo ricordava perfettamente. Vittore era l’invitato di riguardo alla festa di laurea di Antonino della cui tesi era stato relatore. Una festa alla grande, “neanche fosse un matrimonio” gli venne da pensare, sia per il lusso dello storico albergo Cocumella in cui essa si svolgeva, sia per il tipo di invitati, per la maggior parte parenti e conoscenti coetanei dei genitori di Antonino, piuttosto che giovani amici del neolaureato. Vittore aveva accettato l’invito per la simpatia che provava verso il suo giovane allievo, pur temendo di dover passare una serata un po’ insulsa, magari isolato in un contesto di persone intime da sempre. Come si sbagliava! Non gli fu necessario molto tempo per capire di aver commesso un grossolano errore antropologico. Infatti, si trovò quasi assediato e sottoposto a una defatigante serie di convenevoli che iniziavano in genere con un “che onore averla tra noi”, continuavano con domande personali (preferenze culinarie e ludiche, abitazione, hobbies, stato civile) e terminavano con un invito a cena, o a “fare una pizza”, o a una gita in barca la domenica successiva. «Come sono diversi da noi» si disse Vittore, che a Padova in più di vent’anni non era mai andato oltre un buongiorno nel rapporto con i suoi coinquilini. A Sorrento invece aveva trovato lo spirito di accoglienza e il calore umano di una cultura in cui ogni tipo di rapporto tende alla personalizzazione. Tuttavia, Vittore non aveva un allenamento sufficiente per sostenere a lungo il peso di tanto interesse per la sua persona, per cui approfittò di un momento di disingaggio per lasciare il ricco buffet dove era stato inchiodato fino a ora e appartarsi sulla terrazza a mare dell’albergo, aperta sulla spettacolare collana di luci del golfo di Napoli. La giornata era stata molto calda e dal terreno salivano vampe cariche


22 dell’odore acre del tufo mischiato al profumo dei fiori dello stramonio, così frequente nei parchi sorrentini, residuo di un tempo in cui l’ornamento, l’eleganza, il piacere avevano sempre qualcosa di eccessivo e di languido, come la vistosa campana lattea della Datura Stramonium e il suo profumo di vaniglia fermentata. Dalla terrazza si vedeva un ampio angolo di cielo e Vittore, attratto come sempre dalle stelle, con un moto automatico levò lo sguardo: c’era una luna crescente sottile e tesa come un arco e proprio nel centro del cerchio immaginario che ne completava il profilo c’era una piccola stella. “Una notte araba”, pensò, ma il decollo dei suoi pensieri fu interrotto da un richiamo diretto: «Professore, dove si è nascosto? Non vorrà mica negare solo a me il piacere di conoscerla! Antonino mi ha parlato così bene di lei!». Era una voce di donna calda e profonda ma giovanile e colorata di allegria, che veniva dal vialetto che fungeva da scorciatoia tra il corpo dell’albergo e la terrazza sul mare. Il vialetto era fiancheggiato da due alte siepi di alloro che oscuravano la luce dei lampioncini disposti negli angoli del prato. Così, Vittore poté distinguere solo una figura che veniva verso di lui con un braccio piegato, nel gesto di chi sta reggendo un bicchiere. Per qualche secondo, prima che la figura diventasse riconoscibile, Vittore fu preso da un moto d’irritazione. “Possibile che non si possa stare soli un momento!” pensò, “sono affettuosi e simpatici, ma qualche volta sono proprio invadenti questi napoletani. Ma di questa me ne libero subito”. «Sono Giulia, la sorella di Antonino» si presentò la figura, mentre usciva dall’oscurità del vialetto.


23 La prima impressione di Vittore fu che dal suo corpo vestito di un tubino bianco di tessuto aderente uscisse una luce propria e subito dopo, quando il suo sguardo intercettò quello di lei, si espanse dentro di lui un’emozione, percepibile come un flusso di calore in gola. A posteriori Vittore avrebbe pensato che l’espressione “colpo di fulmine”, che aveva sempre considerato banale e addirittura volgare, per la contraddizione tra enfasi e automatismo con cui era usata, meritava una rivalutazione. In effetti, a Sorrento sulla bellezza di Giulia si era costruita una mitologia. Anche chi non l’aveva mai vista associava al suo nome il posto più alto nelle gerarchie delle bellezze locali. E bella lo era davvero, di una bellezza categorica, indiscutibile. Non comune era l’associazione tra i capelli nerissimi, forti e ricciuti, e gli occhi di un verde scuro come le foglie degli aranci, ma illuminati da minutissime schegge d’oro. I lineamenti del volto componevano un insieme cui veniva spontaneo attribuire l’aggettivo luminoso, anche perché tutto sembrava esservi stato disegnato per il sorriso. La bocca, tuttavia, univa alla solarità del sorriso una sensualità senza pudore, che non vuol dire impudica, ma appartenente a una categoria di attrazione erotica naturale, come quella rappresentata in modo ineguagliabile dalla Venere di Botticelli. La fascinazione da cui Vittore fu preso alla vista di Giulia rallentò il suo tempo di risposta alla domanda scherzosa che lei gli aveva indirizzato, così fu ancora Giulia a rivolgersi a lui: «Stava guardando le stelle? Stasera sembra che ce ne siano addirittura troppe». «Ne è appena caduta una davanti a me» rispose Vittore con un notevole recupero di prontezza di riflessi e allungò il braccio verso di lei nel gesto della stretta di mano. Ma Giulia si lasciò scivolare addosso la battuta galante di Vittore come se non la avesse udita e con naturalezza passò nella mano che lui le stava offrendo il bicchiere vuoto.


24 «Può tenerlo lei, per favore?» disse con un tono confidenziale, e appena ebbe libere entrambe le mani puntò le braccia verso il cielo e, ruotando lentamente su se stessa, aprì e chiuse le dita come per afferrare qualcosa di imprendibile. «Mi piacerebbe conoscerle, ma sono troppe, è impossibile». Vittore pensò che questa affermazione di Giulia era paragonabile al lancio di un pallone calibrato al millimetro sul piede di Maradona smarcato nell’area della porta. Un goal facilitato al massimo. Le stelle, infatti, erano da anni oggetto d’interesse da parte di Vittore, che conosceva il nome della maggior parte di quelle visibili, sapeva individuare con sicurezza le costellazioni e i pianeti e aveva in serbo una collezione inesauribile di conoscenze pertinenti, che andavano dalla mitologia all’astrofisica. Non c’era argomento migliore per fare colpo. Così sganciò lo sguardo dal dorso di Giulia, la cui curvatura era ancora più provocante per l’attillata aderenza del tubino stirato verso l’alto dallo slancio delle braccia e, avvicinandosi a lei da dietro fino a sentire distintamente il suo profumo, alzò a sua volta il braccio destro indicando una stella di prima grandezza proprio allo Zenith: «Ma non è vero che non si possono conoscere! Anzi, è facilissimo, basta avere una mappa del cielo e dedicare qualche sera alla loro identificazione. Ecco, quella molto luminosa che sta proprio sopra le nostre teste, per esempio, è Vega della costellazione della Lira». Giulia girò la testa e guardò Vittore con il capo lievemente inclinato di lato e quella asimmetria nell’espressione degli occhi, uno con la palpebra più spalancata e il sopracciglio sollevato, l’altro socchiuso, che è un modo per dire “a chi la vuoi raccontare?” Restò così piuttosto a lungo in modo che si notasse il suo scetticismo, poi lo dichiarò esplicitamente: «Sta scherzando, vero? Come sarebbe possibile decifrare qualcosa in quel mucchio caotico di


25 puntini luminosi? Lei mi può raccontare impunemente anche le frottole più grossolane sulle stelle, approfittando della mia ignoranza». «Mi metta alla prova, sono pronto a passare qualunque esame. Vede, Giulia, io penso che conoscere le stelle sia un dovere per tutti». «Dovere? Non capisco perché!». «Perché non conoscerle è una forma di alienazione, una rinuncia a partecipare a un’esperienza ancestrale che ha segnato una svolta nella storia dell’Uomo. Mi spiego: innanzi tutto, le stelle sono l’unica cosa che vediamo oggi identiche a come le vedevano i nostri antenati. Quando alziamo lo sguardo al cielo stellato compiamo un gesto, proviamo sensazioni che hanno accomunato generazioni di uomini. Poi, le stelle sono state il primo oggetto di osservazione scientifica. Per noi l’alternanza del giorno e della notte, la successione delle stagioni sono fenomeni ovvi, prevedibili. Abbiamo orologi e calendari. Ma pensi ai primi agricoltori che nella Mesopotamia o in Anatolia seminavano senza avere un’idea precisa dello scorrere del tempo e, non potendo prevedere la stagione delle piogge o il periodo di piena o di siccità dei fiumi, rischiavano di perdere il raccolto. Fu in quella parte del Medioriente che alcuni uomini guardarono il cielo con intelligenza e notarono una coincidenza tra la posizione di alcune stelle e avvenimenti fondamentali, come la fioritura delle piante o la migrazione di animali. Da questa osservazione nacquero l’astronomia, l’astrologia, i calendari e addirittura il capitalismo». «Il capitalismo?!» ripeté Giulia, esprimendo nella domanda sul punto più provocatorio della lunga perorazione di Vittore la sensazione mista di curiosità, ammirazione e diffidenza che il bel discorso colto ed elegante, ma in parte un poco oscuro, aveva sortito in lei. Si deve dire che Giulia, donna di media cultura ma intel-


26 ligente, curiosa di tutto ed entusiasta del conoscere, si era adattata da tempo, con rassegnata consapevolezza, a essere pesata per il valore non intellettuale della bellezza e non ricordava nessun altro uomo che nel primo approccio con lei non avesse insistito in modo più o meno esplicito a sottolineare il suo aspetto fisico. «Sì, il capitalismo, perché la disponibilità del calendario astronomico aumentò la produzione agricola generando eccedenza…» ripartì Vittore, ma qui fu interrotto da Antonino che, comparso silenziosamente alle loro spalle, con un gesto affettuoso ma perentorio li prese sottobraccio, uno per lato, e si avviò trascinandoli verso il salone della cena: «vi stavo cercando, gli altri sono già seduti a tavola. Vedo che avete già fatto amicizia e credo che il prof. ti abbia anche fatto una lezione, è bravo vero?». «A parlare è bravissimo, ma sulle stelle secondo me millanta conoscenze impossibili» insisté un po’ per gioco, un po’ sul serio Giulia. «Questa sfida mi fa sperare che la nostra lezione sulle stelle continuerà» chiuse Vittore prima che i posti a tavola preassegnati li dividessero.


27

FURORE

Giulia era sposata da poco più di un anno quando iniziò la sua storia d’amore con Vittore. Si era sposata a venticinque anni con Salvatore, un ragazzone di poco più vecchio di lei, rampollo di una famiglia di armatori, ricca e molto nota, non solo a Sorrento ma anche a Napoli, dove l’impresa aveva uffici e la sede legale. Giulia non aveva sposato Salvatore per la posizione sociale ed economica della sua famiglia, ma perché innamorata e convinta di aver trovato l’uomo della sua vita. Del resto, Salvatore aveva qualità che lo accreditavano come un partito tra i più appetibili della città. Oltre a essere ricco e altolocato, infatti, era un bel ragazzo dai colori nordici, biondo, occhi chiari, con un corpo atletico che si manteneva tale anche per l’intensa attività fisica dedicata ad allenamenti quasi quotidiani di pallone, sport che praticava a livello semiprofessionistico. Inoltre, aveva un carattere estroverso e allegro, era generoso, anche di tasca, disponibile ad aiutare gli amici e aveva un lavoro nell’azienda di famiglia che non lo impegnava troppo. Nelle riunioni conviviali o nelle vacanze trascorse in gruppo finiva per essere la persona di riferimento, quella senza la quale la compagnia non si sarebbe sostenuta e forse neanche formata. Questi aspetti della personalità di Salvatore avevano giocato un ruolo importante nel determinare l’innamoramento di Giulia, ma non le ci volle molto tempo per capire che essi erano l’espressione brillante di un estremo narcisismo, e che l’apparente disponibilità verso gli amici aveva come scopo il compiacimento che provava per esserne lodato. Giulia si aspettava dall’amore una dedizione reciproca, totalizzante e ma-


28 nifesta anche in piccoli gesti affettuosi, uno spontaneo bisogno di stare insieme, un’attenzione privilegiata l’uno per l’altra. Si trovò a confrontarsi con una realtà in cui la “compagnia” era il centro dell’interesse del marito, che a essa sacrificava anche i momenti intimi, privati che Giulia attendeva, pretendeva per sé. C’era poi un comportamento ricorrente di Salvatore che a poco a poco le era diventato insopportabile e generava in lei un profondo risentimento. Era un suo modo di ridicolizzare gli slanci con cui Giulia traduceva il suo modo di amare, trasformando i suoi ingenui abbandoni e i gesti di appassionata dedizione in barzellette, oggetto di risate. Era una donna profondamente delusa quella che Vittore rivide a distanza di quattro mesi dal loro primo incontro, alla festa di Laurea di Antonino. Fu nella piazza del Duomo di Amalfi, dove Vittore amava concedersi ogni tanto in un pomeriggio festivo un aperitivo, seduto all’aperto a un tavolino del bar proprio di fronte alla scalinata della Cattedrale. Giulia stava uscendo dalla pasticceria nell’angolo sul lato opposto della piazza. La luce obliqua del tardo pomeriggio disegnava il contorno della sua figura esaltandone la morbidezza, i capelli neri erano una macchia dai riflessi blu contro il cielo. Appena la vide, Vittore balzò dalla sedia e, giunto con pochi passi di corsa alle sue spalle, la chiamò con una voce ansimante che esprimeva emozione più che debito di ossigeno. «Giulia, Giulia». Lei si voltò e trascorse qualche secondo prima che lo riconoscesse. «Ah professor….professore…». Era evidente che non ricordava il suo nome, ma Vittore la tolse subito dall’imbarazzo.


29 «Mi chiamo Vittore, si ricorda di me? La aspettavo, la ringrazio per essere venuta». «Mi aspettava? Non ricordo che avessimo un appuntamento». «Infatti, non si tratta di un appuntamento, ma di un esame, quello che abbiamo lasciato in sospeso la sera della festa di Antonino». Mentre Vittore parlava Giulia pensò che non avrebbe mai riconosciuto nell’uomo che le stava davanti la persona intravista nella semioscurità del giardino del Cocumella, vestita con una giacca scura e cravatta, con i tratti del viso quasi indistinti nel buio. Quello che vedeva ora era un uomo atletico, abbronzato, vestito con un pantalone sportivo che ne evidenziava il profilo pieno dei glutei e una maglietta attillata da cui uscivano due braccia nude tornite di muscoli che sembravano di legno scolpito, percorse da vene che ricordavano quelle degli stinchi di un cavallo. Giulia si chiese quale tipo di attività fisica avesse modellato quelle braccia e pensò a uno sport all’aria aperta, vista l’abbronzatura. Il viso, poi, era decisamente interessante e gli occhi scuri, in particolare, avevano quel tipo di sguardo penetrante che è difficile sostenere a lungo se incrociato per caso in una persona sconosciuta seduta di fronte in un bar o in un treno. Distratta da questi pensieri, rispose quindi con la prima frase che le venne in mente: «Per fare un esame ci vogliono un esaminatore che conosca la materia e una sede adatta, due condizioni che mancano qui, la prima perché l’unica stella che io so riconoscere è il sole e la seconda perché nel cielo non ci sono ancora le stelle, quindi…». «Giusto» intervenne Vittore senza lasciarle completare la frase, «infatti ho con me un bel planetario illustrato che le renderà facile farmi domande, basterà che mi interroghi su uno qualunque degli astri riportati nelle mappe celesti, dove ovviamente non è indicato il loro nome, ma un numero che li identifica in un indice a parte. Quanto alle stelle, il sole tramonta tra un’ora e qua vicino c’è un


30 posto magnifico per osservare il cielo stellato, un posto in cui l’inquinamento luminoso è minimo. Stasera, poi, è novilunio e la luna non cancellerà dal cielo le stelle, è la condizione ideale». Giulia aveva imparato da quando era adolescente a difendersi dai tentativi di corteggiamento e lo faceva in modo così perentorio da essere talora sgarbato, in ogni caso definitivo, perciò fu lei stessa sorpresa dalla risposta che le uscì spontanea, seguendo un impulso la cui natura non avrebbe saputo definire. «Ho l’impressione che lei stia scherzando o stia bleffando, tanto per vedere quanto quello che dice sia credibile. Guardi che le potrei chiedere di vedere le carte». Fu così che quella sera Giulia si trovò a seguire con la sua automobile quella di Vittore che la stava portando a Furore. Mentre affrontava i tortuosi tornanti della carrozzabile che segue i contorni della Costiera e apre dietro ogni curva scenari mozzafiato, Giulia pensava che non c’era nulla di male in quello che stava facendo. Anche suo marito, del resto, quel fine settimana era andato a Genova con un gruppo di amici e amiche, con il pretesto di vedere con loro una barca in vendita e il tono con cui le aveva chiesto se “per caso” non volesse andarvi anche lei lasciava pochi dubbi sulla risposta che si aspettava. A dire il vero, il sospetto che dietro molte assenze del marito, ci fosse qualche avventura o un’amante le era passato per la testa più volte, ma aveva sempre rimosso subito quel pensiero. In effetti, ciò che aveva progressivamente spento in Giulia l’amore per il marito era la sua cieca presunzione di avere in lei un essere adorante, totalmente sottomesso e da lui dipendente, come un cane che vive in attesa di avere una carezza dal padrone. E il disamoramento si tingeva di rancore quando Giulia subiva silenziosamente la rozza umiliazione che il marito le infliggeva scherzando per divertire gli amici, ma anche conoscenti occasionali, sulla sua “incapacità di stare


31 senza di lui”, o sulle sue suppliche di addormentarsi abbracciati. E ad aggiungere rabbia in Giulia c’era la consapevolezza di quanto fosse desiderata da altri, quanti tentativi di corteggiamento aveva stroncato prima ancora che si facessero espliciti. Mentre seguiva Vittore in quella che era la sua prima rinuncia a una difesa preventiva, Giulia non se ne chiedeva la ragione, ma avvertiva una sensazione di rischio e continuava a ripensare, per liberarsene, alle ultime parole di Vittore: «Se pensa che io le stia proponendo qualcosa di simile al volgare invito di andare a “vedere la mia collezione di farfalle”, si sbaglia mi creda. Io ho un rispetto patologico per la sensibilità delle signore e un terrore insuperabile di cadere nel ridicolo». I gradini di pietra dell’erta scalinata che collega la strada carrozzabile alla bocca del fiordo erano consumati dal tempo e sgretolati dal vento e dalla pioggia. La notte senza luna faceva di ogni passo un azzardo nel buio. Fu naturale che lei si sorreggesse alla mano che lui le porgeva per aiutarla. Una piccola onda sciabordava leggera lambendo l’ultimo gradino, nel mare si accendevano fugaci scintille fluorescenti di plancton. Nell’aria si spandeva il profumo denso da una macchia di pitosforo. Le mani restarono intrecciate. Sedettero sul bordo della carcassa di una barca alata su antiche falanghe. Gli occhi erano molto vicini e già si parlavano. Lo sguardo acuto di Vittore era insostenibile anche nel buio. Lei rifugiò le sue labbra sulle sue. Mentre rientravano a Sorrento ciascuno nella propria automobile, ma guidando lentamente di conserva, entrambi provavano una sensazione dominante di stupore. Giulia in particolare si chiedeva come potessero essersi dissolti in un attimo principi che aveva sempre sostenuto senza riserve e praticato con la convinzione che


32 per nessuna ragione al mondo vi avrebbe derogato. Ripensava ora alle critiche senza scampo che aveva espresso nei confronti di amiche che erano state coinvolte in storie di tradimento, ai giudizi severi d’incoerenza, leggerezza, insensibilità con cui le aveva condannate. Ma la cosa che più la sorprendeva era che non provava alcun pentimento e anzi sentiva un flusso di benessere che si espandeva per tutto il suo corpo come se vi fosse distribuito fisicamente dalla circolazione del sangue. E la sua mente era occupata da un unico pensiero: “ora come faccio? come mai potrò rinunciare a lui?”. Quanto a Vittore, era soprattutto pervaso da una sensazione d’incredulità. Il principio fondamentale dell’educazione sentimentale che aveva ricevuto nella piccola borgata di montagna in cui era vissuto prima di trasferirsi a Padova a frequentare l’Università era l’esclusione del sesso dalla categoria del sentimento, l’equivalenza sesso uguale peccato, anzi il massimo del peccato. Questo predicava nella Messa, nei ritiri spirituali, nelle lezioni di catechismo l’arciprete, una figura lunghissima e magra, con un viso ossuto, gli zigomi sporgenti e le orbite incavate simili a quelle di un teschio. La tonaca nera lunga fino a terra e un’interminabile fila di bottoni, tutti inesorabilmente chiusi fino all’ultimo, lassù, sotto un prominente pomo d’Adamo completavano un aspetto che incuteva paura. L’arciprete, con un’idea moderna delle misure efficaci per mantenere la salute dell’anima, raccomandava la prevenzione della malattia più insidiosa, il peccato sessuale. La prevenzione consisteva nella separazione fisica dei maschi dalle femmine e, quando questo non fosse possibile, nel tenere le femmine lontane dalla mente, impedendosi di guardarle, distogliendo gli occhi da quelle pur minime nudità che avrebbero indotto in tentazione. Le braccia nude, il girocollo aperto, il ginocchio scoperto in un movimento,


33 erano questi i pericoli quotidiani, perché altre nudità erano impensabili e anche improbabili. Ma il diavolo ne sa più di mille. Così un mattino Vittore, aprendo la finestra della sua camera, vide sventuratamente Piera, la figlia della levatrice, una bimba di dieci anni fare pipì nel cortile confinante mostrando un inevitabile culetto scoperto. Era peccato, peccato mortale e sembrò a Vittore talmente grave che non ebbe mai il coraggio di confessarlo all’arciprete. Ci volle tempo perché Vittore si liberasse da quel peso. Il senso di colpa se ne andò quando il sesso, secondo natura, vinse le prediche e assunse la sua giusta posizione di pulsione normale. Tuttavia, qualcosa di quella esperienza infantile restò nell’atteggiamento di Vittore verso il sesso, che continuò a considerare come una cosa importante, molto seria, da trattare con consapevolezza, mai da degradare a “usa e getta”. Ora Vittore era incapace di uscire da uno stupore che paralizzava il pensiero, come se fosse stato iniziato a un’esperienza trascendente. Ma sentiva la verità definitiva di quell’amore, incredulo del fatto che si fosse compiuto e si fosse impadronito di lui prima ancora di essere pensato. Sapeva, come lo sentiva Giulia, che non sarebbe mai finito. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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