La quadratura del cerchio, Marco Monticone

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In uscita il 28/6/2019 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2019 ( ,99 euro)

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MARCO MONTICONE

LA QUADRATURA DEL CERCHIO

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA QUADRATURA DEL CERCHIO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-319-2 Copertina: immagine Shutterstock.com


LA QUADRATURA DEL CERCHIO



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«Cerca di capirmi, Barzetti, cerca di capirmi». Come un’offerta del supermercato: due suppliche al prezzo di una. Ammosciato sulla sedia, Barzetti Carlo, il destinatario della doppia preghiera, avrebbe preferito senz’altro una chiara, fredda esecuzione in piena regola a quella fucilazione gentile: grazie, prego, scusi, siete pregati di rimanere immobili per non perdere la priorità acquisita. Non c’era granché da capire, in effetti: Mastrantonio, direttore del giornale, stava dalla parte giusta della scrivania, l’altro da quella sbagliata. Barzetti tirò fuori l'ultima carta, poi non rimaneva che aspettare la carica finale del nemico, aggrappandosi alla bandiera del regimento. «Però io ho già mandato la lettera di risposta all’ufficio del turismo austriaco». In nome del lavoro, sacrosanto e benedetto, chiedeva di essere spedito per tre giorni a Vienna, non per altro. «Questo fatto così drammatico, probabilmente maturato in un ambiente che tu conosci bene, non lo possiamo assolutamente trascurare. Aggiungi quanto la morte di un dipendente comunale di un certo grado e residente proprio qui, a Mombenasco, faccia sempre piuttosto scalpore. Aggiungi il poco materiale tra le mani in questi giorni...». Aggiungi il trombettiere del generale Custer: adesso era proprio finita. «E poi lo speciale viaggi può aspettare». Quello sì, ma gli austriaci no: tre giorni spesati per far scoprire a un gruppo scelto e qualificato di giornalisti italiani le bellezze famose e in sovrappiù quelle segrete di Vienna. «In ogni caso, qualcuno può sempre sostituirti». Ci mancava: uno si lavora herr e fraulein di stanza a Milano, giura che i knodel sono un pezzo di paradiso nel piatto, tracanna birra e poi arriva il direttore dell’Eco delle Colline, a sfilarti la sedia da sotto. Mastrantonio alzò gli occhi verso il soffitto, come se lì apparisse il santo personale a ispirarlo. «Prendi accordi con Marani: è lui che segue l'inchiesta. Insieme cercate di scavare, far venire fuori qualche elemento interessante….». Gli avrebbe scavato lui, Barzetti, qualcos'altro sotto i piedi, mentre la mano del gran capo gli penzolava davanti: la stretta richiesta diventava il segnale di fine colloquio. «Buon lavoro» aggiunse. Come no. Dopo il trombettiere, arrivavano le campane a morto. Requiem completo. Barzetti si avviò verso il suo ufficio dove avrebbe potuto sfogarsi con qualsiasi cosa gli fosse capitata a tiro. Iniziò già nel corridoio sprofondando le mani nella tasca della giacca per raggiungere le caviglie.


6 Prima di affrontare la scrivania, pensò a un ulteriore match di preparazione con la macchina del caffè. Infilò il gettone che garantiva un quasi espresso, comunque a prezzo ridotto, ennesima prova che anche nel giornalismo la marcia del terzo stato procedeva verso un radioso sol dell’avvenire. Nell'attesa che si compisse il miracolo della santa brodaglia nera, Carlo Barzetti si appoggiò al muro di fronte, togliendosi gli occhiali. Non era una gran faccia, quella che rimandava il metallo lucido della macchina. Di brillante, ma pure tappezzato di qualche macchiaccia, c'era davvero solo l'acciaio della tipropinocaffè: i capelli radi sulla fronte davano l'aria un po' vissuta, senza precisare il come. In mezzo, tra la stempiatura e la camicia senza cravatta, una faccia che se non era anonima, certo non sarebbe mai finita nemmeno nel poster di qualche giornale femminile. Per di più, in quel momento mostrava un’incazzatura nera peggio del caffè o presunto tale. Vienna si allontanava: tra due giorni partiva il viaggio in truppa e le speranze di farne parte stavano a zero. Al peggio non c'è mai fine e in questo caso il peggio del peggio si chiamava Franco Marani. Il fatto che appartenesse alla cronaca già lo qualificava: lì, che uno ci finisse per scelta o per dovere, comunque in valigia teneva uno spadone da crociato. Al contrario, esattamente quello che non rientrava nella dotazione di Barzetti: cultura, cinema, mostre, spettacoli, il suo territorio, non li doveva presidiare con piglio guerresco. Come in un condominio, anche all’Eco delle Colline, premiato e quasi secolare bisettimanale di cronaca dei paesi al di là del Po, verso Asti, si poteva trovare di tutto un po’. «Vabbè, togliamoci il dente». Barzetti si sedette alla scrivania e armeggiò al telefono interno. «Sono Barzetti. Ciao. Mastrantonio mi ha detto di chiamarti: dobbiamo metterci a fare qualche pezzo sulla fine di Capra. Posso passare un attimo da te?». Il che significava quattro porte più in là, lungo uno di quei corridoi bianco candeggina, il colore che non significa nulla, perfetto per una camera d’albergo come per la sala d’aspetto di un dentista, un ufficio del catasto o un obitorio. Resisteva la segreta speranza che l'altro fosse impegnato fino al collo. Invece non era proprio giornata. «Per me va bene, vieni pure». Capelli corti sale e pepe come la barba appena accennata, con Marani c’era una confidenza ferma a mezza strada: dopo anni di vicinato sul lavoro, Barzetti ancora quasi stentava a catalogarlo se un tizio rispettoso del galateo aziendale o un compagnone che non vedeva l’ora di raccontare della sua ulcera malmessa. «Andiamo a prendere un caffè, così parliamo»: la proposta di Barzetti


7 incontrò lo sguardo stupito dell'altro. Marani fece due passi verso la macchinetta, stirandosi il pullover azzurro, senza riuscire a frenare un quasi rimprovero. «Mah, veramente sono le dieci e un quarto...». Sottinteso: già la lancetta corre e noi ancora qui, fermi al palo. Era troppo, Barzetti decise di pigiare fino allo schianto finale del rivale. «Un caffè ci vuole, magari al bar». Tiè: in aggiunta, pure la libera uscita. Peccato che la vista del bancone del bar guastasse tutto il sapore della trovata. D'altra parte, a quel punto della giornata non c'era molto da aspettarsi: l'ora indicava il cessate il fuoco sul cappuccino, mentre l’assalto all’aperitivo nemmeno si scorgeva all’orizzonte. Per cui, tutto se ne stava lì, sballottato a metà, comprese le brioche rimaste sole solette ad aspettare qualche ritardatario della colazione o le affamate avanguardie del pranzo. «Dunque, com’è andata a Capra?». «Per come l'hanno trovato, gli è andata proprio male: morto per probabile overdose, il laccio al braccio, la siringa ancora nella vena. Per terra, accendino, cucchiaio e via dicendo. Era in una specie di ripostiglio in mezzo ai campi, quattro pareti di legno dove ci ficcano dentro attrezzi e altre cose del genere». Visto che l’interesse dell’altro, già a zero, tendeva ad abbassarsi ancora, Marani non si fece pregare: «La cosa migliore sarebbe fare un salto là. Magari qualcuno ci troviamo». Là, ovvero tra vigneti su vigneti, tanto che a respirare sembra di avere già un sorso di vino in bocca. Una collina dopo l’altra, ciascuna ricoperta del suo reticolo di filari preciso, ordinato, la paginetta di un quaderno a righe delle elementari. «Ma tu lo conoscevi bene?» buttò lì Marani. «Capra? Da un bel po’ di anni. Ma più in là di ciao ciao, poco altro. Come va, come non va, solite cose. Non un chiacchierone, ma cortese, preciso, all’Assessorato alla Cultura, a Torino, lavorava da una vita. Cambiavano gli altri, ma lui sempre lì. Si dava da fare, conosceva tutti. Era diventato una specie di factotum, là dentro. Abitava qui, in paese, in via Santa Marta. Lo incontravo anche in giro per il centro o al cinema, quello della Berselli. Penso desse una mano lì, nei momenti liberi, forse era un secondo lavoro, non so. Sta di fatto che se ne intendeva, eh, mica storie. Sui film, anche vecchi, non lo fregavi di sicuro. Un appassionato. Cazzo, chi avrebbe mai pensato che sarebbe finito così?». Terminati i tornanti, Barzetti e Marani si erano ritrovati davanti a una specie di piccolo pandemonio, se confrontato con il nulla che avevano fin lì incrociato, appena qualche auto e un paio di trattori. Macchine della polizia, camioncino forse della scientifica, viavai di gente a risalire


8 il sentiero sterrato che dalla provinciale portava fino a quella casupola mezza sghemba. Mancava solo l’ambulanza che già se n’era andata, portandosi via il povero Capra. Con l’inverno non lontano, i lavori nelle vigne si riducevano al minimo e dalle cascine vicine nessuno avrebbe mai immaginato un simile scossone al silenzio di quei giorni. «Stampa», Marani sguainò il tesserino bordeaux dell’Ordine dei Giornalisti. Il poliziotto, nell’improvvisato parcheggio, non fece una piega. «Difficile possiate salire, almeno non ora». «Se c’è il Commissario Nicchi potremmo parlargli un attimo?». Il passaggio del tono di Marani dal fiero al supplichevole ottenne un qualche risultato. Il piantone gli concesse uno sguardo rassegnato, quasi un invito a provare a cavarsela. Marani individuò Nicchi in un gruppo poco lontano: «Commissario!». L’altro girò la testa lentamente, avvistando l’arrivo delle seccature, senza scomporsi. Nicchi era una presenza più che famigliare da quelle parti. Arrivato giovanissimo, grado dopo grado, era arrivato alla sommità del commissariato. «Eccoti qua» disse come un pastore accoglie la pecorella smarrita. Presentato Barzetti, Marani puntò subito al dunque. «Ci dica qualcosa». «E che vi devo dire?» «BÈ, prima di tutto, sicuro che si tratta di Antonio Capra?». «Sì, assolutamente, su questo, dubbi non ce ne sono: addosso aveva il portafoglio con i documenti e tutto. Il riconoscimento dei parenti è più che altro una formalità». «Era solo qui? È un’overdose?» «Non posso dire niente. Per il momeeeeento, niente» Nicchi trascinò talmente la e che il momento divenne una settimana intera. A conoscerlo, e Marani lo conosceva, avrebbe pagato per guardare dal di fuori la scena con lui al centro. Quello del protagonista non era un ruolo che in quei paesi, per via di una cronaca criminale ridotta all’osso, Nicchi potesse recitare spesso, quindi ora se lo godeva fino in fondo. In stato di ebbrezza da super poteri, fissò di sottecchi Marani: «Il caso è condiviso con i colleghi della polizia di Torino. Si collabora, diciamo così». Marani bruciò le tappe, invece di arrendersi: «Ma possiamo dare un’occhiata, fare qualche fotografia?». Nicchi scosse la testa: «Assolutamente no. Non se ne parla nemmeno, finché noi e i colleghi della polizia di Torino non daremo il via libera». «Ai colleghi della Polizia di Torino possiamo fare qualche domanda?»: Barzetti non aveva ancora finito di parlare che si beccò un’occhiataccia da Nicchi.


9 «Io direi di no, ma se volete provare, non posso impedirvelo». E attese la vendetta. Che arrivò puntuale: «Niente stampa». A muso duro la risposta arrivata dal collega della Polizia di Torino non ammetteva repliche. Con aggiunta ulteriore: «Per favore, dovete allontanarvi di qui. Vi faremo poi sapere quando avremo qualcosa da dirvi». Tanti saluti. Anzi, scarsi, per non dire zero. Mentre l’uomo in divisa poco ci mancava che digrignasse i denti, a Barzetti venne in mente che forse lui era lì. Magari, chissà. Fosse riuscito a beccarlo… eccolo. «Piacentini, Piacentiniiiii». Una ventina di metri più in là, un loden verde inginocchiato a guardare il terreno, si alzò. «Eh, ci mancavi tu, ci mancavi proprio». Il loden si mosse, infilato sopra un metro e ottanta corpulento, muscoli giovanili nascosti da qualche strato adiposo più recente. La manona di Piacentini spuntò dalla tasca e puntò verso Barzetti. «Ma fai nera adesso?». Aveva sempre la sua bella faccia, Piacentini, da questurino non passacarte, imbronciato appena il giusto per i troppi signorsì. «No, Sandro, non faccio nera, è che do una mano al collega qui, Marani, per via che il morto era delle nostre parti e lavorava all’Assessorato alla Cultura di Torino, insomma lo conoscevo». «BÈ, qui di cultura ce n’è ben poca». «Ma come ha fatto, Capra, a cacciarsi in questi giri?». Piacentini allargò il sorriso: «Mica ci casco, bellezza. Bocche cucite e stop. Poi vi faremo sapere». «Dai Piace, non puoi proprio dirmi niente?». «No. Enne O. Già l’ho detto ai tuoi colleghi di prima. Non una parola, a parte l’identità della vittima». Mise al minimo il volume: «E non mi chiamare Piace. Meglio ancora se qui eviti pure di darmi del tu». Barzetti volò dritto sopra il consiglio: «Ma si sa da chi l’ha comprata, la dose?». «Oh, ci fai o ci sei? Dai, in macchina e via, poi arriverà qualche dichiarazione o comunicato, più in là». «Adesso, mentre siamo qui, potremmo sentire Giovanni Andruetto. È il proprietario di questa vigna, quindi anche del casolare e della cascina sulla collina. Pare lo abbia trovato lui, Capra». Andruetto Giovanni, arzillo ultrasettantenne con il mezzo toscano incollato alle labbra, portava una giacca un po’ lisa di velluto verde scuro, divisa regolamentare dell’agricoltore di stampo antico. E dei vecchi di campagna aveva addosso anche l’odore, un misto di cantina, canfora e tabacco. Il suo sguardo arguto, da zio di Bertoldo, lì squadrò appena messo piede nel cortile. «Di nuovo poliziotti?».


10 «No, giornalisti». «Oh signur, mancava. Guardè bin, neh, io quello che sapevo già l’ho detto e ridetto ai poliziotti. C’ho passato non so quanto tempo a ripetere sempre le stesse cose». «Per favore, signor Andruetto, questione di due minuti». Andruetto riempì i polmoni con tutto il fiato che poteva e partì in apnea: «Io quel tizio lo conoscevo da un mesetto. L’ho incontrato due o tre volte da queste parti che ci faceva una passeggiata. Mentre tornava a casa diceva che si fermava qui per rimettersi in sesto dopo il lavoro. Era un appassionato di montagna, di camminate anche belle lunghe e si vede che gli piacevano questi posti». «Si fermava tanto?» «Mah, non so: io tornavo a casa e lui girava un po’ qui, tra le colline». «Insomma non sospettava che fosse a Valle Camino per qualche ragione un po’… un po’ losca?». «Ma mi no che non ci ho mai pensato. Sembrava un tipo a posto, non avrei ma detto che arrivasse qui per fare qualcosa di male». «Lo ha incontrato anche ieri?» «Eh già, ci siamo salutati, solite cose, buongiorno, buongiorno. Io ero qui che legavo un tralcio, poi ho visto che saliva verso il ripostiglio, ha girato un po’ ed è sceso verso la macchina. Una volta finito il lavoro, me ne sono andato a casa e bon, chiuso». «Magari andava a prendere qualcosa. Non vi siete incrociati mentre lui risaliva per la collina?» «Macché. Pensavo fosse ripartito…». «Era andato altre volte nel casolare?» «No no no no no. Era chiuso. L’altro ieri ci sono andato ed era tutto a posto. Cos’e l’hai mai fait a rimetterla in piedi, quella baracca». Mentre lo diceva, alzò gli occhi al cielo e congiunse le mani in preghiera. Da lassù non arrivò nessuno in soccorso. «Era lì che l’avevo sempre vista, quella casupola, e di anni ne ho settantaquattro. Doveva averla tirata su il mio papà o magari mio nonno, ci serviva sì e no. Capitava di metterci della roba. Qualche anno fa mi sono detto che era meglio non lasciarla cadere che poi era anche un lavoro sgombrare tutto. Una volta sistemata, ci potevo mettere dentro attrezzi, ceste, roba che serviva senza andare avanti e indietro dalla casa alla vigna. Così ho anche rifatto il tetto, con le tegole, le ho comprate, neh, che a me i lavori fatti truc e branca m’piasu nen. Poi però alla fine l’ho usata poco. Preferivo portarmi a casa tutto, sa com’è, non è che non ci si fidi qui, ma passa qualcuno e ciao… se non stai attento sono tempi


11 che ti rubano anche gli occhi e la cadrega da suta le gambe». «La porta era chiusa a chiave?» «Gliel’ho detto: eccome. Non si sa mai, anche se chi vuole che prenda la vanga, l’antiparassitario e via dicendo?». E allora perché non li lasciava? Boh, meglio proseguire. «È stato lei a scoprire il corpo?». «Eh sì: stamattina, sul presto, sono andato nella vigna a dare un’occhiata e ho visto che la porta era un po’ aperta. Ho subito pensato che mi avevano preso tutto, ormai stai fresco che lasci qualcosa fuori casa e non te lo rubano. Invece, quel poveretto era sdraiato a terra con una manica della camicia rimboccata e la siringa piantata nel braccio. Allora ho chiamato l’ambulanza, con il cellulare, e quelli sono arrivati da Mombenasco insieme alla polizia. Poi macchine, furgoni, ‘n sac ad gent, un ciabello ch’ai disu nen: dov’era, cos’ha visto, cosa ha sentito, si era accorto. Ma ca ma scusa, come vuole che mi accorga se qualcuno va in quel posto di sera o di notte? Mica sto lì alla finestra a guardare?». «Magari era stato qui a drogarsi altre volte senza entrare nel capanno, ma perché lo ha fatto questa volta?». «Sai nen, sai prope nen». Lui non lo sapeva, non lo sapeva proprio. Piacentini forse sì, ma a telefonargli ne avrebbe cavato solo di imbufalirlo peggio che mai. «Tu che dici?» accennò Marani dopo aver messo in moto l’auto per tornare alla base. Barzetti fece le guance a palloncino e con l’aria immagazzinata produsse un piccolo sbuffo annoiato, degno preambolo di quello che sarebbe seguito. «Mah, fregagniente di tutta questa storia o almeno ben poco. Mi spiace per Capra, si capisce, ma io qui ci sto come i cavoli a merenda». L’altro ridacchiò, mostrando una fila di denti piccolissimi, quasi la cancellata di un giardino bonsai. «Non si direbbe, hai pure una conoscenza altolocata in polizia». «Piacentini lo conosco da una vita. Eravamo insieme all’Università, poi lui ha mollato lì. Chissà poi perché: gli mancava poco alla laurea, macché, niente. Vinto il concorso in Polizia si è sposato, ha fatto una figlia. Non gli è andata nemmeno male, come carriera: sta nell’antidroga. Continuiamo a vederci perché abitiamo vicino, lui appena un isolato da me. Tra spesa, giornalaio, bambini da portare a spasso, si può dire che non ci siamo mai persi di vista». «Intanto, però, non ti dice una sillaba sulla faccenda di Capra». «Cosa vuoi mai che mi dica, se è una roba di Polizia di quelle spesse,


12 logico che debba tenersi abbottonato». «E adesso che si fa?». «Boh, aveva genitori, moglie, parenti Capra?». Marani lasciò solo la mano sinistra sul volante mentre la destra estraeva un taccuino dalla tasca interna del giaccone. «Dunque, genitori morti da tempo, non era sposato, da quel che ne so il parente più stretto è un cugino che sta in Via Battisti. Lo conosco, lavora al Provveditorato agli Studi: un medio calibro, ma è lui che passa notizie, statistiche e via dicendo. Ci andiamo?». Di lì a mezz’ora, si ritrovarono in uno dei nuovi quartieri alla periferia, fatto di casette a due piani, ammucchiate una vicino all’altra, come birilli del bowling. Nei prati, al di là dei cancelli, erano stati sloggiati gli ospiti vetusti. Niente processione di nanetti con Biancaneve, apparizioni di Lourdes in grotte a edilizia convenzionata o pseudo conchiglie rimasuglio di qualche immaginario maremoto giurassico. Ora trionfavano cartelloni più utili a stupire gli amici in arrivo che i ladri di passaggio: annunciavano la segreta presenza di telecamere a circuito chiuso, antifurti spazialcibernetici e persino l'occhiuta vigilanza dei vicini, una volta invitati a farsi gli affari loro, ora arruolati come guardie giurate. Il dottor Fulvio Musso li attendeva in un salottino con qualche pretesa, la stessa della villetta in cui abitava: un divano a L, il lettore di cd in terra accanto alle casse, la libreria nera con una dozzina di libri vicino al tavolino stipato di foto di famiglia e affini: il giorno della laurea, in barca chissà dove, davanti a Buckingham Palace, da solo con i figli, da solo con la moglie, la moglie con i figli, i figli al campo sportivo, i figli sugli sci, i figli con i suoceri, i suoceri con la moglie, i genitori sul lungomare, la moglie avvinghiata a lui con salvagente sotto il costume da bagno o con acconciatura cono nocciola/vaniglia nel giorno delle nozze. La consorte si materializzò per offrire un caffè, benvenuto da Barze, accettato con rassegnazione da Marani. Musso si lisciava la barba in continuazione. In alternativa, provvedeva a una aggiustatina della cravatta gialla. Comunque, la mano viaggiava dal mento all’ombelico e di lì non si sgarrava. Andata e ritorno. Probabilmente barba e cravatta erano le due cose su cui aveva deciso di puntare per ottenere qualche credito in più. Come testimoniava l’assenza di qualsiasi guizzo non collaudato davanti allo specchio, era il tipo che la sfiga ce l’aveva addosso, ma la portava bene. «Antonio? Mah, cosa volete, ogni tanto una telefonata, un caffè insieme, poco più. Non è che ci frequentassimo proprio tanto. Sa, lui era uno di quei tipi un po’ introversi, strani. Anche il suo lavoro lo viveva metà


13 come una costrizione, un impegno faticoso, e metà con entusiasmo, con la consapevolezza di impegnarsi per la cultura, la società». A metà era pure lo sguardo di Barzetti: un occhio sbarrato e l’altro tenuto aperto dalla mano a cui era appoggiato il resto della testa. Fu sul punto di chiedere una pausa toilette. Fortuna che Marani interruppe l’effluvio da Tg: «Ma che lei sappia poteva avere qualche frequentazione pericolosa?». «Chi? Antonio? Ma noooo, assolutamente. Aveva pochissimi amici, sempre gli stessi da una vita. Non era un tipo semplice, di sicuro: sempre pronto a impuntarsi su qualcosa. Testardo quando seguiva una sua idea. Si apriva poco, anche con me. Aveva un carattere particolare, ecco». Gira e rigira, non si andava avanti. Barzetti, per giunta, stava in bilico sulla poltrona con piattino e tazzina sul ginocchio, chiedendosi dove posarli in quella selva di portafoto lì vicino. A quel punto, la sua mente criminale aveva deciso di decimare la famiglia Capra-Musso con una seconda vittima nel giro di poche ore. Marani, invece, pensò di virare in direzione cuore: «Non era sposato, ma aveva relazioni sentimentali, una in modo particolare?». Musso si toccò la cravatta, risalì sulla barba e in aggiunta ciondolò lievemente la testa fornita di occhiali, segno che il momento era grave e la risposta anche peggio. «Ha avuto una lunga relazione con Anita Berselli. Penso che voi la conosciate… poi, non so, tra i due si era rotto qualcosa e da quel momento lui era rimasto sempre più solo, chiuso in se stesso….». Nel tempo record di cinque secondi, Barzetti e Marani condensarono scuse per la fretta, percorso tra il salotto e la porta d’ingresso e successiva fuga, lasciando l’altro a metà della propria trasmissione su Antonio Capra, questo sconosciuto. Barzetti tornò a respirare aria pura o almeno non troppo inquinata. «Meno male che hai dimenticato di chiedergli se la Polizia fosse già andata da lui». «Avevo fatto il pieno. Adesso potremmo farci una chiacchierata con i grandi capi di Capra, all’Assessorato alla Cultura di Torino, casomai ne sapessero qualcosa di più su di lui». Barze trangugiò rassegnazione, tanto che Marani decise di rincuorarlo almeno un minimo. «No, prima andiamo dalla Berselli: è qui vicino. A proposito, tu la conosci?». Eh sì, per conoscerla, la conosceva, Anita Berselli, affittuaria dal parroco del Sacro Cuore della sala parrocchiale adibita a cinema e ribattezzata Cinema Corso, per via che stava in Corso Fratelli Bandiera e meno male


14 che non l’avevano chiamato Cinema Bandiera. Sopravviveva, il cinemino della Berselli, facendo a botte con le multisale spuntate non lontano, quelle con megaschermo e dispensatori di popcorn a tonnellate: chiudeva due sere a settimana, poi si arrangiava con cineforum, qualche recita scolastica di fine anno e assemblee di condomini. Per essere simpatica, lei lo era davvero e pure tosta, una che trovava sempre una riserva di energia per rimettersi in carreggiata. Non di una bellezza sublime, questo no, però di quelle che difficilmente lasciano indifferenti. Se avevano fortuna, l’avrebbero trovata mentre trafficava al cinema, a pulire la sala o a rovistare in magazzino. E infatti, prova e riprova a scampanellare, arrivò alla porta: esile, racchiusa in un maglione a dolce vita che la faceva sembrare più minuta di quello che era. Un’eterna mezza coda di cavallo, appena un elastico che le fermava i capelli biondi, si agitava sul collo. «Ciao, Carlo. Ero in platea a fare un controllo, non vi avevo sentito. Entra, entra. E lui chi è? Il tuo segretario?». «Piacere, Marani, sono un suo collega all’Eco delle Colline». Le rughe sul viso si vedevano tutte, piccole, insinuanti, ai lati della bocca, sulla fronte: nemmeno qualche accenno di trucco riusciva a nascondere la notte in bianco. «Non credo siate venuti per sapere la nuova programmazione. È per Antonio, vero?». Incrociò le braccia e si appoggiò a un angolo, gli occhi bassi che guardavano il niente. «Non sapevo, sai, che tu e lui…»: Barzetti lo disse piano, quasi per paura di disturbare la commozione nascosta di Anita. «Sì, era finita da qualche tempo, ma eravamo stati parecchio insieme, senza mettere in pubblico tutto. Né io né lui ci tenevamo. Uguali in questo. Fin troppo riservati». «Tu hai idea…». «No. Non so davvero trovare un motivo. Qualcuno dice persino che si è suicidato, ma mi pare impossibile. D’accordo, la depressione non sai mai dove porta, però… Non era il tipo di arrivare a questo. Ultimamente si era fatto più sospettoso, guardingo, diffidava di tutto e di tutti». Si guardarono in silenzio, poi toccò a lei dire quello che entrambi pensavano. «Lo so che una spiegazione deve esserci, ma ti giuro: è da quando l'ho saputo che ci penso e proprio non riesco a trovarla». Barzetti provò ad avanzare in punta di piedi: «Capita che uno viva vicino a una persona per anni e magari ci sia un segreto mai rivelato. Come siete riusciti per tanto tempo a non farvi scoprire, voi due insieme, così forse c’era dell’altro, in Antonio, nascosto a tutti». Lei scosse la testa. «Quella di stare insieme così, era una scelta nostra. Musona io


15 piemontese, musone lui terrone. C’entra pure quello stronzo del mio ex marito: avrebbe potuto spiattellare tutto in giro e la cosa mi infastidiva, per via delle chiacchiere. Immagini i pettegolezzi… Questa ormai è quasi una città, ma rimane un paese, in fondo. Lo sai di questa, lo sai di quello… In ogni caso, posso metterci la mano sul fuoco: lui con me non aveva segreti. Faceva quel che doveva sul lavoro, poi si andava in gita in montagna o mi dava una mano qui, senza farsi notare. Stop, altro non c’era». «Era iscritto a Facebook, twittava, frequentava qualche ambiente particolare o i social network?». «Per carità, quelle cose le detestava. Io sono su Facebook e Twitter, oltre a tenere il sito del cinema: mi serve anche per i contatti con il pubblico. Tu non twitti?». «No, io pago». «Eh?». «Metà delle bollette dello smartphone di mio figlio, come da regolari accordi tra genitori separati. Lui però mi dà soddisfazioni, ha successo. Si è preso più di duemila “mi piace” per un video che ha mandato su Youtube». «Roba di sport?». «Quasi: ha filmato sua madre che si incazzava al telefono con me». Anita lo guardò con un cenno divertito, una rarità in quel giorno. Poi i ricordi se la ripresero tutta. «Antonio me ne diceva di tutti i colori quando postavo qualcosa su Facebook». Concluse la frase a fatica. Stava male, ma non era lei quella che avrebbe pianto davanti ad altri. Ci teniamo anche le lacrime. Non buttiamo mai via niente, da queste parti. Tombini, binari, bulloni, utensili: in passato, prima o poi capitava di calpestare, usare, tenere in mano, anche solo guardare qualcosa con il marchio Acciaierie Berlengo. Una crisi dopo l’altra, alla fine gli enormi capannoni delle Berlengo si erano ritrovati abbandonati, alla deriva a due passi dalle colline, con la città che avanzava, portando per primi i soliti avamposti di disperati: immigrati, drogati, prostitute. Rotti i vetri, forzate le porte, finivano lì dentro per dormire o farci i fatti loro. Neanche a parlarne di soldi pubblici per rimettere tutto in sesto. L’unica soluzione era la solita: chiedere aiuto a chi i quattrini li spremeva già agli altri: catene di abbigliamento, mobilifici, supermercati, negozi di elettrodomestici a rate secolari. Fatto il centro commerciale, disegnati vialetti per zigzagare pimpanti con le borse di plastica piene, messo in


16 piedi un albergo che, anche mezzo vuoto, rimaneva pur sempre simbolo di città di mondo, era rimasto il posto, nonché la cassa discretamente piena, per il Polo Culturale Berlengo, due grandi hangar adatti a mostre, convegni, persino teatro e cinema con schermi, platea, file di sedie che sparivano o comparivano all’occorrenza. Se non tutto, quasi. Mancava la memoria, ciò che era stato quel luogo prima di finire tra prosciutti, dentifrici, balletti russi e conferenze di scrittori, ma questo era naturale. Si vive, ora, solo in un immenso presente senza fine, dove nessuno vuole invecchiare, nessuno vuole soffrire, nessuno vuole ricordare. La storia, quella con l’iniziale minuscola e senza la coreografia di corone ai monumenti, non può che finire al macero. O al macello. Qualsiasi cosa contenga: un luogo di lavoro, un incontro, un amore, un libro letto, un’esistenza intera. Conta l’oggi, il passato è muffa da ripulire a secchiate di Mastro Lindo, rimuovendo la memoria fin negli angoli, lì dove, ostinata, non se ne vuole andare. Oscurata la sua prima vita, la Berlengo iniziava la seconda ospitando l’imminente, grande mostra sul cerchio. Davanti all'ingresso dell’Assessorato alla Cultura, quasi si correva il rischio di finire spiaccicati sul manifesto che l’annunciava: una O gigantesca, rossa per metà, blu per l'altra. Disegno che dava l'aria di essere stato eseguito artigianalmente, rifiutando il compasso e persino la rustica guida di un bicchiere capovolto. Non a caso, era firmato Claudio Rovedi, artista ufficiale del Comune. Manifesti, locandine, inviti a Torino, tutti prodotti dall’ingegno di Claudio Rovedi, pittore di giunta, evoluzione del suo antenato, servitor della real corte. Sua anche la grande scultura che avrebbe accolto, oppure traumatizzato, a seconda della consistenza dei nervi, i visitatori nell’atrio del nuovo centro culturale. Un’enorme finestra scombiccherata, dai contorni frastagliati, fantasioso parto di qualche falegname su di giri causa donne, spinelli, alcol o tasse evase, conteneva un cerchio dentro al quale si dibatteva l’uomo Rovediano, sfortunatissimo parente del Vitruviano di Leonardo. Braccia e gambe allargate verso il perimetro estremo, completamente calvo, un orecchino penzolante dal lobo sinistro, il coattone modaiolo, per qualche miracolo della fisica o grazie al training autogeno, riusciva a reggersi in piedi dentro a jeans sbrindellati a livello di un apparato riproduttivo probabilmente inattivo da tempo. Che non gli sorridesse il destino, lo sottolineava l’espressione, come reduce da una giornata di pioggia in coda davanti a un vespasiano di Volgograd. La smorfia da indigestione di disgusto segnalava uno sforzo verso la libertà che nemmeno un’infornata di lassativi mai avrebbe risolto. Oppure, tanta sofferenza era dovuta ad altro: l’assurdità del posto dove l’avevano


17 piazzato, la disperazione dell’universo visto da lì o qualcosa di meno alato, tipo un calcio nelle palle, va’ a sapere. Tutto quanto riunito sotto il titolo sublime di “La Quadratura del Cerchio”. La stessa scultura, in versione mignon, era stata inviata a un drappello di giornalisti come ricordino (“Alle Berlengo andai e un regalo ti portai”) e vile strumento di seduzione in vista delle ormai vicine elezioni. Così, tanto per ricordare quanto la giunta fecit pro populo suo. «È davvero così importante ‘sta mostra?» chiese Marani davanti al manifestone nell’entrata. «Per loro, molto» rispose Barzetti, accennando con la testa all'insù, verso le stanze nobili dell'Assessorato alla Cultura. «Ci hanno speso mica male, fatti arrivare quadri, sculture e altra roba da parecchie parti. Trattasi della grande ouverture per la Berlengo, l’ultima fanfara prima delle elezioni, vuoi che ci risparmino?». Per caso oppure no, Giulio Sestrieri, capo della segreteria, aspettava Barzetti e Marani proprio a fianco del plastico della maxi operazione, piazzato nel grande salone dell’Assessorato. Se poi qualcuno, tra un saluto e l’altro, buttava l’occhio su tanta meraviglia, era doppiamente benvenuto. Capita l’antifona, Barzetti lasciò in mancia qualche complimento. Barba accuratamente mal rasata, scioltezza da Gastone Paperone transitato, nel tempo, attraverso 68, 77 e altre lotterie, Sestrieri, anfitrione diligente, staccò lo sguardo dal plastico della nascente creatura solo per condurre i due nello studio dell’Assessore Corrado Valenti. «Buongiorno» si sentirono recapitare senza eccessiva cordialità da Valenti, in piedi, mezza chiappa destra appoggiata alla scrivania, l’altra metà, più la collega di sinistra, di fuori. Naturale quanto le tette di una pornostar. Completavano il manichino, l’aria zen di chi non vede l’ora di aver altro da fare con regolare giacca e camicia sbottonata ai piani alti. La sola cosa che davvero rendeva unico Valenti era il mento: pareva puntare dritto su chi stava davanti, quasi pronto a papparselo. Non è che, comunque, lui avesse seguito ripetizioni da uno squalo per arrivare a tanta ambita posizione. Riempito un palloncino delle proprie idee, gli si era attaccato e quello era salito leggero, fino a deporlo dietro alla scrivania di Assessore alla Cultura. La mano di Valenti mollò il fascio di giornali che teneva per offrire una stretta imparentata a una richiesta di baciamano. In sintonia, sbatté lentamente le palpebre, rivelando uno sguardo caldo in vero piumino d’oca. «È chiaro che il caso del povero Capra ha la sua importanza, ma, certo, viene un po' da pensare vedendo tanto spazio dedicato ora dai mezzi di comunicazione a questa morte, scusatemi l’aggettivo, comunque


18 accidentale, quasi che essere un dipendente comunale sia una colpa, quasi che nella sua morte c'entri il suo lavoro». Intanto ripiegava la mazzetta dei quotidiani, in un mix di alta cucina tra sublime calma e decisa fierezza. «È comunque una fine strana, con qualche mistero...», azzardò Barzetti. «Una tragedia umana, direi, e come tale non possiamo ignorarla, però, scusate, proprio ora che siamo vicini a un appuntamento cruciale per il territorio attraverso il recupero di un sito industriale dismesso e l’apertura della grande mostra sul cerchio, perché, dico perché, addirittura arrampicarsi sugli specchi, oscurare questi avvenimenti con la morte del povero Capra ?». Gli vibravano anche baffi e pizzetto. Alle sue spalle, il fedele Venerdì Scudieri faceva andare su e giù la testa pensosa. «Tutto per alimentare attacchi pretestuosi a pochi mesi dalle elezioni, quasi mettendo in discussione, lo sottolineo di nuovo, persino un eccezionale evento culturale come la mostra sul cerchio». Un colpo al cerchio lo hai dato e un colpo alla botte lo ricevi, pensò Barzetti, aspettando qualche secondo per rilanciare. «Lei aveva notato qualcosa in Capra...». Non lo lasciò proseguire: «No, guardi, assolutamente niente: un ottimo funzionario. Qui, nei nostri uffici, lo conoscevano tutti. E lo stimavano, lo dico con assoluta sincerità». «Forse aveva avuto qualche amarezza o degli screzi con qualcuno…». «No, per niente. E vorrei anche dire che, dal punto di vista dell'Assessorato, queste domande mi sembrano strumentali, veramente strumentali». Era arrivato il momento di divertirsi. Pronti, via: «Potrebbe aver influito l’ansia, lo stress per la vicenda della Berlengo, con quella lottizzazione…». «Non è stata una lottizzazione, ma una riqualificazione». Il mento appuntito di Valenti puntava minaccioso la gola di Barzetti. «Tutto è stato pianificato in vista del recupero completo di un’area in disuso. La scelta del centro commerciale autofinanzia uno spazio espositivo per la cultura che, altrimenti, viste le ridotte risorse comunali, mai sarebbe sorto». Alé, impara l’arte e mettila da parte, accanto all’ipermercato, possibilmente non troppo vicino al banco del pesce, per ragioni di olfatto. Barzetti percepì un altro profumo, quello del discorso d’inaugurazione: meglio tagliare la corda prima dell’arrivo dello spumante. Pure l’Assessore si sforzò in un saluto frettoloso. Riemersero, lui e Marani, nel corridoio, con Sestrieri che ritmava la cantilena sul tentativo di coinvolgere l’Assessorato in una vicenda così triste, con


19 l’obiettivo, chiaro, di specularci sopra in vista delle elezioni. «Dove andremo a finire?» concluse lamentoso. «Guardo sul navigatore e poi te lo dico» lo confortò Barzetti. Finita la Via Crucis delle visite ai più o meno vicini a Capra, non restava che aspettare la conferenza stampa della Polizia. Manco a dirlo, due minuti dopo i saluti a Sestrieri, il cellulare di Marani squillò. Era Maria, la segretaria di redazione: appuntamento al commissariato, domani, alle 12. Un compunto padrone di casa Nicchi, attorniato dai colleghi di Torino compreso Piacentini, diede il via alle danze della conferenza stampa nello stanzone del commissariato. Su un tavolo, a lato, si trovavano ingrandimenti della foto della carta d’identità di Capra Antonio e del luogo del suo ritrovamento, il portafoglio più lo zainetto che si portava sempre dietro e che era stato trovato vicino al corpo con tutto ciò che conteneva: fazzoletti di carta, l’accendino, un pacchetto di sigarette, una bottiglietta di acqua minerale e poco altro. Più che di vedere, ci si aspettava di ascoltare. Nicchi si schiarì la voce tipo Pavarotti prima della gelida manina e attaccò. Il succo alla fine, espresso con l’identico calore della lettura dei numeri del contatore del gas, era questo: Capra Antonio fu Gennaro e Lucia, nato a Casale Monferrato, provincia di Alessandria, il 28/07/1966, professione impiegato presso l’Assessorato alla Cultura del Comune di Torino, è stato ritrovato cadavere in località Valle Camino nel comune di Signa Po, in un casolare sito su un terreno agricolo coltivato a vigneto di proprietà di Andruetto Giovanni, residente in Strada Valle Camino 12, Signa Po. Il cadavere non presentava segni di percosse, né ferite da arma da fuoco. Si ritiene che la causa della morte del Capra sia da imputarsi all’iniezione compiuta dalla vittima medesima su se stesso di sostanza stupefacente probabilmente eroina. No, cara la mia saccentona che quasi non distinguo dai maschi ed è tutto dire, non sono stati rinvenuti segni di altre presenze all’interno della piccola costruzione, oltre alla vittima. Non era comunque la prima volta che il Capra si recava in quel luogo, come rilevato da Andruetto Giovanni che colloquiò con la vittima più volte durante l’ultimo mese, avendolo incontrato mentre passeggiava tra i vigneti. Circostanza, questa, confermata dal reparto della Polizia Scientifica che, analizzato il fango ritrovato sotto le scarpe da montagna, altrimenti detti pedule, reperite nell’appartamento del Capra, ha concluso che i sedimenti appartenevano a identico terreno. Nello stesso appartamento del Capra non sono stati rinvenuti altri possibili elementi utili all’inchiesta. Su richiesta di un emerito rompicoglioni tutto perfettino, preciso che il Capra non aveva


20 precedenti per uso e detenzione di sostanze stupefacenti, ma per piccoli reati contro il patrimonio, partecipazione a manifestazione non autorizzata, resistenza e offesa a pubblico ufficiale. Il tutto datato tra il 1992 e il 1998. Alla domanda di quell’accidenti di spaccapalle pelato che andasse a quel paese, rispondo che certo, si sta esaminando anche i contatti che il Capra poteva avere sul luogo di lavoro, non esclusa la frequentazione di ambienti artistici (ovvero corrotti, questo non lo posso dire, comunque mai nessuno che fa niente) e poco conosciuti della scena culturale torinese. Sì, ovvio, come chiede conferma un altro di questa manica di coglionazzi intelligentoni, le indagini hanno interessato anche i conti bancari della vittima, non avendo peraltro riscontrato, per ora, particolari movimenti anomali. Per quanto non si esclude che un esame più approfondito della vita quotidiana e delle abitudini del Capra possa portare a risultati inaspettati. Come ho già detto, e se tutti questi paraculi, che li possino, stessero più attenti, allo stato attuale dei fatti tra le frequentazioni abituali del Capra non risultano tossicodipendenti. Le indagini proseguono comunque a vasto raggio nell’intento di fare la massima chiarezza su questo mortale accadimento e su possibili relazioni con altri episodi delittuosi registratisi in epoca recente. Per essere chiaro, se i signori sapientoni si ricordano, spacciatori ne abbiamo presi parecchi solo il mese scorso pure da ‘ste parti. Fine. «Quindi Antonio si faceva? Questa è solo una cazzata solenne». La sfuriata di Anita ottenne di risposta, poco più della faccia perplessa di Barzetti. «Cosa ti devo dire, ho solo ripetuto quello sentito alla conferenza stampa». Lei agitò un braccio per scacciare ogni dubbio: «Guarda, possono raccontarmi tutto, ma questo proprio no. Lui drogato? Ma se fumava appena quattro o cinque sigarette al giorno. Ma non scherziamo». Nemmeno un grammo dei ricordi di Anita poteva riportare a un Antonio che trafficava in un capanno nel mezzo di una vigna, a iniettarsi eroina. Si muoveva a scatti, nervosamente, la testa abbassata scossa solo da quel leggero fremito: no, no, no. «Questo è quello che pensa la Polizia» fece Barzetti, quasi per giustificarsi. «Non me ne importa niente di quello che pensano loro. È un’assurdità. È un’infamia verso Antonio anche solo sospettare che si drogasse o, peggio, che fosse diventato uno spacciatore. Cristo, Carlo, non vedeva l’ora di andarsene in montagna, camminava ore lassù in qualsiasi


21 stagione. Va bene, non era espansivo, si faceva i fatti suoi, non piaceva a tanti. E da giovane aveva passato qualche ora in guardina, dopo i cortei. Ma questo che significa?». Lo guardò dritto con tutta la tensione che aveva macinato in quei momenti. «Ma tu ci credi?». Bella domanda, di quelle a cui rispondere imitando un sottosegretario di governo: far capire di sì, elencando le ragioni del no. Perché sui fatti c’era poco da discutere. Barzetti voleva che Anita lo capisse poco a poco: quella della Polizia poteva davvero essere la verità. Era andato da lei proprio per questo motivo e adesso, al contrario, uscito da cinema, si ritrovava con tanti dubbi in più. Gli era rimasto addosso qualche frammento della granitica certezza di Anita: Capra non poteva essere morto così. «’giorno, Carlo». «Ciao, Beppe». Il postino era tirato a lucido come sempre, nel vero senso della parola: quanto gel si mettesse in quella cresta sulla testa non era dato sapere, ma a vederlo, con i capelli come un porcospino ripassato con il Vetril, probabile che tenesse da solo in piedi la fabbrica dell’unto, o quasi. Proprio per non rovinare quella composizione d’autore, il casco, viaggiando sulla motoretta elettrica delle Poste, se lo metteva appena appoggiato alla nuca. Sistemato in quel modo, non serviva a niente, si capisce, gli dava pure l’aspetto da camino ambulante, però almeno, formalmente, i superiori ordini venivano rispettati. Ciondolò la testa, avvicinandosi: «Povero Capra, guarda te. L’avevo visto qualche giorno fa. Vitaccia maledetta». Beppe era in comune: lo spicchio di Mombenasco affidato a lui conteneva casa Barzetti e casa Capra. «Che voi vuoi farci….» non è che Barzetti avesse una gran voglia di ricorrere al destino cinico e baro, tantomeno ai ricordi. Quelle tiritere precotte gli andavano di traverso, ma trovarlo il coraggio di piantare lì il povero Beppe. Poi, qualcosa poteva saperlo anche da lui. «Gli portavi tanta posta?». «Mannnno. Solite cose. Pubblicità, offerte, qualche raccomandata. Più che altro, quando lo incontravo mi piaceva parlarci insieme: cinema, teatro. Non si interessava solo per lavoro. Come me: un appassionato. E che amico, accidenti. Pensa: insisti e insisti, era riuscito a farmi fare la comparsa in qualche spettacolo allo Stabile. E persino in un paio di film che giravano a Torino. Mica roba grossa, però, insomma, uno comincia a farsi notare… Oh Carlo, te l’ho già detto. Tu magari nell’ambiente


22 conosci gente oppure vieni a sapere, se c’è una parte libera, dimmelo e io ci sono. Mi raccomando…». Era la fissa di Beppe, da sempre. Ogni dieci persone incontrate da lui nella giornata, undici ricevevano la medesima implorazione teatralcinematografica. Per ora, Beppe si limitava alla parte del postino balotelliano, cullandosi nel sogno di portare, davanti a platee adoranti, se stesso e la propria siepe tosata al millimetro infagottati nel mantello di Macbeth o in un tormento di Pirandello. Compagnie amatoriali, filodrammatiche di paese, recital d’avanguardia nei sottoscala, comparsate in film o filmucoli, lui non ne mancava uno. Di lì, sbracciava per risalire la corrente e approdare a palcoscenici di sangue blu. Un’impresa. Ma chissà: una raccomandata può portare all’Oscar. Appostato all’angolo della via, Barzetti aspettava la preda. Dall’altro lato della strada, prima o poi, sarebbe spuntato Piacentini. Aveva sempre fatto quel giro, preciso com’era, già quando accompagnava la figlia a scuola: cento metri, bacino, bacetto e poi al bar per il primo caffè della giornata. Mai variato di una virgola: questo la volpe Barzetti lo sapeva. E il leprotto ignaro si mostrò. Barzetti fece finta di sbucare da un pertugio del muro ed entrò nel bar dove già Piacentini ordinava un caffè. «Ciao, ciao» «Oh, e che ci fai tu qui?» spiò l’altro. «Prendo un caffè». Giusto, non fosse che lì Barzetti ci capitava di rado, preferendo il bar vicino al giornale. Piacentini fece ballare la bustina dello zucchero tra due dita, nell’attesa: magari era solo colpa del destino, quell’incontro. «Ti ho visto ieri alla conferenza stampa». Eccolo lì: tanti saluti al destino. «Eh sì» fece l’altro che già alla volpe meditava di fregare pelo, coda e asso nella manica. Adesso era Piacentini che, quieto, aspettava la prossima mossa. «Che mi dici?» fece Barzetti, una volta mollate le tattiche. «Niente, Che ti devo dire? Ormai è quasi tutto inquadrato. Brutta fine, per carità, ma se l’è proprio cercata». «Certi che fosse eroina?». «E cosa vuoi che fosse? Dixan?». «Scusa, ma perché?». «Perché cosa?». «Perché lo ha fatto». «E che ne sappiamo noi? Qualcosa riusciremo a scoprire, ma poi, te lo


23 dico per esperienza, proprio tutto tutto non si conosce mai. Magari hanno problemi personali, sul lavoro, con le donne, chissà, oppure leggono quello che scrivete sui giornali: il tizio spacciatore gira in Ferrari, abita in una villa di quattro piani, va in vacanza chissà dove, ha donne con tette a panettone, un mare di soldi. Insomma, ci cascano. Spacciano, la usano pure loro e finiscono così». Esposizione frutto di esperienze sul campo, chiara, piana, regolare come il ritmo di valzer del cucchiaino nella tazzina. «Ma tu ci credi?». Il cucchiaino iniziò a girare come fosse a Indianapolis. «Oh, qui non c’è da credere o non credere. Contano i fatti, punto e basta. E quelli sono quello che sono». «Più ci penso e più mi sembra strano». Dopo una breve sosta al box a bordo tazza, il cucchiaino tornò a infilarsi a razzo nel circuito. «E perché strano? Cosa c’è di strano in uno che si prepara la siringa e se la spara? Saranno migliaia i casi come questo solo in regione e non è che ci possiamo fare granché». Terminato il gran premio, Piacentini passò a tormentare la tazzina. «Io dico che nemmeno tu ci credi tanto» contrattaccò Barzetti. «Pensala come vuoi, io lavoro sui fatti, non sulle tue pensate». «Ma perché avrebbe dovuto drogarsi o addirittura mettersi a vendere la droga? Uno già di una certa età, faceva l’impiegato, pochi hobby, una donna sola, se la passava anche benino…». L’urlo di dolore della tazzina per il manico stretto a pinza non venne percepito da orecchie umane. «Non me ne frega un cazzo del perché e del per come lo abbia fatto. Qui le cose sono chiare, per il resto io non sono un assistente sociale o uno psichiatra. Oh, cazzo, che palle, ma proprio stamattina dovevo incontrarti!». La tazzina si schiantò addosso al piattino. Barzetti provò l’aggiramento mellifluo. «Non si potrebbe sapere qualcosa di più?». Piacentini stile lanciafiamme: «No, no e poi no. Ma che diavolo ti sei messo in testa? Poi tu non ti occupi di cinema, mostre, turismo, spettacoli e altre cazzate del genere? Il problema è che hai visto troppi telefilm americani con uno che arriva lì bel bello dal pianeta pippette e risolve il caso, mentre la polizia ci fa una figura stramerdosa». Gli aprì la porta del bar e lo squadrò. «Ah, eccolo lì: ti interessa la cinematografara, eh. Furbo lui, l’ha puntata e vuole ficcare il naso nella faccenda dell’ex marito per entrare in confidenza e poi… Bravo, bravo, auguri».


24 «Ma se non erano neanche sposati…». «Vabbè, fa lo stesso. Ci siamo capiti, no?». «No, guarda, è così che, insomma, se vedi qualcosa che non ti convince». «Non mi rompere più con ‘sta storia». «Non è che si può dare un’occhiata al rapporto…». Piacentini si piantò in mezzo al marciapiede. «Ooooh, ma certo. Te lo faccio mandare a casa prima che esca a dispense dal giornalaio oppure te lo rifilino gratis con i punti del supermercato. Ma dico, hai presente? Tu sei nuovo di queste faccende, però, accidenti, come fai a farmi una domanda del genere?». «Almeno qualcosina, un paio di particolari…». «Ancora. È tutto coperto dal segreto istruttoriooooooo. Non si può». Be’, sì, non aveva tutti i torti. «Almeno è morto per overdose, questo me lo puoi dire». «Te l’ho già detto: sì, sì, sì, sì, pensiamo sia morto per quello, forse per eroina tagliata male». «Ma c’era solo lui in quella casupola ieri notte?». «Di morto solo lui». «E quanto durerà?». «Cosa?». «Il segreto istruttorio». «E che ne so, fin quando indagine e lavoro del magistrato saranno finiti. Visto come stanno le cose, non penso molto. È tutto così chiaro». No, proprio tutto chiaro, no: Barzetti non riusciva a vedercelo Capra Antonio impiegato comunale a trafficare con lacci, siringhe, spacciatori, sballi. Non che un impiegato comunale non lo possa fare: era lui, Capra Antonio, che vicino a quell’armamentario non quadrava. Piacentini salutò e girò i tacchi verso la macchina, Barzetti proseguì a piedi verso la redazione. Qualcosa gli rodeva dentro, una specie di ingombro in agitazione in qualche parte nel cervello. Ma perché poi, in conclusione, non poteva essere andata come diceva il vecchio amico? Cosa importava a lui? Per un accidenti di motivo, Capra era arrivato a quel punto come tanti, gli esempi non mancavano di certo. Tutto normale, avrebbe detto Piacentini. Fregagniente, stava scritto sulla lapide che Barzetti decise di dedicare alla memoria di Capra Antonio. Arrivò in redazione persino presto, complice l’agguato a Piacentini di buon ora. L’umore era precipitato in basso fino alle cantine e da lì, il diretto interessato non riusciva a sollevarlo. Alla fine Barze si era perso


25 il viaggio in Austria e l’altro si era perso del tutto per faccende sue. Vai a capire cosa nascondeva, Capra. Non faceva certo parte della Spectre, quindi inutile girarci intorno. Nemmeno a provare con il troppo complicato. Capra aveva deciso che la vita doveva cambiare così, per una qualche ragione personale. Ci vorrebbe una scatola nera dentro ciascuno, come per gli aerei. A ogni giro di valzer sai cos’è successo, quale refolo di vento ha provocato tristezza, angoscia. Fino ad arrivare al tornado che ha sconquassato l’anima per sempre. Forse Anita conosceva il segreto, ma se lo teneva ben stretto. L’aveva detto: erano riservati al punto che ben pochi sapevano del loro legame. Stava ancora accendendo il computer per iniziare la solita trafila di articoli quotidiani quando la porta si aprì di botto. «Alessandra!»: non era nemmeno un grido, quello di Maria. La voce scomposta in un rantolo tremendo tra singhiozzi, lacrime, gli occhi spalancati. Maria riuscì ancora a scuotere la testa prima di ritornare nel corridoio seguita da Barzetti. Cosa era successo lo capì appena consumarono di corsa i pochi metri fino all’angolo del corso. Lei stava lì, forma da intuire appena sotto un lenzuolo bianco. Una sottilissima striscia rossa si allungava sul nero sporco dell’asfalto fino a raggiungere il bordo del marciapiede. Mastrantonio era chinato, la faccia mezza nascosta da una mano. Barzetti, insieme a tutti gli altri del giornale, qualche metro più in là, non si accorgeva neppure di respirare. Parole, rumori, quel frastuono intorno tra barellieri, vigili, polizia, curiosi pareva perdersi nel nulla, lontano da lui. Avrebbe voluto urlare oppure scappare e invece tutto quanto si trasformava in un vuoto senza senso. Mastrantonio, alzatosi, incrociò il suo sguardo: «Una macchina l’ha investita mentre attraversava la strada, appena scesa dal pullman. È scappato via, non si è nemmeno fermato». Qualcun altro in prima pagina avrebbe scritto del tragico incidente costato la vita ad Alessandra Vinciguerra, capocronaca del giornale, travolta da un’automobile impazzita, mentre stava raggiungendo la redazione. Il giorno dopo, i pochi rumori esistenti finivano assorbiti in quella nebbia invisibile che aveva occupato gli uffici della redazione. Finito il tempo della disperazione, era iniziato quello dell’incredulità. E delle indagini. Nicchi lo aveva chiesto a tutti, non solo a Mastrantonio: possibili nemici, minacce, avvertimenti diretti ad Alessandra Vinciguerra. Niente che valesse la pena di controllare sul serio, era stata la risposta comune: i soliti che minacciano di farti chiudere, l’altro che interesserà della cosa l’onorevole, la questura, il Papa, i marines, quello che “ti sparo” e come


26 non bastasse non comprerà mai più l’Eco delle Colline. Alla fine, tutti si limitavano all’incazzatura. Da lì, spesso e volentieri, debordavano nell’insulto, ma la minacciava restava solo e sempre detta. Impossibile trovare qualcuno, tra quei rancorosi, che la macchina l’avrebbe davvero spinta a tutta velocità contro Alessandra. «Forse drogato, ubriaco. Il fatto che non abbia nemmeno provato a frenare ci fa pensare questo, visto che un movente personale dobbiamo escluderlo. Quando ritroviamo la macchina, qualche indizio utile salterà fuori». Nicchi si era sorbito anche tutta la sfilata dei testimoni, dai passeggeri del pullman al conducente, ai passanti: alla guida un solo uomo, giubbotto scuro, cappello di lana ben calato sulla testa. Un tizio, uno qualsiasi, solo un po’ più criminale degli altri. Rimanevano le telecamere: uno dopo l’altro i filmati, come i sassolini di Pollicino, raccontavano il percorso di quella macchina. Peccato che, infilatasi poi in un guazzabuglio di traffico, finisse per diventare una Uno come tante, indistinguibile. Fasullo, taroccato, senza nemmeno le mani dei cinesi a fabbricarlo o quelle dei rumeni a infilarlo sul sito dei saldi falsofirmati, appena la bara uscì dal Duomo scattò l’applauso, sigla ufficiale dell’imbecillità. Da anni, certa umanità italiana vive nell’attesa di tornare alla culla dove il nonno prendeva le manine (bello lui, beeeellobellobello) e le faceva sbattere una contro l’altra. La moltitudine che dopo quell’esperienza non si trasforma in serial killer di anziani, finisce su sagrati, commissariati, piazze, stazioni, aeroporti. Clappete, clappete, clappete, clappete. A un funerale, poi, quel concerto strampalato dà il tocco Scala-BolscioiMetropolitan-Opera: applausi, giù il sipario. Fine della recita. Prima o poi sarebbe diventato uno spettacolone TV: la miglior claque da funerale, giudicata da tre esperti necrofori, uno almeno straniero («very codolianze, yes»), riceverà una targa all’ingresso del cimitero. Tra il battimani generale. Alessandra Vinciguerra non l’avrebbe voluto quel suono ritmato, deficiente, ma poi chi mai tra tutti gli spettatori sulla scalinata del Duomo ci avrebbe rinunciato a un numero così d’effetto, al gusto di sommare la propria applaudicchiata a quella degli altri, sintonizzandosi su quell’assurdo inno nazionale? Barzetti girò la faccia appena il trambusto festivaliero partì. Dentro, in Chiesa, Mastrantonio l’aveva salutata a nome di tutti i colleghi. Una di noi. Noi chi?, si chiese Barzetti. Noi tutti quanti, rispose tra sé, quelli che a un funerale ce ne stiamo in silenzio. Già, il silenzio: non si dovrebbe mai e poi mai buttare via. Invece, tutto finisce sommerso nel frastuono generale, nello stridore


27 di urla, rumori, menzogne. Il silenzio non è ammesso. Tantomeno il dolore: estirpato, frantumato, ridotto a zero, ad aria viziata da far sloggiare spalancando le finestre. Rimane il genere minore, in saldo, quello che scivola via disperso in un paio di lacrime. Al contrario, non ha più diritto di esistere la ferita dentro, nata nel passato e diventata, in fondo, un pezzo di vita. Il dolore da sciogliere, in solitudine o no, lasciando tempo al tempo, l’ospite mai voluto con cui fare i conti ed è inutile combattere. Niente: si corre a curarlo con l’ansiolitico alla moda, a camuffarlo da angoscia stagionale, a bombardarlo con un applauso. Tutto piallato, levigato. Un lifting dell’anima, posticcio e carognesco. Si dovrebbe esistere anche nel dolore, in fondo, per quanto male faccia. Il giorno dopo Barzetti, passando davanti alla scrivania di Alessandra, ci batté le nocche della mano sopra, un modo tutto suo, come sempre il meno appariscente possibile, per esprimere rabbia, disgusto, disperazione. Ne venne fuori un tocco sordo anche se appena accennato, attutito com’era dalla marea di carta che copriva ogni angolo libero del piano di legno chiaro: giornali alla rinfusa, fax, stampate varie, libri, opuscoli, block notes. Da sotto un paio di fogli, spuntò un piccolo cartoncino di un bianco splendente. «L’Assessore e tutto il personale dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Torino augurano un Felice Natale e un prospero Anno Nuovo». Tu guarda. Identico, lo aveva ricevuto anche lui, nella stessa scatola che conteneva la riproduzione omaggio della Quadratura del Cerchio. Strano, perché la mini Quadratura lì non si vedeva. O forse, ricevuta, invece di portarla in ufficio, era rimasta da qualche parte, magari a casa: possibile, anche se, a ben pensarci, Ale con l’Assessorato alla Cultura torinese non aveva granché contatti. Lei, all’Eco, era in cronaca, quindi se la filava poco con quella parte del capoluogo, nemmeno sotto elezioni, tutto sommato. No: fermi tutti. Barzetti si diede una scossa. Una scemenza del genere, il giorno dopo la morte di Alessandra, anche solo a sopportarla in testa per due secondi era una cosa insensata. Davvero: ma era impazzito? Curiosità morbosa, paranoia, chissà cos’era? Non se lo chiese una seconda volta. Via, cancellare tutto. Per brutto che fosse quel giorno, ora occorreva scrivere i soliti pezzi per il prossimo numero. Accese il computer e se ne stette lì davanti senza pigiare un tasto. Dietro front: se ne tornò nell’ufficio di Alessandra, deciso a controllare. No, lì la statuetta non c’era di sicuro: aveva guardato, persino aperto gli armadietti, ma la Quadratura si sarebbe vista subito. A casa? Forse, ma telefonare alla sorella per sapere se quel coso


28 era lì, puzzava di cafonaggine sopraffina. Metti che poi l’avesse regalata, che l’avesse sistemata in qualche posto chissà dove, che c’era il biglietto e solo quello. Metti che una telefonata magari si poteva fare: a Sestrieri. «Sono Barzetti, ciao». «Uh, come va?». «Siamo qui. Hai saputo di Alessandra, immagino». «Sì certo, poveretta. Brutta fine». «La conoscevi?». «Appena. L’avevo vista qualche volta. Sapevo chi era, insomma». «Ma, se non sbaglio, hai mandato anche a lei la Quadratura?». «Eh?». «Sì, la riproduzione. La stessa che ho ricevuto io». «Boh. Non mi sembra proprio. Bella, eh». «Sì, davvero, molto. L’ho messa sulla mia scrivania». La Quadratura, in bilico sul termosifone, tratteneva i lamenti dal suo misero angolo a lenta cottura. «No, è che qui sparisce ogni tanto della roba. È successo anche a me». «Lì da te, in redazione?». «Sì, sì. Libri, biro, agende. Sai com’è, con tutta la gente che gira. Precari, ragazzi in tirocinio, qualcuno che ci mandano a fare stage». Falso, ma fine. «E allora siccome mi sembrava l’avessi mandata anche a lei… e non trovando niente… pensavo che magari…». «L’avesse presa qualcuno?». «Ecco sì». «Mah, a naso direi di no. Sai, non è che con noi c’entrasse tanto». Lo pensavo, rifletté Barzetti. «Vabbè, non importa». «Dovrei controllare la lista. Poi delle spedizioni se n’è occupato Capra». «Capra?». «Sì, io ho messo giù i nomi, l’assessore ha dato una guardatina, ma in genere si fida, del resto vi conosco meglio io di lui. Poi Capra ha fatto i pacchi e spedito tutto agli indirizzi privati. Abbiamo scelto questa via diciamo, diciamo…». «Discreta?». «Ecco, proprio. Perché sai, è una cosa un po’ esclusiva, molto personale. E mandandovi i pacchi ai giornali abbiamo voluto evitare le strumentalizzazioni, sai com’è, non manca molto alle elezioni, ogni cosa è buona per fare un can can che non ti dico, guarda la faccenda di Capra». E per forza, eh. «Era un piccolo omaggio, tutte copie numerate, però da considerare… Semplicemente… un modo… originale per fare


29 gli auguri…». A novembre: chi ha tempo, non aspetta tempo. «Comunque, secondo te, Alessandra non era nell’elenco». «Mi pare di no. Aspetta che controllo….». Barzetti sentì picchettare sulla tastiera del computer. «Ecco qui, ventiquattro nominativi, molto scelti, non certo gli ultimi arrivati…». Basta con il violino, per carità. «Ci sei tu, Arneso, Guidi, Marescalchi, la Floccari, la Edoli, la Mancinelli, Vocature…No, no, niente». «Magari l’avete inserita nell’elenco degli auguri di Natale e da lì il nome è scappato…». «No, guarda, non credo proprio. Ti dico: noi con Alessandra avevamo rapporti scarsi». «Come non detto, saluti e baci, Sestrieri». Alla fine della telefonata il punto interrogativo si era fatto dieci volte più grande della tiepida Quadratura a guardia del termosifone. L’unico dell’Eco ad aver ricevuto la statuetta era lui, manco fosse stato il direttore. Auguri puri e semplici, nonché viscidi, ancora non erano stati inviati. E poi, si tornava sempre lì, Ale non era nel loro gruppo. Quindi che ci faceva su quella scrivania il biglietto dell’Assessore? Impossibile che qualcuno dei suoi colleghi avesse regalato ad Ale la Quadratura e, poi, perché mai? D’altra parte, biglietto senza statuetta suonava male: dove c’era una cosa doveva esserci l’altra. Due cose insieme, invece, c’erano: Capra e Ale. Lui si era occupato delle spedizioni, lo aveva detto Sestrieri. Potevano conoscersi, magari frequentarsi e lui le aveva regalato la Quadratura. A parte il fatto che lei gliel’avrebbe tirata in testa, dall’Assessorato non era uscita una copia in più. Erano numerate: lo aveva zufolato e rizufolato Sestrieri. Poi, buona parte di quelli con la Quadratura in mano si gustavano il prestigioso possesso e, potendo, sarebbero andati a proclamarlo fino all’Onu. Difficile, in ogni caso, che qualcuno o qualcuna dei ventiquattro destinatari l’avesse poi girato a lei: stesso mestiere, ma diversa parrocchia, per cui, tirando le somme, conoscenza superficiale. Barzetti si accorse di essere, come al solito, in ritardo con i pezzi. Tornato alla tastiera, finì per aggrapparsi a un migliaio di battute sulla Fiera dello Zucchino. Almeno, come naufragio, era biosostenibile. Ogni settimana, la stessa solfa: il solito, stramaledetto pezzo sugli appuntamenti del week-end e le gite fuori porta, talmente ghiotte da diventare l’alibi giusto per sbracarsi sul divano davanti alla TV. E mai che, per cominciare, un’ideuzza, una sola, all’istante mettesse fuori il capino dall’angolo del video. Una volta acchiappata, ci avrebbe pensato


30 poi lui a diluire per bene il tutto: duemila battute suppergiù, titolo escluso. Una brodaglia da gulag di Breznev. Invece, liquidato in mezza colonna lo zucchino in fiera, niente: il massimo dell’inventiva consisteva nell’alzare e abbassare il vezzoso coperchio di cartone con cui gli era stato recapitato il mostriciattolo della Quadratura del Cerchio. Alla riproduzione, ormai, era stato assegnato alloggio sopra il calorifero. La scatola di cartone con cui aveva viaggiato dall’assessorato a quell’angolo tiepido, stava riempiendo, invece, il vuoto creativo del locatario dell’ufficio. Plic ploc plic ploc. Alzare, chiudere, alzare, chiudere, anche rilassante e musicale, il giochino, per via della piccola calamita nel coperchio in coito, a intervalli regolari, con il minuscolo listello di ferro nella scatola. Così, l’incontro dava una soddisfazione perversa a chi lo provocava: il rumore appena accennato, lo sforzo lieve. Nemmeno da paragonare all’aprire e chiudere un cassetto. Plic ploc plic ploc: la colonna sonora ideale per i pensieri di Barzetti, incentrati su quel pezzettino di carta bianca che continuava a rigirarsi tra le dita. Gettata via la carta e tutta la paccottiglia per proteggere la Quadratura dagli urti, quel biglietto era rimasto lì, uguale a quello trovato sulla scrivania di Alessandra. «L’Assessore e tutto il personale dell’Assessorato alla Cultura del Comune augurano un Felice Natale e un prospero Anno Nuovo». Fanculo all’Assessore, al personale, al Natale e, già che ci siamo, all’anno nuovo e pure a quello vecchio. Uscì in cortile per una sigaretta. Fregagniente anche della scatola. Non aveva finito di pensarlo che una domanda gli piombò nel cervello guardando il cassonetto della raccolta carta, sistemato lì fuori, in un angolo. L’involucro della Quadratura era in cartone bello spesso, ovviamente riciclabile, perché sai il putiferio se scoprivano che l’Assessorato con la natura se l’intendeva poco. E Alessandra su quello, poi, non transigeva: giornali, buste, persino i sacchetti del pane e dei tramezzini finivano nel cassonetto verde. E se fosse ancora lì, quella forse ricevuta da Ale? «Sono già venuti quelli della raccolta carta, vetro e compagnia?». Marani lo guardò stupefatto. «Boh, e che ne so? Ogni tanto arrivano, ma non so proprio quando». Barze ridiscese in cortile, afferrò il cassonetto e girandolo sulle ruote, lo trascinò in un angolo. Lì diede il via all’operazione: dentro c’era di tutto. Cartaccia, vecchi giornali, riviste con qualche titolo sottolineato, fogli grandi e piccoli, rimasugli di fax, stampate inutili… Erano passati due giorni e magari lui era in ritardo. Forse il camioncino della raccolta si era già portato via tutto. Quasi in fondo, invece, spuntò la carta blu notte. E proprio vicino ecco la scatola:


31 aperta, rotta ai lati perché tenesse meno posto. Dentro, o almeno lì intorno, nessuna traccia della sagomatura sistemata per tenere ferma la sculturina. Barze setacciò il cassonetto, ma dei tre pezzi continuava a mancarne uno: trovati carta e scatola, l’unico assente era proprio l’involucro bianco, una specie di imballaggio in versione griffata che proteggeva la Quadratura. Srotolò la carta appallottolata: Ale aveva strappato via l’etichetta con nome, destinatario e indirizzo. Non rimaneva che una striscia bianca, collosa, il resto fatto fuori chissà come, nel cestino dell’immondizia o peggio. Barze tornò a buttarsi sulla sua sedia. La confusione perenne sulla scrivania era niente in confronto a quella nella sua testa. Ale aveva un pacco che non avrebbe dovuto avere. Rifece il percorso daccapo. Un regalo? E da chi? Uno che, sfatto il pacchetto e accortosi di quello che conteneva, lo metteva in mano alla prima amica o amico. «Tieni, è per te»: magari a chi lo riceveva piaceva pure, non si può mai dire. Poteva persino diventare uno di quei gesti esibiti tra amici, dandosi di gomito. Nessuna offesa, solo due risate. Ma una tale confidenza con uno dei nomi in lista, quelli letti da Sestrieri insieme ai rimanenti immaginati da Barzetti, non c’era, niente da fare. Meno che mai si era messa con uno di quelli. Che lui sapesse, era libera da un paio di mesi, da quando era finita con Alberto, tizio scialbetto che veniva ogni tanto a prenderla, finito il lavoro. Per dire: glielo aveva presentato, ma ricordava appena la faccia. D’altronde, non era una che spiattellasse i propri affari in giro, Ale. Sulle cose sue faceva quadrato, al contrario di altre, lì dentro. E meno male. Che l’avessero rimorchiata con la scusa della Quadratura? Prima di tutto qualsiasi se ne sarebbe andata sbattendo la porta. O se pioveva e voleva prendere tempo, avrebbe nascosto il disgusto. Un punto fisso, alla fine, si trovava con ragionevole precisione. Ale, quella scatola, contenuto compreso, non le era arrivata per giri tortuosi, ma perché diretta proprio a lei. Allora dov’era la Quadratura? A casa sua, forse. L’aveva portata lì per non farla vedere a Barze o forse gli rovinava la giornata trovarsela davanti mentre lavorava. Meglio sbatterla in qualche angolo del suo due stanze più servizi. Come dire lo stretto indispensabile per vivere quel che restava, tolto l’impegno al giornale, ovvero leggere, ascoltare musica e vedere film: libri, dvd e cd stavano un po’ dappertutto, là dentro. Barzetti ci era capitato, raramente: se Ale aveva comprato qualche film che la entusiasmava e si sentiva dell’umore giusto, lo invitava. Comunque, mai che ci fosse dell’altro. Prese la carta blu trovata nel cassonetto per riportarla lì, ma ci si appiccicò le mani. Dentro c’era anche un pezzo di scotch da pacchi, marrone chiaro, impallottato. Barze lo aprì come Arsenio la cassaforte, in


32 un gioco di pazienza cinese. All’inizio dell’altro capo, un pezzo di carta staccato era rimasto attaccato allo scotch. Barze lo sollevò delicatamente. “ANAL CHI Cal So Magne”. Scarsi, i resti delle parole stampate sopra, ma sufficienti per capire da dove provenivano. Lo sapeva bene, lui: erano i dati riportati in ogni etichetta di una bottiglia di acqua minerale, con le indicazioni dei vari componenti. Per una volta, l’ossessione di Giovanna, con le sue tiritere sul dovere di leggere ogni etichetta, ma proprio tutta tutta, era servita. Peccato che l’unica etichetta guardata distrattamente fosse quella appiccicata a Barzetti Carlo: letta pure troppo tardi, tanto da far finire tutto a rotoli. Onore a Giovanna, in ogni caso, anche per l’altro suo chiodo fisso delle bottiglie piccole da un quarto di litro, da portare in borsa, nello zainetto, oppure da sistemare nell’armadietto dell’ufficio o in macchina. Quella, viste le dimensioni, era proprio un’etichetta staccata da una bottiglietta del genere. Quasi sicuro che stava tutto insieme, carta, pacco e scotch con residuato di etichetta. Altrimenti, Ale nella fretta poteva aver riunito con destinazione cassonetto della carta, diversi rimasugli senza pensarci su, ma era una probabilità lontana. E quel tipo di acqua poteva arrivare dal supermercato dell’angolo, abituale spaccio del giornale, anche se lui quella striscia blu, bianca e verde, non l’aveva mai vista. Tre minuti dopo la commessa del market smise di spruzzare la verdura sul banco. Barzetti aveva soppiantato cavolfiori e spinaci nelle sue attenzioni: faceva su e giù il reparto acqua minerale, frizzante, naturale e lievemente frizzante. «Qualcosa non va?» chiese la donna con la certezza di avere a che fare con un paranoico. «No, è che stavo cercando... mi avevano detto di una marca con l’etichetta a strisce verde, blu e bianca». Lo guardò convinta: molto peggio di un paranoico. Sospesa la doccia agli ortaggi, teneva in ogni caso ben saldo in mano lo spruzzatore. Non si sa mai: pffff negli occhi e almeno guadagni il tempo di gridare. Quello che non serve a far rinvenire l’insalata, può pur sempre salvarti la vita. «Mah, l’acqua è tutta qui. Che io ricordi…verde, blu e bianca… Non mi pare proprio». Il maniaco dell’acqua restava impalato davanti alla catasta di bottiglie. A meno che Ale avesse comprato la minerale chissà dove o magari se l’era portata da casa, ma poi perché aggiungere un peso in più dovendo prendere il pullman? Quell’etichetta a strisce, comunque non gli suonava nuova… Un attimo prima che la proprietaria mollasse lo spruzzatore per il più aggressivo manico della scopa, Barze era uscito. Inutile telefonare, meglio andarci di persona, al cinema. Anita era alla


33 cassa che faceva i conti. Barze bruciò a tempo di record i convenevoli. «La polizia ha perquisito anche qui?». «Sono venuti, non so se fossero già andati a casa sua. Hanno guardato l’armadio dove Antonio sistemava le sue cose quando arrivava». «E che hanno trovato?». «Niente, cosa vuoi che abbiano trovato? Un ombrello, un impermeabile di quelli che si rinchiudono dentro una lampo, le bottiglie dell’acqua…». Eccole lì. «Ne aveva tante?». «Un po’. Beveva e beveva, come fanno tutti oggi. Che mania!». «Un bell’impiccio portarsele dietro da casa…». Anita fu la seconda persona in pochi minuti a guardarlo di traverso. «Ma no, le comprava qui vicino». «Al supermercato?». L’altra alzò le sopracciglia e indicò con la testa oltre la vetrata del cinema: «Là, a quel low cost». «Come si chiama la marca?». «Montivivi». Anita si sorbì un ciao frettoloso e un attimo dopo vide Barze che puntava spedito verso la luminosa a basso tasso di volt del market. Lui ci mise un attimo a trovarla: acqua minerale Montivivi, bella scritta incorniciata dalle strisce bianche, blu e verdi. La stessa etichetta che aveva visto sulla bottiglia trovata nello zaino di Capra, finita esposta sulla scrivania di Nicchi, alla conferenza stampa. Quindi, unisci bottiglia, pacco, Quadratura e trovi Capra. O meglio, una volta di più: Capra e Ale. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD



AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

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