La ragazza di venezia

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Simone Scala

LA RAGAZZA DI VENEZIA

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LA RAGAZZA DI VENEZIA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-483-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Gennaio 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova

Questo romanzo è opera di fantasia. Ogni eventuale riferimento a luoghi o persone è puramente casuale.


Agli Indignados A voi che avete capito il gioco… Le donne sono estreme: o migliori o peggiori dell’uomo. Jean de la Bruyère, Aforismi



Prologo

Nel tardo pomeriggio del 18 dicembre 1979, una bella bambina di tre chili era da poco venuta alla luce. Sua madre, ancora provata per lo sforzo, la teneva stretta fra le braccia. Nell’ospedale di Senigallia a quell’ora era un continuo via vai di gente, e medici e paramedici non facevano che correre. I parenti poi, che venivano a visitare i loro congiunti, erano un fiume in piena e non la smettevano di cianciare. Ma tutto questo non esisteva agli occhi di quei due genitori che avevano visto nascere la loro creatura. «Non abbiamo ancora trovato il nome…» fece Sofia. «Già» le rispose Tarcisio, volgendosi verso la finestra. «Siamo proprio due incoscienti» proseguì lei. «Non prendertela per ogni cosa» la corresse lui «lo sai bene che ci abbiamo pensato un sacco di volte…» «Sì, scusami. È che sono stanca.» «Non ti preoccupare, lo capisco. Con quel travaglio…» Sofia tacque per qualche minuto, mentre il marito non faceva che guardare la città addobbata a festa per il Natale imminente. C’erano soltanto loro in quell’anonima stanzetta ospedaliera. «È carina, non trovi?» «È tutta suo padre» fece lui ridendo, ma Sofia non colse la battuta. «Mi è venuto in mente un altro nome» gli disse. Tarcisio si voltò cercando il suo volto; chissà per quale strano motivo aveva come l’impressione che quello che stava per pronunciare sarebbe stato il nome giusto. «Avanti, spara. Sono curioso…» «Alissa.» «Alissa?» «Sì, Alissa» Gli occhi le s’illuminarono. «È musicale, va d’accordo con il tuo cognome e poi è poco diffuso.» In effetti quelle erano tre buone ragioni per scegliere quel nome, meditò l’uomo. «Alissa… Alissa…»


«Che ne dici?» «Ci devo pensare.» «E dai, non farmi stare sulle spine. L’ho capito, sai, che ti piace» sbuffò Sofia sorridendogli. «Alissa…» La donna gli fece cenno d’avvicinarsi al letto e riprese la parola. «Sono sicura che un giorno il mondo si ricorderà di lei. Alissa diventerà una persona importante, ne sono certa. Vedrai caro, vedrai.» Ma Tarcisio non l’ascoltava, stregato com’era da quel nome magico. «Alissa… Alissa…» non faceva che ridire a bassa voce. «Ehi caro, ma mi stai a sentire?» «Certo amore, certo… dicevi qualcosa a proposito di una persona importante.» «No, caro il mio testone che non mi ascolta. Ho detto che la nostra bambina diventerà una persona importante.» «È vero, perdonami. Ho capito male» il novello papà si piegò verso la neonata che dormiva tranquilla «speriamo che sia così.» «Sarà così, me lo sento…» Fuori intanto si era messo a nevicare, e alcuni fiocchi andavano a morire su quella finestra d’ospedale da cui si vedevano le luci della sera. L’atmosfera viveva di festa.


Prima parte La scommessa



9 Molti anni dopo…

Bilocale. Corridoio. Porta. Stanza buia. Corpo assopito di donna. Alissa si svegliò di soprassalto; guardò la sveglia. Fece per lanciarsi fuori dal letto, quando si ricordò che non doveva andare più da nessuna parte la mattina presto, visto che era disoccupata. Da un anno si trovava senza lavoro, da quando l’avevano licenziata da quella fabbrichetta di girelli in cui aveva sgobbato fin dai diciott’anni. Era stata operaia lì dentro, fra quelle mura che sapevano di bambini e di rotelle, per dodici anni e poi il nulla, via, perché era arrivata la crisi economica e il personale andava ridotto. Niente cassa integrazione, niente scuse, niente giustificazioni, soltanto la nuda e cruda verità sbattutale in faccia. Le era rimasto un pugno di mosche e appena il ricordo dell’impiego perduto. Ma c’erano il mutuo e le rate della macchina da pagare, per non parlare di tutte quelle altre incombenze quotidiane. Erano molte settimane che si dava da fare come una forsennata per scovare un’altra occupazione, ma niente, zero. “Forse potrei fare la escort” si ripeté anche quella mattina, fissando il soffitto giallo della camera da letto. In effetti quella era una professione assai remunerata, almeno da quanto aveva appreso dalla televisione qualche giorno prima, e lei disponeva senza dubbio del fisico adatto. Trent’anni ben portati, un corpo snello, gambe tornite, seni prosperosi, profondi occhi scuri e splendidi capelli lisci, ramati, che rapivano l’anima degli uomini. Prova ne era che più d’uno era finito fra le sue braccia poi però, per un motivo o per l’altro, Alissa si ritrovava periodicamente single. Da quasi sei mesi non aveva più un amante, ma questo era il problema minore in quel frangente. Sì, avrebbe potuto prostituirsi, ma sapeva in cuor suo che non ne aveva il coraggio. Perché le ripugnava andare con chiunque per denaro, perché aveva una moralità e dei principi, si disse sbadigliando fra le lenzuola, perché non era giusto.


10 Nondimeno la situazione era drammatica, e quei pochi denari di cui ancora disponeva si stavano rapidamente esaurendo. Mentre faceva pipì con la testa appoggiata alle piastrelle rosa del minuscolo bagno, pensò anche di svaligiare una banca pur di raggranellare qualche soldo o di mettersi a spacciare droga, ma presto mise da parte anche quelle idee. Eppure qualcosa doveva tentare, non voleva certo finire per strada; il suo splendido bilocale poi, non avrebbe mai voluto cederlo alla banca per nessuna ragione al mondo. Tornò in camera con quelle riflessioni in testa. Voleva vederlo. Si mise a fissarlo e lui fece altrettanto. Era lì accanto sulla scrivania. Lucido. Trasparente. E la guardava. Si rammentò del luogo in cui l’aveva trovato quattro o cinque giorni prima, lungo la via degli ontani, e rabbrividì. Qualche pomeriggio precedente infatti, non avendo nulla da fare, era andata a passeggiare nei pressi di una sterrata vicino a casa, che presentava diversi ontani su entrambi i lati. “La mitica via degli ontani” come la chiamava lei. Lì, a un certo punto, l’aveva scovato sul terreno ai margini della stradina, semisepolto, fra l’erba, sporco e con diversi insetti sopra. Lo aveva tirato fuori dalla terra, l’aveva guardato con attenzione chiedendosi che accidenti ci facesse lì un teschio di cristallo, quindi l’aveva portato nell’appartamento, ripulito e messo sulla scrivania vicino al letto. E quello era rimasto lì a fissarla e a vegliarla, di giorno e di notte. Ovviamente nei giorni successivi si era posta numerose domande sul suo conto, aveva chiamato due o tre conoscenti per chiedere consiglio, cercato su internet, chiesto ai suoi genitori ma non aveva trovato alcuna risposta plausibile. Sembrava davvero un cranio umano, se non fosse stato di cristallo, e ogni cosa in lui era precisa e proporzionata. Le orbite vuote, infatti, erano perfette così come la cavità del naso e la dentatura. A che diavolo serviva? Lo fissò ancora una volta. Ma il teschio continuava a non risponderle. Decise di non pensarci oltre e si riaddormentò. Sognò di essere ancora dentro alla piccola fabbrica di girelli nei pressi di Ponte Rio, anzi no, era sul tetto in quell’istante, a sbraitare con quei colleghi che come lei erano stati licenziati. D’un tratto tutti presero a spogliarsi in segno di protesta e lei di colpo si ritrovò, unica giovane donna presente nel gruppo di manifestanti, completamente nuda fra i colleghi maschi che si misero a guardarla con evidente interesse. Del resto le altre donne che partecipavano alla


11 protesta avevano almeno vent’anni più di lei, e non potevano competere con la sua prorompente bellezza. Così ora tutti quegli uomini, abbandonati all’improvviso gli striscioni di lotta e gli slogan sindacali, avevano preso a toccarla e a palparla. Per sfuggire dalle loro grinfie scelse d’invocare il teschio di cristallo, e all’istante si ritrovò all’interno della sua camera da letto. Era distesa sul comodo lettone e il teschio le era davanti; sembrava proprio che le stesse parlando. No, non era possibile. Invece sì, accadeva e le parole metalliche suonavano come un ordine. «Copriti» le intimò. Alissa si guardò e si accorse di essere nuda. Il petto ansante, le gambe snelle, il pube scuro gridavano la sua femminilità. S’infilò il pigiama rosa. «Così va meglio» la cosa di cristallo tacque per qualche secondo «calmati e ascoltami bene. Ascoltami attentamente.» La giovane donna annuì. «Voglio fare una scommessa con te» proseguì quello. «Quale?» era spaventata. «Desidero darti una possibilità per essere felice…» Felice. L’aggettivò le rintronò in testa. Era una parola impegnativa. Una parola immensa. Il suono di quel termine la riempì di perplessità. Comunque non disse niente. «Ti fornirò l’opportunità di sceglierti il lavoro che più ti piace, e ti darò una mostruosità di soldi» continuò il teschio. Cercando di restare lucida, Alissa si mise a riflettere. Guardò le orbite vuote. Guardò la cavità del naso. Guardò il cristallo. Si accese una sigaretta. «Perché faresti questo?» gli rispose dopo qualche tirata. «Perché hai avuto la fortuna di trovarmi.» Il cranio, serafico, scandì lentamente quella frase. «Chi sei?» «Sono Zilkor, il dio del lavoro, e intendo metterti alla prova.» «Spiegati meglio» gli fece in un tono così deciso da stupire se stessa. «Tu hai perso il tuo impiego ingiustamente, a causa di una crisi economica che non hai prodotto. Sei l’ennesima vittima degli errori altrui. Non lo trovo giusto. Quindi desidero darti un’altra possibilità, se tu lo vuoi…» Seguirono altre tirate. Il fumo avvolgeva placidamente quell’essere di cristallo. «Perciò hai fatto in modo che ti trovassi» aggiunse lei.


12 «Esattamente.» «Svelami ciò che mi vuoi dire.» Fu così che il teschio le propose la madre di tutte le scommesse; la scommessa delle scommesse, la prova suprema: trovare un lavoro che non fosse mai stato svolto in precedenza da alcuna donna e passare in questo modo alla storia. Aggiunse che lei non era certo la prima a cui proponeva quell’impresa, ma le disse che fino ad allora tutte le altre donne avevano fallito. Così le sue promesse non si erano potute concretizzare. Ma era cocciuto lui, e sicuro che vi fosse ancora nel mondo almeno un’occupazione che non fosse mai stata svolta dalle donne. «Allora?» le chiese. «Allora che?» «Accetti?» Alissa si mise di nuovo a riflettere e si accese un’altra sigaretta. Nuovo fumo, nuove tirate presero corpo. Una dietro l’altra. Ma pochi istanti dopo accettò. Non aveva nulla da perdere. «Se non riesco, cosa mi accadrà?» «Nulla» le rispose «resterai semplicemente in questa tua infelice condizione: disoccupata e senza un soldo. Dovrai sbrigartela da sola.» Ci fu una lunga pausa, in cui l’ex operaia dei girelli rimuginò tante cose. Le passarono davanti i suoi trent’anni, il lavoro, gli amori e da ultimo lo stesso bilocale che la salutava con la mano. Voleva davvero perdere tutto? Perché non tentare? Decise di buttarsi a capofitto in quell’avventura. Anzi, era smaniosa di cominciare. «Okay, d’accordo. Quando si comincia?» «Anche subito» rispose il teschio che d’un tratto divenne verde fosforescente, mentre sulla sua fronte si materializzava una parola formata da tre sole lettere. Tre lettere, tre lettere blu che potevano significare tutto o niente; “JOB” c’era scritto. «Ah, un’altra cosa…» proseguì la testa di cristallo. «Cosa?» gli fece lei, di rimando. «Dimenticavo di dirti che il tuo lavoro dovrà essere fuori dalla norma. Dovrà essere particolare.» Alissa chiuse gli occhi, tornò a stendersi sul letto e non proferì più parola. Venne il vuoto. * * *


13

Si svegliò per la seconda volta di soprassalto quella mattina di fine settembre, e cercò subito con lo sguardo il teschio. Lui era lì, fermo e muto come sempre, non era verde e non aveva impressa quella parola “JOB” da nessuna parte. D’istinto Alissa si guardò il pigiama. Era proprio quello rosa, il suo preferito. “Forse sto diventando pazza” si disse alzandosi in piedi e dirigendosi in cucina. Si preparò la colazione e guardò l’orologio a muro dell’Ikea: le dieci e mezzo di una nebbiosa mattina d’autunno. Dall’esterno arrivava il muggito del vento e turbini di foglie secche si alzavano dal suolo. Il sole opaco, attutito dalla nebbia settembrina, pareva uno sgorbio. Un’inquietudine oscura mordeva l’aria. “È tardi” rifletté. “Sì, e allora?” Tanto non aveva niente da fare, se non spaccarsi invano la testa per trovare una soluzione ai problemi economici. Si sentiva stanca, si sentiva umiliata. Umiliata perché le era stato tolto tutto senza motivo, così all’improvviso, in un giorno come un altro, per colpa dell’ingordigia degli uomini. “Potrei fare la escort” tornò a ripetersi. Le venne in mente il sogno ed ebbe un sussulto. S’impose di non tornare in camera per vedere se il teschio fosse divenuto nel frattempo verde o blu. «Finiscila ragazza» si rimproverò ad alta voce «queste cose non esistono, non siamo mica in una puntata dei Simpson!» Si mise a ridere. Fece colazione e si accese un’altra sigaretta. Erano appena le undici e già il fumo ristagnava nell’intera casa. Meglio non pensarci. Tornò in bagno, nel suo minuscolo bagno rosa. Si lavò prima le mani, perché non voleva correre il rischio di prendere la febbre che imperversava, quindi il viso e i denti. Poco dopo chiamò la madre con il cellulare, e infine andò in camera per vestirsi. Insomma la solita minestra quotidiana cucinata, però, senza più assilli. Poteva perfino essere divertente se i soldi fossero piovuti dal cielo. La vista della cosa trasparente per poco non la fece svenire. Il cranio, infatti, era diventato verde fosforescente e illuminava di una luce metallica l’intera stanza. Sulla fronte era comparsa quella parola blu, JOB, il cui significato le rimaneva oscuro.


14 Ancora fuori di sé si mise seduta sullo sgabello della scrivania, cercando di controllare la paura. Non era possibile. Non poteva essere. Tuttavia quella realtà colorata si mescolava con i suoi occhi scuri. Timidamente, molto timidamente si avvicinò a lui. Trovò persino il coraggio di rivolgergli la parola ma quello non rispondeva. Restando muto, il teschio si espandeva in quelle tinte. Cercò le sigarette ma non le trovò. Provò a richiamare sua madre ma la linea era occupata. Fuori intanto, come sbucato dal nulla, si era scatenato un temporale. Andò via la luce e il buio provò a piombare in quella stanza. Non ci riuscì, poiché quella cosa continuava a inondare la camera di verde e quel termine, JOB, brillava di blu. La giovane donna si scosse, e dopo diverso tempo trascorso a guardare quello spettacolo di luci che si frapponevano e si fondevano riuscì a tornare lucida, intuendo quello che lui voleva. «D’accordo, quel che è promesso è promesso. Accetto la scommessa» gli fece in tono di sfida. Di colpo tornò la luce elettrica, ma non travolse i bagliori psichedelici del teschio. Alissa schizzò nella sua cucina che fungeva anche da soggiorno e accese il PC. Si collegò a internet, e sul motore di ricerca digitò: “lavori strani e particolari”. Si mise in attesa. * * * Erano quasi le quattro quando tolse gli occhi dallo schermo. Aveva cercato in lungo e in largo ogni tipo di lavoro strambo e particolare che potesse esistere. Aveva letto, scrutato pagine e pagine web, inserito dati, chiesto informazioni, scovato le occupazioni più improbabili e bizzarre che potessero esserci. L’unica cosa che non capiva, però, era se fra queste ve ne figurasse qualcuna riservata esclusivamente a personale di sesso maschile. Non riteneva in verità che ve ne fosse ancora qualcuna del genere, visto che ciò avrebbe significato una chiara violazione delle leggi sulle pari opportunità fra uomo e donna, ma non si poteva mai dire, anche perché in vari Stati del mondo quelle stesse “pari opportunità” lasciavano molto


15 a desiderare. Inoltre c’era stata la proposta del teschio e questo doveva pur significare qualcosa. Perciò aveva scacciato quei dubbi che ancora l’attanagliavano, e si era comportata come se quella fosse una normale ricerca di lavoro su internet. Aveva stilato una lista dei lavori trovati che organizzò tenendo conto, anzitutto, del gradimento che quelle occupazioni “particolari” avevano su di lei, poi del grado di probabilità che potevano avere di essere riservate esclusivamente a personale di sesso maschile (almeno fino a quel momento) e infine della loro più vicina posizione rispetto a casa sua. Aveva modificato più volte quella lista, spostando di continuo un impiego da una posizione a un’altra, cancellando questo o quel lavoro perché proprio non lo riteneva adatto allo scopo, rimettendosi di nuovo a cercare, sfogliando senza sosta le Pagine Gialle. Alla fine era esasperata, ma aveva individuato per lo meno alcuni possibili impieghi. Preso l’ennesimo foglio, aveva ricopiato la lista in bella copia. Alle quattro meno qualche minuto, come detto, quella era finalmente pronta. Alissa osservò a lungo quel rettangolo di carta, testimone di quella strana scommessa, rigirandoselo fra le mani. Sbuffò. Sorrise. Sbuffò ancora. Poi lo mise vicino al PC e rifletté su come tutto ciò fosse possibile. Non lo sapeva ma ormai era in ballo. Avvertì gli stimoli della fame e si ricordò che non aveva ancora pranzato. Si preparò qualcosa, quindi si vestì e uscì subito. Doveva ballare. * * * Il primo lavoro su cui concentrò l’attenzione fu quello del restauratore di nani da giardino, sia perché le piaceva di più, sia perché era anche il più vicino a Senigallia. Spulciando sulla grande rete, infatti, aveva scoperto un’azienda impiegata in quel settore proprio a pochi chilometri, perciò non aveva avuto dubbi. Verso le sei arrivò sul posto nelle vicinanze di Marotta. Qui l’aspettava un ampio capannone. Scese dalla sua Cinquecento viola e chiese a uno degli operai notizie circa le “riparazioni” dei nani, e se vi fosse la possibilità di essere assunti. Quello la squadrò da capo a piedi, le fissò il seno e la portò dal titolare dell’azienda, un uomo esile e alto che sembrava un grissino, con la pelle scura, che era impegnato al telefono


16 nell’ufficio antistante. Pochi minuti d’attesa e perorò la sua causa lavorativa. «Non so» le rispose l’uomo dalla pelle olivastra «c’è la crisi, il lavoro scarseggia, i clienti non mi pagano, insomma non saprei dove metterla.» «Mi dia una possibilità signor Ernesto, mi metta alla prova. Ho sempre desiderato restaurare i nani fin da piccola, è la mia passione» gli disse Alissa facendogli gli occhi dolci, soprattutto dopo che si era accorta che anche lui le parlava guardando più il suo prorompente seno che non il suo viso. Dopotutto non era strano che accadesse questo, anzi era sempre stato così e lei ne era consapevole. Perché era bella e piaceva agli uomini. Sì, avrebbe potuto fare tranquillamente la escort, si disse ancora una volta, o forse la soubrette televisiva. La “numerina” magari, oppure la “letterina”, o ancora la “meteorina”, o addirittura la “pupina”. Decise di scacciare quei pensieri. L’uomo nel frattempo si era preso una pausa. Stava pensando, questo era evidente, arrovellandosi per trovare una possibile soluzione per non perdere quel pezzo di figliola che aveva davanti. «In effetti un mio operaio si è ammalato proprio ieri, e avrei bisogno di qualcuno, diciamo per un breve periodo, un mese al massimo. Se vuoi puoi prendere il suo posto» fece un’altra breve pausa, e soppesò le parole «però dovrai adattarti, dovrai essere flessibile…» Quando Alissa gli chiese cosa si dovesse intendere per “essere flessibili”, l’uomo grissino si abbandonò a un lungo discorso sulla difficile situazione delle piccole e medie imprese, sulla esagerata pressione fiscale esercitata dal governo, sugli eccessivi costi e sugli eccessivi vincoli che incombevano su quei pochi imprenditori che avevano ancora il coraggio di assumere qualcuno secondo le regole, sugli operai che erano spesso degli scansafatiche, sulle banche che non prestavano più soldi e sulle finanziarie che erano peggio degli strozzini. Dopodiché arrivò al punto: sarebbe stata assunta in nero per un mese, con l’obbligo di lavorare almeno nove, dieci ore al giorno e con una paga più che dimezzata. Prendere o lasciare. Alissa s’informò sull’esatto ammontare della retribuzione quindi accettò, strinse la mano al nuovo datore di lavoro e si accordò per cominciare l’indomani alle otto precise. Prima di uscire da quell’ufficio che odorava di stantio gli chiese un’ultima cosa: «Lavorano donne qui?» L’imprenditore dei nani si strinse nelle spalle aguzze.


17 «No, mi dispiace. Ho solo operai. Spero che questo non sia un problema…» «No, no, si figuri» gli disse soddisfatta e se ne andò via. Mezz’ora dopo, mentre faceva la fila a un distributore di benzina a pochi isolati dal suo quartiere, Alissa ripensò ai nani e a Ernesto. La prima cosa che le balenò in mente fu la facilità con cui aveva trovato quell’impiego. “Già, bella facilità” si disse amareggiata “bella facilità.” Praticamente si era calata le braghe pur di averlo. A quelle condizioni avrebbe potuto trovare di tutto, altro che crisi, altro che disoccupazione. La verità era che aveva abbassato, e di molto, l’asticella delle sue pretese. Ma erano pretese o diritti? In ogni caso la risposta finale di quell’uomo fatto grissino era stata di buon auspicio; “non ci sono donne qui, mi dispiace” le aveva detto salutandola, e senza smettere di fissarle il seno. Naturalmente questo non significava nulla, sia perché nessuno poteva assicurarle che in passato non ci fossero state operaie in quell’azienda, sia perché non aveva alcuna certezza che nel resto del mondo non vi fossero donne a svolgere quel lavoro. Diciamo che era meglio di niente. * * * «Questi sono per te» le disse quella sera sua madre, porgendole un assegno da seimila euro. Erano le dieci di sera e Sofia era andata, come spesso faceva a quell’ora, a trovare la figlia. Alissa guardò quel pezzo di carta come se fosse stato radioattivo. «Non lo voglio. Lo sai che non posso accettare, e poi questo è il secondo assegno che mi dai nel giro di un anno.» «Su, prendili e non fare complimenti. Lo so bene che non hai un lavoro e che hai tanti debiti da saldare. Dai, non farti pregare.» Sofia mise con forza l’assegno sul tavolo della piccola cucina-soggiorno. Alissa fissò quel foglietto, indecisa se rivelare alla madre del nuovo impiego e dell’antecedente scommessa con il teschio. Non le disse nulla. Al confronto il suo precedente lavoro dei girelli sembrava l’occupazione più tutelata e remunerata del mondo. A ogni modo si ribadì che aveva le sue buone ragioni per fare la schiava dell’uomo grissino. Nitida e precisa, le si materializzò davanti agli occhi l’immagine del teschio, e solo in quell’istante si ricordò di non averlo nascosto. Per


18 questo motivo lui era ancora sopra la scrivania, probabilmente sempre più verde e sempre più blu. Tuttavia se sua madre l’avesse visto in quelle condizioni si sarebbe di certo impaurita e avrebbe fatto delle domande; a quel punto sarebbe toccato a lei darle delle risposte. Sì, ma quali? E poi poteva farlo? O forse c’era il rischio concreto di mandare tutto all’aria? Senza contare il fatto che Sofia l’avrebbe di sicuro giudicata una squilibrata. Perciò con tutte quelle considerazioni che le si ribaltavano in testa, Alissa dimenticò quell’assegno sul tavolo sporco e andò come un razzo in camera. Troppo tardi. Sofia era entrata subito dopo di lei, e le raccontava di Tarcisio, suo padre, che quella sera era rimasto a letto con la febbre. Il teschio la fissò con quelle orbite glaciali o almeno così le parve. Tuttavia la cosa spaventosa era che continuava ad avere quella parola, JOB, di un blu ormai allucinante, sulla fronte, insieme a quel verde lucente, normale se si fosse stati in una spaziosa discoteca anziché in una camera da letto di un anonimo palazzo cittadino. Voltandosi rapidamente verso la madre ebbe la certezza di essere finita. Sofia invece continuava a comportarsi in maniera normale, fingendo di non vedere quel cranio più colorato di un arcobaleno. L’ex operaia dei girelli non proferì parola e la studiò per alcuni secondi, mentre questa si lamentava di quanto fossero cambiati i tempi rispetto a quando era giovane e aveva pressappoco la sua stessa età. «Sai, una volta era molto diverso, erano i giovani ad aiutare i vecchi. C’erano più opportunità di lavoro per tutti e anche la vita, bè, era meno cara. Oggi sembra che ogni cosa costi un occhio della testa. Guarda il mio maglione, quanto l’ho pagato secondo te?» «Non so mamma, quanto?» le domandò Alissa a sua volta, continuando a osservare sia il teschio che non accennava a placarsi, sia Sofia che faceva finta di niente. «Cento euro e dico cento euro in un comunissimo negozio d’abbigliamento di periferia. Non c’è più religione a questo mondo, dai retta a me. Su, andiamo di là a fumarci una sigaretta.» “Perbacco, che attrice che è diventata” si meravigliò Alissa. Aveva fatto finta di nulla, come se il teschio fosse in quelle stesse condizioni in cui gliel’aveva descritto e mostrato lei giorni prima, quando aveva chiesto anche il suo parere su quello strano e particolare ritrovamento. Ma perché Sofia fingeva di non vedere? Tornò nella cucina-soggiorno.


19 Poi capì. Ma la rivelazione ebbe il merito di farla piombare di nuovo nell’angoscia. Sua madre non faceva finta di nulla, sua madre semplicemente neppure si era accorta di quel teschio, perché ai suoi occhi non era né verde né blu, ma soltanto trasparente e per di più in una zona poco illuminata della scrivania di truciolato. Insomma, Sofia non aveva visto niente perché probabilmente non c’era niente di strano da vedere in quella stanza. Nervosa tornò ancora in camera, e fu subito inondata da quelle tinte psichedeliche. La madre intanto nell’altra stanza proseguiva con le amare considerazioni sul misero presente, soprattutto per chi era giovane. Alissa andò da lei. «Hai notato niente di strano nella camera?» le domandò. «No, perché?» fece la donna, mettendosi comoda sul divano di fronte alla TV al plasma. «Sei sicura?» «Certo. Perché me lo chiedi? Cosa c’è che non va nella tua camera? Stai bene?» Un’espressione preoccupata le comparve sul volto. A quel punto, l’ex operaia s’inventò la scusa di aver visto un enorme ragno aggirarsi da quelle parti fino a pochi minuti prima. Giocò la carta del ragno, ben conoscendo l’odio atavico che Sofia nutriva per quegli animaletti. «No, no. Non ho visto niente altrimenti sarei scappata di corsa. Mi raccomando, chiudi la porta della camera e stai attenta. Guarda bene dappertutto prima di andare a dormire.» «Sì, mamma, non ti preoccupare» le fece Alissa, sollevata per essere uscita da quella situazione potenzialmente pericolosa. Naturalmente restava l’angoscia, poiché si rendeva conto di essere l’unica a vedere quell’entità nella sua vera essenza. Che stesse impazzendo? Sofia intanto si era messa a inveire contro un provvedimento del governo che veniva reso noto dalla televisione. “Sto impazzendo?” si ripeté quella notte prima di addormentarsi mentre il teschio, riposto prudentemente su un ripiano all’interno dell’armadio, sembrava un luna park. “Sto impazzendo?” * * *


20 La mattina seguente si svegliò verso le sette e si preparò per il primo giorno del nuovo lavoro. Correva come una pazza nell’appartamento per non arrivare in ritardo. A un tratto raccolse un foglietto di carta che si trovava sul pavimento, e notò che non si trattava di un foglietto qualunque. No, quello era molto più prezioso e valeva seimila euro; era l’assegno che Sofia le aveva lasciato la sera prima. Lo prese e lo guardò di nuovo; si fermò. Dalla stanza da letto, intanto, arrivavano fin nella cucina-soggiorno i riflessi delle luci del teschio, a quell’ora ancora esaltati dall’oscurità anche se erano rinchiusi dentro a un armadio. «Povera mamma» si lasciò sfuggire, spostandosi una ciocca di capelli. Erano anni che i genitori le regalavano del denaro, perché si erano resi conto che con il salario che riceveva era abbastanza difficile pagarsi un mutuo e le rate di una qualunque macchina, anche se si trattava di una Cinquecento viola. I suoi due “vecchi”, come li chiamava lei, avevano dato tutte quelle garanzie necessarie alla banca per farle avere uno straccio di finanziamento e nel corso degli anni non avevano mai smesso di aiutarla. Alissa si rendeva conto che non avrebbero più potuto sostenerla a lungo in quel modo, poiché le avevano già dato probabilmente tutto quello che potevano. Sapeva bene, del resto, che suo padre aveva venduto il camper con la motivazione che non aveva più voglia di viaggiare d’estate, e che la madre aveva fatto la stessa cosa con la sua vecchia ma elegante automobile appena tre settimane prima. Perché preferiva andare a piedi, perché era più salutare, le aveva confessato per giustificare quella vendita, ma lei non ne era stata convinta. Le venne da piangere, e si domandò per l’ennesima volta di chi fosse la colpa di tutto questo. “Potrei fare la escort” tornò a ripetersi, ed era tanta la disperazione in quegli istanti, che abbandonandosi alle lacrime pensò di poterlo fare. Squillò il cellulare. Alissa si ricompose e guardò l’orologio dell’Ikea; era maledettamente tardi. Prese il telefono al volo, decisa a rendere quella conversazione la più breve possibile. Parlò in fretta con Mario, il suo grande Mario, e lo invitò per quella sera stessa a cena a casa sua, anche perché voleva rendersi conto se anche lui non potesse vedere le luci che provenivano dal teschio. Oltretutto aveva bisogno di compagnia e di poter parlare con qualcuno che la capisse. Lui era un buon diavolo, la conosceva fin da quando erano bambini ed era anche un pezzo grosso della politica, visto che sedeva nel consiglio regionale.


21 “Forse” rifletté uscendo di casa “potrebbe perfino aiutarmi a trovare un lavoro decente.” Fino allora non aveva mai chiesto il suo aiuto, ma se le cose proseguivano in quel modo sapeva di non avere altra scelta. Mentre guidava verso la sua nuova “fabbrica”, le tornò a galla ciò che le aveva detto Sofia la sera precedente, riguardo ai giovani che una volta aiutavano i vecchi. Perché oggi non era così? Perché i figli stavano peggio dei padri? Eppure si era nel 2009 e c’era la tecnologia, c’era internet, fra poco si sarebbe andati perfino su Marte. Era caduto il muro di Berlino, si era fatta l’Europa unita con l’Euro e tante altre belle cose. Ma allora come accidenti era che si stava meglio prima? Si destò da quei pensieri immersa nel traffico già forte a quell’ora. Più ci pensava e meno capiva; dopotutto non era strano, visto che non ci aveva mai capito molto in quelle questioni. Lei era una persona semplice che non si era mai posta simili problemi, simili misteriosi enigmi. Nulla sapeva di economia o di politica, e quando seguiva i vari dibattiti televisivi in cui venivano affrontati tali argomenti non riusciva davvero ad afferrare granché. Naturalmente la colpa era anche sua, ma la TV non poteva essere un po’ più comprensibile? In fin dei conti non tutti avevano una laurea. Arrivò puntuale sul posto di lavoro, ed Ernesto l’accompagnò all’interno del capannone dove venivano restaurati i nani. Conobbe gli operai che lavoravano là dentro: Hasan, un egiziano che doveva avere più o meno la sua stessa età, Mikhail, un bielorusso sui cinquant’anni e Diego, argentino di Buenos Aires. Ognuno le guardò il seno ma lei non ci fece caso. Non c’erano altri lavoratori lì e fu posta sotto la direzione di Diego, poiché Ernesto si ricordò all’improvviso di un impegno che lo attendeva e si eclissò con una certa fretta. Perciò fu l’argentino a iniziarla ai misteri di quella particolare professione e a mostrarle i vari attrezzi del mestiere, i solventi per pulire i nani e le colle impiegate per riattaccare dita, braccia, nasi, orecchie e qualunque altra cosa si fosse staccata dal corpo di quei buffi tipi amici di Biancaneve. Poi fu la volta dei colori, delle resine, dei profumi impiegati per riportare i nani al loro originario splendore. Dopo pranzo le venne affidato il primo incarico: riattaccare una lunga fila di nasi a una altrettanto lunga fila di nanetti che ne erano stati privati per le ragioni più svariate. Alissa si mise d’impegno. Diego le aveva già insegnato tutto quello che doveva sapere per portare a termine quel compito e lei aveva subito imparato, aveva subito appreso. Perché era sveglia, magari non


22 istruita e non portata per i discorsi sull’economia e sulla politica, ma pronta e attenta quando si trattava di adoperare le mani per raggiungere un obiettivo concreto. L’unico inconveniente fu che non appena ebbe terminato quel primo lavoro, verso le sei di sera l’argentino gliene affibbiò un altro. Lei gli fece presente che per terminare quel nuovo incarico avrebbe dovuto fermarsi più a lungo delle nove, dieci ore lavorative stabilite con Ernesto, e quello per tutta risposta fece spallucce, e replicò che quello era un ordine preciso del capo per cui non c’era nulla da discutere. Sicché nel giorno del suo esordio lavorativo nella fabbrica dei nani lavorò per ben undici ore, e tornò a casa alle otto di sera. Esausta. Fece appena in tempo a preparare qualcosa di accettabile per Mario che stava per arrivare. Fettine fritte con una ricca insalata fresca e due birre per brindare. Non c’era molto altro in frigo, e quel giorno non aveva avuto la possibilità di comprare nulla. Mario sembrò apprezzare quella cena mangiando di gusto. Bevve anche la birra e si mise a parlare. Faceva sempre così Mario; ogni volta che era suo ospite prima mangiava e poi si metteva a parlare. Le raccontò dell’impegno in politica e le chiese per l’ennesima volta se voleva candidarsi per il suo partito, in vista delle elezioni comunali che si sarebbero svolte a Senigallia fra alcuni mesi. Alissa declinò ancora quell’offerta. La politica non faceva al caso suo. Gli ripeté di non avere né la necessaria istruzione né la necessaria parlantina. No, non era quello l’aiuto che avrebbe voluto da lui. «Oltretutto non saprei proprio come comportarmi una volta eletta. Come dovrei agire? Come mi doveri regolare?» gli domandò per pura e semplice curiosità. «Oh, ma se è per quello non ti preoccupare» le fece lui di buon umore «tu fai quello che ti dice il partito e il gioco è fatto. È semplice, vedrai, ci si abitua presto. Al resto ci penserà l’esperienza e il tuo piacevole aspetto. Sei in gamba, non hai scheletri nell’armadio e sei benvista da tutti qui in zona. Penso proprio che faresti al caso nostro» si bloccò togliendosi qualcosa fra i denti, poi ripartì: «Inoltre la tua candidatura ci permetterebbe di avvicinare tante operaie come te…» Disperata com’era, Alissa immaginò per qualche istante di prendere in considerazione anche quell’ipotesi ma si ricredette subito; decise di cambiare discorso e di rivelargli la storia della scommessa con il teschio. Gli raccontò per filo e per segno tutto quello che le era capitato nelle


23 ultime ore, compreso il nuovo lavoro come restauratrice di nani, prima conseguenza di quell’assurda situazione. Mario intanto ascoltava e non diceva nulla. Si limitava a toccarsi i folti riccioli neri. Del resto sul ritrovamento del teschio era già stato messo al corrente da lei stessa alcuni giorni prima al telefono, ma non l’aveva ancora visto. Perciò quando Alissa ebbe terminato di esporgli l’intera vicenda decise che era giunta l’ora di esaminarlo da vicino. «Posso vederlo?» «Certo, e dimmi se noti qualcosa di strano.» Si alzò in piedi. Un metro e settantacinque di riccioli neri, di muscoli senza peli e di occhi grigi fatti risaltare da un maglione viola e da un paio di calzoni di velluto nero, si diressero nella camera da letto. La sua straordinaria testa, nel frattempo, la sua testa di brillante, si era messa in moto. Tuttavia lui non notò nulla di strano in quel cristallo, non vide alcuna luce blu o verde né quella misteriosa parola che tanto la preoccupava. «Cosa vuol dire JOB?» gli chiese Alissa. «Lavoro, impiego. È inglese, però non capisco perché sia scritto proprio in inglese…» Lei disegnò un punto interrogativo nell’aria, continuando a rimanere a una certa distanza dall’uomo. «Le vedi anche adesso le luci e quella parola, JOB?» la interrogò Mario, intuendo il motivo del suo nervosismo. «Le vedo» gli rispose Alissa «ti prego, rimettilo a posto e torniamocene di là. Quel coso mi rende inquieta…» Una volta seduti sul divano di fronte alla TV, Mario riprese la parola. «Se ti dà fastidio perché non te ne sbarazzi?» «No, voglio provare a vincere la scommessa, per quanto balorda possa essere.» Lui la guardò perplesso e cercò le parole giuste. «Ti senti bene?» «Certo che mi sento bene! Cosa credi, che sia diventata pazza?» Lui non sapeva cosa risponderle anche se non credeva che fosse diventata una svitata. «Desidero tenerlo e vedere come va a finire questa storia. Dopotutto non ho nulla da perdere e tutto da guadagnare» continuò Alissa, raddolcita. «Se lo dici tu… comunque per qualunque cosa puoi contare su di me, lo sai. Se dovessi avere dei problemi, chiamami e ti aiuterò.» Nel dir questo l’abbracciò teneramente.


24 Alissa avrebbe visto con sospetto quell’abbraccio se le fosse stato proposto da qualunque altro uomo ma non da Mario, dal momento che era gay. Gliel’aveva confessato una notte d’estate di dieci anni prima sulla spiaggia vicino alla Rotonda, e lei ci era rimasta male, visto che le piaceva in quel periodo. In seguito la loro amicizia aveva ripreso il sopravvento, e quella cotta momentanea, così come la sua confessione, si erano perse nel nulla. Da quel momento Mario era divenuto il suo migliore amico, il suo più intimo confidente, in una parola quel fratello che non aveva mai avuto. Ecco perché aveva deciso di rivelare a lui, e soltanto a lui, quella scommessa strampalata che aveva stipulato con quel teschio che diceva di essere un dio di nome Zilkor. Perché di lui si fidava e sapeva che non l’avrebbe tradita. Per cambiare argomento Alissa accese la televisione. S’imbatté in un servizio che stavano trasmettendo su qualche rotocalco televisivo; vi si sosteneva che il numero dei single era in pazzesco aumento in Europa. Mario prese la palla al balzo, e le raccontò la misera fine della sua ultima storia d’amore con un uomo di quindici anni più grande di lui. «Perché ogni mia relazione deve finire così?» le domandò stringendo i pugni. Alissa lo lasciò sfogare e guardò le pareti, silenziose custodi dei loro segreti. «Non lo so, magari riuscissi a capirlo. Per la verità oggi non si capisce più nulla. Non si riesce più a vivere in coppia come una volta, non si riesce più ad avere un lavoro stabile e decente, non si riesce più a combinare niente di niente. Molte volte mi chiedo se stiamo andando avanti oppure indietro…» gli rispose amareggiata. «Cosa vuoi dire?» «Una volta c’erano molte più possibilità. Magari si dovevano fare dei sacrifici ma alla fine si riusciva» qui Alissa s’inalberò, sbadigliò sonoramente, quindi riprese: «Guarda i miei genitori; sono trentadue anni che vivono insieme, hanno sempre avuto un impiego dignitoso, hanno realizzato i loro piccoli sogni e adesso si godono, anzi non si godono per colpa mia, la loro pensione.» Mario non colse quelle ultime parole e la lasciò proseguire. «Oggi invece, sembra che per noi giovani sia diventato complicato portare a termine qualunque cosa. Certo, c’è maggior benessere e maggiore istruzione in giro, ma a beneficio di chi va tutto questo? A cosa serve tutto questo se poi ci ritroviamo con il culo per terra? Dimmelo, spiegamelo per favore…»


25 Adesso era triste, davvero triste. «Cosa vuoi sapere con precisione?» le domandò lui. «Perché il progresso è sinonimo di fregatura? Perché ‘sto cazzo di progresso non fa altro che lasciare indietro sempre più gente? Come si è arrivati a questo?» Scoppiò in lacrime, e fu Mario a lasciarla sfogare. «Okay, d’accordo, ho capito. Proverò a darti una spiegazione» le disse dopo alcuni istanti, ma lei riprese subito la parola, tanta era la disperazione che aveva in corpo. «Sono innocente Mario, non ho fatto nulla di male. Perché ho perso il lavoro nella fabbrica dei girelli?» Lui le tolse una lacrima dagli occhi e tornò a stringerla. «D’accordo, d’accordo. Stai buona, non ti agitare.» Nel corso delle due ore successive Mario cercò dapprima di spiegarle il perché di quella crisi economica, per poi parlarle della globalizzazione, dell’Euro, dell’Unione europea, del caro greggio e di tante altre cose. Era preparato su quegli argomenti sia grazie al suo lavoro di politico, sia grazie ai precedenti studi e impieghi nel mondo aziendale. Laureatosi in economia e commercio giovanissimo, aveva lavorato per diverse società per alcuni anni prima di darsi alla carriera politica. Giunto a quarantatré anni suonati, poteva dire di cavarsela più che bene da molti punti di vista, amore escluso. Parlò a lungo Mario, con passione e competenza, indicando cause e mali del sistema, evidenziando colpe e responsabilità, additando possibili soluzioni e strategie. La testa di brillante brillava ancor di più quando si muoveva nel suo habitat naturale. La colpa era della finanza, insisteva, che si era mangiata lavoro e capitale. Le aziende sparivano e il lavoro non valeva più niente. Prima bastava un unico stipendio per vivere, poi due e ormai non erano sufficienti neppure quelli. Non c’era più lotta di classe, proseguiva il politico infervorato, perché non esistevano più classi sociali. Lo scontro non avveniva più tra proprietari dei mezzi di produzione e salariati, bensì tra ricchi e poveri, tra patrizi e plebei, come ai tempi dell’antica Roma. Con buona pace del ceto medio che sprofondava nella merda. E la responsabile di tutto questo gigantesco casino era sempre lei: madame finanza. «Se acquisto la polizza incendio della tua casa ho tutto l’interesse che bruci, perché farò un mucchio di soldi. Così la finanza specula sul nostro debito pubblico e su quello degli altri “PIGS”. Mi capisci?» Alissa annuiva come se avesse compreso, ma mica era vero. PIGS? E chi accidenti erano?


26 Più lui parlava meno capiva, più lui si abbandonava a quelle lunghe disquisizioni più si rendeva conto di essere una persona semplice, di non poter fare politica e soprattutto di non poter guidare il suo presente. Solo la macchina sapeva guidare, solo quella, visto che anche la sua vita stava andando a rotoli e c’era voluto un dio di cristallo per darle ancora una speranza. Verso mezzanotte il consigliere si congedò; la baciò sulla punta del naso, cercò ancora di rassicurarla e le promise che si sarebbe interessato e le avrebbe cercato un lavoro vero. A differenza delle altre occasioni stavolta Alissa non rifiutò e non fece storie; era troppo stanca e disperata per continuare a fare l’orgogliosa. Andò a dormire verso l’una di notte, dopo aver risistemato la piccola cucina ed essersi fumata alcune sigarette. Il teschio era sempre al suo posto, e lei vedeva chiaramente quelle luci filtrare dalle fessure dall’armadio. A ogni modo si addormentò tranquilla, riproponendosi di andare fino in fondo in quella storia balorda e di vedere cosa sarebbe successo. Tanto peggio di così non poteva andare. * * * Il giorno dopo le fu affidato un nuovo incarico dentro al capannone: pulire dal fango e dalle incrostazioni due nani di medie dimensioni che si trovavano lì da vari giorni. Fu un lungo e duro lavoro quello, che svolse con caparbietà e con precisione certosina, tanto che Diego osservandola disse che aveva la stoffa giusta, e che se continuava in quel modo sarebbe diventata nel giro di poco tempo un’abile restauratrice di nani. Alissa dal canto suo non prestò molta attenzione a quei complimenti, tutta presa com’era dal quel compito. Ogni tanto si rialzava in piedi e si stirava la schiena, faceva due o tre passi intorno al nano, guardava il procedere del lavoro quindi si rimetteva seduta, e riprendeva la sua guerra personale contro quello sporco che aveva assalito l’omino barbuto. Fra una strofinata e l’altra, fra un colpo di sgorbia e un altro, si accorse che quello che stava pulendo e salvando dall’incuria dei proprietari era il nano di nome Brontolo. Lo si capiva dall’espressione accigliata e severa che era dipinta sul volto. Brontolo. Certo, quello era proprio Brontolo. Brontolo era il personaggio più antipatico e scorbutico fra i nani di Biancaneve, era quello sempre pronto a prendersela per qualunque cosa non gli piacesse.


27 “Faceva bene a farlo” sorrise Alissa fissandolo negli occhi. Era giusto, infatti, arrabbiarsi quando le cose non andavano o di fronte a qualche ingiustizia, altrimenti si rischiava di mandare tutto in malora e di piangere quando era troppo tardi. Sentì una profonda ammirazione per quel nano. Non era certamente il più simpatico, questo era fuor di dubbio, ma era il più forte e il più giusto, e ciò non era poco alla fine della storia. Desiderò essere Brontolo. Se la realtà andava a scatafascio era perché da troppi anni non c’erano più abbastanza Brontoli in giro per il Paese, a far sentire la loro voce e la loro protesta di fronte ai mille soprusi e ai mille mali della nazione. Il mondo intero avrebbe avuto bisogno di moltissimi Brontoli altro che! Allora sì che le cose sarebbero andate per il verso giusto. Colpita da quelle considerazioni, Alissa tornò a fissarlo ancora una volta. Si domandò anche da quanto tempo fosse così incazzato. Poi riprese il lavoro. Quando ebbe finito di pulirlo, gli diede un bel bacio che fece morire d’invidia Diego che non smetteva di guardarla; subito dopo lo rimise dove l’aveva trovato. Adesso Brontolo era davvero lindo ed era tornato alla sua antica bellezza. Era così attraente che avrebbe persino fatto innamorare Biancaneve. L’idea di un’improbabile storia d’amore fra quel nano e Biancaneve la fece ridere di gusto. «Ehi, ragazza che hai?» le chiese Diego, nell’attimo in cui anche gli altri due restauratori poco distanti si voltarono verso di lei. «Niente, niente, ero con la testa fra le nuvole e mi è venuta un’idea divertente…» gli rispose la giovane donna, andando a prendere il secondo nano da rimettere a nuovo. Mammolo, si trattava di Mammolo. Mentre lo ripuliva Alissa capì quanto questo nano fosse diverso da quell’altro. Forte, scorbutico, scontroso ma severo e onesto quello, simpatico, debole e molle questo. Inutile dire che le piaceva più Brontolo. Ma proprio quando gli stava togliendo delle macchie presenti su di un piede, comprese che tutto sommato anche la posizione di Mammolo nei confronti della realtà e della vita poteva rivelarsi accettabile, comprensibile almeno. Certo, era una scelta che non approvava, ma restava pur sempre una scelta. Mammolo, infatti, era il tipo di nano che non protestava mai e che accettava tutto quello che gli veniva imposto. Era semplice, credulone, si fidava del prossimo e si accontentava di quello che aveva. Non si chiedeva il perché delle cose e viveva alla giornata, spensierato ma non temuto e non rispettato dagli altri suoi simili.


28 Con suo grande stupore Alissa intuì in quel frangente di essere stata Mammolo per tutta la vita, e di non averci guadagnato un fico secco. Se la prese con la sua idiozia, perché ci erano voluti quei due nani per farle intendere tante verità, quelle stesse verità che il lungo discorso di Mario della sera precedente non le aveva fatto afferrare. Era quella la grande fregatura e lei ne pagava le conseguenze: era stata sempre e solo Mammolo. Degli intensi raggi di sole conquistarono quello spazio, illuminando il viso del nano. Era grazioso Mammolo. Grazioso e perdente. Proprio come lei. * * * Il restauro del nano durò fin verso le tre del pomeriggio, poi ricevette un altro incarico: dipingere un autentico esercito di nanetti microscopici con nuovi colori, visto che quelli precedenti erano andati a farsi benedire. Questo nuovo compito la fece ammattire. Alissa vi lavorò per il resto di quella giornata e per le due settimane successive, ma anche in questo caso dopo qualche impaccio iniziale riuscì ben presto a procedere con velocità ed efficienza. Così dopo quindici giorni la giovane donna aveva ridato dignità e splendore a qualcosa come cento nanetti. Prima di iniziare a rimetterli in quelle voluminose scatole in cui li aveva trovati, la restauratrice di nani ne prese uno e vide che si trattava di un minuscolo Gongolo. Lo guardò attentamente. Era allegro lui, con quell’ampio sorriso stampato sul visino, e sembrava ringraziarla per averlo rimesso a nuovo. Domani se ne sarebbe tornato insieme ai suoi novantanove compagni in quel giardino dove era sempre vissuto, a tener compagnia al prato inglese e ai pioppi cipressini dei suoi agiati proprietari. Per questo gongolava ancor di più. Già era Gongolo di suo, figuriamoci ora. «Beato te che gongoli» gli disse Alissa senza invidia «io non ho alcun motivo per essere felice…» Da quanto tempo non gongolava più? Da quanto tempo non era felice? Cercò di non pensarci; senza neanche accorgersene mise a terra Gongolo e prese un Dotto. Subito si accorse che quel nuovo nanetto sembrava osservarla con aria severa. Dotto le riportò a galla gli studi precocemente interrotti, e provò imbarazzo nel sostenere lo sguardo erudito di quel minuscolo nano. Forse aveva ragione Sofia, che a suo tempo si era spaccata in quattro per farle capire che doveva terminare le scuole superiori; almeno quelle, le ripeteva spesso, almeno quelle.


29 Ma lei niente, non aveva voluto sentirci. Era arrivata fino alla terza e qui si era irrimediabilmente arenata. Del resto capire qualcosa in una classe formata da trenta alunni scatenati, con i professori che cambiavano ogni anno, sarebbe stata un’impresa persino per il più volonteroso degli studenti, figurarsi per lei che non amava studiare. Aveva dunque sbagliato quella volta quando aveva deciso d’interrompere la scuola; d’accordo che era stata bocciata, ma un altro tentativo lo avrebbe potuto fare. Invece aveva preferito seguire la sua volontà e aveva sbagliato. Che fosse così anche adesso? Di fronte a quell’ennesima domanda partorita dalla sua intelligenza, Alissa trasse un profondo sospiro, si passò una mano sulla fronte sporca e continuò imperterrita a rimettere a posto quei nanetti. C’era ancora molto lavoro da sbrigare. La precisione e la velocità con cui aveva risolto il problema rappresentato dai cento nanetti le fecero conquistare la definitiva stima e simpatia di tutti, a partire ovviamente da Diego. Ma anche Ernesto dovette riconoscere la sua indubbia abilità e serietà sul lavoro; quanto agli altri, poi, non c’erano problemi e lei sarebbe risultata simpatica e interessante ai loro occhi anche se fosse stata un’imbranata. Dopotutto era l’unica presenza femminile dentro a quel capannone sporco, e non passava affatto inosservata. Insomma, Ernesto l’apprezzava anche come lavoratrice mentre gli altri tre, a cominciare da Diego che era il più accalorato, soprattutto come donna. Quest’ultimo spesso esagerava. Con il trascorrere dei giorni Alissa se n’era accorta ma lasciava correre. L’importante era che venisse stimata e accettata lì dentro, in un modo o nell’altro, tutto il resto non le interessava. L’unico lato spiacevole della situazione furono appunto le continue e ripetute avances dell’argentino, che divennero esplicite dopo circa dieci giorni che era stata assunta. L’uomo divenne sempre più smanioso di averla, e lei dovette infine affrontarlo e rimetterlo in riga. Non fu facile, ci vollero due robusti ceffoni e la minaccia di denunciarlo. Lui del resto le era saltato addosso palpandola dappertutto. «Guarda che ti denuncio! Lasciami, lasciami!» gridava lei. Il restauratore sembrava non sentirla e proseguiva travolto dalla libidine. Non c’era nessuno in quel momento dentro al fabbricato tranne loro due, e Diego voleva approfittare della situazione. Lei decise di reagire, e dopo essere riuscita a liberarsi dalla sua presa gli rifilò, come detto, due forti ceffoni e gli gridò con quanto fiato aveva in gola che l’avrebbe denunciato e mandato in galera.


30 Fu proprio in quell’istante che tornò Ernesto e il trambusto attirò la sua attenzione. «Ehi, voi due! Cosa state combinando?» Diego scappò via, mentre Alissa rimase immobile, ancora stravolta per l’accaduto. Per non dire niente a Ernesto s’inventò una scusa, e il capo sembrò berla; anzi, dopo alcuni minuti se ne andò via di nuovo e lei si rimise al lavoro. Diego non tornò a lavorare prima di qualche giorno, e da quel momento smise di disturbarla. Non le rivolse quasi più la parola. Una mattina di pieno ottobre Ernesto le affidò un nuovo incarico: la pulizia del copricapo di Pisolo. Si trattava di un impegno gravoso e serio almeno quanto quello dei cento nanetti, e ad Alissa sembrò che lui ne stesse approfittando, appioppandole i lavori di restauro più duri e faticosi che gli altri tre non volevano svolgere. Insomma, stava bene con loro ma in quell’occasione si sentì per la prima volta discriminata. Le venne in mente Brontolo, e stava già per protestare quando si ricordò della scommessa e della necessità di mantenere quel lavoro il più a lungo possibile. E poi non mancava molto alla fine del mese, e forse lo svolgere adeguatamente quest’ultimo gravoso compito avrebbe convinto Ernesto a tenerla per un lasso di tempo più lungo. Perciò, animata ancora una volta da buoni propositi, la restauratrice di nani da giardino si armò di tutto l’occorrente e iniziò quell’impresa. Che si trattasse di un’autentica impresa non c’erano dubbi visto che Pisolo era alto circa tre metri, e il copricapo era proporzionato all’enorme testone. Per arrivare in cima al nano, Alissa si avvalse di una vecchia scala di legno che era fuori del capannone. Armata di santa pazienza, una volta salita in quota iniziò il solito lavoro certosino. La situazione del copricapo di Pisolo era drammatica; dappertutto escrementi incrostati, insetti morti e altre strane macchie dovute alle intemperie. C’era pure un’atroce puzza di urina, anche se non riusciva a capire chi potesse essere salito fin lassù, uomo o animale che fosse, per espletare i propri bisogni fisiologici. Pensò agli uccelli, pensò ai pipistrelli, pensò ai gatti, tuttavia quelle soluzioni non la convinsero. “Forza ragazza” si disse iniziando a raschiare via lo sporco “forza…” Pisolo la impegnò fino agli ultimi sgoccioli del mese. Ormai non restava che dargli una mano di colore e distenderci sopra alcune resine protettive. Alissa si era affezionata a quel nano gigantesco, tante erano state le ore che gli era stata sopra, giorno dopo giorno, e a quel punto


31 Pisolo era per lei molto più di un semplice nano da giardino. Sì, lui era molto di più e, come nel caso di Brontolo e di Mammolo, le aveva fornito un altro spunto per riflettere sull’esistenza e sulla realtà che la circondava. Nella vita, infatti, si poteva scegliere non solo fra l’essere forti (Brontolo) o l’essere deboli (Mammolo) ma vi era anche un’altra possibilità e cioè essere Pisoli. Naturalmente anche questa era una via, ed era quella del fregarsene di tutto e di tutti, e implicava la volontà di chiudersi in un mondo fatto di pigrizia e di fantasia, di sogni e di ristoro. Menefreghismo assoluto, per dirla semplice. Non era forse la via più giusta? Non restava perciò che essere Pisoli e sbattersene in continuazione. O forse era preferibile essere un po’ di tutti e tre? Immersa in quelle considerazioni, Alissa non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi che la scala su cui lavorava da vari giorni non era più adatta a sostenere il suo peso. Perciò cedette di colpo, e lei finì sul pavimento battendo violentemente la testa. Svenne e si svegliò soltanto più tardi all’ospedale. Qui rimase ancora intontita per qualche giorno poi fu rimandata a casa. Sofia e Mario si presero cura di lei fintanto che non poté tornare alla vita normale. Per la verità Sofia le tenne il muso per la storia dei nani, visto che non sapeva niente, ma poi le passò. Nel frattempo proprio quel lavoro di salvatrice di nani da giardino si era concluso, dal momento che il mese fatidico era appena trascorso. La conferma di ciò l’ebbe ventiquattro ore dopo il ritorno a casa, e fu Ernesto che glielo comunicò al cellulare, dicendole che Lazzaro, il restauratore che lei aveva sostituito, aveva terminato i giorni di malattia ed era tornato al lavoro. L’uomo grissino dalla pelle scura proseguì il discorso facendole i complimenti per come si era comportata nella sua piccola azienda, la rassicurò sul fatto che le avrebbe spedito lo stipendio a casa decurtato ovviamente degli ultimi giorni in cui non aveva lavorato, le chiese come stava, quindi concluse quella conversazione augurandole ogni bene e non chiudendo alcuna porta per il futuro. «Non si può mai sapere. Magari fra qualche tempo possiamo avere ancora bisogno di te» le disse lui, credendo di tributarle chissà quale onore «tu intanto riprenditi e torna in forma. Auguri e arrivederci.» Il cellulare tornò muto. Alissa in verità era abbastanza rammaricata. Le spiaceva di dover abbandonare quel lavoro, e le spiaceva di essere andata via in quella


32 maniera balorda, così, da un giorno all’altro, soltanto per colpa di una vecchia scala di legno. Era stata sfortunata, questo era indubbio. Andò in camera per vedere come se la passava il teschio; fece scorrere l’anta dell’armadio e se lo ritrovò lì, sempre verde e sempre blu con quella parola che non smetteva di fissarla. L’ambiente trasudava colore. Chiuse di nuovo l’anta, andò in cucina, accese la TV e si mise a tagliare dei finocchi per la cena. Erano le otto e fuori era già arrivata la neve. Iniziò il telegiornale e riversò su di lei la solita sequela di notizie: idiozie, donne nude, idiozie, omicidi, truffe, ancora idiozie, scioperi dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici di un’importante azienda che restaurava nani da giardino in Canada con tanto di scontri con la polizia, i numeri del lotto, le previsioni del tempo, la pubblicità, e infine un’avvenente annunciatrice che elencava i programmi per la serata. Con un vistoso cerotto sulla testa che le doleva ancora molto, unica testimonianza che le restava del suo precedente impiego, Alissa non ebbe alcuna apparente reazione di fronte alla notizia dello sciopero dei restauratori e soprattutto delle restauratrici di nani in Canada, ma sperando di aver capito male ne cercò la conferma su internet. E la conferma non tardò ad arrivare. Era tutto vero e le notizie riportate dal telegiornale coincidevano con quanto aveva appreso poco prima. Scaricò anche un video in cui si vedevano chiaramente delle restauratrici di nani caricate dalle forze dell’ordine. La motivazione di quell’imponente sciopero stava nel fatto che il governo di quello Stato aveva emanato una nuova legge che aumentava il prelievo fiscale ai danni di quei lavoratori, con la motivazione che c’erano sempre più nani nei giardini dei canadesi per cui il lavoro era aumentato a dismisura, e dunque era giusto che pagassero più tasse. Alissa imprecò dandosi della stupida, poiché quella era la prova lampante che quell’occupazione era già svolta da alcune donne, magari non in Italia ma nel resto del globo evidentemente sì. Era stata troppo superficiale e non si era informata a dovere. Aveva soltanto perso del tempo prezioso. Quello non era l’impiego giusto e non le avrebbe fatto vincere alcuna scommessa. Forse avrebbe dovuto perfino immaginarlo, visto che il dio non aveva smesso di lampeggiare come un luna park e non le era più neppure comparso in sogno; sì, forse avrebbe dovuto aspettarsi che non sarebbe stato così facile superare quella prova. Si ripropose di essere meno avventata per il futuro, e di non buttare al vento altre occasioni.


33 Quella sera andò a letto amareggiata, e ancora provata da quella terribile caduta. Ma ebbe un incubo che la fece svegliare di soprassalto nel pieno della notte. Sognò che Pisolo si era all’improvviso animato, e aveva preso a inseguirla per possederla. Era nudo Pisolo e soprattutto aveva un fallo enorme, proporzionato al resto della sua gigantesca persona, che si ergeva minaccioso verso di lei. Davanti alle smisurate dimensioni di quell’arnese Alissa non aveva potuto far altro che fuggire via ma invano, poiché Pisolo stava ormai per acciuffarla. Soltanto il pensiero di sentire quel coso gigantesco fra le cosce la faceva star male, l’idea poi di essere posseduta da quel nano semplicemente la terrorizzava, per cui quando fu intrappolata fra le sue braccia si mise a urlare. Urlò a squarciagola finché non si svegliò. Guardò la sveglia: le quattro del mattino. L’ex restauratrice di nani si alzò scossa e spaventata, e andò a respirare l’aria della notte sul balconcino che dava sulla strada interna del quartiere. Faceva freddo, e la luna imbiancava la notte bagnata di neve. Il candore si sposava al silenzio. Aveva indosso soltanto il pigiama ed era scalza. Se ne stette ferma a guardare quello spettacolo notturno per diversi minuti con il cervello in stand-by, quindi rientrò dentro e tornò a letto. Prima di riaddormentarsi ritornò sull’incubo appena fatto, e lo giudicò davvero terrificante, più terrificante di quel sogno di un mese prima in cui aveva incontrato il teschio. Soltanto che in questo caso il cranio di cristallo non c’entrava nulla. * * * Fu tutto molto veloce: la completa guarigione e la successiva caccia al secondo lavoro “particolare” della lista. In men che non si dica, infatti, Alissa si ritrovò a lavorare in un’azienda fanese a mezz’ora di strada da casa, e ad adoperare il suo grazioso naso all’insù per testare l’efficacia d’ogni tipo di profumo e di deodorante fosse prodotto in quel luogo. Tutto fu rapido, rapidissimo: la ricerca dell’impiego, il contatto con il titolare dell’azienda, il solito colloquio capestro e la conseguente assunzione in nero con una miseria di stipendio e naturalmente a tempo. L’unico aspetto positivo consisteva appunto nel tempo, nel senso che in questo caso i mesi in cui avrebbe adoperato il naso lì dentro sarebbero stati ben sette. Per il resto il lavoro non le piaceva affatto, l’aveva trovato ripugnante fin dal primo istante in cui aveva dovuto odorare le ascelle


34 poco pulite di un signore che fungeva da “cavia”, per verificare se uno degli ultimi rivoluzionari deodoranti lì prodotti fosse efficace o no. La scarsa igiene di quel signore così come quella degli altri e delle altre che si prestavano come “cavie” era naturalmente voluta, visto che soltanto in quella maniera era possibile stabilire la bontà dei prodotti in questione. Perciò Alissa si era abituata molto presto ad avvicinare le narici a diverse parti del corpo umano; dalle ascelle alle dita dei piedi e delle mani, per arrivare ai polsi, al collo e alle zone del capo dietro alle orecchie. In qualche caso si era dovuta perfino avvicinare all’inguine, ma mai per fortuna in punti troppo pericolosi. Due volte era svenuta tanto era il tanfo che l’aveva travolta, e in un’altra circostanza aveva vomitato. Spesso le capitava di avere mal di testa quando rientrava a casa la sera. La colpa era ovviamente di tutti quei profumi e della relativa puzza che si sorbiva ogni giorno, cinque giorni su sette. L’unica cosa per cui teneva duro, era che lì dentro non c’era e non c’era mai stata nessun’altra donna che avesse svolto quella stessa occupazione. Gliel’aveva assicurato Fabio Fabiano Fabioni, il titolare, e non aveva avuto più dubbi. Per lei poi, che era una maniaca dell’igiene, questo era davvero il colmo. Talvolta era così insopportabile quella puzza umana, che evidentemente i prodotti non riuscivano a coprire o a cancellare, che non appena tornava fra le mura domestiche non faceva altro che lavarsi come una forsennata per togliersela di dosso il prima possibile. Altrimenti quella puzza le avrebbe infettato il cuore, le avrebbe corroso l’anima. Stavolta però, dato che il lavoro le faceva proprio schifo, cercò subito di sapere da internet se da qualche altra parte nel mondo ci fosse almeno una donna che svolgesse quella sua identica e disgraziata occupazione. Ne sarebbe bastata soltanto una e tutto sarebbe stato inutile. Era vero che si trattava di un’autentica schifezza, comunque restava pur sempre un lavoro e con la crisi occupazionale che c’era non era sicura di essere la sola a farlo. In conseguenza di ciò cercò in lungo e in largo sulla rete ma niente, non trovò nulla che potesse alimentare i suoi sospetti. Bene, questo voleva dire che aveva trovato il lavoro giusto e che doveva soltanto tenere duro. Un attimo dopo, però, si accorse che quella non era affatto un’occupazione con cui poter passare alla storia, non aveva cioè la giusta importanza né il giusto credito. Come faceva un lavoro del genere a essere innalzato sugli altari della gloria? La valutatrice di odori se lo chiese mentre annusava un paio di piedi di una vecchia raggrinzita, che puzzavano come se fossero stati immersi in una vasca di sterco.


35 Decise di allontanare quella domanda e di concentrarsi sul lavoro; in fin dei conti non poteva avere tutte le risposte. «Ehi Marco, questo nuovo prodotto non funziona» gli fece Alissa rialzando le narici da quel supplizio «qui c’è una puzza così terribile da far resuscitare un morto!» «Sì, sì» le rispose lui congedando la vecchietta che si era sentita un po’ piccata per quell’ultima frase. «Lascia perdere e vieni qui. Mi serve il tuo naso su queste chiappe. Ora!» le intimò con i suoi modi burberi. «Sulle chiappe di quest’uomo?» domandò Alissa, preoccupata. «Mi hai capito. Forza, non farti pregare e avvicina il naso al deretano del signore.» Il signore con le braghe calate da parte sua non batteva ciglio, come se quella fosse la situazione più naturale del mondo. Dopotutto centoventi euro al giorno per fare la cavia non erano pochi, soprattutto in tempo di vacche magre. Mentre Alissa stava suo malgrado avvicinando il naso a quel sedere peloso, ecco che avvenne quell’eventualità che giustificava l’alto esborso quotidiano di soldi per le cavie. All’improvviso, infatti, il culo dell’uomo divenne di un viola così intenso da accecare, e subito dopo il poveretto iniziò a grattarselo paurosamente, con le unghie sporche che affondavano nella sua stessa carne. Allergia, intolleranza, prurito, dolori, shock anafilattico, quelle erano le parole che terrorizzavano le cavie e che facevano sì che fossero diventate così rare, specie negli ultimi periodi, dopo che alcune di loro erano rimaste stecchite a causa di un prodotto difettoso per nascondere la puzza delle narici intasate di caccole. Il poveretto fu bloccato e portato in ospedale, e per quel giorno Alissa si ritrovò ad annusare la solita quindicina di ascelle sudate e rancide. S’immaginò anche, fra un’ascella e l’altra, che se tutto fosse andato male e avesse perso la scommessa avrebbe potuto sempre fare la cavia, e farsi annusare dappertutto. Ma l’immagine del suo culo viola le fece subito cambiare idea. No, forse era meglio fare la escort, si disse un secondo dopo, mentre alcune gocce di sudore dell’ascella di una signora che pareva un’oliva le bagnavano il viso. Sì, era decisamente preferibile fare la prostituta d’alto bordo. Due minuti dopo corse in bagno a pulirsi. E pensare che ogni cosa in quell’azienda le era sembrata garbata e positiva, quel giorno in cui vi era andata per la prima volta per incontrare il titolare. Spazi ampi, puliti, numerosi uffici al primo e al secondo piano, personale cordiale e disponibile ad accogliere una sconosciuta e a


36 indirizzarla dove avrebbe dovuto essere ricevuta, pareti verniciate da poco che sapevano di fresco, ampi corridoi formati da giganteschi finestroni che permettevano di ammirare lo splendido giardino esterno, smisurati profumi e deodoranti di cartapesta che accoglievano il visitatore di turno, tanto perfetti e vivi nelle loro forme sgargianti da sembrare veri, e poi piante, quadri, libri antichi e acquari in ogni dove. In effetti sembrava più un albergo che una vera e propria azienda, e non c’era confronto con il capannone dei nani da giardino. Anche il titolare, il signor Fabio Fabiano Fabioni, nulla aveva a che fare con Ernesto: spilungone, grissino, scuro quello, basso, tozzo e con i capelli annegati nel gel questo. Insomma era finita davvero in un altro mondo, e si era illusa di potersi trovare bene e di potercela fare. Ma la verità era che questo secondo impiego “particolare” si stava rivelando una vera fregatura. Qui non c’erano mai soddisfazioni ma soltanto schifezze, e anche con i colleghi maschi non aveva affatto solidarizzato. Per lei erano solamente dei nasi sfortunati come il suo sottoposti a quel martirio. Erano in tutto una ventina, e fra loro non vi era proprio un uomo normale. O ragazzini appena usciti da scuola al loro primo impiego o vecchie mummie che così facendo arrotondavano la magra pensione. Di connazionali pochi, di stranieri molti. Dopo cena guardò la TV. Perché poi quelli non la notassero restava per lei un mistero. Forse la ragione per cui sembravano indifferenti al suo fascino sensuale era dovuta proprio a tutte quelle schifezze che annusavano quotidianamente, e la valutatrice di odori aveva come l’impressione che oltre al naso quelli si stessero consumando anche la virilità. “Ma che accidenti mi importa?” si chiese un secondo dopo, sgranocchiando delle noccioline americane. Lei era lì per ben altro motivo che non fosse quello di farsi ammirare da quei nasi. Nasi stanchi, nasi mosci come i rispettivi piselli. Pensò senza un motivo a Marco, il controllore, il suo diretto superiore e una smorfia amara le dipinse il volto. Marco era anche lui del 1979, era laureato ed era pure un bel ragazzo anche se ciò non le interessava. Durante il lavoro era molto severo, ma poi durante la pausa pranzo o nel mezzo di qualche tempo morto che pure si presentava ogni tanto diveniva cordiale, e riusciva perfino a dialogare con lei. Le aveva raccontato tante cose, e Alissa adesso sapeva che lui lavorava in quell’azienda da circa due anni ma che non aveva mai percepito alcuno stipendio.


37 “Stage” era la parola magica, grazie alla quale si riusciva a far lavorare dei giovani laureati, e non solo loro, molto spesso gratis all’interno di quella come di qualunque altra azienda del Paese. Era sempre meglio di niente, le aveva raccontato Marco durante uno dei primi giorni di dicembre, così intanto si faceva esperienza, si arricchiva il proprio curriculum, si entrava nel mondo del lavoro. Inoltre “Don Fabio” gli aveva promesso che al termine dello stage lo avrebbe assunto in pianta stabile, e gli aveva prospettato una luminosa carriera all’interno di quelle mura profumate. Anche lui aveva iniziato come semplice “naso”, ma poi grazie alla voglia di fare era progredito, si era migliorato, e da semplice annusatore si era ritrovato a fare il controllore prima di due o tre nasi, in seguito di cinque, sei, per arrivare a dieci. La sua adesso era una posizione abbastanza importante e piena di responsabilità, le aveva detto, e che prometteva di evolversi ancora. Insomma, con quello che aveva studiato all’università quel lavoro non c’entrava nulla, tuttavia lì si sentiva apprezzato e aveva la possibilità di crescere professionalmente, e un giorno perfino di essere assunto a tempo indeterminato. «Però tu lavori gratis…» gli aveva sibilato Alissa «ci credo che il padrone ti tiene stretto.» Marco per tutta risposta aveva rivolto lo sguardo altrove, e aveva replicato che stava investendo su se stesso, che si stava formando, che si stava costruendo una professione per il futuro. «Ma il tuo presente, il tuo guadagno, quando arriverà?» gli aveva domandato lei. «Presto, presto. Ora non mi resta che un altro anno di stage e poi verrò assunto, Don Fabio me lo ha promesso.» Alissa nutriva seri dubbi al proposito, anzitutto perché Don Fabio le appariva uno spietato affarista, che sfruttava il prossimo per i suoi interessi economici, secondo perché con la crisi che c’era non credeva proprio che avrebbe mantenuto la parola. Ma si tenne quelle considerazioni per sé. Era un tipo curioso Marco, sembrava lavorasse quasi per la gloria tanta era l’indifferenza che mostrava per il lato economico della vicenda. Tutto questo perché viveva ancora con i genitori ed era totalmente sulle loro spalle; paghetta mensile compresa, come le aveva confessato una volta arrossendo. Sì, insomma, lui lavorava gratis per Don Fabio e riceveva ogni tipo d’aiuto dai genitori in un’età in cui non era più certamente un ragazzino. Alissa aveva sempre più nostalgia della sua cara e vecchia fabbrica di girelli, dove era entrata a diciott’anni, e dove senza troppi fronzoli e


38 senza troppe perdite di tempo le era stato insegnato un lavoro per il quale aveva sempre ricevuto alla fine d’ogni mese un regolare stipendio. Tutto a norma in definitiva, tutto secondo la legge. Certo erano altri tempi, certo la paga era quella di un comune operaio ma era pur sempre qualcosa, era pur sempre meglio di niente. Ormai non aveva più neanche quella, e basava l’intera esistenza su una scommessa con un essere di cristallo. Chi, dunque, fra lei e Marco stava peggio? Un martedì prima di Natale decise di invitare Marco a cena a casa sua; ma non voleva portarselo a letto, era soltanto curiosa di conoscerlo meglio. Chiacchierando del più e del meno cenarono velocemente, perché alle nove sarebbe stato trasmesso in TV un film che entrambi volevano vedere. Dopo il film ripresero a parlare; prima il commento sul film, poi qualche battuta piccante su quel famoso attore o su quella famosa attrice che aveva appena recitato in quella pellicola hollywoodiana, quindi un improvviso e inconsueto sfogo di Marco contro l’America e in particolar modo contro l’Arkansas. Perché proprio contro l’Arkansas lei non riusciva a capirlo. Alla fine arrivò il silenzio, un silenzio di piombo, e Alissa ne approfittò per porgli una domanda che le frullava in testa. «Non pensi che ci stiano rubando il futuro?» Il silenzio metallico prese la forma di un ghigno. «Perché?» le domandò lui a sua volta. «Non so, ma ho come l’impressione che noi giovani stiamo sprecando il nostro tempo. Stiamo buttando via i nostri anni migliori in attesa di un domani che non arriverà mai.» Alissa sapeva che lui molto probabilmente non la pensava in quel modo, ma decise ugualmente di intavolare quella discussione. Marco era un tipo singolare, almeno secondo lei, e perciò desiderava conoscere la sua opinione. Vedendolo meditabondo riprese la parola: «Voglio dire che se a trent’anni non abbiamo ancora alcuna certezza nella vita, a partire da quella lavorativa, e sopravviviamo grazie ai nostri genitori, qualcosa di sbagliato deve pur esserci, non trovi?» «Be’, in effetti qualcosa che non va per il verso giusto credo che ci sia…» ammise lui, pensieroso. «Mia madre mi ha detto che ai suoi tempi era tutto molto diverso e i giovani facevano i giovani: mettevano su famiglia, facevano figli e lavoravano. Perché oggi non è più possibile?» «Forse è colpa della crisi economica, della globalizzazione…» tentò il controllore dei nasi.


39 «Oh, non parlarmi anche tu di queste cose per favore. Non riempirmi la testa con queste nozioni difficili, ti prego. Sono una persona semplice io, e poi non credo che questa sia la risposta giusta.» Lei si alzò dal divano. «Ma allora chi è il responsabile?» la interrogò Marco, alzandosi anche lui. «Non lo so, credimi. Non ho la soluzione a questo problema, però purtroppo è così. Ci stanno fregando Marco, ci stanno rubando la nostra vita e il nostro futuro e io non so ancora di chi è la colpa» ammise seria. «Io ho la mia carriera dentro all’azienda…» cercò di difendersi lui. «Già, la tua bella carriera gratuita…» ridacchiò Alissa «guardati da Don Fabio, dai retta a me e fatti dare delle precise garanzie. Segui il mio consiglio o ti ritroverai con il culo per terra fra un anno.» «No, non è come dici tu, Don Fabio è una brava persona» protestò Marco «mi ha fatto tante promesse, mi ha dato molte rassicurazioni.» «Guardati da lui, te lo ripeto» gli fece decisa «non mi piace quell’uomo, non è sincero a mio avviso. Non lo vedi com’è sempre curato ed elegante, non glielo vedi quel suo meraviglioso orologio al polso e non hai notato la fuoriserie?» «Che male c’è a essere ricchi?» replicò Marco. «Niente, è ovvio. Peccato soltanto che non faccia altro che sfruttare i dipendenti. Parla con gli altri “nasi” e magari ne scoprirai delle belle. Io l’ho fatto, una sera dopo il lavoro, e ho scoperto che molti di loro lavorano in nero, come me, e percepiscono perfino uno stipendio più basso del mio perché sono stranieri. Ti ripeto che non mi piace quell’uomo, mi dà i brividi.» «Ma avrà le sue ragioni per comportarsi in questo modo» protestò il controllore. «Sì, come no. Sembra proprio che la crisi economica esista soltanto per giustificare quello sfruttamento che applica ai dipendenti, altro che storie!» concluse Alissa. «Ma, non so, forse, magari…» Marco appariva confuso e non sapeva cosa controbattere. «Perché non tratta meglio i suoi lavoratori e non dà loro quello che è giusto? Perché non vende la sua meravigliosa macchina? Perché non ti assume mai?» era diventata quasi paonazza, tanta era la rabbia che aveva in corpo di fronte all’evidenza dei fatti. Marco si era fatto muto. Di fronte alla realtà c’era poco da dire, c’era poco da inventare e le chiacchiere stavano a zero. Lui lo sapeva, era da un pezzo che lo sapeva, ma aveva scelto di non voler capire, aveva scelto


40 di far finta di niente e di credere ai sogni. Sbagliava, oh se sbagliava, ma che altro avrebbe potuto fare? Lui era un semplice ingranaggio di un sistema ingiusto che fregava sempre gli ultimi arrivati. Doveva stare al suo posto e accettare la finzione, accettare lo sfruttamento nella speranza di un cambiamento, nell’utopia di un miracolo. Non aveva scelta. Perché lei non lo capiva? Con la fronte imperlata di sudore, il giovane controllore si affidò di nuovo a quel piombo nutrito di silenzio che pareva scrutarlo, mentre Alissa continuava a parlare e non la voleva smettere. Ogni sua parola era una frustata, ogni sua parola era intollerabile. Poco dopo preferì andarsene. La salutò con cortesia, la invitò a essere più calma e a non dire quelle cose dentro all’azienda, quindi si chiuse il portone dietro le spalle. Lei se ne rimase ferma davanti all’uscio di casa, chiedendosi se non avesse esagerato. Poi sparecchiò la tavola, si fumò le solite sigarette sul balcone ricoperto dalla neve, e infine andò a vedere come se la passava il teschio dentro all’armadio. Stava bene, se ne accorse subito, lo dimostrava il solito gioco delle luci di notte ancor più intenso. Fissò la parola JOB e si domandò, rimettendolo a posto, che razza di mondo fosse divenuto quello in cui persino un normale lavoro sembrava un lusso. * * * I giorni trascorrevano lenti, fra la monotonia, la puzza del lavoro e la speranza che qualcosa cambiasse e che il teschio si dichiarasse sconfitto. Questo però non accadeva, tuttavia Alissa aveva deciso di non pensarci e di rispettare la durata dell’impegno lavorativo stabilito in precedenza con Don Fabio: sette mesi appunto, soltanto sette mesi. In cuor suo auspicava che al termine di quel lasso di tempo il teschio avrebbe riconosciuto il suo trionfo e l’avrebbe ricompensata, anche se c’era una parte di lei che continuava a non fidarsi e non credeva che quella prova potesse essere vinta tanto facilmente. Eppure sembrava proprio che fosse l’unica donna a svolgere quel lavoro sulla faccia della Terra. Stavolta, infatti, non era stata superficiale e aveva continuato a cercare su internet qualunque notizia che riguardasse quella particolare professione, ma non aveva trovato niente che potesse interessarla; aveva sfogliato diversi giornali e riviste, seguito più del solito la televisione la sera ma niente, nulla di strano o di pericoloso per quel patto con quell’entità di cristallo.


41 Aveva di nuovo chiesto a Don Fabio ma zero, nisba, e nulla era cambiato. Arrivò Natale. Alissa trascorse le vacanze andando a trovare i genitori ancora più spesso di quello che non facesse già. Invitò Mario a casa, e si sparò diversi dvd vinti con i punti in un supermercato della zona che ebbero il solo effetto di annoiarla a morte. Decise allora di andare a ballare con Matilde e Clotilde, vecchie amiche dai tempi della scuola media, sbronzandosi l’ultimo dell’anno e anche in altre due occasioni e fumando una sigaretta dietro l’altra. Il Natale le era sempre piaciuto, però questo del 2009 la rendeva inquieta, triste, e non solo per la storia del teschio e per il conseguente lavoro di merda che si era trovata. La verità era che si trattava del primo Natale in cui viveva in condizioni di estrema difficoltà, in cui doveva vagliare la pur minima spesa. Per questo aveva intaccato quei seimila euro che Sofia le aveva regalato tempo prima e ciò la faceva star male, la rendeva nervosa. Fumava. Più fumava più spendeva e ciò la mandava su tutte le furie ma non poteva farne a meno. La nicotina fluiva. Alissa si accorse di colpo di essere diventata povera. Capì ancor più nitidamente, fra le luci colorate e i festini del Natale, che l’unica possibilità per dare una svolta alla vita era rappresentata da una fantomatica scommessa di cristallo. “Potrei mandare tutto all’aria” si disse. Ma poco dopo si rese conto di non avere ancora una volta niente da perdere. Alla peggio non avrebbe fatto altro che cercare un nuovo lavoro, una volta trascorsi i sette mesi dentro a quell’azienda di tanfi e di profumi. Tanto ormai l’asticella dei diritti era stata definitivamente abbassata e la sua dignità messa sotto i piedi. Oppure poteva fare la cavia. A quel pensiero un dolore rivoltante le strinse lo stomaco, e le si materializzò di nuovo davanti l’immagine del suo culo viola. No. La cavia no. La cavia mai. Anche se centoventi euro al giorno non erano male. Gli amici e i familiari le furono molto vicini e l’aiutarono a non deprimersi troppo. Mario in particolare fu davvero un tesoro, e approfittò di quelle vacanze natalizie per farle visita quasi ogni giorno e per cercare di confortarla. Le propose quattro o cinque lavori e lavoretti che aveva trovato sfruttando le sue conoscenze politiche, i suoi agganci e il suo potere. Di fronte a quelle notizie Alissa si sciolse in un radioso sorriso, lo baciò ripetutamente e lo ringraziò molto, dicendogli che avrebbe preso in considerazione quelle offerte prima o poi. Ma non ancora.


42 Il primo di gennaio verso le tre del pomeriggio, con il sapore di dieci bicchierini di vodka alla menta che ancora le gironzolavano dentro allo stomaco, Alissa decise di andare a fare una passeggiata lungo la via degli ontani. Faceva abbastanza freddo fuori, e uno strato di neve soffice attutiva i rumori rendendo l’ambiente irreale. Dopo aver camminato per alcuni munti, finalmente iniziò a muoversi attraverso quella sterrata imbiancata, resa in alcuni punti scivolosa a causa del ghiaccio. C’era ancora il sole a quell’ora, il solito sole freddo di gennaio che illuminava l’intero paesaggio. Le piaceva quel luogo, non sapeva il perché, ma era così fin dalla prima volta in cui ci era finita per caso, per scappare da un doberman deciso a prendersela con lei. Per sfuggirgli si era messa a correre disperatamente, e aveva trovato un rifugio sicuro sopra uno di questi ontani. Il cane in seguito era scomparso, lei era ridiscesa a terra e aveva percorso questa via che correva in rettilineo per circa ottocento metri. Da quel giorno ogni tanto era tornata qui, e aveva continuato a camminare lungo questo rettilineo in un senso e nell’altro, e aveva ben presto scoperto che da esso si diramavano altri sentierini che le avevano permesso di arrivare in aperta campagna o di fare il giro dell’intero quartiere, che strada statale a parte, era ancora circondato su tre lati da campi coltivati o da zone disabitate. Le piaceva molto il suo quartiere poiché era nuovo e si trovava poco distante dal centro, ma al tempo stesso era tranquillo e immerso nel verde. Verde creato dall’uomo come testimoniavano i vari prati e giardini ma anche verde naturale, selvatico, costituito da quegli spazi che non erano stati ancora sfruttati dall’umana operosità. Inoltre la incuriosiva quella chiesetta che compariva di colpo immersa fra i pini e le querce che odoravano di buono. Le piacevano il campo di calcio e quello di calcetto antistanti la chiesa, dove d’estate i ragazzi giocavano a pallone a torso nudo con il sudore che ne faceva risaltare i muscoli tesi per lo sforzo, e infine i vecchi ruderi di un’antica casa colonica abbandonata da tempo. C’era pace in quel quartiere e in tutto ciò che lo circondava e questo la rilassava, la faceva stare tranquilla; Alissa amava girovagare in quei luoghi e perdersi nella natura, dove ogni essere era vero, dove tutto era sincero. Comunque la via degli ontani restava l’ambiente migliore con quei colori vivi e accesi: verde d’estate, nello splendore dell’erba alta, fitta, delle piante che fiorivano e delle foglie che crescevano, giallo dei girasoli dalle chiome maestose, giallo in autunno con i rami degli alberi dorati e di fuoco che ondeggiavano al vento, e marrone d’inverno, il marrone della terra umida, smossa, dove lei ogni tanto correva a piedi nudi


43 nonostante il freddo. Il marrone dei campi coltivati e quello delle foglie morte che si accartocciavano a terra, che imputridivano, coi versi degli uccelli che si nascondevano nelle siepi e in lontananza lo sciabordare delle macchine sull’asfalto grigio. Qui la valutatrice di odori era fuori del tempo e aveva l’idea di vivere in ogni tempo. Poteva chiudere gli occhi mentre procedeva sicura in linea retta, e fingere di essere tornata bambina, inconsapevole e spensierata, oppure sognare di essere di nuovo nella fabbrichetta dei girelli e far finta che niente fosse mutato, e che lei fosse ancora quella brava operaia di sempre, con l’unica preoccupazione di attaccare adeguatamente le rotelle a quei mezzi infantili che sarebbero stati venduti in tutto il mondo. Oppure poteva fingere di aver già vinto la scommessa con il dio del lavoro e di essere diventata ricca. Quante cose poteva immaginarsi in quello spazio, circondata e protetta da ognuno di questi alberi possenti. Ogni tanto era pur vero che qualcuno passava da quelle parti ma ciò rappresentava un’eccezione, un’inezia. Di notte qui venivano le coppiette chiuse dentro alle autovetture a fare l’amore, ne era certa, e le tracce che lasciavano sul terreno dopo quelle gioie amorose ne erano la prova. Tuttavia ciò non le dispiaceva e non la disturbava, poiché quella era l’ennesima riprova della bontà di quel posto magico. Qui tutti erano felici e soltanto questo era importante. E lei proprio da queste parti aveva trovato Zilkor. Camminando con quelle riflessioni che le facevano compagnia, d’un tatto fu colpita da qualcosa che aveva visto ma mai notato prima. Nel pieno della via, infatti, quasi a metà della lunghezza, si trovava da un lato una certa quantità di rifiuti. Erano sparpagliati sulla neve ancora fresca, e con le loro diverse tonalità erano ancor più evidenti su quello sfondo bianco. C’era di tutto fra la neve, e Alissa notò una serie interminabile di oggetti racchiusi dentro a delle buste di plastica o gettati lì all’aperto. Vide vestiti usati, resti di biciclette, libri e quaderni di scuola, rifiuti di carta, giocattoli di gomma, contenitori di plastica, pezzi di ferro, addirittura un frigo rosso rovinato in più punti, una lavatrice. Insomma c’era il mondo interno lì attorno, a insozzare quel luogo magico. «Maledetti stronzi!» si lasciò sfuggire. Una rabbia feroce l’assalì. Maledisse quegli uomini cattivi, diede qualche calcio ai due elettrodomestici e riprese a camminare furiosa, ma poco più avanti le si ripresentò lo stesso identico spettacolo. «Vigliacchi!» gridò al cielo freddo. Da quanto tempo non veniva più dai suoi ontani?


44 La risposta che si diede non le piacque affatto. «Accidenti a questi bastardi» continuò Alissa «accidenti a loro.» Stavano distruggendo quel luogo e lo trasformavano in una fogna. La cattiveria degli uomini e la loro cupidigia erano arrivati fin qui, e avevano iniziato a produrre i loro nefasti effetti. Procedendo ancora trovò altro lerciume. C’erano sparsi barattoli di vernice, lattine vuote, cornici di quadri, bottiglie di vetro e numerose scatole vuote di gomma da masticare. Un pupazzo di pezza faceva bella mostra di sé e sembrava indicare qualcosa. Seguendolo con lo sguardo vide un nano da giardino di medie dimensioni privo degli arti inferiori. Un nano da giardino… Alissa si sentì trafiggere da mille aghi di cristallo, e fece alcuni passi verso quell’essere martoriato. No, non si era sbagliata, era lui. «Brontolo» urlò commossa «mio povero Brontolo, cosa ti hanno fatto?» Lo abbracciò con calore e fu sopraffatta dall’emozione; cercò di rincuorarlo e gli disse di non aver paura perché adesso c’era lei che si sarebbe occupata dei suoi guai; in fin dei conti era e restava una restauratrice di nani. Dopo essersi ripresa si staccò momentaneamente da lui, e si guardò intorno alla ricerca delle gambe. Non tardò a trovarle lì vicino, ridotte in mille pezzi. «Non importa amico mio» gli disse risoluta «ti porto a casa e ti rimetto in sesto. So il fatto mio…» Così da quel giorno Alissa ebbe una nuova compagnia, e riuscì anche a rimettere in piedi Brontolo nel giro di una settimana. Lo mise a nuovo, e lo pose davanti all’ingresso del bilocale con il compito di ricevere gli ospiti. S’impegnò a fondo per restituirgli le gambe, perché quella le sembrò fin dal primo istante l’ennesima ingiustizia della malvagità umana. Come quello che le stava accadendo, come quello che facevano alla bella via degli ontani. Quando tornò al lavoro, il 10 gennaio, Brontolo era già davanti all’ingresso dell’abitazione. Magnifico e forte come mai. Nei giorni seguenti si presentarono al cospetto del suo naso due culi, cinque ascelle, quattro mani, sei piedi, sette colli, e perfino due piselli e due vagine. Alissa aveva come l’impressione che le sue mansioni di valutatrice di odori si stessero progressivamente intensificando, e che quell’immunità che le era stata concessa all’inizio verso certe parti del corpo umano stesse progressivamente sgretolandosi. Anche in questo caso insomma, come le era già capitato quando restaurava i nani,


45 avvertiva la sgradevole sensazione che si stessero approfittando di lei. Marco poi era sempre più freddo e distante, e non era più stato suo ospite. Lei cercava ogni tanto di avvicinarsi ma lui niente, burbero e severo come sempre, ora non le parlava mai durante le pause di lavoro. Alissa credeva che fosse ancora offeso per quello che gli aveva detto quella sera a cena ma si sbagliava. Capì l’errore di valutazione quando una gelida mattina di fine febbraio fu convocata al piano superiore nell’ufficio del capo. Don Fabio la fece entrare, la fece sedere, le offrì un cioccolatino e poi andò al sodo senza tanti preamboli. «Intendo promuoverti da “naso minor” a “naso senior”» esordì fissandole il seno. «Sarebbe bello» gli rispose lei, tentando di simulare una soddisfazione che non provava. «Prima però vorrei conoscere la tua opinione su quest’azienda e sul tuo lavoro, se non ti dispiace…» Alissa sentiva puzza di bruciato ma non aveva ancora chiara la situazione; decise di stare al gioco. «Be’, ecco, cosa vuole sapere da me?» «Come ti trovi qui da noi. Se ti piace l’impiego, e soprattutto quale opinione hai del tuo capo, tanto per cominciare.» Un sogghigno malizioso si stampò sul viso di Don Fabio. Davanti a quelle parole intuì che quell’idiota di Marco aveva fatto la spia e gli era andato a raccontare tutto. Ecco perché ultimamente era così distante, forse si sentiva in colpa oppure non voleva stringere legami con una che lo costringeva a guardare in faccia la realtà. Ma allora come spiegare quella promozione a “naso senior”? Probabilmente era una scusa per attirarla in quell’ufficio; inoltre qualcosa le diceva che, promozione o non promozione, la paga sarebbe rimasta la stessa così come le condizioni lavorative cui era sottoposta. Perché era una volpe Don Fabio, su questo non c’erano dubbi. «Mi trovo bene» gli fece Alissa «sì, insomma… il lavoro mi piace abbastanza e intendo impegnarmi a fondo.» L’aveva sparata grossa, e stava già per mettersi a ridere. «Cosa pensi di me?» insistette Don Fabio. «Niente di speciale» gli rispose lei cercando di controllarsi «lei è il capo, punto. Ovviamente fa il suo lavoro.» «Ah sì?» domandò l’uomo, alzandosi dalla scrivania e mettendosi in piedi davanti a lei con aria indagatoria. «Certo, cos’altro dovrei pensare?»


46 «Intanto mettiamo da parte queste inutili formalità» le disse Don Fabio, iniziando a camminare avanti e indietro per la stanza e non staccandole gli occhi di dosso. «D’accordo, se lo preferisci» gli rispose gelida. «Te lo ripeto: cosa pensi di me?» Maledetto Marco, maledetto leccaculo. E lei che aveva cercato soltanto di aprigli gli occhi. «Niente te l’ho appena detto. Niente di particolare almeno.» «Sai è strano, perché invece girano strane voci che mi dicono che non hai affatto una buona opinione di me» Don Fabio si grattò una guancia, e si diede una tastatina ai genitali «e ciò mi dispiace molto.» La tastatina ai genitali era quasi un tic di Don Fabio, gliel’aveva rivelato Marco, e diveniva impellente quando era nervoso o c’era qualche problema. Restava il fatto che toccarseli ripetutamente davanti a una donna era da rozzi, era da volgari, su questo non ci pioveva. Ma forse c’era anche dell’altro, e lui si stava eccitando a forza di guardarla. Una certa protuberanza, infatti, iniziava a fare capolino dai pantaloni a righe dell’uomo. “Ecco, perfetto. Siamo a cavallo” meditò Alissa “siamo a posto.” Decise che era arrivato il momento di essere espliciti. «È stato Marco a dirtelo, vero?» «Non importa chi sia stato, voglio sapere la verità da te. Per questo ti ho chiamato.» «E la promozione?» «Quella è come segno della mia buona volontà, e del fatto che non do molto credito a queste voci maligne. Sai, credo proprio che Marco abbia paura e tema che tu possa prendere il suo posto prima o poi…» «Allora può stare sicuro che questo non accadrà mai. Lo puoi tranquillizzare.» Ma un istante dopo aver proferito quelle parole si era già pentita di averle pronunciate. Era stata una sciocca, infatti, a dimostrare così chiaramente il suo disinteresse per quel lavoro e per quel posto che ricopriva Marco; dopotutto lui controllava dieci nasi e svolgeva anche altri compiti di notevole importanza per l’azienda. Già, peccato soltanto che lavorasse gratis… «Cosa vuoi dire? Spiegati meglio» l’aspetto di Don Fabio era divenuto più accigliato.


47 «Voglio dire che lui è laureato, è qui da diverso tempo… è un uomo. Non credo proprio che debba temere la mia concorrenza. Inoltre mi piace il ruolo di naso e non aspiro affatto a diventare un controllore.» «Non penso che tu sia sincera. A nessuno piace fare il naso troppo a lungo, credimi. Quanto alle paure di Marco… se soltanto tu fossi un po’ più carina con me forse si potrebbero persino concretizzare.» Proferendo quelle parole prese a carezzarle i capelli. Intanto la protuberanza si era trasformata in una montagna di buone dimensioni. «Sei una gran bella donna e sei sprecata per questo impiego. Se d’ora in avanti sarai più affettuosa con me, ti assicuro che un giorno non molto lontano potrai prendere il posto di quello spione da due soldi.» Alissa non sapeva cosa ribattere, sia perché non si aspettava quelle avances sia per quello che udivano le sue orecchie. Prima Marco che l’aveva tradita andando a spifferargli tutto, e ora questi che lo stava tradendo a sua volta in cambio di favori sessuali da parte sua. Sì, perché Marco sarà stato anche laureato, sarà stato anche un infaticabile lavoratore ma non poteva competere con lei. Soprattutto quando entrambi avevano la sfortuna di lavorare per un titolare affamato di sesso com’era Don Fabio. E la ragione era semplice, semplicissima. Così banale da sembrare ovvia: solo lei era femmina, solo lei era una gran bella gnocca. «Cosa ne pensi?» le parole dell’uomo la fecero tornare dentro a quell’ufficio. «Di cosa?» gli domandò, scansando i capelli dalle sue mani. «Della mia generosa proposta…» «Scusa ma non ti seguo. Capirai la mia situazione e il mio imbarazzo. Puoi essere più esplicito per favore?» adesso Alissa pareva davvero stupida, ma desiderava vederci chiaro in tutta quella storia, voleva berla fino in fondo. «Io dimentico le brutte voci che girano su di te, ti promuovo alla posizione di “naso senior” e soprattutto ti prometto che alla scadenza dei sette mesi prenderai il posto di Marco.» Ecco, finalmente il furbo Don Fabio aveva parlato. Era stato netto. Alissa piegò il mento sul petto, si aggiustò la camicetta e prese a toccarsi i capelli ramati. Cercò i suoi occhi e li vide carichi di desiderio. Vide quella montagna sempre più erta e arrossì di brutto. «Tutto questo in cambio di cosa?» gli domandò, imbarazzata. Lei lo sapeva ovviamente, gliel’aveva fatto intendere quel promontorio di carne eccitata. Voleva comunque sentirglielo dire.


48 «Della tua “particolare” amicizia per me, è ovvio» Don Fabio fece per allungarle una mano sul seno. Alissa si alzò di scatto, preoccupata e confusa per quello che aveva sentito. Scansò la mano e si diresse verso la porta. «Ci devo pensare» gli disse in modo perentorio «ci devo pensare. Dammi qualche giorno di tempo per rifletterci.» «D’accordo dolcezza, però non pensarci troppo e soprattutto prendi la decisione giusta» le ripose lui, mostrandole quel suo splendido sorriso di uomo ricco e vincente, di uomo che inganna il prossimo. La porta dell’ufficio si aprì e la montagna dell’uomo si afflosciò. «Bravo Don Fabio… bravo Marco» riferì lei quella sera alla luna, stando fuori a piedi nudi a fumare «bravi tutti.» Intorno la nebbia era di marmo. Non si vedeva nulla. Chissà come sarebbe apparsa adesso la via degli ontani, si chiese, ma poi tornò a concentrarsi su quel nuovo problema. Anzitutto si rese conto di doversi guardare da Marco e quella non era una gran difficoltà; bastava semplicemente svolgere il proprio lavoro e non dirgli più niente. In fondo era ciò che si stava già verificando e ora sapeva il perché. No, il problema non era Marco, il problema era un altro e si chiamava Fabio Fabiano Fabioni. Come sarebbe riuscita, infatti, a lavorare lì dentro con lui che ormai le aveva messo gli occhi addosso? Era stata assunta in nero per cui poteva essere sbattuta fuori da un momento all’altro. In teoria e secondo la legge non aveva mia messo piede in quell’azienda, non vi aveva mai lavorato, alla faccia della promozione che le aveva prospettato. Cosa poteva fare? Nulla, se non piegarsi alle voglie sessuali di quel porco in fuoriserie. Rientrò dentro e chiese lumi al teschio. Quello naturalmente non proferì parola, ma proprio mentre gli toglieva della polvere notò qualcosa di strano. No, non si trattava della forma o delle dimensioni, quelle erano a posto, c’era invece qualcos’altro che sembrava cambiato ma non capiva cosa. Se lo rigirò a lungo fra le mani, e quell’idea che qualcosa fosse diverso in lui si rafforzò progressivamente. Ancora non sapeva cosa ma era certa che fosse così. Lo avvicinò alla portafinestra della stanza, e un raggio di luna squarciò con fatica quella nebbia granitica. Era curioso, però, che il candore lunare fosse così intenso da vincere quasi i colori del cristallo. «È molto strano» disse ad alta voce, rivolgendosi al poster di Totti che teneva di fianco al letto. «Che accidenti ha stasera la luna? La sua luce è più forte del solito» Alissa parlò ancora con quel poster.


49 E dire che il teschio, soprattutto al calar delle tenebre, si scatenava e assumeva davvero l’aspetto di un parco giochi. Si voltò, intuendo già la possibile soluzione di quell’enigma. Spense la luce, tirò la tenda per sbarrare la strada al biancore argenteo e si mise a fissare i colori del teschio. Li osservò con la massima attenzione possibile. Li guardò con tutta se stessa. Aveva visto giusto. Purtroppo non si era sbagliata. Quelle due luci perdevano forza e non erano più vivide come prima. Non che fossero esattamente deboli, tuttavia non possedevano più la stessa luminosità e la stessa evidenza avute nei giorni precedenti. Era così; la sua non era certo un’impressione. Ma questo cosa significava? Telefonò a Mario anche se erano le undici di sera e lui, disponibile come sempre, dopo averci riflettuto le disse che molto probabilmente il tempo a disposizione per vincere quella scommessa si stava esaurendo. «Ma mancano alcuni mesi alla scadenza del mio lavoro!» protestò lei. Silenzio dall’altra parte della cornetta; Mario faceva lavorare la testa di brillante. «Molto probabilmente questo è un messaggio, un messaggio che vuole dirti chiaramente qualcosa…» le rivelò. «Cosa?» la sua voce si era fatta stridula. «A mio parere, ma bada che è soltanto una mia interpretazione, il tempo per la scommessa come ti ho detto incomincia a scemare, e forse quello che il teschio vuole farti comprendere è che questo impiego non è quello giusto per vincere.» Adesso era Alissa a restare in silenzio. «Sei proprio sicura che i colori siano meno evidenti?» «Non ho dubbi, è così. Non è che siano ridotti a zero ma sono chiaramente meno intensi.» Stava quasi per mettersi a urlare tanta era l’agitazione che la tormentava. Mario cercò di calmarla. «Per prima cosa cerca di controllarti, quindi ascoltami bene: sono sicuro di non sbagliarmi, altrimenti quello che mi hai appena detto non avrebbe senso.» «Già, già…» balbettò lei. «Ti ripeto che il cristallo ti fa capire che il tempo inizia a scarseggiare, e che quello non è il lavoro adatto, altrimenti avrebbe continuato ad accendersi come un faro, per proclamarti infine vincitrice alla scadenza dei sette mesi, non trovi?» «Hai ragione, cazzo, hai ragione!» «Dunque non c’è un secondo da perdere. Domani vai in quell’azienda, ti licenzi e passi subito al lavoro numero tre della lista.»


50 “Allevatrice di larve di mosconi tailandesi” recitava la posizione numero tre di quel maledetto rettangolo di carta “Allevatrice di larve…” Soltanto l’idea di cimentarsi in quel tipo di occupazione la faceva star male, ma non aveva alternativa e sapeva che Mario non sbagliava. «D’accordo, farò come dici. Ora ti saluto, sono stanca morta. Quando torni da Roma fatti vivo, mi raccomando.» «Naturalmente, ma tu rimani calma. Mi sembra che hai preso troppo sul serio questa vicenda. Stai attenta e cerca» soppesò quello che stava per dirle «cerca di restare lucida e con i piedi ben saldi a terra. Se vuoi conosco un bravo psichiatra che potrebbe…» Ma Alissa aveva già riattaccato, persa com’era dietro a quell’assurda scommessa così strampalata da sembrare vera. Le ultime parole dell’uomo si persero nel vuoto. Il telefono apparteneva al nulla. Una cosa, comunque, era evidente: perfino Mario incominciava a pensare che fosse matta, inoltre Zilkor le aveva fatto capire di essere in procinto di proclamare la sua sconfitta. Insomma tutto stava andando a rotoli, come spesso le capitava in quegli ultimi tempi. Le dispiaceva molto che il suo più caro amico avesse iniziato a dubitare di lei, ma come dargli torto dopotutto? Quella notte Alissa fece l’ennesimo incubo: oltre al nano dal fallo enorme che la inseguiva nudo, c’era pure una sorta di fantasma, uno spettro trasparente che emanava un fetore ripugnante. «Chi sei tu?» gli aveva chiesto prima di mettersi a correre, e quello per tutta risposta le aveva rivelato di essere quella puzza umana e quei profumi artificiali che lei aveva tanto annusato in quegli ultimi mesi. «Sono il tanfo e la sua cura» le gridava lo spettro mentre la inseguiva «sono la puzza e il suo antidoto. Sono il sudore e il suo nemico.» D’un tratto, però, Pisolo si era fermato ed evidentemente nauseato da quel fetore disgustoso se l’era presa con il fantasma. I due avevano iniziato a darsele come forsennati, dimenticandosi della loro preda. Lei ne aveva subito approfittato per fuggire via. Alle sei poi si era svegliata, e l’incubo era volato via come la luce del teschio che si stava consumando. Quel giorno Alissa arrivò prestissimo in azienda; prima affrontò Marco e gliene disse quattro, quindi andò dal capo. Prima ancora che questi potesse dire qualcosa gli rifilò un calcio nelle palle e se ne andò via sbattendo la porta dell’ufficio.


51 E che si tenesse pure quella miseria che le doveva per il mese di febbraio! FINE ANTEPRIMA Continua...

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