In uscita il 31/5/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2017 (3,99 euro)
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LUCA PIERALISI
LA RIVOLUZIONE DEI TARALLI
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LA RIVOLUZIONE DEI TARALLI Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-102-0 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Maggio 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
I had a dream: è questo libro.
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UNO
Andava con passo pesante, la discesa resa appena più difficile dalla pioggia che aveva smesso da poco. Indossava un lungo cappotto scuro, di un colore indefinito, tenendolo aperto sul davanti; pantaloni chiari, appena sporcati in fondo dal fango della strada; il maglione a collo alto arrivava a malapena a coprire la cintura nera di cuoio. Sul collo, estremamente allentata, girava una sciarpa consunta, di un nero sbiadito dal tempo e dalla luce. Quanto alle scarpe si intuiva che si trattasse di una buona fattura, ma l’uso smodato e continuato aveva lasciato segni inequivocabili, tuttavia aveva i piedi asciutti. La pelle reggeva bene. La pesantezza del passo faceva sì che si sentisse un leggero strisciare sull’asfalto, corrispondente all’appoggio del piede, le curve in leggera contropendenza gli davano modo di riprendere l’equilibrio. Era però un equilibrio strano, come se la testa fosse un corpo estraneo dal resto, come se avesse due baricentri: uno per il busto e le gambe e uno per il cranio. Gli occhi, infatti, erano fissi verso un punto ben definito al di là della via sotto la discesa. C’era una strada, a quell’ora poco trafficata, che su un lato costeggiava la collina da cui scendeva l’uomo mentre, dall’altro, era delimitata da una specie di balaustra in muratura che si affacciava sul porto dei pescherecci. Era ancora troppo presto per la pesca e la flotta era ancora in rada; le luci, dietro le barche, insistevano sull’acqua tremolante, talmente oleosa che la brezza serale non era in grado di muovere in maniera apprezzabile. Ogni curva lo avvicinava alla strada ma lo sguardo restava fisso sempre sullo stesso punto: la linea di separazione tra il mare e il cielo, la linea dell’orizzonte. Finita la discesa fece qualche passo lungo il marciapiede in direzione
6 del centro città lasciandosi sulla sinistra Porta Pia. Senza badare troppo alla scarsa circolazione, attraversò la strada e si appoggiò con entrambe le mani alla balaustra di pietra. In quel momento esatto cominciò a girare, lentamente, la testa. Prima verso destra: il Duomo, il porto turistico, le gru dei cantieri; poi verso sinistra: il golfo, la fiera, il lazzaretto. Riprese a fissare l’orizzonte. Sotto, vicino al mare, due camionisti, probabilmente in attesa dell’imbarco, mangiavano qualcosa seduti a terra, incuranti dell’umidità e del freddo. I fari delle macchine illuminavano una figura scura abbastanza inquietante, immobile, senza peso eppure ingombrante: un tipo, con un cane per la passeggiata serale, lo vide e cambiò strada. Dopo qualche minuto, che a un osservatore esterno sarebbe potuto sembrare del tutto inutile, mise la mano destra in tasca. Estrasse un piccola cosa rotonda, leggera. Con movimento rapido e insospettabile, vista la mole, caricò il braccio passando la mano dietro la testa e la lanciò verso il mare. La parabola della traiettoria fu precisa e inesorabile: il tarallo affondò quasi subito diventando cibo per i pochi pesci che riuscivano a sopravvivere nel porto. Mise di nuovo la mano in tasca e si allontanò con passo più lieve verso la stazione. Passando davanti all’unico ristorante ancora aperto decise che i pesci del porto non sarebbero stati gli unici a nutrirsi. L’ingresso non fu accolto con entusiasmo dal cameriere che pregustava di tornare a casa per mancanza di clienti, tuttavia fu con grande cortesia che gli porse il menu. Ordinò una pizza capricciosa e una birra media: il minimo sindacale. L’attesa fu breve, per la maggior parte del tempo trascorsa nello studiare la respirazione. Nel momento in cui realizzò che il ritmo era giusto per il cibo arrivò la pizza. Mentre era ormai a metà il telefono emise il segnale di ricezione di un messaggio: dal 34… qualcosa (che non aveva voglia di leggere) arrivò una frase corta ma essenziale: “Ci sto”.
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DUE
Era stata una giornata normale, di una vita normale, di un pomeriggio normale, di merda: aveva lavorato, poco, in attesa della lettera ufficiale che avrebbe annunciato la cassa integrazione, aveva mangiato alla mensa aziendale, era tornato a casa con la desolazione di vivere in un posto sempre meno pulito e con sempre meno voglia di pulire. Il fatto di essere ancora solo non gli pesava più di tanto, il punto era che non aveva ancora deciso cosa avrebbe fatto da grande: l’unica cosa che era riuscito a scartare era una scelta con troppa fatica fisica, non si sentiva portato. La lettura pomeridiana della stampa on line aveva lo scopo di svegliarlo per arrivare alla serata ancora abbastanza incazzato da poter restare alzato fino a tardi. La consapevolezza di aver accettato doveva essere da stimolo, ora però bisognava cominciare. Martino Rapani aveva davanti due strade: lasciare che l’sms inviato decantasse e aspettare gli eventi oppure dare un senso alla faccenda. Le otto di sera in primavera in una cittadina di provincia è la spiegazione della frase dantesca io sto tra coloro che son sospesi, ci si guarda indecisi se puntare la cena oppure dare l’impressione di essere mondani e aspettare; la pioggia del giorno prima aveva lasciato spazio all’umidità, le persone indugiavano lungo il corso. Martino camminava osservando con attenzione le vetrine dei negozi, ormai quasi tutte chiuse, indossava dei jeans non troppo attillati che coprivano le gambe muscolose. Era l’unica caratteristica fisica di cui andasse orgoglioso, frutto di bicicletta (poca) e fortuna (molta). Si fermò di fronte a un negozio di scarpe e borse: la commessa da dentro gli fece un cenno di saluto, o forse gli sembrò così, e riprese l’indolente cammino verso la fine del corso. Dall’altra parte della strada un forno: “Un pacco di taralli, per favore”. Tenendo il suo trofeo (o simbolo?) sotto il braccio riprese la
8 camminata. Era sicuramente un salto nel nulla o al limite il nulla… ma tanto? Quanto era provincia quel posto? Quanto si sentiva inadatto al ritmo di quella cittadina in cui tutti avevano un ruolo immutato? Il suo non gli era abbastanza chiaro da essere fisso. Cambiarlo avrebbe comportato essere escluso, essere fuori. Nessuno si butta nel vuoto con la convinzione che all’atterraggio le cose non cambino. La curiosità era capire cosa sarebbe successo una volta atterrato. Lucia Mondella avrebbe decantato l’addio ai monti. Martino Rapani non era Lucia Mondella: si limitò a sedersi sul muretto della piazzetta a metà corso. Quello un pochino più defilato, quello su cui aveva passato l’adolescenza, dove fino a un certo maledetto giorno non si era mai sentito solo. A quel punto, evidentemente, qualcuno pensò che la decantazione del messaggio fosse sufficiente e il telefono di Martino emise il segnale di avvenuta ricezione. “Dopodomani: diciannove e trenta. Undergrunde”. Non ebbe la forza di ridere pur essendo consapevole dell’assoluta ridicola pateticità della cosa. Cancellò il messaggio come ogni buon agente segreto dovrebbe fare e pensò alla sua faccia con il corpo di Pierce Brosnan, poi al suo corpo con la faccia di Pierce Brosnan, poi a Pierce Brosnan. Nessuna delle tre visioni gli sembrò sufficiente. Ma poi che accidenti vuol dire Undergrunde? Se il domani fosse morto allora sì che tutto questo avrebbe avuto un senso, ma, si sa, il domani non muore mai. Neanche il dopodomani. Sul muretto il buio era arrivato da tempo, decise di assumere la modalità snob e altera di Pierce; dopo dieci minuti di tentativi un piccione gli lasciò un escremento sulla spalla, l’espressione schifata che gli venne guardando cotanto capolavoro fu il migliore avvicinamento alla faccia di Brosnan che gli riuscì in tutta la vita. Cercando di essere razionali, il tutto era assurdo e qualsiasi persona con un minimo di buon senso avrebbe detto che si trattava di una stronzata e che non dovevano neanche metterla in piedi. Qualsiasi
9 persona che non sapeva… Cosa avrebbe significato trovarsi di nuovo, ingrassati e doloranti? Erano estranei da tempo, non sapevano neanche come chiamarsi non avendo più nemmeno la familiarità dell’insulto. Con un brivido gli venne in mente che l’attrezzatura non era certo all’avanguardia, non aveva mai smesso di conservarla in maniera corretta ma probabilmente le tecnologie avevano fatto passi tali da rendere il tutto desolante e antico. «Vintage», pensò a voce alta, «sono vintage. D’altra parte antico lo sono sempre stato.» A quindici anni, camminando per strada, aveva paura che le persone pensassero che non aveva una meta, degli amici, delle cose e allora si metteva a correre in maniera inconsulta, verso il nulla, così da dare l’impressione di avere fretta per fare chissà cosa. Che adolescenza di merda. La mattina sapeva che giornata sarebbe stata ragionando sulle opzioni: colazione con spremuta, bene… caffelatte, male… maglietta larga alla lasciami perdere, bene… camicia con maniche corte… male. Che adolescenza di merda. Eppure… quel muretto, quei pomeriggi, quei contatti fatti di parole prima che di tocchi, di non contarsi perché comunque qualcuno lì c’era sempre. Oggi li chiamerebbe sogni, quella volta erano progetti e racconti di vita, come se ogni cosa fosse stata inevitabile e terribile. Era stato bello. Gianfranco l’edicolante, ogni sera, dopo la chiusura, si avvicinava al muretto e regalava l’edizione del giorno prima della Gazzetta. A quel punto si facevano grandi ipotesi, discorsi, competenza a pacchi su fatti e notizie già scadute, già in prescrizione. Come se vivere in quel posto fosse vivere indietro, in perenne ritardo rispetto alla realtà. Scommettevano su quello che era già definito, non potevano vincere ma andava bene così.
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TRE
«Guardalo, ora guarda me… sorridi… ok, va bene, ora girati e guarda il mare, Marco… la mano… la mano, dai cazzo… ok… camminate, ancora, più lenti. Giratevi verso di me… la mano, lascia quella cazzo di mano…» Francesco Gubitori, ex filosofo, ex opinion leader, ex barzellettiere, ex cameriere p.r., attualmente fotografo ritrattista con preferenza per bianco e nero di panorami inutili aveva trovato il modo di sopravvivere con qualche scatto di cerimonie varie: matrimoni soprattutto. Spacciava una professionalità che non aveva con grande esborso di parole e sceneggiate sia in fase di presentazione che di esecuzione del lavoro. In realtà si sentiva molto frustrato e sicuro che la strada intrapresa non sarebbe stata né lunga né proficua. Stava provando a convincersi che i due sposi novelli di fronte a lui meritassero un album fotografico di livello, ma era sicuro invece che si sarebbe risolto tutto in una separazione neanche troppo dolorosa. Vantava un’esperienza in fatto di coppie e compatibilità che in realtà non aveva. Si aggiunga che l’aver deciso di partecipare all’impresa gli lasciava nel retro della testa la sensazione che tutta la storia delle foto, degli album, di quei due sfigati lì davanti fosse una bolla molto vuota. «Allora… adesso camminate come se non vi conosceste, guardate avanti, verso di me. Piano cazzo… non è una maratona, allora tu… come ti chiami? Fai una specie di sospiro e quando hai fatto gira la testa leggermente verso di lui…» Ma chi glielo faceva fare? Era stato un filosofo… aveva teorizzato che l’umanità dovesse estinguersi per eccesso di socializzazione: con molto anticipo rispetto
11 a Umberto Eco. Aveva scritto un libro che parlava dei danni dovuti al fatto di aver dato la possibilità a tutti di accedere alla comunicazione, soprattutto visiva. Gli strumenti moderni quali telefonini, macchine digitali, tablet permettevano a tutti di fare foto, di condividere immagini, luoghi, situazioni. Era gravissimo: la gente non era pronta per questo, l’unico risultato era che si stava inondando tutto di figure, visioni, sensazioni assolutamente sopravvalutate dagli autori e totalmente inutili per i fruitori. Era stata una battaglia inutile, peraltro intrapresa con la speranza di avere una forma di visibilità migliore dei social network, il cui avvento gli aveva dato una seconda possibilità: presentarsi come opinion leader. Avere una risposta su tutto, far credere di avere una risposta per tutti: facile ma non risolutivo, non ci si mangia alla lunga. E allora furono le parole: lo show, che vale sempre tanto, quasi tutto, quasi tutte le cose hanno poca sostanza e molto show. Cominciare con le barzellette era stato facile e leggero, poi o vai a Zelig o non campi con le barzellette: un locale, un ristorante, un bar per lo one man show che ogni giorno diventava più un commerciale, un butta dentro. Butta dentro no… non era dignitoso… a allora? “L’immagine è tutto” diceva Agassi anni fa. Cosa fare con le immagini non era chiaro, però riciclarsi come fotografo di livello in un piccolo posto permeato dalla volgarità del poco era una soluzione. Investimento minimo, qualche foto in bianco e nero in vetrina che fa sempre molto avanguardia, un look minimalista con poco di firmato ma con tanto di ostentato, un giochino semplice per un cazzaro vuoto. Avrebbe potuto essere tanto, avrebbe potuto fare la musica anziché ballarla. «Ok belli, adesso giriamo per i tavoli, senza sapere che ci sono, voi andate, io ci sarò… forse. Non pensateci, è il giorno che non vi
12 resterà in disparte: è quello che avrà sempre posto in mezzo al salotto. «Determinazione e coraggio, anche dai parenti che non vi piacciono, anche con i bambini scassa palle, fra un anno l’album sarà ancora appena nato.» Saggiamente evitò di dire che pensava che sarebbe stata l’unica cosa a sopravvivere. Mentre gli sposi, drogati di parole, vagavano per la sala, si sedette al tavolo riservato allo staff per assaggiare i ravioli al profumo di pesce. Deludenti, al solito. Era una scelta. Da fare? Ormai. Lo studio? Andava chiuso per un periodo importante: pensò ai lavori che aveva programmato. Una cresima il giorno dopo, qualche mezza parola con una coppia che probabilmente si sarebbe separata prima di sposarsi e un tipo, clamorosamente omosessuale, che si era informato sulla possibilità di alcune foto, ritratti, suoi e di un’altra non identificata persona. Non granché. Andava fatto. In fondo era un buono, gli piaceva fare del bene: soprattutto a se stesso. Carla? Beh… Carla non aveva bisogno di spiegazioni, l’uomo forte, risoluto, deciso le era sempre piaciuto. Se ne doveva andare per un po’ perché… perché sì. Una cazzata gli sarebbe venuta in mente: probabilmente l’avrebbe implorata di lasciarlo andare. «Eccovi qua, quanto siete belli, più lei di te. Come ti chiami? Boh… non importa. Avanti, andiamo in pista. Ci serve un lento. Qualcuno lo dica al complesso. Andate in pista. Stringi dai, l’hai sposata, magari non ti mena. Appoggia la faccia sulla spalla. Forza.» La testa se ne era andata da tempo, correva a quando era scappato via: tutto troppo lontano. Aveva detto di sì, ma pensò con terrore alla possibilità che per fare questa cosa sarebbe dovuto tornare.
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QUATTRO
Le penne con il pulsante hanno una molla. La molla più o meno rigida le fa saltare su se sono premute contro il tavolo e poi lasciate andare di colpo. Inclinando un pochino la penna si ottengono delle traiettorie tipo fosbury, un passatempo stupido e molto irritante per chi sta vicino al “saltatore”. Anselmo Verra stava pensando: concedere o meno il finanziamento a quel progetto di negozio di scarpe. La penna saltava a ogni dubbio: la procedura prevedeva una serie di requisiti oggettivi a cui era facile rispondere e altre valutazioni soggettive che facevano dell’uomo un buono o un cattivo impiegato. Clic, clic, clic… un negozio di scarpe in Circonvallazione Ostiense: non sarebbe stato l’unico. Una via trafficata di auto e persone, vicino alla metro e ben servita. Bene. Altri negozi, altre attività avevano già lasciato lacrime e sangue in quella zona. Male. Eppure, in quel tipo che si era presentato con poche garanzie c’era una convinzione dettata dalla disperazione, un motore ottimo, solo bisognava convincere la direzione. D’altra parte anche “l’impresa” che stava per intraprendere era una questione disperata, una questione di uscita, dalla vita, dalla vita attuale sicuramente. Clic, clic, clic… Ci sono poche parole nella storia di un bancario? Scelte invece ne aveva avute tante, non avere rimpianti era quello che sperava, arginare i rimorsi era quello che si era trovato a fare. Ora aveva davanti un uomo che gli chiedeva di poterci provare: una barca sull’acqua ferma che, senza vento, non poteva salpare. Anselmo poteva creare l’onda e vedere se quella barca era in grado
14 di tenere il mare oppure girarsi dall’altra parte. Clic, clic, clic… Non era un uomo buono Anselmo. Non voleva inoltre che lo si pensasse: un uomo buono è persona affidabile, lui non lo era, non lo voleva essere, non lo credeva possibile. D’altra parte non lo pagavano per fare considerazioni navali e doveva trovare il modo per avere sei mesi di aspettativa: il tempo necessario per riprendere la manualità, partire e fare l’impresa. I cavalieri che fecero l’impresa. Clic, clic, clic… Mise il flag su Investimento sconsigliato e inviò il modulo al capo; contemporaneamente espresse il migliore sorriso del mondo. «Bene. La pratica è stata inviata. Le faremo sapere entro una settimana al massimo.» Il tipo al di là della scrivania non sembrò affatto convinto e non fece nulla per nasconderlo, però non poteva fare altro che abbozzare. Alzandosi, rappresentò un ghigno che voleva essere cortese, trascinando i piedi verso l’uscita si poteva leggere sopra la sua testa il fumetto delle maledizioni che stava mandando. Esattamente quello che Anselmo voleva. Clic, clic, clic… Allungò le gambe sotto la scrivania, si appoggiò allo schienale della poltrona, aprì il cassetto e prese un tarallo dalla busta che teneva sempre per i cali di zucchero. Mentre masticava con soddisfazione le mani gli correvano lungo il tavolo, come a suonare un immaginario pianoforte. «Ah… già. Devo confermare.» L’adrenalina e l’entusiasmo avevano già preso il sopravvento. Fanculo tutta la marineria. Inviò il messaggio di conferma. L’ennesima scelta fatta di fretta, l’ennesima volta in cui l’istinto aveva parlato e costretto a fare come diceva lui. I risultati erano storicamente disastrosi e se fosse stato un fruitore di statistiche avrebbe detto no all’istinto, no almeno per una volta.
15 Godere a ogni costo, vivere a ogni costo: al limite sarebbe stato l’ennesimo rimorso da portarsi in tasca. Boh A questo punto l’autore, se chi legge ha ancora la bontà e la pazienza di seguire la storia, ha l’obbligo di fare un riepilogo della situazione perché tra nomi, storie e caratteri si potrebbe correre il rischio di perdersi. In particolare si potrebbe perdere l’autore stesso, costringendo il fido correttore di bozze a voli pindarici nonché espressioni non proprio fini. I personaggi: L’uomo dal cappotto scuro: non abbiamo fatto parola circa il nome e vedremo di trovare il modo di comunicarlo. Quello che intanto possiamo dire è che si tratta del leader e, volendo fare un paragone musicale, diremmo che stiamo parlando del cantante con la chitarra di un immaginario gruppo. Martino Rapani: impiegato contabile, single, vita piatta da ieri uguale a oggi che non sarà diverso da domani. Numerose ambizioni lasciate indietro, per un futuro ormai dietro le spalle. Carattere spigoloso con tendenza al buonismo, senza che però si sappia troppo in giro. Un’incompiuta. Francesco Gubitori: attualmente fotografo (e questo è chiaro), una persona dalle grandi esteriorità, quasi tutte. Capace di gestire e coinvolgere le persone con entusiasmo che al dunque diventa quasi sempre aria fritta. Di solito vive di niente, da fuori lo credono felice. Qualche volta anche lui si è sentito così. Una storia più o meno d’amore con Carla: insegnante di ballo, lui molto più coinvolto di quanto gli piaccia ammettere, lei seduta sulla spiaggia aspettando l’onda. Anselmo Verra: bancario. Divorziato. Rampante una volta. Dedito al culto di sé, inteso come dubbio non come egocentrismo. Uomo spigoloso. Aveva sempre considerato la vita come un mezzo per prendere quello che gli piaceva; così come le persone. Riteneva di essere nato per fare la musica non per ascoltarla, quindi la musica
16 doveva essere quella che piaceva a lui. Una preoccupazione grossa era il modo di apparire: impeccabile, firmato, griffato, gestito. Da sempre, per sempre. Il divorzio era stato un temporale estivo: in fondo non aveva bisogno di nessuno, lei era appariscente, affascinante, splendente. Esattamente il problema: lui brillava di luce propria, non era ammesso inquinamento luminoso. Forse. Ora che abbiamo in qualche modo inquadrato i personaggi di questa storia, sempre confidando nella bontà e pazienza del lettore, possiamo tornare allo sviluppo della vicenda. In particolare non è ancora chiara la definizione della fantomatica impresa né il ruolo esatto di ognuno. L’autore torna dunque nell’ombra con un’elegante piroetta e si rifugia nei suoi appartamenti a raccontare, asettico e concentrato, la “Rivoluzione dei taralli”. Ah… già… ma i taralli cosa c’entrano?
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CINQUE
Incontrarsi a Roma non va più di moda: ci vanno tutti a Roma, non è originale, non è degno di attenzione. Ora vai a Venezia come Clooney, in Puglia come Vasco o in Salento come Helen Mirren: i nostri si incontrarono, o almeno avevano programmato di incontrarsi, a Piazza del Popolo, Roma. Era la dimostrazione che si trattava di un gruppo vintage; che poi vintage è un complimento, più che altro era un gruppo antico, vecchio. Il leader, l’uomo dal cappotto scuro che lanciava taralli ai pesci, aveva ovviamente deciso luogo, data e ora dell’incontro in quanto convinto che la democrazia fosse una cazzata e che se nessuno avesse preso l’iniziativa si sarebbe passati di rimando in rimando. A Gennaio, in Piazza Navona ci sono le bancarelle della befana, sempre uguali, sempre belle: tra le persone ben coperte dal freddo e i bambini urlanti si aggirava un cappotto nero chiuso con sopra una bella sciarpa, sotto la quale una bocca faceva esercizi di respirazione e sonorità. Ovviamente era arrivato un giorno prima, solo per mania di pianificazione e controllo, in realtà non era necessario. Aveva trovato una stanza in zona stazione Termini, molto modesta, avrebbe potuto permettersi altro ma i pensieri erano tutti indirizzati verso l’obiettivo. «Oooooaaaassss… Aaaaauuuummmm…» Gli esercizi andavano alla grande, ogni tanto con la coda dell’occhio notava che qualche persona lo sentiva e si fermava a guardarlo come se fosse fatto o ubriaco. Del tutto indifferente, proseguì la passeggiata fino a trovarsi in Campo dei Fiori: Giordano Bruno lo guardava da sotto il cappuccio, notò che erano vestiti quasi uguali. Si sedette su una delle tante
18 postazioni dei locali che circondano la piazza e ordinò un bicchiere di Ribolla Gialla. «Non mi bruceranno sul rogo come te, caro Giordano, anche se non è detto che questa storia non mi brucerà dentro… Bah, a te fuori e dentro…» La statua non si mosse. «Lo so che non è uguale ma anche io porto avanti le mie idee, il mio sogno.» La statua sorrise. Aveva accettato la buonuscita per abbandonare quell’azienda che nel corso degli anni gli aveva inaridito la forza di pensare a qualcosa la sera prima di dormire. Due anni di stipendio e due di mobilità. Facendo bene i conti poteva vivere alla grande per dodici mesi senza lavorare, poi sarebbe stato nella merda. In teoria. Molto in teoria. Dodici mesi. Un tempo più che sufficiente per portare a termine l’impresa e, se andava male, sedersi da qualche parte e aspettare la morte. “Mi sono innamorato di te… perché non avevo niente da fare…”, la suoneria proveniente dalla tasca del cappotto lo distrasse dal sapore del vino bianco. «Ciao.» «Ciao.» «Volevo parlarti.» «Lo stai facendo.» «Ti volevo chiedere scusa, non ho capito niente, non ho capito quanto era importante, non ho capito che stavi veramente male.» «Diciamo che non hai ascoltato.» «Sì.» Silenzio. «Dove sei?» «In piazza.» «Torni?»
19 «No… non adesso, non per adesso. Non posso, non voglio, non devo. Lo rimpiangerei per sempre. E poi non ho nulla per cui tornare, nessuno a cui interessi: mentre ho tanto da trovare.» Questo tipo di dialogo stava assumendo i toni melodrammatici del romanzo popolare; in quel momento era esattamente quello che gli serviva, aveva bisogno di avere le mani libere. «Non hai nessuno…» «Vedremo. Vedremo quando sarò lì, davanti a tutti, vedremo se ci sarai. Parto solo, tornerò forse più solo, ma non sconfitto.» «Mario… ascolta… il tuo tempo, il vostro tempo… è passato: avete avuto una via, l’avete percorsa per un po’, ma era un viottolo, un sentiero di campagna in mezzo ai fossi. Non avete potuto farlo diventare una strada e adesso è tardi.» «Vedremo.» «Mario…» «Non credo che abbiamo molto da dirci. Sono troppo vecchio per perdere tempo.» «Ok. Io sono qui. Ti aspetto.» «Ciao Alessandra.» «Ciao Mario.» Parlare di quando sarebbe diventato vecchio era stato un colpo da maestro: le donne sono sensibili all’età, in particolare alla loro, ma va bene quella di chiunque. Il tenebroso leader si chiamava Mario. Niente non è. Malgrado la feroce ostentazione di indifferenza, la telefonata di Alessandra non lo lasciò come lo aveva trovato. Il pensiero è una bestia cattiva che spesso decide dove e come andare, obbligandoti a seguirlo. La storia tra Alessandra Morei e Mario Falsi era nata tra la pizza (di cui parleremo dopo) e la discoteca: una volta si poteva parlare in discoteca, ci si poteva piacere non solo guardandosi in mezzo ai lampi intermittenti delle luci, ma anche capendo cosa si aveva da dire.
20 Avevano entrambi un Negroni in mano (andava di moda) ed entrambi pensavano che le feste universitarie del Martedì fossero il motivo più ragionevole per pagare le tasse di iscrizione. Mario, come diceva lui e come avrebbe di lì a poco confermato Alessandra, per le cazzate era uno dei migliori quindi non ebbe grossi problemi a fare il classico “colpo” sulla tipa avendo peraltro superato da diverso tempo la fase della timidezza che gli aveva bloccato l’adolescenza. Era sicuramente un buon ricordo, una bella storia. Una storia in crescendo in cui erano diventati grandi insieme, senza crescere troppo. La casa, la convivenza, il quotidiano facevano il lavoro di logoramento per cui sono nati, ma non erano in grado di scalfire quella strana coppia a cui piaceva il mare, il caldo, le infradito e Montalbano. E poi c’erano le passioni. Alessandra ne aveva alcune di primo livello (parole sue) e altre di secondo: appartenevano al primo le arrampicate, il vino e la pizzica; al secondo la scrittura e le serie tv comiche. Mario ne aveva una sola, anzi due: Alessandra e la musica. Erano andati in crescendo fino a che erano fianco a fianco, toccandosi solo quando era necessario, amandosi bene. Bisogna capire per amare, bisogna avere tolleranza e orgoglio. Mario era deluso. In parte davvero, in parte faceva finta: tutto sommato Alessandra non aveva tutti i torti, però… Ricordava bene le volte in cui aveva cercato di comunicare l’ingestibile fatica che affrontava tutti i giorni; ricordava bene la frustrazione di non trovare l’appoggio più importante, quello su cui avrebbe contato a occhi serrati. Un pendolo. Aveva fatto bene? Stava facendo bene? Sì? No? Chi glielo doveva dire? Eppure lei c’era stata. Notti piene di parole, arrangiate alla buona, e poi sempre meglio, gli squallidi posti in cui provavano a esprimere quello che avevano
21 dentro, lui e quei suoi amici sfortunati. Erano arrivati sull’orlo del burrone: a quel punto o si spiccava il volo o si precipitava. Bisognava fare quel passo che non avevano mai fatto. Ma non era troppo tardi. Forse. La Ribolla, buona, era finita e i pensieri si erano lentamente sciolti nella malinconia dei vecchi formando un magma fastidioso appiccicato alla testa. Esattamente quello di cui non aveva bisogno. Aveva delle cose da sistemare dal punto di vista logistico, sapeva bene di non poter contare sugli altri scapestrati. Provincialismo e paura li avrebbero bloccati non appena scesi dal treno. L’alternativa immediata era tra rimanere a pensare, magari con un’altra Ribolla, oppure tornare a verificare l’attrezzatura, riprendere i fogli, telefonare, dormire. Scelse ovviamente la Ribolla. Gli altri sarebbero arrivati il giorno dopo. Forse. Con loro il forse era il massimo del certo. Loro. Loro che lo avevano abbandonato. Quando era stato? Come era stato?
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SEI
Negli anni settanta nacquero le radio libere: l’accesso alla facile tecnologia di base per poter trasmettere in ambito locale portò tutti coloro che pensavano di avere qualcosa da dire (erano tanti, purtroppo lo sono ancora) a prendere un microfono e sproloquiare in maniera inconsulta. Il fenomeno ebbe un impatto simile a quello delle prime trasmissioni televisive: la televisione insegnò a tante persone a leggere e scrivere contribuendo alla crescita della nazione, l’evoluzione (o involuzione) attuale del mezzo tv è tanto più angosciante se si pensa a cosa era stato. Le radio libere sono invece le antenate dei talent show: anche qui l’angoscia e la disperazione non possono che avvolgere le nostre stanche membra. Le radio stesse ebbero anche l’effetto di diffondere in maniera capillare e personalizzata la musica. Personalizzata perché ognuno con il semplice strumento delle dediche in radio aveva l’impressione che quel disco, quelle note, quelle parole fossero proprie. Prendere la linea telefonica per dedicare qualcosa a qualcuno era da considerarsi una soddisfazione; condividere gli affetti, i gusti, le emozioni in radio era molto per tante persone. Quello che poi con l’arrivo di Internet sarebbe diventato Facebook. Nel corso degli anni tutta l’immissione di musica nel sistema circolatorio della società doveva avere effetti collaterali. La musica da ascoltare era per tutti, di tutti: il passo successivo era che la musica fosse non solo assorbita, ma creata. I gruppi musicali tra amici. Al quarto posto nella classifica del male assoluto dopo i balli latino americani, il teatro amatoriale e gli astemi. I signori di cui stiamo raccontando azioni, storia e pensieri avevano,
23 a suo tempo, fondato un gruppo musicale. La trafila era stata la solita: amici fin da bambini, gestione del gruppo, non troppa abilità nello sport; per attirare le ragazze ci si butta sulla musica. Un po’ bohemien un po’ maledetti rockettari. Si comincia con le cover dei divi o dei classici in qualche garage allestito alla meglio per poi, con i primi soldi, passare all’affitto di qualche sito meno insalubre e più isolato. I migliori, quelli con più ambizioni almeno, passano dalle cover a pezzi autonomi. L’evoluzione finale è portare in qualche sagra di paese o festa sgarrupata la propria musica. Fino a che un giorno, un brutto giorno, le prove, la musica, i concerti… spariscono. Vengono sopraffatti dalle cose della vita, dagli impegni familiari, dal sesso, dal lavoro, da altre passioni meno romantiche ma più di pancia. Gli strumenti finiscono in cantina ben incartati per evitare la polvere; diventano intoccabili perché prima o poi… ma il poi diventa mai. Il gruppo musicale I Taralli nasce nel 1990; il nome è un’idea di Francesco, a quel tempo in piena fase creativa, secondo cui il futuro era la Puglia. Col senno di poi non si può dire che stesse sbagliando. La composizione del gruppo era la seguente:
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Mario Falsi: chitarra e voce; Martino Rapani: basso; Francesco Gubitori: batteria; Anselmo Verra: tastiere.
La prima cosa che gli veniva sempre rimproverata, e che loro stessi non erano in grado di perdonarsi, era la mancanza di una presenza femminile. Le motivazioni che si davano erano variegate e anche ben organizzate, tuttavia il solo e unico motivo che avesse un senso era che fossero quattro sfigati. In particolare non erano mai stati in grado di entrare in un gruppo che comprendesse anche donne e sempre più spesso, nella loro triste
24 evoluzione e crescita, si trovavano in compagnia di loro stessi. Il muretto a cui chiedevano conforto nei pomeriggi al paesello assumeva sempre di più le sembianze di un club maschile la cui consistenza numerica variava a seconda di storie, flirt, intrallazzi o fidanzamenti: sempre di altri, quasi mai di loro quattro. Grandi discorsi, grandi prospettive: in parole povere sempre e solo più spesso la musica, quando l’infatuazione per lo sport cominciò a passare. Ovviamente le cover. La moda del momento erano i gruppi heavy metal con gli accordi strappati e la forza nelle note. Quasi subito capirono di non essere adatti: d’altra parte anche il nome Taralli non sembrava essere in linea con pezzi tipo War Ensamble o Number of the beast. Non si riusciva a cogliere l’accostamento. Passarono quindi al rock, poi alla disco, infine ai cantautori italiani: sempre con il poco e male mascherato motivo di attirare qualche ragazza. La prima svolta, se così possiamo definirla, avvenne quando Aurora, la cugina gnocca di Martino, trovò marito. Al di là del fatto che anche il suddetto sposo fosse persona di aspetto fisico ragguardevole nonché, come la sposa, completamente cerebroleso, i due si trovarono a celebrare il matrimonio nel mese tradizionalmente dedicato a tali faccende: maggio. Senza perdersi in particolari sull’organizzazione della cerimonia che aveva nella volgarità e nello spreco la parte migliore, la coppia si trovò a un passo dalla separazione prima ancora di poter pagare qualche avvocato per la gestione della stessa. Capitò infatti che Marika Monte and The Bloopers mentre si recavano con il loro Mercedes Vito a registrare il nuovo album (fatto di cover dei Depeche Mode) litigassero sul nome da dare all’album stesso. Una parte del gruppo (due su cinque) voleva chiamarlo Endorsement mentre altri due propendevano per DP (che significa Depeche Mode,
25 cosa avevate capito?) e infine Marika con l’altro componente (peraltro amanti) volevano un titolo più consono alla situazione e al lavoro fatto: Depresse Mode. La litigata avvenne esattamente due giorni prima della data fissata per il matrimonio dei due gnocchi (qui la parola si può interpretare benissimo con entrambi i significati) e occorre dire che il fantastico gruppo musicale aveva trovato, per motivi prettamente economici, una sala di registrazione in un posto dove il diavolo in persona avrebbe avuto difficoltà ad arrivare. Percorrendo i tornanti che portavano alla sala l’autista doveva da un lato badare alla strada e dall’altro ascoltare, preoccupato, gli strilli della sua bella, la quale non solo si aspettava bensì pretendeva sostegno da lui, se non altro per ciò che dava in cambio. All’ennesimo urlo sguaiato il poverino fu costretto a girarsi verso gli altri per dare un segnale autorevole, perentorio e soprattutto per non perdere una certa forma di favore che non gli era per niente indifferente. Caso volle che Italo Veroni fosse, con la sua Ape Cross, proprio dietro quella curva e vedendosi arrivare addosso quel furgone nero ebbe la prontezza di spirito di attaccarsi al clacson richiamando così l’autista all’attenzione sulla carreggiata. Due botte al volante e il gruppo musicale Marika and The Bloopers si trovò a scendere lungo la scarpata; fortunatamente rimanendo (ballonzolante) sulle ruote, senza rovesciarsi fino a che non centrò un albero, fermandosi. I musicisti e la cantante se la cavarono abbastanza bene: qualche escoriazione, poche fratture e furgone inservibile. Il tutto ebbe delle conseguenze. La più interessante ai fini della nostra storia fu che dovettero rinunciare a suonare al matrimonio di cui sopra; altre situazioni furono che il complesso si sciolse e due di loro si sposarono, ma non erano Marika e l’autista. Marika infatti, dopo aver inutilmente tentato la carriera da solista, prese i voti e divenne suora. Trovandosi senza accompagnamento musicale, la famosa cugina, dopo aver maledetto e insultato il futuro marito che aveva scelto quei
26 musici, in piena crisi isterica ebbe la clamorosa pensata che quel cugino sfortunato, al quale lei sicuramente era sempre piaciuta, era una specie di musicista. Una volta, ovviamente nel tentativo di ottemperare al famoso detto (non c’è cosa più carina…), le aveva regalato una cassetta con i loro pezzi. Fu così che al Ristorante Resort “Le mollissime notti” I Taralli vennero invitati a fare la loro prima apparizione in pubblico. Non è chiaro se si possa definire grande pubblico (c’erano pur sempre seicento persone) tuttavia era un’occasione da non perdere. Effettivamente Martino ci mise un pochino a convincere gli altri, comunque molto meno di quanto ci aveva messo la sposa a convincere lui: essendosi presentata a casa del nostro suonatore di basso con un vestito che lasciava molto poco all’immaginazione e avendogli anche balenato importanti scenari futuri con qualche strusciata fuori ordinanza. La ragazza era veramente disperata avendo precedentemente consumato la cornetta del telefono a forza di cercare alternative. Per avere l’assenso definitivo dai compari, Martino aveva infine giocato la carta che ai matrimoni è notorio e automatico che le invitate ci stiano con i musicisti, quindi era un’occasione da non perdere. Sempre parlando di disperazione, fu la mossa decisiva. Tutti fecero finta di non sapere che era in assoluto la prima volta e successe che la voce di Mario Falsi che cantava Sapore di sale accolse gli sposi all’interno della sala. Incredibilmente la serata fu un grande successo per il gruppo. Seppure nessuna invitata ebbe neanche lontanamente l’idea di avere qualcosa a che fare con quegli sfigati, dal punto di vista musicale e della capacità di fare show si dimostrarono molto portati. L’evoluzione della cosa fu che furono notati sia da persone che erano presenti al matrimonio sia dagli stessi responsabili del locale e
27 ottennero proposte per eventi simili, specializzandosi poi in matrimoni e feste di compleanno o eventi vari. Ripensando a quella serata si deve dire che non tutto si evolse poi nel verso giusto: gli sposi divorziarono dopo otto mesi con clamoroso scandalo parentale in quanto sembrava che il tipo avesse una relazione con un meccanico suo vicino di casa e la relazione stessa fosse condivisa anche dalla sposa, ovviamente l’uno all’insaputa dell’altra. In pratica chi sapeva tutto era il meccanico. Per concludere va anche detto che Martino (comunque infatuato della cugina) venne a sapere del divorzio solo qualche anno dopo in quanto, per soffocare lo scandalo, le notizie erano state criptate. Non appena lo seppe si precipitò a cercare la tipa nel tentativo di riprendere un certo tipo di discorso avviato in un certo mese di maggio; purtroppo gli anni e le delusioni avevano allargato oltre modo le dimensioni della cuginetta e non gli restò che rinunciare, scappare e tenersi un bel ricordo. Per I Taralli le cose andavano bene; l’età anagrafica del gruppo cresceva parallelamente alla pseudo popolarità che li investiva. Erano indubbiamente bravi e avevano la capacità, una volta in scena, di diventare altro rispetto a quello che erano veramente. La timidezza, la disperazione e le paure sparivano come lacrime nella pioggia e, addirittura, cominciava qualche scorribanda nei confronti dell’altro sesso. Era il momento della seconda svolta.
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SETTE
Era il cantante. Era il leader. Era il chitarrista. Ivan Graziani diceva: Signore è stata una svista, non essere severo con il tuo chitarrista. Probabilmente divenne vero leader quando prese la parola quella sera. Il carisma non si impara, il carisma si possiede e basta. È un fardello importante con cui si deve convivere, a volte anche troppo pesante. Mario, seduto su una cassa, la chitarra appoggiata a terra, si guardava le scarpe. «Facciamo roba nostra.» L’interpretazione di questa frase estrapolata dal contesto potrebbe dare adito a mille spiegazioni; in realtà il concetto era tanto semplice quanto rivoluzionario. Basta cover, basta pezzi altrui: scriviamoci le canzoni. Siamo I Taralli. Al di là di tutte le questioni di carattere romantico c’erano delle cose da sistemare, cose tecniche. La più importante delle quali era chi sapesse scrivere la musica; non trascurabile il fatto che servisse qualcuno che sapesse anche scrivere le parole. Sugli arrangiamenti erano fortissimi: ne avevano copiati centinaia. Il tempo era passato anche sulle vite, il tempo passa e sparge polvere. Ognuno aveva intrapreso una via personale staccata dal resto del gruppo, assolutamente consci che il futuro non potesse dipendere dalla musica. Mario non si fece spaventare dalle facce atterrite dei compari e la settimana successiva, alle prove, si presentò con un testo. Ovviamente era un uomo devastato. Era terrorizzato dal fatto che lo potessero trovare ridicolo, che l’avrebbero deriso per sempre. Contava solo sul fatto che quei tipi lì, davanti a lui, tutto sommato avevano poco da prendere in giro: che si
29 specchiassero prima. Quella stanza vicino alla stazione (affittata da un tipo losco che viveva in canottiera perenne) sembrava diventata il covo di una setta satanica. Quando Mario aveva tirato fuori il foglio con le parole era sceso un silenzio vischioso che assorbiva persino la luce. Non aveva fatto copie, aveva una sola versione. L’intercity per Roma delle diciotto e trentadue aveva fatto tremare gli strumenti, i cuori tremavano già. Mario non ce la fece. Francesco si guardò intorno e cominciò a leggere… a recitare. Gocce La prima goccia… i tuoi occhi, troppo vicini all’anima per non confondersi. La seconda goccia… le tue parole, troppo perfette per non credere ai sogni. La terza goccia… le tue labbra, troppo morbide per non tentare i miei baci. La quarta goccia… il tuo sorriso, troppo dolce per sperare che sia solo per me. Poi,
30 prima che riuscissi a guardare il cielo… era già il diluvio. Nel 1789 avvenne la più famosa delle rivoluzioni: quella che avvenne quella notte in quella stanza vicino alla stazione non può comunque considerarsi inferiore. Intanto perché scoprirono che Francesco sapeva recitare (qualcuno disse leggere ma è una leggenda metropolitana) e poi perché capirono di poter essere ciò che non erano mai stati. Il futuro. L’unico che veramente aveva delle conoscenze teoriche sull’armonia era il buon Anselmo il quale, preso da entusiasmo e ispirazione, passò notti in bianco a mettere in musica la poesia di Mario. Quando il primo singolo inedito dei Taralli fu pronto si sentirono come una puerpera dopo il parto. Un brano classico, una canzone d’amore, di quelle che ogni tanto fanno la fortuna di qualche meteora. Ogni tanto. Con pazienza e abilità di cui nessuno avrebbe dato loro credito furono capaci di inserirlo nelle serate che facevano qua e là; come se fosse una cosa di qualcuno famoso, come se fosse l’ennesima riproposizione. Non se ne accorgeva nessuno. Ma loro sì. L’appetito viene mangiando e si misero in testa che magari… forse… si poteva replicare, aumentare, vedere. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD