La scuola (peri)patetica

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In uscita il 30/6/2016 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2016 (3,99 euro)

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MARCO PREMOLI

LA SCUOLA (PERI)PATETICA

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LA SCUOLA (PERI)PATETICA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-001-6 Copertina: immagine di Carlo Nava

Prima edizione Giugno 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Non parlare del coccodrillo prima di essere uscito dal fiume (Proverbio africano)



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1. La scuola di Atene

«Dai, prof, andiamo a puttane!» Esordì il cubano, non appena entrai in classe, con un timido sorrisetto che nelle sue intenzioni voleva essere simpatico e provocatorio, ma in realtà gli riuscì solo di una tenerezza disarmante e spietata, quasi struggente nell’ingenuità del suo approccio infantile, larvata e smorta imitazione di un modo di vivere, l’unico, tramandatogli dagli adulti di riferimento con la loro angusta concezione del mondo. Prima ora per me, che il giovedì iniziavo alle dodici per finire alle tredici, quinta per loro, che ereditavo sempre già ben carburati, quando non bruniti o del tutto brasati, ognuno con la sua sfumatura inimitabile di smarrimento. Mi taccio sulle canne per umana compassione. Il giorno prima, all’uscita, qualcuno tirò fuori l’argomento, dicendo che se le facevano quasi tutti, come diversivo, per rilassarsi un po’, al che io ribattei con paternalismo istituzionale: «Dovreste comunque smettere, perché tutte quelle canne non vi fanno bene.» Saltò su Ezekiel, possibilista: «Eh, prof, magari se mi faccio la figa, smetto.» «Bravo, così sostituisci una dipendenza con un’altra!» Lo so, lo so che non avrei dovuto, nella mia delicata posizione professionale, influenzare in tal modo quei teneri virgulti, invece di deplorare l’uso di un linguaggio così scurrile e inadeguato alle


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loro giovani boccucce, ma è più forte di me: traghettare la verità su una battuta di spirito è un vizio al quale non sono mai riuscito a rinunciare, nemmeno da insegnante. Più che un vizio, è più corretto definirlo un lusso, perché non ne sono dipendente, ma l’ho sempre pagato molto caro, e anche quella volta non costituì eccezione. Infatti con quell’uscita gli avevo dato il la per l’attacco del giorno dopo. Partenza in salita, dunque, giovedì. Per fortuna ci sono abituato, essendo il mio un caso cronico di arrampicatore non sociale. Pur vivendo e allenandomi in pianura, la domenica spesso mi presento al nastro di partenza di competizioni podistiche in montagna, spremendomi sempre senza risparmio per arrivare in cima nel minor tempo, possibilmente da solo. Faticosissime e massacranti, ma senza dubbio utili come preparazione psicofisica per affrontare situazioni del genere. Mi sono sovente rappresentato molti aspetti positivi di tale attività sportiva assai probante e faticosa, riuscendo ogni volta a far pendere la bilancia dal lato dei vantaggi, ma non avevo mai considerato anche questo effetto collaterale della mia sfrenata passione per l’agonismo e per l’alta quota. A volte, le mattinate di un insegnante precario in una scuola professionale possono cominciare anche così. Se ti fermassi a riflettere, azione non consentita per definizione e per contratto in una classe di diciotto adolescenti maschi imbizzarriti, potrebbe capitare di chiederti se per caso non sia già metaforicamente avvenuto – in quella classe, in quella scuola, nella scuola italiana – quanto proposto con tanta spudorata leggerezza dal migliore – stando al rendimento scolastico catalogato dai voti del collega che mi precedette – allievo della classe seconda B. Quella più problematica e più ostica, mi avevano avvisato con tono rassegnato i colleghi che incrociai di volata in sala insegnanti al cambio dell’ora nel giorno del mio debutto, qualche settimana prima. Quel giorno il collega di


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lettere, che ben presto scoprii amare gli studenti in modo tutto suo, più di tutti gli altri, mi buttò lì, salendo le scale, un affabile macigno accompagnato da un sorrisetto complice: «Seconda B? Li devi odiare!» Se c’è un’emissione vocale che immancabilmente ingenera in me una reazione pavloviana di contrasto e opposizione, è proprio l’uso di un qualsivoglia verbo al modo imperativo. Seconda persona. Già alla prima persona ha un effetto assai più mitigato, talora quasi sopportabile, in caso di esortazione condivisa, proprio per il fatto di non disgiungere in maniera così recisa le sorti di chi parla da quelle di chi ascolta, anzi di accomunarle in un paterno e vibrante unisono. E non datemi dell’anarchico o del sedizioso perché, a voler ben osservare, pur senza essere degli psicologi raffinati o degli umanisti di vaglia, si scoprirebbe l’acqua tra il tiepido e il bollente, ossia che la maggioranza di voi è esattamente posizionata come me su questo specifico punto, prova ne è il mio imperativo di inizio frase che a molti di voi ha provocato un leggero senso di disagio. L’uomo moderno odia essere comandato apertamente, dal che discende tutto un fiorire e un prosperare di tecniche di persuasione occulta, condizionamento di massa, indottrinamento subliminale e infiltrazione di pensieri, ormai nemmeno più tanto celate al volgo. In questo sono un perfetto figlio del mio tempo. Comandatemi e state pur certi che farò di tutto, prima o poi, per disubbidirvi. Convincetemi e sarò vostro fino a che qualcuno più credibile di voi non conquisti la mia stima. Ciò non significa che farò quello che direte, ma che perlomeno lo ascolterò, prima di decidere come agire. Uno dei massimi piaceri dell’esistenza è sbagliare da soli, sopravanzato soltanto dalla ineguagliabile e rarissima voluttà di fare la cosa giusta da soli. Se capita te ne accorgi subito, perché nessuno te lo dice: quando fai la cosa giusta nessuno ti dice mai niente. Parlano sempre, tutti, troppo, ma quella volta lì, no.


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Silenzio tombale. Sono tutti impegnati a chiedersi come mai ti è andata così di culo, oppure a far finta di non aver visto, o a controllare che nessuno se ne sia accorto, minimizzando così la possibilità che si diffonda la notizia del tuo pur circoscritto ma innegabile successo. A meno che in qualche modo riescano, di straforo, a piantarci sopra, legittimamente o da mariuoli, anche la loro lercia e stazzonatissima bandierina che da anni tengono in tasca aspettando l’occasione propizia. Allora diventi il loro dio, almeno fino a che non ne spunti all’orizzonte un altro da colonizzare temporaneamente. Come quando nella terza settimana del Tour de France, ancora orbo di italici allori, vince per l’ennesima volta uno straniero semisconosciuto, che so, un sudafricano, o un norvegese, o un lituano, che però ha una bicicletta italiana, o forse solo il sellino, e così l’orgoglio nazionale è salvo, insieme al soprassella del fortunato vincitore e allo stipendio del telecronista, ché magari gli salta fuori pure una gratifica dal costruttore, vedi mai. Non so quale fosse lo scopo reale del mio collega, né ho mai voluto indagare in merito, ma essendo costui un uomo molto intelligente e sensibile, potrebbe anche darsi che in una frazione di secondo mi avesse radiografato l’anima e offerto il consiglio giusto, ben sapendo che io avrei fatto l’esatto contrario, riempiendomi il cuore e le tasche di amore incondizionato per quei ragazzi, mentre salivo di gran carriera quelle due dozzine di scalini che separavano il caldo e ospitale rifugio dell’aula insegnanti dall’inferno dei vivi che si mormorava regnasse nelle classi, nessuna esclusa. O forse, da gran burlone qual era, voleva soltanto farsi quattro risate alle mie spalle nel contemplare le scintille e la gazzarra che sarebbero stati ben presto provocati da un mio acritico allineamento alla sua maliziosa esortazione. Il cubano, alias Ezekiel C., era un tipo taciturno, di mente assai brillante e lingua, quando attiva, ancor più turpiloquente, figlio di un operaio lombardo piuttosto corpulento e avanti con l’età e di


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un’antillana presumibilmente più giovane e avvenente. Della sua situazione familiare non mi ero mai informato direttamente, ma mi capitò di orecchiare risvolti assai spiacevoli. Ezekiel aveva ben pensato, quel giorno, di attingere alla mia personale riserva di amore, pazienza e tolleranza, che avevo deciso a priori, immediatamente dopo l’esortazione a odiarli da parte del collega di lettere, di dedicare alla sua classe e, per subitanea osmosi e imprescindibile equità, anche alle altre due toccatemi in sorte con quella supplenza: la prima A e la seconda A. Bei covi di agnellini pure quelle, ma non si può dire non fossi stato incidentalmente preavvisato proprio dalla segretaria che mi telefonò in un brumoso lunedì mattina di febbraio, facendo riferimento alla lista dei supplenti di fisica e chimica dell’Istituto Professionale Statale I. A., lista nella quale all’inizio dell’anno avevo iscritto il mio nome, il quale a quel punto, dopo il depennamento di una quantità indefinita ma non certo irrisoria di pretendenti, campeggiava in bella evidenza proprio in cima. A giudicare dal tono assai caloroso con cui mi sciorinò l’orario delle lezioni di fisica (sette ore un po’ casuali, sbattute qua e là senza criterio all’evidente scopo di tappare qualche buco, tutte in tarda mattinata o nel pomeriggio, spesso scompagnate, insomma il tipico trantran settimanale da precario alla canna del gas) che mi stava offrendo e dall’entusiastica incredulità con la quale proruppe in un sintomatico: «Davvero la prende? Vuol dire che accetta?» seguito da due secondi di silenzio estasiato dopo la mia incolore risposta affermativa, avrei dovuto dedurre che probabilmente ero l’ultimo della lista, o l’unico non informato dei fatti. Poco male, pensai, meglio una fregatura evidente o perlomeno annunciata piuttosto che una bomba a orologeria infilata in un bel pacchetto dorato e coperto di lustrini. Portavo ancora i segni dell’esperienza scorticante vissuta poco tempo prima in una scuola steineriana, dove ero stato accolto con


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ossequi e sorrisi per poi essere elegantemente catapultato in mezzo alla strada dall’oggi al domani giusto per aver commesso l’ingenuità di comportarmi pressoché come tutti i miei excolleghi: pochissime cose infami e molte lodevoli. Dimenticandomi però di negare e occultare opportunamente codesti disdicevoli atteggiamenti, in modo da poter ricadere indenne nelle benevoli spire della tanto vituperata ma abusatissima formula “Senza infamia e senza lode”, grigio ma solido presupposto di una tacita riconferma annuale. In primis, tra i suddetti disdicevoli, l’insopportabile vezzo – o vizio? – di dire la verità a tutti i genitori; con linguaggio forbito e corretto, ma pur sempre l’antipatica, impopolare e assai poco potabile verità. Nefasta dea. Tutti, a parole, la cercano; quando la trovano, alcuni la sfiorano senza vederla, i più fan finta di nulla e gli altri fuggono inorriditi. Ho visto persone degnissime e rispettabili coprirsi senza vergogna né contezza delle peggiori nefandezze intellettuali, morali e materiali pur di riuscire a negare agli altri, con la stessa strenua pervicacia con cui sono riuscite a negarle a se stessi, delle verità talmente palesi e incontrovertibili da rasentare quasi l’ovvio. In breve, alla steineriana, su fervente esortazione di almeno un paio di famiglie che mi odiavano di cuore e con il silente beneplacito o il comodo non interventismo delle altre, mi accompagnarono alla porta, o meglio me la indicarono con una certa fermezza, senza però imprimere, bontà loro, impronte di stivali sul mio fondoschiena; aggiungendo a mo’ di parziale consolazione, facilmente equivocabile con un’involontaria ma ben riuscita presa per i fondelli, che però sarei potuto essere un ottimo insegnante per le scuole superiori. Che acume: io lo sapevo da più di vent’anni! La solita scoperta dell’acqua alla già menzionata e ben nota temperatura. Peccato non vantare nemmeno lo straccio di un titolo riconosciuto dal Moloch statale, a parte la non trascurabile laurea in ingegneria chimica


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conseguita quasi venticinque anni fa, utile almeno per arruolarmi nell’eterogeneo e smarronato esercito dei precari. Dopo un movimentato e intenso periodo di transizione, già diffusamente narrato altrove, senza troppa convinzione mi lasciai guidare dall’amorevole cassiera del vicino negozio di alimentari, forte dell’esperienza della sorella insegnante, a intraprendere la bizantina trafila burocratica per consegnare la domanda di inserimento nelle liste dei supplenti in una ventina di scuole del circondario. Una sequela di documenti e di adempimenti infarciti di bizzosi tecnicismi e cavilli bizantini da far passare la voglia a chiunque ma, con l’aiuto di persone gentili e volenterose incontrate durante l’iter, alla fine recapitai tutto l’incartamento nei tempi previsti alla scuola scelta come capofila, la più vicina a casa, proprio quella che mi avrebbe chiamato mesi dopo. La fortunata segretaria, cui risolsi un problema abbastanza spinoso accettando l’incarico, mi arpionò con decisione inducendomi a firmare subito il contratto, cosa che feci appena dopo aver riattaccato, e a prendere servizio già dalla mattina seguente, martedì, il giorno più pesante per me, tre ore inframmezzate da un buco, in tutte e tre le classi. Non avendo precedenti esperienze, a parte qualche sporadica lezione privata, prima di riattaccare e recarmi in sede per la firma, azzardai timidamente che forse non sarei stato in grado di ripartire subito col programma in maniera adeguata, dovendo affrontare un avvio talmente repentino, ma lei replicò sorniona, quasi sorpresa da un siffatto scrupolo morale in un uomo della mia età, di non preoccuparmi: «Lei vada lì domattina e intanto veda di che morte deve morire, poi con calma penserà al programma…!» “…se mai Le dovesse riuscire il miracolo di portarlo avanti”, credo fosse il sottotitolo che le scorreva in testa a caratteri cubitali mentre mi congedava amichevolmente, dandomi appuntamento a più tardi.


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Non si può dire che non fossi stato avvisato, dunque. Uno assai meno intelligente e perspicace di me ci avrebbe impiegato un nanosecondo per subodorare la buggeratura, ma io non ci feci caso, o meglio non volli dar peso a quei segnali inequivocabili di situazione di emergenza o comunque assai compromessa. Anzi, a dire il vero li vissi come uno stimolo, ben sapendo che proprio nelle condizioni più critiche e sfidanti riesco a dare il meglio di me, sempre che mi si lasci ampia autonomia e non mi si faccia fuori prima, come accaduto nella precedente esperienza. D’accordo, non amo la routine, ma ben presto dovetti rinunciare all’idea di preparare in anticipo, sia pur vagamente, ogni lezione. Ormai mi facevo un’idea di larga massima del programma ministeriale e poi navigavo a vista, improvvisando su un canovaccio noto a seconda degli umori e delle turbolenze di giornata. Non c’era mai da annoiarsi con quei ragazzi e, benché facessi costante sfoggio di olimpica impassibilità e mi fossi imposto di non cedere a nessuna provocazione e di non stupirmi di fronte a nulla, quando Ezekiel se ne uscì con quella sparata non trovai di meglio che rispondergli a bruciapelo, serafico e bonario come se mi avesse proposto di uscire a bere un caffè, con un’altra domanda, l’unica argomentazione dotata di un minimo di senso logico per le loro giovani orecchie: «Perché mai andare a puttane quando ci sono in giro tante ragazze disponibili gratis?» Solido ragionamento di stampo prettamente ingegneristico, un po’ cinico forse, ma senza dubbio realistico e intonato; probabilmente non se l’aspettava perché si chetò subito. Non me l’aspettavo nemmeno io; credevo di essere stato ingaggiato per insegnare fisica, non certo per smerciare buon senso intriso di trivialità. In ogni caso, quando li si stupisce, per un po’ ci si guadagna una tregua nella quale cercare di lavorare, ma mica è facile estrarre dal cilindro la battuta giusta in ogni circostanza. Certo, il mio ideale di scuola è sempre stato la scuola peripatetica


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di Aristotele, ma non avrei mai immaginato che un allievo spostasse, sia pur inconsapevolmente, tutta la questione dall’aggettivo al sostantivo, riducendo così una nobile attività accademica alla stregua di una moderna passeggiatrice in abiti succinti! Qualche tempo dopo spiegai alle mie classi questo utopistico progetto, raccontando loro come nell’antica Grecia spontaneamente alcuni giovani interessati a evolversi si radunassero all’aperto attorno al loro indiscusso maestro, ponendogli quesiti e ascoltando con attenzione le risposte, senza costrizione alcuna ma solo per libera volontà, spesso camminando insieme a lui, da cui l’appellativo di scuola peripatetica. Così si narra. Alcuni dei ragazzi nell’udirlo si entusiasmarono e lo approvarono calorosamente. «Il cortile ce l’abbiamo, bello grande, la stagione è favorevole, chi vuole mi segua e ponga le domande che gli stanno a cuore e gli altri ascoltino in silenzio, oppure si arrangino senza disturbare chi è interessato, ecco come farei se la scuola dipendesse in toto da me. Senza obblighi di alcun genere. L’obbligo è la tomba dell’entusiasmo. Secondo voi, gli eccelsi capolavori dell’arte e le grandi scoperte della scienza sono scaturiti dalla coercizione dei legislatori oppure dall’ardente passione di artisti e scienziati?» Non era demagogica captatio benevolentiae, bensì una proposta operativa seria, che mi guardai bene dall’attuare solo per evitare che mi piovessero addosso grane di ogni genere. Pioveranno ora. Invece di rincorrere l’utopica scuola peripatetica, lasciamo perdere, scendiamo dai peri, come diceva mia mamma, donna estremamente pratica, e che la scuola rimanga solo quel che è diventata: patetica. Domande irrisolte, difficili e molto profonde urgevano e urgono in quei ragazzi, e in tutti gli altri; spesso scaturivano improvvise, senza alcun nesso logico con il tema della lezione, ma ogni volta mi lasciavo interrompere volentieri – magari le interruzioni


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fossero tutte così pregnanti! – e li esortavo talvolta a ripeterle a beneficio di tutti, poi tentavo comunque di imbastire un minimo di risposte esaurienti, per quanto complesse e intricate fossero, perché glielo dovevo; ero l’unico adulto a loro disposizione e se avevano avuto la necessità di tirar fuori proprio quella domanda e porla proprio a me non potevo certo far finta di niente. Oppure sì, ma li avrei delusi, come molti degli adulti o presunti tali con cui avevano a che fare. Molto meglio rischiare una figuraccia che deluderli a priori: per me era lampante e pacifico; non così, evidentemente, per una buona parte degli adulti con cui quei giovani avevano avuto a che fare. I giovani per molti adulti sono un peso – non per niente in dialetto vengono apostrofati bagaj (bagaglio) – oppure della carne fresca da sfruttare e spremere cinicamente fino al midollo, in ossequio a leggi puramente economiche. Pochi sono interessati al loro sviluppo come persone, eccezion fatta per i genitori, e anche quelli purtroppo con parecchie defezioni. Certo, le loro domande erano delle mattonate non da poco, in confronto alle quali l’invito provocatorio ad andare a puttane era una pura bazzecola. «Lei crede in Dio?» «Il destino esiste?» «È vero che usiamo solo il cinque per cento del nostro cervello?» «Conosce la legge di attrazione?» «Posso andare in bagno?» No, scusate, quest’ultima si è infiltrata per sbaglio, ma me l’hanno ripetuta tante di quelle volte che ormai mi ci sono completamente assuefatto e salta fuori dappertutto! Me le ero già poste tutte quante pure io quelle stesse domande, e credevo di aver trovato delle risposte soddisfacenti. Per me. Per loro, non so. Io gli comunicavo quanto ritenevo di aver scoperto fino a quel momento, esortandoli a non prender mai nulla per oro colato, bensì a esercitare una seria ricerca di tipo scientifico e a


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intraprendere un esame critico accurato e spregiudicato per verificare ogni ipotesi o scoperta. Chissà se almeno uno di loro l’avrà recepito… Comunque, caro Ezekiel, in tutta sincerità io a puttane se non metaforicamente non ci sono mai andato, non per scrupoli morali o economici, bensì per tradizione familiare. Ebbene sì, le tradizioni familiari, buone o grame che siano, sono imponenti e le erediti sottopelle anche se non te le dice mai nessuno, come questa, e poi te le porti addosso inconsapevolmente per tutta la vita; informano il tuo agire e il tuo sentire finché a volte, nei casi più fortunati, non te ne rendi conto di persona e allora puoi decidere se continuare a praticarle in piena coscienza, oppure cambiare rotta. In ogni caso, ammesso e non concesso che avessi acconsentito ad accompagnarti, giusto per sondare fino a che punto sarebbe arrivata la tua fanfaronata, alla fine avresti dovuto pagarmele tu, perché con sette diciottesimi di stipendio da precario, rimane ben poco da scialare.


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2. Tempi moderni

Non ricordo bene come impostai il resto della lezione, di certo però quella volta non presi spunto dall’imbeccata iniziale per imbastire una spiegazione di qualche teorema o legge fisica inerente, dato che ogni fenomeno in natura ha in qualche modo a che fare con la fisica. Collegandomi alle puttane e attività connesse, mi sarei agevolmente potuto addentrare in complesse trattazioni sul moto armonico forzato (bifase, come amava precisare con un furbo sorrisetto il mio relatore di tesi alla facoltà di ingegneria), ma non era oggetto del programma e quindi sorvolai. Ben diversamente andò con il lancio di palline di carta, da cui presi lo spunto per estrapolarne l’energia cinetica e introdurre così anche l’energia potenziale, con gran disappunto dei lanciatori. Quando invece sorpresi uno studente maggiorenne alle prese con i test della scuola guida, dedicai la lezione alla dimostrazione numerica degli effetti deleteri dovuti agli impatti a media ed elevata velocità, sfruttando in maniera lapalissiana la correlazione quadratica tra energia e velocità. Lo chiamai alla lavagna e gli feci calcolare, con estrema difficoltà, l’energia cinetica di un veicolo a diverse velocità. Poi trassi le raccapriccianti conclusioni. «Almeno ora sai che se ti schiantassi a sessanta chilometri orari invece che a trenta produrresti un danno quadruplo, in termini di energia di deformazione, nella quale per semplicità si suppone trasformarsi tutta l’energia cinetica del veicolo. A centoventi


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chilometri orari il danno è sedici volte maggiore che a trenta. E adesso che sei informato di quel che può succedere schiacciando troppo l’acceleratore, tenta pure di prendere la patente e… buona fortuna!» I ragazzi vanno presi lì dove sono, inutile calar loro addosso dall’alto una dotta e dettagliata programmazione teorica quando la realtà in cui sguazzano è così immensamente distante. Ezekiel andava preso su Youporn, evidentemente, poiché qualche giorno dopo alla fine dell’ora, nella fase di relax, o più spesso di casino totale, precedente l’uscita – momento prediletto da chi voleva dirmi qualcosa in pseudo-intimità poiché nel marasma generale ci si confessava più volentieri essendoci meno orecchie di compagni a portata di ascolto – mi esplicitò il suo desiderio di diventare attore di film porno, ossia di emulare i suoi attuali idoli. «Così, oltre a fare un mestiere che mi piace magari poi mi porto anche il lavoro a casa!» Sorriso furbo a trentadue denti. Ineccepibile, non per niente era il migliore della classe. Gli altri non ci avrebbero nemmeno pensato agli straordinari, pigri com’erano! Un ragazzo di iniziativa, niente da dire, ma dovetti subito raffreddargli i facili entusiasmi rivelandogli che, come tutti i lavori, anche quello presentava i suoi lati negativi, forse non così evidenti di primo acchito, ma ben corposi e sensibili. «Tanto per cominciare, credi che sia facile stare sotto i riflettori, davanti alle telecamere, con intorno tutta la troupe, operatori, tecnici, regista, costumisti (beh, sì, ci sono anche loro, benché in effetti giochino un ruolo piuttosto marginale in quel particolare contesto…) e compagnia cantante, che pensano ognuno ai fatti propri mentre tu ci devi dar dentro senza sosta? Mica da tutti, indubbiamente. Ma posto che tu ti rivelassi davvero all’altezza della situazione, quanto credi di durare? Dopo due o tre anni di quella routine, tutti i santi giorni, anche quando proprio non ne hai voglia, arriva un giorno in cui ti rendi conto che forse puoi


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aspirare a qualcosa d’altro, o semplicemente ti sei stancato. Sei diventato una catena di montaggio (lungi da me l’intenzione di introdurre un doppio senso), ti ricordi Charlie Chaplin in quel famoso film?» Sguardo intelligente e disincantato. «Eh, in effetti, prof…» Campanella. Stretta di mano. Una mano dice molte cose, soprattutto se ci si guarda anche negli occhi. Stringevo sempre la mano ai miei allievi, all’ingresso e all’uscita, uno per uno. E li chiamavo tutti per nome, dal primo giorno, quando li avevo stupefatti passando banco per banco e chiedendo loro il nome, mentre mi presentavo dandogli la mano e cercando il loro sguardo, spesso sfuggente. Il secondo giorno, il loro nome glielo dicevo io. A quasi tutti, circa ottanta ragazzi in totale; ho buona memoria, ma non infallibile. Qualcuno me lo conquistai così, a poco prezzo, solo riconoscendo la sua identità di persona. «Non ci credo, ma come fa?» Mi diceva con gli occhi che brillavano mentre lo chiamavo col nome giusto, il suo, quello che a volte non usava mai nessuno lì dentro e che io avevo udito una volta sola, anzi due: una all’inizio e una alla fine della prima lezione. Niente trucchi, niente inganni: se mi ricordo di te, vuol dire che in qualche imperscrutabile modo mi stai a cuore; non solo tu, ma anche il tuo compagno di banco, di cui mi hai sentito pronunciare il nome. Questo era il messaggio che gli si infilava sottopelle, senza bisogno di dire nulla. Un ragazzo scoprì che il suo compagno si chiamava Lucio dopo averlo sentito pronunciare da me. Sapeva solo il suo cognome alla fine di febbraio della seconda, e non credo fosse l’unico. Quindici mesi insieme, per circa sei ore al giorno.


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… Molti matrimoni durano meno. Neanche il nome… I veri CPT erano lì: Classi di Posizionamento Temporaneo. Ognuno perso dentro ai fatti suoi. L’unica differenza apprezzabile col Roxy Bar era che in classe, almeno per il momento, non circolavano alcolici. I saluti iniziali erano di gran lunga i minuti meglio spesi della mia giornata scolastica, benché i colleghi mi guardassero inorriditi, storcessero il naso e, di sicuro, quando non vedevo e non sentivo, mi dessero del pazzo, o quantomeno dell’originale. «Gli stringi la mano? A quelli lì?!» esalò, inorridito, il mio compresente in seconda A la prima volta che assistette a quell’inconsueta e innovativa cerimonia di apertura dell’ora. «Arrivederci prof.» Dopo un millisecondo, Ezekiel era già scomparso insieme agli altri, risucchiato nella tromba delle scale verso un’illusoria libertà, di cui non sapeva proprio che farsene. Quella volta mi era andata bene, perlomeno il messaggio gli era arrivato e mi aveva persino fatto intendere di averlo recepito. Non sempre andava così di lusso. Di solito, per comunicare loro qualcosa di importante avevo a disposizione dai due ai tre minuti circa ogni lezione, quasi mai tutti di fila e quasi mai avendoli di fronte tutti insieme. Non c’era da lottare su questo, sarebbe stata una battaglia persa, con gravi perdite su entrambi i fronti. Mi stupivo del fatto che alcuni colleghi non l’avessero ancora capito e si ostinassero a sanzionarli con ridicole e infruttuose note disciplinari a grappolo, della cui efficacia erano i primi a dubitare. Uno strumento pensato per un utilizzo estemporaneo e del tutto straordinario non può essere impiegato con cadenza quotidiana senza distorsione e svilimento del suo istituto. Con la paura, ammesso e non concesso che si riesca ancora in qualche modo a incuterla, non si educa, al massimo si addestra o,


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più maldestramente, si getta la polvere sotto il tappeto per qualche tempo. Ci rinunciai subito all’uso della forza e non perché io fossi un pavido, ma perché bisogna essere forti coi forti e deboli coi deboli, e lì dentro di forti ce n’erano ben pochi, purtroppo per loro. Qualche furbo, sì, ma di mezza tacca, piccolo cabotaggio. Molti erano più intelligenti e brillanti di quanto non dicessero i loro voti, invece, ma abilmente dissimulati per uniformarsi alla grigia mediocrità generale e confondersi indolenti nella massa. Da un lato si vergognavano di brillare e spiccare sui compagni, dall’altro volevano primeggiare, avere voti alti ed essere ben considerati dal corpo docente, preferibilmente però barando, usando l’astuzia e traccheggiando per acquisire meriti presso il gruppo finto adoratore dei furbi, degli scaltri, dei doppiogiochisti e dei contestatori, ma pur sempre adoratore. Il gioco consisteva nel riuscire a fare casino e farsi i fatti propri il più possibile, studiare il minimo, copiare il massimo e ottenere i voti migliori senza prendere note o farsi beccare, possibilmente sfruttando i compagni e mantenendo in pugno gli insegnanti bilanciando sapientemente astuzia, finta innocenza, spavalderia e arroganza truccate da coraggio. Poi c’erano delle eccezioni, parecchie, alcune anche lodevoli, ma nel marasma generale passavano quasi inosservate, o meglio finivano sommerse. Allora indossavo lo scafandro da palombaro e cercavo di riagganciarne qualcuna, con discutibile difficoltà. Non c’era il tempo materiale di prenderli uno per uno, ché a dedicar loro del tempo sarebbero saltate fuori delle qualità assai interessanti. Certo, occorrono pazienza e dedizione, che in genere i prof sotto pressione non hanno; la prima perché gliela fanno perdere con indefesso logorio gli studenti stessi, i burocrati, il ministero, i concorsi, gli scioperi, i fenomeni che hanno la ricetta magica per la buona scuola; la seconda per raggiunti limiti di scoramento. E poi, una volta trovate le qualità, talvolta cercandole col


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lanternino o estraendole col forcipe, spesso osservando semplicemente i ragazzi senza le consuete maschere sovrapposte, inizia la parte più difficile: aiutarli a riconoscerle, coltivarle e svilupparle appieno. Io, confesso che non ce l’ho fatta. Loro, speriamo che se la cavano. Una volta, almeno, lo scrivevano i bambini nei temi: “Io, speriamo che me la cavo”, il padre di tutti gli anacoluti, divenne l’emblema di una situazione drammatica ma non ancora completamente disperata; questi giovani nemmeno più esprimono la speranza di cavarsela, perché non si può esprimere qualcosa che non si possiede. Lo faccio io in vece loro, sperare; non posso molto di più. Avrei potuto anche tacere della mia impotenza educativa, nessuno me lo avrebbe mai chiesto. Nessuno mi ha mai chiesto nulla, a parte redigere i verbali dei Consigli di classe (e anche lì con museruola, perché uno che scrive proprio tutto risulta piuttosto scomodo). Solo adempimenti burocratici e amministrativi. Voti, assenze, programmi svolti e relazioni finali. Educare i futuri uomini, no, questo no, non interessa a nessun detentore del potere. Non sia mai che per sbaglio qualcuno impari a pensare con la propria testa e si renda conto di tutto il teatro imbandito della politica con estremo acume per confondere le idee a chiunque. La scuola, perlomeno quella che ho toccato io con mano, ha dunque gettato la spugna. E nemmeno con gran dignità.


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3. La parola contraria

Prima di proseguire coi miei piccoli fallimenti e le mie grandi speranze di insegnante transitorio, un breve excursus, con buona pace di tutti i manuali di buona scrittura e di tutti quei tromboni paludati che si vantano di conoscerla, la buona scrittura. Che la propaghino, allora, invece di tenersela per sé, ricordandosi però che la buona scrittura da sola non basta, ci vuole anche qualcosa di bello e di vero da scrivere bene, altrimenti è pura accademia, lettera morta, che appunto “accade mia”, come direbbero gli amici bergamaschi, dove il mia sta per mica. Non accade, non diviene, non esiste, la pura accademia. In queste pagine di sicuro qualcosa accade, anzi è accaduto davanti a me. Troverete il vero, a parte i nomi che ho avuto la premura di cambiare per evitare che quei drittoni dei miei studenti mi vengano a chiedere una percentuale sui diritti, putacaso ne vendessi più di due copie (quelle di mia zia e di mio fratello, almeno loro me le compreranno!). Non so quanto ci sia di bello, per me però sono bellissimi tutti questi ragazzi senza speranze, senza passioni, senza ideali, senza presente e senza futuro. E senza il loro supplente di fisica che, proprio perché sapeva che l’anno successivo non li avrebbe più avuti essendo un miserabile precario senza abilitazioni né TFA – no, non è la sigla di una malattia rara; per quanto io mal sopporti gli acronimi sta per Tirocinio Formativo Attivo e purtroppo fa ormai parte in pianta stabile del lessico di molti precari – ha pensato bene di


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fargli un piccolo regalo a fine anno. Ma non è un lieto fine, solo apparente prodigalità: nel finale vedrete perché. Ve lo dico subito, prima che vi illudiate di trovare chissà quali rivelazioni nel resto del libro, o una conclusione eclatante e strappalacrime corredata dalla ricetta del secolo per la buona scuola. Che non ho. Altrimenti ora sarei come minimo Presidente del Coniglio – la estrarrei dal cilindro, a mo’ di Mago Silvan – o Ministro della Distruzione, di che cosa indovinate un po’ voi. In compenso ho constatato dal vivo come si crea una cattiva scuola, innescando un circolo vizioso molto più semplice da fomentare rispetto a un circolo virtuoso. Il lieto fine non c’è, né ci sarà mai per la nostra povera scuola se non le imprimiamo il prima possibile un brusco e repentino cambiamento di rotta. Lo affermo con rammarico, all’inizio, senza nemmeno farvi aspettare la fine, e con enorme tristezza, perché ho trovato che la scuola italiana è ricca di grandi personalità, di insegnanti eccellenti, volenterosi, preparati, di studenti che vorrebbero appassionarsi alla vita e non chiedono di meglio che incontrare qualcuno che li appassioni, ma come fai a trasmettere una passione che non arde più dentro di te, se te l’hanno smorzata a forza di snaturare il vero rapporto che dovrebbe esistere tra un educatore e un allievo? Sì, ho scritto educatore e non insegnante, perché le parole sono importanti, anche per un professore di fisica che lavora in gran parte con formule e numeri. Perché di educatori si tratta, di quelli c’è un gran bisogno nella scuola e, di riflesso, nella società, non di puri e semplici insegnanti, bensì di veri educatori. L’insegnante conosce bene una cosa e, se è bravo, la sa pure insegnare, magari in cinque – meglio dieci – modi diversi. Trasmette un sapere. Questo conta, ma fino a un certo punto. Il sapere, ammesso e non concesso che si riesca a trasmetterlo, il che non mi pare avvenga ovunque e con assoluta regolarità, da solo non basta. È l’idea che mi sono fatto nei pochi mesi di lavoro


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nella scuola. Ogni adulto può essere un educatore in ogni istante e in ogni circostanza, con l’esempio, i pensieri e il comportamento, ma ogni insegnante non può permettersi di non essere sempre un educatore. Molti colleghi più esperti, anziani e scafati, mi odieranno per queste parole che suonano ampollose e utopiche. Pazienza. Non sono un politico, né mai lo potrò essere. Amo invece la verità, la più esigente e scomoda di tutte le amanti possibili, a ogni latitudine, in particolar modo nei dintorni del quarantacinquesimo parallelo. Quella che segue non è la cronaca di un successo, né di un fallimento, non è l’epopea di un grande pedagogo incompreso e sottovalutato, né il resoconto del massacro di uno sprovveduto pivello quasi cinquantenne gettato in pasto agli studenti mannari, è solo un racconto il più possibile imparziale, obiettivo e veritiero di un’esperienza personale in una realtà scolastica particolare, ma non certo rara o unica nel suo genere, benché forse non pienamente rappresentativa della condizione media della scuola italiana. La condizione media sapete tutti che non esiste. Se qualcuno ancora non lo sapeva, da adesso lo sa. La media è una pura estrapolazione cerebrale, una fantomatica aberrazione della statistica, questa pseudoscienza un po’ sopravvalutata e talmente criminale da cercare di convincervi a rappresentare la realtà di due persone, una che mangia un pollo e l’altra che la guarda, dicendovi che in media queste due persone hanno mangiato mezzo pollo a testa. Che razza di attendibilità scientifica possiamo attribuire a una disciplina che, solo per semplificare i calcoli, travisa due semplici ed evidenti verità sostituendole con due mezze menzogne, entrambe zoppe? Tutta l’economia moderna si basa sulle statistiche, e come stupirsi che l’economia vada a rotoli se si fonda su tali premesse? E ora mi attendo levate di scudi dai grandi luminari, dai politici, dai banchieri e dagli economisti. Non parliamo degli statistici che


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mi metteranno in croce dopo avermi spellato vivo e gettato nell’olio bollente. Metaforicamente, s’intende, perché ormai nell’era mediatica non si sporca più le mani nessuno. Però quell’uomo che non ha mangiato il pollo non ha mica tutti i torti; su, siate obiettivi, cari i miei statistici: trovatemi uno solo di voi che sia disposto a far cambio per sempre con quel poveretto, che anche il giorno dopo continuerà a guardare il suo compagno mangiarsi il pollo, e il giorno dopo ancora, perché il ricco che divide col povero esiste solo nelle favole e nei libri di statistica – eccezion fatta per San Martino di Tours – e così le statistiche rimarranno invariate fino a quando il poveretto morirà di fame, e allora gli statistici e gli economisti potranno finalmente tirare un sospirone di sollievo, annunciando urbi et orbi che l’economia è in ripresa e tutta la popolazione ora mangia un pollo a testa. In crescita anche le pompe funebri. “Ma come si permette questo professorucolo precario da quattro soldi, e quell’imbecille d’un editore a pubblicargli queste ignominie! Vedete un po’ se ci sono gli estremi per fargli causa, a quest’accozzaglia di disfattisti! Anzi, no, ché con la causa gli si fa troppa pubblicità e va a finire come Erri De Luca con la TAV, compriamogli in blocco i diritti e blocchiamo la pubblicazione, magari se si riesce ci compriamo pure l’editore, così la smette di rompere i coglioni anche lui. Altrimenti analizzate il testo, sezionatelo, trovatemi degli errori di grammatica, di sintassi, di ortografia, dei congiuntivi sbagliati e seppellitelo sotto una valanga di recensioni negative. Oltre alla consecutio che – me ne sono accorto pure io – è zoppicante, ma tanto adesso va di moda, basta che l’autore dica che l’ha fatto apposta per rendere meglio l’attualità della situazione e lo osannano come un dio. Massacratelo, ma in punta di piedi, senza farvi notare. Pedagogista, un babbeo del genere, o meglio degenere, che li ha promossi tutti solo per ingraziarseli, quei mezzi delinquenti dei suoi allievi, così almeno non gli rigano la macchina. Libero


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pensiero! È così fuori dal tempo, così sorpassato che rischia di trovare qualcuno che gli dia pure retta, il Cielo non voglia! Dovrebbero interdirlo dai pubblici uffici vita natural durante, altro che affidargli una classe! Controllate un po’ chi c’è dei nostri in Provveditorato e vediamo di… provvedere in fretta.” Ah, quasi dimenticavo. Il mio primo lavoro importante nell’industria fu uno studio su emissioni di gas serra in atmosfera basato prevalentemente su dati statistici. Lo presentai persino in una sessione poster al Convegno Mondiale del Gas, con discreto successo. Nella mia ex azienda c’è gente che ci campa egregiamente ancor oggi, dopo più di vent’anni, su quei dati. Applicata al gas, la statistica è assai meno crudele che con gli uomini. Giusto per dare a Cesare, non certo per ritrattare il mio sfogo detrattore. Dopo aver fatto tutta questa fatica per crearmi dei nemici, sarebbe un peccato dilapidare così il loro autorevole sdegno. Un nemico è prezioso quanto un amico, e talvolta è assai più utile strategicamente. Andate a chiederlo a chi addestrò Osama Bin Laden…


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4. French connection

L’insegnante dev’essere un uomo d’iniziativa, diceva Rudolf Steiner. D’accordo, ma non ha mai specificato fino a che punto dovesse estendersi tale iniziativa, lasciando giustamente il posizionamento dei paletti alla sensibilità del singolo. Comunque, se non avessi chiesto io i programmi in segreteria dopo la prima settimana esplorativa, nella quale effettivamente vidi di che morte avrei dovuto morire – ed era una morte che non mi piaceva granché – chissà se qualcuno si sarebbe mai preso la briga di venirmeli a consegnare. Mi pareva di essere stato arruolato in un esercito allo sbaraglio, tipo quello italiano subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. In fin dei conti ero un novellino esattamente come la mia collega supplente di lettere, catapultata in piena mischia poco dopo di me, venticinquenne salernitana neolaureata di belle speranze e di bella presenza, il che le creò non pochi problemi con quella banda di assatanati, uno dei quali l’ultimo giorno di scuola le chiese se ci sarebbe stata anche l’anno successivo, e alla sua inevitabile risposta negativa le sbrodolò addosso una sequela di insulti da far accapponare la pelle a uno scaricatore di porto. In sintesi, le disse quello che lei non era e ciò che lui avrebbe invece voluto che fosse, con ogni probabilità. Le puttane si comprano, è solo questione di contrattare sul prezzo, e questo facilita di molto i rapporti sociali a una persona in divenire che non è ancora in grado di padroneggiare i propri


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sentimenti. Di certo non in grado di amare, ma sempre in buona – nel senso di nutrita – compagnia. Qualcuno tentò di comprare anche me, agli inizi, quando ancora non avevano capito la mia strategia valutativa (nemmeno io ce l’avevo ancora ben chiara, e anche adesso mi sfugge ancora un po’, ma quel che conta è che non se ne sia mai lamentato nessuno). Un giorno, all’inizio dell’ora, il momento delle confidenze e dei trabocchetti, in seconda A Francois S., detto French, un tipo taciturno al primo banco con lo sguardo un po’ da scienziato pazzo tipo Spennacchiotto e la media del tre con il mio predecessore, sicuramente un genio nascosto, del quale però ogni tanto riuscivo a captare l’attenzione, mi adocchiò con fare complice facendomi intravedere, ben nascoste nel cavo della mano, una banconota rossastra e una verde, quindi minimo centocinquanta euro, e poi mi buttò lì tanto per sondare: «Dai, prof, soldi sporchi… mi dà un bel sette…!» Mi misi a ridere sotto i baffi pensando a quanto sarebbe rimasto sbalordito quando il sette se lo sarebbe forse ritrovato lo stesso nella relazione di laboratorio che avevo in mente di far loro consegnare e di valutare poi molto generosamente, risparmiandosi la tentata corruzione. Sulla quale, inutile dirlo, sorvolai, sia per magnanimità sia perché comunque non avendo testimoni mi avrebbe agevolmente fatto passare per fesso e visionario. Non farsi mai irretire in dispute di dubbia efficacia, rinunciare a permalosi puntigli personali e cattedratiche questioni di principio, in quelle condizioni non era sintomo di codardia, bensì di superiorità, intelligenza e avvedutezza. Infatti la settimana successiva, quando riconsegnai le relazioni, lo sentii mormorare ai compagni, esterrefatto e incredulo: «Mi ha dato sette meno! E senza pagare!» Gli stavo sottraendo un punto di riferimento, ma mi ringraziò con incredula ammirazione. A volte anche gli avvenimenti positivi sortiscono l’effetto di farti mancare la terra sotto i piedi.


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All’inizio pensi di sprofondare, invece poi ti ritrovi magicamente a volare. Nella sua espressione smarrita c’era tutto lo sconcerto e lo sbigottimento di chi si rende conto improvvisamente di avere a che fare con un pazzo, o con un genio, che poi è la stessa cosa, ma lo sappiamo solo noi… Certo che in quella proposta c’era tutto un mondo cui io mi sentivo così estraneo e nel quale invece avrei dovuto a tutti i costi penetrare, per cercare di stabilire un minimo di rapporto con quei ragazzi così… stupefacenti! Non potei fare a meno di sorridere di cuore di fronte a tanta innocente sfrontatezza. «Dai, un bel sette!» ripeté, sorridendo anch’egli, tanto per chiudere con eleganza una trattativa che non era nemmeno iniziata. «Ma che te ne fai dei voti… l’importante è ben altro, nella scuola e nella vita. Non si viene a scuola per il voto, ma per imparare a vivere. Quello che impari è tuo per sempre, non lo compri al mercato.» Con me osavano quello che con gli altri non avrebbero mai osato, ne ero ben conscio, e se da un lato questa loro aperta franchezza mi galvanizzava, dall’altro mi esponeva a ogni tipo di sgradevole sorpresa. Inoltre rischiavo di perdere la considerazione dei miei colleghi, di cui spregiavo le uniche armi spuntatissime e loffie: i voti e le note, residuati bellici di un tempo che fu e che ci si ostina a voler perpetuare, mummificati e stantii. Voti e note. Ambizione e paura, entrambe buttate a mare consapevolmente il primo giorno. Volevo nuotare da solo in quello stesso mare, senza ciambelle cui potermi aggrappare. Come fai a insegnare ai ragazzi a muoversi in modo autonomo se tu stesso hai bisogno di surrogati farseschi di autorità e prestigio per sopravvivere in classe? I voti non li avevo potuti abolire del tutto dato che, pur


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ritenendoli di gran lunga più dannosi che utili, non approvavo moralmente la formula del 6 politico. Col senno di poi avrei forse potuto avere più coraggio e responsabilizzarli integralmente, dicendogli subito con chiarezza che non avevo intenzione di bocciare nessuno, però avrei corso il rischio di vedermeli afflosciare di giorno in giorno, fino a completa dissoluzione. Dopo una prima spazzolata conoscitiva tramite un compito di recupero chiestomi a gran voce in tutte le tre classi, mi resi conto che la situazione generale era assai più scadente di quanto potessi prevedere, come vedrete più in dettaglio nel seguito. Non avrei mai immaginato si potesse giungere a un livello così infimo, ma non tutte le responsabilità di quello stato di cose debbono essere ascritte ai giovani virgulti. Per farla breve, in ogni classe ne avrei potuti salvare tre o quattro al massimo, perciò riposizionai al ribasso le mie aspettative e decisi di alzare a tutti il voto di un paio di punti. Arbitrario per arbitrario, tanto valeva provare a valorizzarli ben oltre i loro reali meriti. Male che vada mi licenziano, pensai. I piccoli vantaggi della docenza a termine. Quando hai già perso tutto in anticipo, inclusa la cosiddetta decenza, puoi concederti di sperimentare in libertà. Peccato che quasi nessuno lo faccia mai, in vita; eppure sappiamo bene tutti quanti che anch’essa è a termine. Francois ogni tanto mi degnava della sua attenzione mentre spiegavo, e a me bastava che almeno due su trenta mi seguissero; sono uomo di poche pretese. «Chi non segue peggio per lui. Io la fisica la so già, siete voi che dovreste cercare di capirla.» Un giorno, stavo spiegando il mulinello di Joule per dimostrare l’equivalenza fra calore e lavoro, avendo premesso che ora ci può sembrare banale questo semplice esperimento, ma a quei tempi era una scoperta innovativa e fondamentale per lo sviluppo della fisica e della tecnica moderna. Erano stranamente tranquilli e potei spiegare con dovizia di particolari, tracciando pure alla


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lavagna un disegno abbastanza dettagliato della massa legata a un filo arrotolato al mulinello che, cadendo per un certo tratto, fa muovere le pale le quali trasferiscono quell’energia potenziale all’acqua contenuta nel recipiente termicamente isolato e collegato a un termometro, riscaldandola per attrito. Misurando la temperatura raggiunta dall’acqua si può poi risalire alla quantità di calore sviluppata dalla massa in caduta e determinare l’equivalente termico del lavoro, dopo aver ripetuto più e più volte l’esperimento per incrementare la precisione delle misure. Francois ascoltò con estrema attenzione fino al termine della spiegazione che io riepilogavo, riprendevo, ampliavo e ripetevo più volte, finché almeno un paio di studenti non mi facevano intuire di aver capito. Esibiva la sua solita espressione di quando si concentra e ce la mette tutta per cercare di afferrare quello che gli viene proposto, poi quando capisce che non ne vale la pena rimette su la consueta faccia tra il deluso e l’annoiato di chi lo sapeva anche prima come sarebbe andata a finire (sottotitolo: “Tutto qui?”). Francois mi dava soddisfazione, era uno dei pochi che ascoltavano e seguivano attentamente, quando aveva voglia di farlo beninteso, ossia non molto spesso. Lo consideravo il mio Faust personale, sempre desideroso di farsi stupire, ma mai pago delle idee e delle novità che gli offrivo; nessun attimo era per lui degno di essere fermato, ma solo il Dio che tanto volentieri bestemmiava sapeva quanto ardentemente avrebbe desiderato trovare qualcosa per cui valesse la pena vivere con passione, un’idea folgorante, un istante meraviglioso. Sapevo di non poterglieli dare, pur leggendo nei suoi occhi rassegnati che avrebbe pagato qualsiasi cifra per averli. La materia che mi era toccata in sorte, del resto, non è certo la più congeniale per suscitare forti impeti del cuore. Più probabile innamorarsi dell’Infinito di Leopardi che del mulinello di Joule, per il quale al massimo si può esprimere un po’ di stima o di tiepida ammirazione a voler essere proprio molto generosi.


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Osservò in silenzio il disegno alla lavagna e io notavo con piacere che stava riflettendo su quanto appreso finché, esaurite le sue elaborazioni mentali, nel silenzio quasi assoluto dei compagni se ne uscì serafico e lapidario, collocando il suo sentimento a metà tra il compatimento e la noia, con la sua personalissima e memorabile conclusione: «Certo che questo Joule non aveva proprio un cazzo da fare…!» Parola di Francois, l’Uomo Superimpegnato. ),1( $17(35,0$ &217,18$


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