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MAURO BERNASCONI
LA SINDROME DELL’ASINO A STRISCE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA SINDROME DELL’ASINO A STRISCE Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-278-2 Copertina: immagine “Asinozebra” di Salvatore Manzi Prima edizione Febbraio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
“To die by your side, is such a heavenly way to die” The Smiths
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A Daniele ed Elena Sofia, i miei sorrisi più belli A Tizi. E a chi altro, se no?
Dedicato a Giuseppe che ama tanto ballare Perché gli Angeli non hanno bisogno di gambe e di braccia per farlo E a Imma col suo Chupa Chups a fragola Perché il cuore possa portarle ciò che le sue manine non riescono
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MORFOLOGIA DI UNA COZZA
Sono un uomo finito. La vita mi scorre addosso come un fiume in piena e non riesco più ad afferrarla, né a frenarla per prendervi parte di nuovo. Un mollusco, ecco cosa sono diventato. Un povero mitile aggrappato al suo scoglio, che osserva l’acqua circostante preoccupato solo di non essere trasportato altrove e di non perdere il suo appiglio. Dall’attimo in cui apro gli occhi la mattina al suono della sveglia a quello in cui li richiudo la sera è tutto un susseguirsi di eventi attorno a me. Eventi ai quali assisto impotente, come se avessi le mani legate dietro la schiena. Tutto ciò che mi rimane è questo inestinguibile sentimento di frustrazione, che mi accompagna anche adesso, mentre cerco di descrivere la mia penosa situazione. Eppure, non avrei tanto di cui lamentarmi: ho un bel lavoro, quella che in molti potrebbero definire una posizione, tanti amici, un bellissimo figlio che cresce, e con lui le gioie e le soddisfazioni che quotidianamente mi dona. Ma nulla di tutto questo riesce a darmi giovamento: la mia vita è come un bellissimo quadro nel quale la mia presenza risulta del tutto ininfluente, un quadro che continua a scomporsi e ricomporsi a prescindere da me. Un quadro che posso stare a osservare, tutt’al più posso parlarne come un mero spettatore. È atroce, ma è così. E da qualche mese un terribile sogno ricorrente tormenta le mie notti, già agitate. È una splendida giornata di primavera, il cielo è terso e attorno a me la campagna freme al rituale risveglio della natura. Io sono un albero, un enorme albero. Sono una quercia secolare e le mie radici affondano in un grande prato verde che si espande intorno a perdita d’occhio. Sui miei rami forgiati dal vento le foglie sono da poco spuntate e tra esse si rincorrono, allegri e rumorosi, una miriade di piccoli uccellini saltellanti. Tutto idilliaco, fin qui. Ma, se solo provo ad abbassare lo sguardo, l’orrore mi coglie alla sprovvista come un pugno nello stomaco.
8 Ai miei piedi, in prossimità del tronco dell’albero, il prato è completamente ricoperto da un numero imprecisato di cani. Di tutte le razze e le taglie, dai volpini a mastodontici molossi, se ne stanno lì in rispettosa attesa, raccogliendosi a formare un’interminabile fila indiana. E poi, uno alla volta, con sprezzante distacco, si accostano per pisciarmi addosso. Io vorrei tanto fuggire, ma sono un albero e neanche nei sogni s’è mai visto un albero correre via, e così me ne resto lì impalato mentre tutte quelle bestiacce continuano a inondarmi dei loro immondi bisogni, per di più con aria soddisfatta. Quindi mi sveglio tutto sudato, e puntualmente non trovo il coraggio di spiegare a mia moglie cosa sia stato a farmi balzare dal sonno in quel modo. Mia moglie, appunto. È proprio di lei che devo parlare, se voglio davvero affrontare a viso aperto le mie angosce. Mia moglie mi tradisce. Non so da quanto tempo, ma ormai è un dato che ho assodato, dopo una lunga e accurata analisi della mia vita e di quella della nostra coppia. Così come è ormai certa l’identità del suo amante, anche se mi mancano le prove circostanziate. E più passa il tempo, più i miei sospetti si trasformano in agghiaccianti verità. E più indizi raccolgo a loro carico, più mi convinco di essere io e solo io la causa di tutto questo. Come le dicevo poc’anzi, sono un uomo finito. «Signor Baldari, temo che il tempo a nostra disposizione stia per terminare…». Lo odio, quest’uomo. Odio ogni cosa di lui: e poi è un luogo comune vivente. Dico, sarà l’ultimo analista della terra che faccia ancora sdraiare i suoi pazienti su una chaise-longue di cuoio scuro durante le loro sedute… Secondo me ha visto troppi film sull’argomento, forse è questo il problema. Mentre io resto lì disteso ad arrovellarmi sulle mie pulsioni autolesionistiche e pagherei qualsiasi cifra per una sigaretta, lui se ne sta alle mie spalle nascondendosi dietro la folta barba, seduto all’imponente scrivania, pagato per stare zitto ad ascoltare. E, mentre finge platealmente di prendere appunti, mentre in realtà starà ripassando la lista della spesa dettata telefonicamente dalla moglie, non trova niente di meglio da fare che accendersi la pipa e infilarsela a un lato della bocca.
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E no, la pipa no! La pipa è davvero troppo! Quest’uomo è un ammasso di stereotipi… E di certo Freud, Jung o chiunque altro dei suoi maestri, se lo avesse visto così, sarebbe corso ad arricchire le fila dei veterinari, dei ginecologi, o che so io, degli odontoiatri. Qualunque cosa sarebbe stato meglio che partorire questa specie di cataplasma silente e fumoso. Lo odio, non so se l’avete capito. E poiché tutto il mio disprezzo non può che trasparire dal mio atteggiamento psicastenico mentre mi sollevo a fatica dal mio giaciglioconfessionale, l’analista dei miei coglioni mi fa cenno di avvicinarmi alla scrivania. «Vede, signor Baldari, stiamo facendo dei passi avanti, anche se molto lenti e sofferti. Io penso che servirà comunque tanto tempo perché lei riesca ad aprirsi davvero, consentendomi così di aiutarla…» e ci credo, centocinquant’euro all’ora per starsene a fumare e disegnare scarabocchi su un foglio, hai voglia di aspettarli, i passi avanti… «Guardi, lei quando è arrivato qui era più o meno così», prende un foglio e una matita e disegna una faccina stilizzata con, al posto della bocca, una linea curva con le estremità rivolte verso il basso. Io stento sempre di più a credere ai miei occhi. Non può farlo sul serio. «In questa fase lei invece è così…» e parte con un’altra idiotissima faccina, identica alla prima, ma stavolta la disegna con tre linee a spirale che partono divergenti dalla sommità della stessa. Dovrebbe essere una faccina incazzata, almeno credo. Può ritenersi fortunato che le mie manie al momento non prevedano venature aggressive, altrimenti un tagliacarte piantato in gola a quest’ora non glielo avrebbe tolto nessuno. Ma cos’ho fatto per meritarmi questo? «E vuole sapere come dovrà diventare perché il nostro lavoro possa ritenersi concluso?». «Sì, certo…» la mia intera vita dipende da quest’ultima faccina, lo sento. Ogni singola cellula del mio organismo pende dalla punta della matita che si appresta a tracciare gli ultimi fatidici segni… Così ne disegna una terza, questa volta con gli angoli della bocca in alto. Ora sì che mi sento sollevato. Quasi quasi mi auto-dichiaro guarito e mando a cagare quest’emerito imbecille, il Freud degli emoticon. «Lei vuole davvero sapere com’ero io fino a un paio di anni fa?» faccio, furioso. Gli strappo carta e matita di mano e traccio con un unico gesto un bel cuore stilizzato, molto tondo e molto romantico.
10 Giro il foglio a suo favore e glielo porgo, restando a gustarmi per un po’ la sua espressione di disappunto. A ruoli rovesciati il giochino mi risulta decisamente più divertente. «E invece vuole vedere come mi sento adesso?». In un attimo capovolgo il foglio e lo rimetto davanti a lui, e il messaggio gli deve giungere in tutta la sua immediatezza perché si affretta a cambiare discorso, per riprendere il controllo della discussione. «Ehm… comunque, signor Baldari, mi è venuta un’idea. Lei ha decisamente bisogno di qualcosa che spezzi la routine, che interrompa i circuiti ossessivi in cui è invischiato… Ha mai pensato di dedicarsi al volontariato?».
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BURNING DOWN THE HOUSE
“È SEVERAMENTE VIETATO SPUTARE SULLA GETTONIERA” Il cartello fa spocchiosa mostra di sé sulla parete dell’ascensore, giusto sopra la gettoniera in questione, mentre entro nella cabina. Ormai l’inchiostro è sciolto e la scritta quasi cancellata da una cospicua quantità di schizzi di quella che a tutti gli effetti sembra essere saliva raggrumata. Una tacita risposta al divieto sottostante. E pensare che un tempo questo era un condominio normale. Un agglomerato di abitazioni all’interno del quale le persone, tenendo fede all’etimologia del termine, si sforzavano di amministrare insieme i beni e gli interessi comuni. Ancora oggi cerco di capire quand’è che il perfetto meccanismo di esistenze a stretto contatto di balcone si sia rotto. Sembra ieri che cenavamo insieme, a turno in uno degli appartamenti dei quattro piani disponibili, mentre oggi regna sovrano l’avviso in bacheca. Ed è proprio il bigliettino anonimo ad avere sostituito in pieno ogni tipo di comunicazione tra di noi. Molto più asettico, privato del fastidioso onere del contatto umano e del suo carico di implicazioni e complicazioni. E, come se non bastasse, da un po’ di tempo è arrivato Jack Lo Sputatore. Le sue prime tracce risalgono ormai a diversi mesi fa, quando iniziai a notare i primi umidi segni sulle pareti delle scale tra un pianerottolo e l’altro. Da allora, in un inarrestabile crescendo di salivazione, questo misterioso sputatore seriale ha preso a decorare l’intero palazzo con sempre più ampie macchie del proprio liquido organico. Ora, se questo fosse accaduto in un luogo abitato da persone nel pieno possesso delle proprie facoltà psichiche, ne saremmo venuti a capo in maniera civile e anche rapidamente. Ma a quanto pare le suddette facoltà sono andate smarrite contestualmente all’integrità dell’intonaco delle nostre pareti. Così le gesta dell’ineffabile personaggio hanno suscitato nella maggior parte di noi un’ansia immotivata per livello e conseguenze, visto che ogni colpo di ptialina è stato seguito dalla comparsa di cartelli dai toni sempre più deliranti.
12 S’è andati da quelli concilianti, quasi ecumenici, tipo: “Ma perché lo fai? Se hai qualche problema parlane con noi, troverai sempre una mano tesa per aiutarti…”, passando per un periodo intermedio in cui gli avvisi in bacheca iniziavano a lasciar trapelare una certa esasperazione: “Non sputare negli spazi comuni, se non vuoi che qualcuno venga a farlo in casa tua…”, fino a che la portata del problema non ha iniziato ad assumere i toni della vera e propria sfida tra lo sputatore inafferrabile e i sempre più incazzati condomini autori dei cartelli: “Sputami in faccia, se ne hai il coraggio!”. Ma ultimamente mi pare che si stia proprio esagerando. Da un lato, infatti, il nostro misterioso amico ha moltiplicato enormemente i suoi sforzi, iniziando a far sospettare la presenza di una banca della saliva o di un allevamento di lama a sua disposizione; dall’altro, i cartelli di protesta si sono ampliati per numero e collocazione, abbandonando l’originaria bacheca loro dedicata e finendo appesi ovunque sia depositata una traccia di saliva. Il clima di sospetto è sempre più diffuso: capita spesso di imbattersi in capannelli di persone impegnate in conversazioni dal tono cospiratorio: «Ma l’hai sentito il Russo del terzo piano, che catarro che c‘ha? Sono sicura che sia lui!». Ormai un colpo di tosse può firmare la condanna, in qualsiasi momento. Tre gradini dell’androne e vengo crudelmente strappato a queste considerazioni dalla presenza in assoluto più inquietante di tutto l’edificio: Roselli del terzo piano. Il signor Roselli è un uomo sulla quarantina, sposato, impiegato alle poste, mediamente alto e mediamente magro, che vive, come detto, al terzo piano. Nulla in lui potrebbe risultare spiacevole, in verità, se non fosse gravemente affetto da un’ossessione religiosa a carattere misticoescatologico. Il povero Roselli ha infatti la ferma convinzione che la fine del mondo sia prossima e che questa notizia vada divulgata quanto più rapidamente e a quante più persone possibile. Ed è questo che mi fa letteralmente impazzire. Dico, se io avessi il minimo sospetto di un approssimarsi della conclusione delle nostre esistenze, dopo averlo confidato ad amici e parenti più stretti, di sicuro correrei subito in banca a prelevare tutti i miei averi per poi spenderli realizzando quanti più desideri possibile prima che fosse troppo tardi. Di certo non perderei tempo confidando il mio segreto a persone sconosciute e diffidenti che avrebbero la definitiva prova tangibile del mio completo ammattimento, qualora ne avessero bisogno ancora. Roselli, dicevo.
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Che al momento indossa un jeans gualcito e una t-shirt nera con in petto stampato il logo www.dioesiste.com. Appunto. Provo un ultimo vano tentativo di evitare l’incontro dirigendomi col capo chino e l’aria fintamente assorta verso l’ascensore ma quello niente, mi piomba dritto dritto addosso, investendomi con le sue ammonizioni apocalittiche. «Davide!». Ma chi l’ha autorizzato a chiamarmi per nome? «Signor Roselli…» rispondo con tono decisamente molto meno entusiasta del suo. «Hai saputo?». «…?». «L’hanno trovato!». «…???». Ecco, dimenticavo un’altra esecrabile caratteristica di questa specie di profeta metropolitano: mai che vada dritto al punto quando sente l’irrefrenabile necessità di comunicare qualcosa. No, lui parte sempre da molto lontano, centellinando le parole in un gioco di enigmistica arguzia. «Il bambino!». «Di quale bambino sta parlando, signor Roselli?» perché ci sono anche giorni in cui l’enigmistica non è che mi vada poi tanto a genio, diciamoci la verità. «Ma come, non l’hai letto?». «Dove-avrei-dovuto-leggere-cosa-di-quale-bambino-signor-Roselli?». «Ma su Internet, no? C’è un po’ dappertutto, la notizia: è nato un bambino con i palmi delle mani fusi». Davvero non avevo idea di dove volesse andare a parare, ma avevo comunque il presentimento che c’entrasse qualcosa con una profezia, Nostradamus, i Maya o comunque la fine del mondo. «No, mi dev’essere sfuggito. Non ricordo di aver letto niente di bambini fusi… me ne ricorderei, altrimenti». «No, non tutto fuso, questo ha solo i palmi delle mani fusi! Ma come fa a non ricordarsene, è una notizia sconvolgente…». «A parte che non vedo cosa ci sia di tanto sconvolgente in una malformazione neonatale… be’, a parte per i parenti e le persone care… Ma poi perché avrebbe dovuto colpirmi tanto?». «No, non è per questo. È che poi l’hanno operato». Ci risiamo. Riattacca col contagocce. «E poi cos’è successo, signor Roselli? GLIEL’HANNO-STACCATESTE-CAZZO-DI-MANINE-A-STO-BAMBINO-O-SI-TRATTAVA
14 DELL’APPENDICITE-PIÙ-PRECOCE-DELLA-STORIA-FORSESIGNOR-ROSELLI?». Pazienza persa definitivamente. Speriamo che venga presto al sodo o lo appendo per la maglietta alla rampa delle scale. Così Dio, se esiste, viene lui a staccarlo e a sorbirselo per il resto del pomeriggio. «Eppure mi meraviglio di lei, Davide… una persona così attenta e sensibile… farsi scappare una cosa così importante…». «Vede, signor Roselli, il concetto di importanza è quanto mai relativo» provo a resistere strenuamente facendo appello a tutte le mie risorse locutive e dialogiche. «A me, per esempio, è saltata all’occhio la notizia di uno stupratore seriale dotato di due peni che a Malaga, in Spagna, ha terrorizzato per mesi la popolazione femminile, violentando le sue vittime anche per dodici ore di seguito grazie alla sistematica alternanza di entrambi gli attributi messigli a disposizione da una natura bizzosa. Ecco, non so perché ma scommetto che a lei questa notizia è sfuggita, fermo restando che io stesso nutro qualche riserva sulla veridicità della stessa». Lui sembra riflettere un secondo su quello che ho appena detto, come se un labile dubbio gli velasse momentaneamente gli occhi, o forse sta solo tentando di figurarsi mentalmente la complessa anatomia del suddetto criminale. Poi subito riparte di slancio, come se io non avessi mai parlato. «Ma il punto non è che avesse le mani fuse, né che l’abbiano operato. La cosa sconvolgente è quello che hanno trovato quando gliele hanno aperte…». «Vede, signor Roselli, pur essendo io molto interessato a questa vicenda mozzafiato, le devo ricordare che ho una famiglia, un figlio, un lavoro, una vita insomma, che sussistono nonostante mi renda conto che anche loro, come noi due e tutto il mondo attorno, dipendano profondamente dall’esito della vicenda stessa… Così, se lei volesse gentilmente rivelarmi cosa hanno trovato ‘STI CHIRURGHI DI MERDA IN QUELLE MINCHIA DI MANI, beh gliene saremmo infinitamente grati. Io e tutto il mondo attorno, s’intende». Lui tira un respiro profondo, si guarda intorno con aria cospiratrice, e sussurra: «C’era una scritta, che si poteva leggere tenendo affiancati i palmi delle due mani…». «Scemo chi legge?». «No, no… C’era scritto: “Preparatevi: la fine è vicina!”». Due volte coglione. Ecco come mi sento improvvisamente. Una per aver perso per l’ennesima volta il mio tempo con questo mentecatto compulsivo che secondo me porta pure un po’ sfiga. La seconda perché
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sapevo benissimo dall’inizio dove sarebbe andato a parare, eppure non ho fatto niente per evitarlo e risparmiarmi questo supplizio. «Ah, vabbè… se è così allora cambia tutto. Anzi, la ringrazio per avermi avvertito. Domattina corro subito in banca a sbloccare dei fondi pensione che avevo da parte. Sa com’è, prima che sia troppo tardi… La saluto, signor Roselli. Arrivederci… sempre se facciamo in tempo, ovviamente». Detto questo gli volto le spalle e premo il pulsante di chiamata dell’ascensore, lasciandolo con l’aria atterrita in volto e la bocca socchiusa come se volesse aggiungere qualcosa non sapendo bene cosa. Sono completamente avvolto da questo clima di tensione apocalittica quando, infilate le chiavi nella toppa, entro in casa. Ma il caos vigente nella testa del signor Roselli è paragonabile a quello di un’ora di meditazione zen in un monastero tibetano rispetto a quello che ritrovo una volta varcata la soglia, se è vero che la mia strada viene bruscamente attraversata da un tornado urlante e fumante che riesco a identificare in mia moglie Stella solo grazie ai pochi brandelli di frase percepibili che mi giungono all’orecchio: «…’Cazzo eri finito? È questa l’ora di presentarsi? Sei il solito stronzo!». Ah già, dimenticavo. Stasera abbiamo ospite a cena il Boss. Tu ricordi perfettamente tutto quello che proprio non riesci a dimenticare, mi diceva sempre mia madre. E infatti anche quest’impegno non l’avevo per niente dimenticato, sapevo perfettamente che stasera avremmo avuto a cena il capo di mia moglie. Poi io non dimentico mai le cose, semplicemente tendo a rimuoverle, come senz’altro rimarcherebbe anche il mio analista. Non è colpa mia, la verità è che il Boss è una persona troppo spregevole perché io possa anche solo tentare di affrontare il pensiero di doverlo ospitare in casa. Tu lo accogli, lo metti comodo, lo nutri e lo pasci per un’intera, interminabile serata e puoi stare certo che lui ti ripagherà con quello che a quanto pare è la cosa che gli riesce meglio, oltre che l’unica in grado di fare: pretendere di insegnarti a vivere. Stillare perle di insostituibile saggezza con l’aria di chi le stia suo malgrado destinando a un pubblico di suini in sovrappeso intenti a rimestarsi nei loro escrementi. Lo puoi percepire a pelle, quasi fisicamente, ma il dottor Cevoli è una di quelle persone in grado di guardarti sempre, perennemente, dall’alto in basso, rendendo un particolare trascurabile il suo scarso metro e mezzo di statura.
16 Per non parlare poi di quell’insopportabile tic che si porta appresso, probabilmente dalla nascita: quando ti parla, il dottor Cevoli non ti guarda mai e poi mai in faccia. Che lui ti stia semplicemente chiedendo l’ora o stia dissertando di fenomeni sociopolitici di grave entità stravaccato sul divano di casa tua con la compostezza di un camionista fermo nella piazzola di sosta dell’autostrada, puoi stare sicuro che i suoi preziosi globi oculari saranno sempre immancabilmente puntati verso un punto impercettibile in alto sulla parete alle tue spalle. Ed è inutile sforzarsi di identificare il suddetto punto, come cercavo di fare i primi tempi: quel punto non esiste. E poco importa se un giorno o l’altro l’afferrerò forte per il collo e glielo stringerò fino a che allora sarà costretto a guardarmi in faccia, se non altro per chiedermi di lasciarlo continuare a respirare. Che tra l’altro l’avrei già fatto da molto tempo, se non fosse lo stramaledettissimo capufficio di mia moglie, e come tale la sua incolumità risultasse strettamente legata alla sospensione di qualsivoglia rapporto con la suddetta moglie. E quando dico qualsivoglia, dico qualsivoglia. Non so se ci siamo capiti. Ma io riuscirei a sopportare questi e i tanti altri sgradevoli aspetti della persona in questione, se non ce ne fosse uno che in particolare sovrasta tutti gli altri fino a renderli persino trascurabili: il dottor Cevoli ci prova sfacciatamente e ostinatamente con Stella. In maniera tanto svergognata da farmi sospettare che la sorpresa mista a indignazione di mia moglie di fronte alle mie recriminazioni possa nascondere in qualche modo della complicità. Il cui solo pensiero, come si può facilmente intuire, mi fa uscire di testa. «L’hai fatta arrabbiare di nuovo, papà! E arrabbiare molto, mi pare…». Ernesto, incrociandomi nell’ingresso, mi richiama definitivamente alla realtà con la sua faccina solenne e i suoi occhiali tondi più grandi del viso, messi perennemente di traverso. E mi sembra di notare che siano di nuovo rotti, il che mi dà una buona scusa per attaccare discorso con Stella bypassando ritardi, dimenticanze e colleghi di lavoro vari invitati a cena e possibilmente coinvolti – nei miei più remoti desideri – tutti in un tamponamento a catena sulla tangenziale. «Ma com’è possibile» mi avvicino alle sue spalle in camera da letto mentre è intenta a sistemarsi al collo un diadema con una pietra luccicosa che non mi risulta proprio le abbia regalato io e sul quale mi propongo di ritornare in un momento più opportuno, «è il terzo paio d’occhiali in due mesi che fa fuori. Ma che ci fa Ernesto, ci gioca a tennis con le lenti?».
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Lei si gira lentamente dallo specchio verso di me, e i suoi occhi sono talmente carichi d’ira da farmi ripassare rapidamente cos’ho detto di sbagliato per suscitare uno sguardo così… Che abbia qualcosa contro il tennis e io non l’ho mai saputo? «Ma come fai a essere così idiota? No, non è nemmeno questione di essere idiota: è che tu sei assente. Altrove. Fuori, col corpo e con la testa. Come fai a non accorgerti nemmeno di una cosa così semplice ed evidente?». Comincio istintivamente a guardarmi intorno alla ricerca mentale dell’indizio che mi manca e al contempo mi rendo conto di star facendo davvero la figura dell’idiota. «Tuo figlio viene picchiato a scuola. Da un compagno, un bidello, un insegnante, non lo so. O meglio non lo so ancora, visto che io almeno mi sono presa la briga di andarci, alla sua scuola. Ma lui niente, non parla con nessuno, non si confida, e intanto se ne torna a casa un giorno con delle lividure enormi, un altro senza la felpa nuova comprata il giorno prima e un altro ancora con gli occhiali spezzati in due sul naso. E suo padre» qui mi punta contro con fare sprezzante una mano con il palmo rivolto verso l’alto, «nel frattempo casca dalle nuvole e gli ricompra gli occhiali chiedendosi come mai il figlio sia tanto goffo da romperli sempre…». Esco dalla stanza completamente tramortito dalla notizia, e più che dalla sua relativa gravità, dal fatto che io abbia potuto effettivamente non accorgermi di tutto ciò. Cerco Ernesto in giro, ma lui deve averci sentito discutere perché, come sempre in queste occasioni, è corso a rintanarsi in camera sua chiudendosi la porta alle spalle. Così busso ed entro senza neanche aspettare una risposta. Lui è alla scrivania e dalla mia posizione sull’uscio della camera gli vedo le spalle. «Ernè…» provo a richiamare la sua attenzione apparentemente assorbita da quello che sta facendo. Così gli giro con cautela intorno. E mi si spezza il cuore. Ernesto è intento a riattaccare col nastro adesivo gli occhiali, spaccati esattamente a metà all’altezza del nasello. E, mentre lo fa, un lacrimone carico di orgoglio gli cola indisturbato lungo la guancia per poi andarsi a schiantare sul colletto della camicia a quadri fattagli indossare dalla mamma per la serata. All’improvviso mi mancano le parole, mentre lui tira su col naso nel tentativo di dissimulare il tutto. Persino Michael Jackson, la mano sul pacco nel poster di Thriller appeso alla parete, sembra guardarmi con una buona dose di disgusto. «Ti va di parlarne?».
18 «NO!». Non so se possa essere definito un dialogo, ma è già qualcosa per gli standard comunicativi di mio figlio. «Ma io vorrei davvero sapere cosa ti è successo…». «E io non ho voglia di raccontartelo». «Magari mi vuoi dire cosa è successo ai tuoi occhiali?» bieco tentativo di aggiramento, lo devo ammettere. Lui mi guarda con l’aria di chi vorrebbe dirmi ma mi prendi per il culo? e invece mi risponde: «Ma ti sei rimbecillito?». Bravo figliolo. Niente parolacce con tuo padre. «Ho appena detto che non voglio parlarne». Puntuale come un’unghia incarnita il giorno della maratona arriva il trillo del citofono ad annunciarci l’inizio della serata con l’arrivo degli invitati e il termine del nostro principio di discorso. «Salvato in calcio d’angolo! Ma non pensare di cavartela così a buon mercato» dico mentre mi alzo per andare incontro agli ospiti, non tanto perché senta un qualche obbligo di creanza, quanto perché so che è l’unica via per dissipare le ire funeste della mia dolce consorte. Quella che appare sull’uscio è una visione quasi allegorica: il nano malefico non è ancora uscito dall’ascensore che già gli squilla il cellulare, al roboante suono de “La Cavalcata delle Valchirie” di Wagner, che poi valchirie in vista non risultano essercene, volendo escludere per clemenza le due racchie colleghe associate al capo nell’invito per buona educazione, nonché l’immancabile moglie alta bionda e bagascia, in tubino leopardato d’ordinanza che diventa tubone a seguire le sue forme tristemente debordanti, accompagnata dall’oligofrenico figlio di sei anni. Lui non esita un secondo e, pienamente consapevole dell’effetto scenografico di un tale ingresso in scena, estrae con grande solennità il telefono dalla custodia, facendo scattare al contempo la tastiera a scorrimento e portandoselo all’orecchio. Credo proprio che nemmeno Clint Eastwood nei panni dell’ispettore Callaghan abbia mai avuto movenze così fluide, mentre toglie la sicura alla sua 44 Magnum. «Sì, chi parla…?» e si blocca un secondo sull’uscio nel tentativo di riconoscere l’interlocutore all’altro capo della linea, causando un tamponamento a catena nelle altre invitate in fila alle sue spalle. «Come dice… un nano? Ma come… ma chi parla, scusi?». A questo punto le due colleghe Giulia e Maria e la moglie lo scavalcano in malo modo per entrare in casa accolte da Stella, anche perché lui continua a starsene impalato sull’ingresso, con la bocca semiaperta e lo sguardo perso dietro a una conversazione che evidentemente non riesce a gestire appieno.
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«Ma come si permette? Lei non sa chi sono io! Ma chi diamine è al telefono…?». A questo punto stacca il cellulare dall’orecchio e rimane per qualche istante a fissarlo inebetito. Quindi sembra riprendersi, guarda me e la casa intorno e infine rientra nei ranghi di un normale, si fa per dire, invitato a cena. «Oh, ciao Davide. Scusami, sai… ma è che da oggi pomeriggio ricevo delle stranissime telefonate, ai limiti con l’oscenità. Non capisco proprio cosa stia succedendo, da dove prendano il mio numero… comunque non pensiamoci più adesso e godiamoci questa splendida serata». Io sottolineerei volentieri che l’unico modo per godermela, la splendida serata, sarebbe che lui scomparisse subito, così come è appena entrato, senza neanche togliersi il cappotto, ma poi il passaggio della voce squillante di Stella alle mie spalle, intenta a dare fondo al suo corredo nuziale estraendo dalle credenze una tal quantità inaudita di argenteria e cristalleria di pregio, mi ricorda i miei obblighi coniugali nonché la sua furente ira di poco prima, costringendomi a più miti consigli. «Ma certo, Enzo… e che ci vuoi fare, sarai finito sull’agendina sbagliata…». «Sì, giusto… sarà senz’altro così, ma ora vediamo di rifarci subito le orecchie: ti ho fatto un bel ciddì di jazz, mettilo subito!». Ecco qua: avrà pronunciato in tutto una decina di parole contate ed è già riuscito a qualificarsi. Perché, nella vita, esistono due tipi di persone che ascoltano quell’articolato e multiforme genere di musica, e li si può distinguere da come ne pronunciano il nome stesso. I primi sono colti, intellettuali e raffinati, ma lo sono abbastanza da non dover ostentare la loro superiorità in quanto a gusti musicali, quindi pronunciano la parola jazz così come la si legge, cioè più o meno giezz. I secondi hanno erroneamente interpretato quel tipo di musica e la difficoltà iniziale che si ha ad ascoltarla e a coglierne ritmi e armonie facendone uno status symbol, qualcosa da presentare come un marchio di appartenenza a un’élite di menti privilegiate in grado di poterne apprezzare le effimere essenze, al contrario del basso volgo con cui quotidianamente sono costretti loro malgrado ad avere a che fare. Loro dicono: «io ascolto giaasssssssss», strascicando in maniera inverosimile la sibilante finale, ma in realtà intendono dire: «io ascolto giaasssssssss, e tu no!». Inutile specificare che il pigmeo qui davanti a me appartiene a pieno titolo alla seconda categoria in questione, e infatti quella esse finale la tira a lungo fino ad arrotolare la lingua strozzandocisi dentro. Io invece non appartengo a nessuna delle due, il jazz dopo una decina di minuti mi provoca una spiccata irritabilità o, nel migliore dei casi, una
20 sonnolenza irrefrenabile. Quindi il ciddì che mi sta porgendo lo userei molto più volentieri per tagliarmi le vene. «Oh, che caro che sei… dammelo che lo metto su subito, così rallegriamo un po’ l’atmosfera». Ipocrita e mellifluo, certo, ma per amore di Stella e per la pace familiare questo e altro. Contemporaneamente alla pressione del mio dito indice sul triangolino del tasto play del lettore un fragore come di un crollo proveniente dalla camera di Ernesto mi comunica che il piccolo-mostro-figlio vi è appena entrato, prendendo possesso come di consueto dei giochi del proprietario. Che subito fa il suo ingresso in salone in cerca di aiuto: «Papà, Pippo mi ha distrutto il castello di Lego che stavamo costruendo da due mesi!». «Amore, non essere possessivo con i tuoi giocattoli!». Stella è subito accorsa non fidandosi, a buon motivo, delle mie doti di negoziatore in conflitti tra bambini. «Su, fai il bravo: Pippo vuole solo giocare con te, e tu devi essere ospitale con lui». «Sì, vuole solo giocare con te…» sottolinea il dottor Cevoli, e non manca di inviare a mia moglie un sorrisetto complice, del tipo noi-si-chesappiamo-come-educare-un-figlio. Ma da quando farsi invadere e sfasciare la casa da una truppa di gnomi malefici significa essere bravi e ospitali? E infatti Ernesto la pensa esattamente come me: mi guarda con aria affranta, allarga le braccia in segno di impotenza e se ne rientra nella sua stanza con la testa ciondolante come un soldatino cui hanno appena dato un ordine palesemente ingiusto. Nel frattempo, dalle casse ci giungono le note di “Cantaloupe Island”, di Herbie Hancock, che per fortuna mi piace e anche molto, riuscendo così a distendermi e a farmi tornare nello stato d’animo opportuno. Anche perché questa è la fase della serata che odio di più. Stella, infatti, è impegnata in cucina con i preparativi alimentari e mi solleva magnanimamente dall’aiutarla, sottolineando che a me spetta l’intrattenimento degli ospiti fino all’arrivo delle cibarie che per fortuna riempiranno la bocca di tutti concedendomi la meritata tregua. E poi Enzo Cevoli si intrattiene tranquillamente da solo, con la gran mole di chiacchiere inutili che è in grado di produrre ogni secondo, per cui presenziare significa doversi subire tutte le cazzate che continua a sparare con aria di amicale complicità. «…Sai, educare un figlio significa anche lasciare che si faccia le sue esperienze, senza il nostro fiato sul collo». S’è spaparanzato sul divano e ha acceso beatamente un mezzo toscano appestando tutta l’aria intorno,
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in una zona della casa dove io non avrei accesso nemmeno con una foglia di tabacco fresco appena colta dalla pianta. «Devono farsi le ossa…». Non finisce di dirlo che il figlio Pippo gli sfreccia urlando davanti ai piedi a velocità supersonica con in mano il mio orologio da taschino preferito. Calma. Respira profondamente. Conta fino a trenta prima di fare o dire qualsiasi cosa. «Ehm, Enzo… gli potresti dire di posarlo? Sai com’è… un ricordo di mio nonno…». Inizio a sudare copiosamente, mentre il set di attizzatoi d’acciaio forgiato vicino al camino mi suggerisce insieme pensieri voluttuosi e una soluzione alternativa al problema. «Pippo, posalo» dice senza nemmeno muovere la testa, dalla posizione in cui si trova sul divano. Tale esempio di autorità paterna non fa che acuire gli spasmi nervosi alla bocca dello stomaco che m’hanno improvvisamente attanagliato, mentre quello schizzato di Pippo ha iniziato a giocare ai cow-boys, in piedi sulla credenza, aggrappato alle tende cucite a mano da mia suocera e facendo roteare in aria come un lazo per la catenella l’orologio di mio nonno. Sto per chiedergli approfondimenti sulle sue tecniche pedagogiche e sugli insigni psicoterapeuti che le avranno di sicuro ispirate, ma all’improvviso gli riparte la cavalcata. PA-RA-PA-PA-PPA-PA… gli sta squillando di nuovo il cellulare. «Pronto? Come dice? Dove lo vuole mettere… cosa?». Diventa improvvisamente paonazzo, e inizia a tartagliare facendo per alzarsi dal divano. «Ma chi cazz… chi parla? Chi è lei?». Quindi seguono alcuni istanti in cui sembra perdersi, ancora tutto rosso in viso, nel display del cellulare. Evidentemente hanno attaccato di nuovo. «Un’altra telefonata anonima?». «Sì, sarà la decima da stamattina. Farfugliano qualcosa su un nano, su cosa gli farebbero e dove glielo metterebbero e poi attaccano. Non capisco. Non capisco proprio...». «Be’, non è una novità… questo genere di scherzo, intendevo dire…». Dal rumore di piatti proveniente dalla cucina deduco che l’arrivo della prima portata è ormai prossimo e faccio segno a lui e alle altre invitate, intente a confabulare in un angolo fino a ora, di accomodarsi a tavola, quando Ernesto compare di nuovo sulla porta. «È pronto, tesoro. Perché non venite a tavola, tu e Pippo?».
22 «Io ci vengo di corsa. Per Pippo mi sa che qualcuno dovrà andare a convincerlo a non fare la pipì sul copriletto della vostra camera…». Dal fatto che il padre non dia segno di interessarsene e continui a dissertare tranquillamente di telefonia mobile e privacy deduco che quel qualcuno dovrò proprio essere io e mi incammino rassegnato verso le camere da letto. La moglie-leopardo-in-sovrappeso mi intercetta in tempo per chiedermi dov’è il bagno, in un posto dove dovremmo chiudere tuo figlio vorrei risponderle, e invece glielo indico per poi proseguire e andare a tentare di salvare la nostra tappezzeria dall’Uragano Pippo. Nella stanza non c’è traccia di lui, così mi guardo intorno e un rumore da sotto il letto mi conferma i tremendi sospetti che già nutrivo. Spero che non la stia facendo proprio lì sotto. «Pippoooo… Pippoooo… dai, esci fuori piccolino che di là siamo pronti a mangiare…». «Col cazzo!». Che caro bimbo, tutto suo padre, proprio. «Ma su, fai il bravo… vieni fuori…» continuo a blandirlo con la voce mentre, dopo essermi guardato intorno con circospezione, afferro l’appendigrucce e mi avvicino al bordo del letto. Adesso vediamo se vieni fuori, con le buone o con le cattive. «Prova a prendermi se ci riesci, coglione!». Deduco all’istante che non uscirà da sotto il letto con le buone, quindi mi chino e inizio a pungolarlo dolcemente sulla schiena con il gancio che sta in punta all’asta. Purtroppo sono decisamente a corto di dolcezza, quindi le pungolature si fanno via via più energiche. «Ahia! Mi fai male, stronzo!». Non hai idea di quanto te ne farei se potessi, moccioso. Non mi sto comportando bene, perché una brava persona non prenderebbe a mazzate un bimbo di sei anni nascosto sotto il letto, ma non sto agendo nemmeno particolarmente male, o perlomeno non abbastanza da farmi rispettare da questo gnomo distruttore che va in giro terrorizzando mio figlio e minacciando di rompere gli oggetti a me cari, nonché di pisciare nella mia camera da letto. Come sempre, quando mi trovo in questo limbo odioso e meschino, i risultati sono puntualmente gli stessi: innanzitutto, un’emicrania fulminante mi scoppia all’istante e una grossa vena pulsante mi si manifesta sulla fronte, minacciando di esplodere da un momento all’altro. Il secondo risultato che ottengo è che la situazione peggiora precipitosamente: infatti, mentre mi trovo carponi a un lato del letto
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intento a convincere il marmocchio a uscire e contenere i suoi istinti orinatori, una mano mi si posa delicatamente sul collo, preannunciandomi la presenza di chi meno desidererei ritrovarmi vicino proprio in camera da letto. La baldraccona maculata si china anche lei sotto il bordo del letto, tralasciando momentaneamente l’esplorazione delle mie spalle e, con un sorrisetto malizioso sulle labbra e le tette siliconiche che rischiano di rotolarle via dal décolleté sul pavimento, si rivolge al figlio: «Tesoro, ma che ci fai lì sotto? Guarda che è pronto in tavola e stiamo aspettando solo te!». Lui approfitta dell’attimo di distrazione da cui sono ovviamente colto per afferrare il bastone dall’altra estremità e tirare una bella stoccata al centro del mio menisco sinistro, quindi schizza via da sotto le doghe come se avesse improvvisamente sentito la parola magica cui obbedire e, correndoci davanti ai piedi, urla: «Sì, ma devo prima fare la pipì!». Non faccio in tempo a felicitarmi del fatto che non si sia liberato sul pavimento, che mi rendo conto di essere rimasto solo con la megera, e che ogni via di fuga mi risulta preclusa dalla sua imponente mole. «Strano, ti facevo dotato di ben altra autorità in camera da letto…» insinua. Scommetto che si sta divertendo un mondo, dietro la maschera da disinibita provocatrice. «Be’, avevi un’idea lontana dalla realtà, a quanto pare» ancora non riesco a ritrovare bene l’articolazione delle parole, oltre che quella del ginocchio lesionato, ma mi rendo conto comunque di dover uscire quanto più rapidamente possibile dalla stanza. Mi viene in aiuto l’urlo atavico proveniente dall’altro lato della casa: «Davide, che stai facendo di là, invece di venirmi ad aiutare?». Zoppico via rapidamente, ricambiando il suo sorrisino con qualcosa del tipo vorrei-tanto-restare-a-parlare-con-te-ma-ho-i-miei-compiti-dicameriere-che-incombono… Nulla di particolarmente virile o dignitoso, ma tanto meglio. Ciò che conta è sfuggire a quest’assatanata. Nel tragitto passo davanti al bagno e con aria indifferente do una mandata alla porta infilandomi poi in tasca la chiave. Un rompipalle in meno tra i piedi, almeno finché non riuscirà a sfondare la porta. In cucina ritrovo lo gnomo, quello adulto, intento a sussurrare qualcosa all’orecchio di mia moglie, e deve essere qualcosa di molto divertente dal modo in cui lei se la ride in tono complice. Il riso le si spezza immediatamente quando mi vede, ma non si tratta di imbarazzo, dato che subito si affretta a indicarmi piatti e portate con aria truce: «Ti dispiacerebbe darmi una mano almeno a portare in tavola, sempre se hai finito di startene a giocare con i bambini?».
24 Davvero, io ci sto provando a far andare bene la serata, ma non so proprio quanto riuscirò a reggere così. Sempre che prima non mi parta un embolo dalla vena sulla fronte che ormai sbatte come un tamburo e mi provoca fitte tanto lancinanti da offuscarmi la vista. Zoppo, ciecato e dolorante servo i piatti in tavola a tutti i commensali, in primis al nostro dottor Cevoli, che è corso ad accomodarsi, manco a dirlo, a capotavola. Ha già la forchetta alzata, incurante del fatto che ancora nessuno si sia nemmeno seduto, quando, in simultanea con il boccone che parte e si posa sulla lingua viscida, scatta a tutto volume la musica che ormai tutti conosciamo bene e il cellulare comincia a vibrare e sussultare dal bordo del tavolo dove è poggiato. «Ma che cazz…» urla, prima che il boccone gli vada di traverso, «Urghmpff…». Il nostro commensale ci libera della sua voce per dieci piacevolissimi secondi, dopo i quali strabuzza gli occhi e inizia a emettere un lieve rantolo sibilante portandosi entrambe le mani al collo e poi diventa cianotico in volto, con venature porpora viranti al blu. A guardarlo bene ora sembra davvero un puffo. Un puffo asfittico. Forse sta proprio soffocando, chissà. In questo momento mi torna fotograficamente alla memoria la Manovra di Heimlich, una tecnica di primo soccorso per il soffocamento insegnatami dagli animatori di un villaggio turistico qualche estate fa: “Il soccorritore deve porsi alle spalle della vittima, cingerla con le braccia intorno ai fianchi e produrre una serie di cinque spinte addominali verso l’alto finché l’oggetto che ostruisce le vie aeree non viene espulso”. Mi figuro mentalmente la scena e decido all’istante che la vittima in questione può tranquillamente continuare a soffocare senza il mio aiuto. E poi io i villaggi turistici li ho sempre detestati, e a quel corso ero troppo impegnato a spalmarmi la protezione solare per prestare davvero attenzione. Quindi mi metto le mani in tasca e mi sforzo di non fischiettare per manifestare il mio totale disinteresse per quello che sta accadendo. Ma dura ben poco. «Daaaavideeee, fa’ qualcosaaaa!!!». È Stella a gridare, e se Stella grida io proprio non riesco a fare finta di niente. Mi avvio con aria rassegnata alle spalle dello gnomo moribondo, lo sollevo per i fianchi e inizio a stringere ritmicamente.
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Dallo stereo ancora acceso partono le note di Last tango in Paris, dei Gotan Project. Ironia della sorte, chissà se il nostro Cevo-dj avrebbe mai pensato, inserendo un brano così sensuale nella sua playlist, che avrebbe fatto da colonna sonora a questo balletto osceno degno di un carro in maschera del Gay-Pride. Dall’altro capo del salone, invece, sento la voce della signora Cevoli mentre risponde al telefono: «No, sono la moglie del nano… cioè del dottor Cevoli… mio marito al momento è impegnato…». Certo, non può dire mica che sta per schiattare sul pavimento di casa mia. «Posso riferirgli qualcosa?» Uno... due… tre… quattro…cinque… ancora nessun segno di ripresa…… Sei… sette… otto… nove…dieci… Già al quinto colpo il boccone di grissino, con ancora il prosciutto arrotolato intorno, è saltato fuori come il tappo da una bottiglia di champagne ma io, trovandomi alle spalle, non me ne accorgo e vado avanti. Anzi spazientito aumento progressivamente la forza delle contrazioni, finché la cassa toracica da passerotto che si ritrova il boss non inizia a scricchiolarmi sotto le mani. «B… a… s…t…a…» gli esce finalmente un flebile filo di voce molto sofferta, a questo punto non so più se per la mancanza d’ossigeno o per il paio di costole che devo avergli appena incrinato. «Ah, ma respira ancora, allora…» faccio io lasciando la presa, mentre lui si accascia privo di forze con la testa direttamente nel piatto. «Caro, al telefono mi hanno detto alcune cose da riferirti, ma non mi sembra davvero questo il momento…». Quanta umanità, sono allibito. «Papà… Papà…». È arrivato anche Ernesto, sulla scena del prode salvataggio. «Papà… Papààà…» mi ha afferrato per la manica della camicia e cerca di attirare la mia attenzione. «Aspetta, Ernesto! Non vedi cos’è successo al signor Vincenzo?». «Papà… Papà… cosa vuol dire pereta?». «Ma caro, ti sembra questo il momento?». Cerco di sbarazzarmi della domanda inopportuna, ma lui sembra non accettare proroghe e continua a starsene lì attaccato al polsino in attesa della mia risposta. «Eehhh… behhh… una pereta è… una brava signora come quella lì con il telefonino in mano» indicandogli la moglie del novello lazzaro. Non sono mai stato molto bravo con la semantica, gli esempi pratici mi vengono meglio. Lui sembra soppesarla per un po’ con lo sguardo, poi sembra soddisfatto. «Ahhh, vabbé… allora è tutto a posto».
26 Poi, come ogni tanto per fortuna capita, il neurone superstite mi si rimette lentamente in moto e pone qualche legittimo dubbio sulla domanda quantomeno inconsueta. «Ma perché volevi saperlo, Ernesto?». «Perché Pippo lo sta urlando dalla finestra del bagno alla nostra vicina, la signora Comencino». Ummadonninamia! Ma quand’è che finisce ‘sta serata? Abbandono al volo gli astanti, mogli, puffi redivivi, perete e colleghe accessorie varie, e mi precipito a perdifiato verso il bagno. Recupero la chiave dalla tasca e per fortuna scopro che Pippo ha smesso di insultare i vicini dalla finestra. In compenso s’è messo ad armeggiare con la lavatrice, e il ciclo per capi delicati non deve essere stato di suo gradimento perché sta versando tutto il contenuto di un flacone da un litro e mezzo di ammorbidente nel cestello. «No, non venire qua…» mi urla contro come un matto quando entro nel bagno. Dopo due secondi, il suo faccino mi riappare in una nuova proiezione, dal basso verso l’alto, mentre me ne sto sdraiato sul pavimento, fradicio di sapone e con la testa che ancora rimbomba per la capocciata rimediata sulle piastrelle. «Si scivola!» urla, poi se ne va mugugnando qualcosa tipo ma-perchénessuno-mi-sta-mai-a-sentire? Dalla nuova posizione tanti aspetti della mia esistenza mi appaiono più chiari: in questo momento, sdraiato per terra con un bernoccolo in testa e immerso in una pozza d’acqua che mi ricopre di bolle di sapone, sono molto più a mio agio che in qualunque altro posto della casa. Così decido di non rialzarmi, per il momento, e di restare a contemplare il neon sul soffitto almeno fino a quando quella specie di flagello in miniatura con tanto di genitori e accompagnatrici di corredo non sarà a due o tre chilometri di distanza dalle mie mura domestiche. La cosa inizia anche a piacermi, visto che per un paio di minuti nessuno tenta di morirmi davanti o di indurmi all’adulterio o tantomeno di pisciare sul pavimento della camera da letto, finché la plafoniera lì in alto non viene sostituita dal viso altrettanto rotondo ma molto meno luminoso di Stella. «Ma ti senti bene?» al contrario di quanto potrebbe far supporre la frase, nel suo tono non c’è segno di apprensione per me. «Sì, sì… sono scivolato e ho sbattuto la testa sul pavimento». «Bene, allora se hai finito di giocare alla giovane lavandaia con Pippo sarebbe il caso che venissi a salutare gli ospiti che hanno deciso di andare via prima del previsto…».
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«Come… così presto?». Anche nel mio tono ora non c’è traccia di apprensione, a dire il vero. «Ma se stavamo appena cominciando a divertirci…». Mi rialzo e vado alla porta, dove un emaciato dottor Cevoli nell’indossare il cappotto sta reinserendo in cellulare nel suo fodero con un’aria molto meno sicura di quando lo aveva sfoderato al suo ingresso. «Ernesto! Vieni a salutare i nostri amici!» gridiamo all’unisono io e mia moglie. Lui si dirige verso di noi, con la testa ciondolante e l’indice sulla stanghetta degli occhiali nel tentativo di farli stare dritti, e fa quello che gli è stato appena richiesto: «Arrivederci dottor Cevoli, ciao Pippo, arrivederci signora Pereta…» «ERNEEEEEEEEEEEESTOOOOOOOOOOOOO!!!» con l‘urlo Stella a stento non fa fuori tutta la cristalleria ancora esposta sul tavolo. Figlio degenere, chissà chi gli insegna certe parole… «… E allora la strega cattiva si avvicinò alla casa dei sette nani e bussò alla porta. Le aprì Biancaneve. Salve, bella signorina, sono una promotrice della Bad Apple Finance. Volevo giustappunto donarle un bellissimo finanziamento in quarantotto comode rate a tasso agevolato… deve solo apporre una firmetta qui… Biancaneve ingenuamente firmò e crollò addormentata all’istante, per poi risvegliarsi dopo ventiquattro lunghissimi mesi, allo scadere della maxirata…». «E no, papà! Non è possibile!». Ernesto si toglie gli occhiali spazientito e li poggia sul comodino, segno che non ha più intenzione di starmi ad ascoltare. «Non puoi storpiarmi le storie tutte le sere! Già ieri ho avuto degli incubi terribili per tutta la notte, sognando di essere inseguito dal lupo di Cappuccetto Rosso travestito da assessore comunale...». Ogni sera la stessa storia. Si dà tante arie da bambino cresciuto, poi non riuscirebbe mai ad addormentarsi senza la mia favoletta della buonanotte. L’unico problema è riuscire a non addormentarmi io, mentre gliela racconto. Così cerco di creare qualche novità nel solito tran-tran di lupi, streghe e gnomi ormai noti e arcinoti. Ma Ernesto è un tradizionalista, anche se capisce bene che lo faccio per lui, cerco di trasmettergli dei valori e di metterlo in guardia contro le insidie del mondo che ci circonda. E a proposito di insidie, mi torna in mente la faccenda degli occhiali. «Sai Ernesto, forse non ti ho mai raccontato che io alla tua età avevo un cane, un pastore tedesco…». «Davvero?» gli occhi ormai semichiusi dal sonno tornano a spalancarsi per un attimo.
28 «Sì, proprio un pastore tedesco, grande e grosso. Si chiamava Full, anzi il nome completo era Hiron Full di Montespino, perché era di nobili origini e suo padre era un bellissimo campione di bellezza tedesco. Bene, devi sapere che Full già da piccolo aveva un carattere estroverso e giocoso, il che aveva contribuito notevolmente a farcelo amare e adottare come un membro della famiglia a tutti gli effetti. Dormiva con noi, mangiava con noi e, quando andavamo in vacanza, lui era il primo a saltare in macchina felice all’idea di un mese di mare, sole, spiagge e lunghissime passeggiate con noi in pineta. Ma per quanto fosse ben disposto ai rapporti con gli esseri umani, con gli altri cani sin da quando raggiunse l’età adulta iniziò a sviluppare una forte aggressività, soprattutto con i maschi. Non aveva paura di niente e di nessuno, era grande e forte e ben intenzionato a farsi rispettare da qualunque quadrupede gli capitasse a tiro, e così si gettava a capofitto in zuffe spaventose dalle quali, devo essere sincero, quasi mai usciva sconfitto. Non che riuscisse sempre a prendere il sopravvento sul suo avversario, magari più forte e aggressivo di lui, ma non si tirava mai indietro, non mollava davvero mai. E a me la cosa non divertiva per niente, perché temevo che si facesse male e poi perché spesso ero costretto ad andare a riprendermelo con la forza nel corso delle sue battaglie, richiamato dai padroni degli altri cani. Per un periodo, in particolare, il giardino vicino casa dove andavamo a passeggiare tutti i giorni era frequentato sia da Full che da un altro cane, un grosso dobermann. Era nero, alto, con i muscoli delle spalle tirati a lucido e gli occhi scuri vuoti e profondamente stupidi. Del tutto uguale al suo padrone, che vedendoci arrivare da lontano lo scioglieva dal guinzaglio in tono di sfida. Dal primo giorno in cui si incontrarono e per un’intera lunghissima settimana Full e quel cane si scontrarono tutti i giorni a suon di capriole e morsi. Ma nessuno dei due faceva un passo indietro in segno di resa, finché noi umani non fossimo andati a cercare di districare quel groviglio di peli e zanne. Un giorno di quelli mi capitò di osservare Full un attimo prima che si lanciasse nella lotta, e sai cosa vidi? Tremava. Aveva la coda piegata tra le zampe di dietro, che oscillavano vistosamente, in un modo che gli avevo visto fare solo dinanzi alla siringa del veterinario. Capisci? Full aveva una paura matta di quel bestione cattivo, eppure solo un attimo dopo rizzò il pelo sul collo, scoprì i canini in un ringhio cattivo e si gettò nella mischia come una furia.
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Non ho mai provato tanto rispetto per un animale come in quel momento per lui, proprio perché avevo compreso quanto sforzo e sacrificio gli costasse tenere la testa alta anche in quei frangenti. Ovviamente decisi che dal giorno dopo avrei cambiato itinerario per le nostre passeggiatine pomeridiane, non volendo più sottoporlo a quello stress. Ma con mia grande sorpresa, fu proprio il padrone del dobermann ad avvicinarmi dopo un po’, e mi disse che in otto anni, da quando aveva quel cane, non gli era mai capitato di trovarne un altro che riuscisse a tenergli testa in quel modo. E, probabilmente stanco come me di quelle battaglie quotidiane, dal giorno dopo non lo vidi più, così Full rimase padrone incontrastato del giardino per tanto tempo ancora…». Nel momento in cui ho smesso di parlare e mi sono voltato verso il letto, mi sono accorto che Ernesto è ormai scivolato nel sonno e quindi non ha potuto afferrare granché del mio racconto. Ma poco importa perché, dal suo viso sereno e rilassato con la boccuccia semichiusa e le palpebre tremolanti, intuisco che ora viaggia sicuro nel mondo dei sogni, dove non esistono lupi, streghe e prepotenti. E, se esistono, è molto più facile sconfiggerli o ignorarli. Così spengo la luce del lumino e vado a cercare di imitarlo.
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L'IGNAVO
La luce del mattino colpì i capannoni abbandonati, rendendone ancor più crudele la rugginosa maestosità. E dalle lamiere poi si riflesse sulle finestre dei palazzi di Via Campi Flegrei, come a voler fuggire da quell’enorme equivoco a forma di residuo industriale. Già, un equivoco. Balneolis, la città dei bagni, da un giorno all’altro si era trasformata in qualche centinaio di metri quadri di altiforni, fonderie e impianti industriali in riva al mare, lì dove prima i napoletani venivano a tuffarsi nello specchio d’acqua incastonato tra Nisida e Coroglio e i gabbiani si posavano a godersi i raggi del sole. Gli stessi raggi che di rimbalzo colpirono gli occhi di don Giuseppe, nella sua camera da letto al piano terra del numero civico 280. Una luce fastidiosa che lo costringeva ad alzarsi tutte le mattine filtrando attraverso le veneziane di metallo, all'unisono con l’altrettanto fastidiosa voce della nuora proveniente dalla cucina. La stessa luce che, ironia della sorte, non aveva mai potuto apprezzare in tanti anni di lavoro notturno in fonderia. «E pur’oggi v’at scetat’, Zì Pe’!». Sì, pure oggi doveva aprire gli occhi e affrontare la vita, anche se contro la sua volontà. «Io vorrei tanto andarmene» aveva più volte confidato alla nuora, «ma è il Signore che non si decide a chiamarmi». «E speramm’ ca ve chiamma ampress’, allora!» era la sua cinica risposta. L’aroma del caffè avvolgeva la stanza come un manto denso e quasi palpabile quando zio Peppe si forzò a sollevare le coperte e sedersi sul bordo del letto, aspettando che passassero i capogiri legati al cambio di posizione, segno e insieme monito dell’inesorabile trascorrere degli anni. Come lo era l’impellente bisogno di svuotare la vescica, anch’esso più forte e ogni giorno più improcrastinabile al momento del risveglio. La luce, quella proveniente dall’esterno e amplificata dal riflesso dei capannoni dell’Italsider, quella era sempre la stessa e lo guidò nel tragitto per aprire gli infissi e sbloccare le veneziane di metallo. Ma quel giorno la vista fuori dalla finestra lo colse come un pugno proprio in mezzo agli occhi, facendolo indietreggiare di un paio di passi dal marmo del davanzale.
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Lì, per strada, c’era una novità. Una grossa novità. Monumentale, coloratissima, proprio sul marciapiede di fronte l’ingresso del palazzo di casa sua. Ci si trovava in piena campagna elettorale e un nuovo manifesto di ciclopiche dimensioni era stato affisso, così all’aprirsi delle imposte Giuseppe si ritrovò a fissare negli occhi il faccione abbronzatissimo e sorridente del candidato premier. Ma ciò che più urtò la sua suscettibilità, rovinandogli definitivamente il risveglio, era lo slogan del candidato, impresso poco sotto la sua immagine seduta alla scrivania in maniche di camicia arrotolate. “DA SEMPRE AL FIANCO DEGLI OPERAI” recitava in stridente contrasto con tutti i particolari della foto, a partire dal maglioncino di cachemire viola arrotolato e posato sulle spalle del protagonista, che a occhio e croce poteva costare quanto tre o quattro mensilità di un operaio. Di un operaio vero, si intende. Si girò su se stesso e si diresse subito in cucina, mentre la rabbia gli fece dimenticare anche della pipì e della sua vescica gonfia come una palla da bowling. «Ma ti rendi conto? Uno di noi quello là? E ce lo vengono ad appendere proprio sotto il naso, a noi che il mazzo in fabbrica ce lo siamo fatti davvero e per una vita intera?» rivolse lo sfogo alla prima e unica persona che gli capitò a tiro in cucina, cioè la nuora. «Embé? E allora? Magari questo qui, con tutti i posti di lavoro che ha creato con le sue aziende, farà davvero qualcosa per gli operai e per tutti quelli che vogliono lavorare…». Appunto, come poteva aspettarsi riflessioni diverse da una che in vita sua di lavoro vero non ne aveva mai conosciuto e, prima da sposa e poi da vedova, aveva sempre trovato il modo di farsi mantenere senza dover muovere un dito. E da tre anni, cioè dalla morte del figlio, s’era impiantata in casa di Giuseppe e campava con i due figli della pensione di metalmeccanico e dei suoi risparmi di una vita. Fesso lui che ogni volta s’illudeva di sfogare le sue recriminazioni sociopolitiche con un soggetto del genere. Si diresse verso i fornelli, dove la moka gorgogliava in perfetta simmetria di forme e rumori con Anna lì vicino, intenta a sciacquare qualcosa nel lavello. «Sei poi andata a parlare con quella stireria che cercava una collaboratrice?» le chiese mentre si versava nella tazzina l’agognato liquido nero e fumante. «Sì, come no! Quelli pretendono che vada là a rovinarmi gli occhi e i polmoni per trecent’euro al mese… so’ cos’e’ pazz’!».
32 E sì, era davvero da pazzi pretendere qualcosa da lei, soprattutto se non si trattava di lamentarsi o starsene a guardare interminabili telenovele sudamericane in compagnia delle vicine. Che poi erano le uniche attività che le avesse visto svolgere da quando la conosceva, già da quando suo figlio era ancora vivo. Gran bravo ragazzo, per carità, e un figliolo devoto, ma di donne non ne aveva mai capito un cazzo. E quella che ora vagava con aria insoddisfatta per la sua cucina ne era una prova postuma. Una prova grande, grossa e molesta. Zi’ Peppe raccolse con gesto automatico il pacchetto di MS morbide dal tavolo e si portò alla bocca la prima delle quaranta che lo avrebbero accompagnato nel corso di quell’ennesima giornata. L’accendersi della brace a pochi centimetri dal suo naso, accompagnato dalle prime volute di fumo che si dirigevano verso l’alto, riportarono alla soglia della coscienza le attività fisiologiche interrotte da quell’iroso risveglio. Così si diresse verso il bagno, raccolse la copia di MicroMega di quel mese e si richiuse a chiave la porta alle spalle, predisponendosi sulla tazza alla consueta mezz’ora di riflessione mattutina. Ma evidentemente non era proprio giornata perché, sul punto di rilassarsi e liberare finalmente le viscere, si bloccò di fronte a una vista inattesa e sconvolgente che lo portò a rimbalzare letteralmente sul water per lo spavento. Un uomo completamente vestito di bianco se ne stava tranquillamente seduto sulla lavatrice all’interno del bagno, accanto alla finestra che dava sul cortile interno dello stabile, con le gambe penzoloni sull’oblò e una sigaretta spenta di traverso tra le labbra. Come se fosse tornato improvvisamente in sé, lo sconosciuto lo fissò un attimo e poi gli rivolse la parola con un certo tono di familiarità: «Hai da accendere?». Poi si accorse dell’aria trasecolante di Giuseppe e sembrò quasi giustificarsi. «Sai com’è… dove vivo io non vedono proprio di buon occhio il fuoco…». «Ma c…c…chi è lei?». «E già, ho dimenticato le presentazioni… è che ormai sono un po’ disabituato alle relazioni interpersonali… Il mio nome è Sitael, che in ebraico vuol dire “Dio di speranza”, sono un angelo e sono qui in missione per rivelarti una notizia molto importante». Mentre parlava si accorse della presenza di un accendino sul davanzale, lo raccolse e vi si accese la sigaretta. Aspirò due tiri a pieni polmoni e aspettò di vedere il fumo uscire dalle proprie narici con lo sguardo assorto e fisso fuori dalla finestra.
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«Ahhh, che cose meravigliose avete voi qui… se solo ve ne accorgeste…». Poi sembrò finalmente ricordarsi di qualcosa di importante e iniziò a frugarsi nel taschino del panciotto, bianco anche lui come il resto dei suoi indumenti. «Ma co-co-cosa vu-vu-vuole da me?» don Peppino continuava a farfugliare, ormai quasi sprofondato nella tazza del cesso per la paura. «Io? Da te? Ma assolutamente nulla! Anzi posso assicurarti che dopo avere ascoltato quello che ho da dirti sarai tu a volere spiegazioni dal sottoscritto». «Se-senta… io non so chi sia lei, come abbia fatto a entrare qua e perché l’abbia fatto. Io di certo non ho mai creduto a cose del genere in vita mia e non penso proprio che inizierò adesso». Cercava disperatamente di darsi un tono, ma né il suo colorito né la posizione in cui si trovava sembravano giocare molto a suo favore. «E poi scusi, ma gli angeli non dovrebbero avere le ali?». L’uomo in bianco espresse in un’unica alzata di sopracciglio tutta la sua meraviglia per quell’eccezione appena manifestatagli. Senza dire una parola, continuò ad aspirare avidamente il fumo dalla sigaretta, mentre in una mano aveva cominciato a rigirarsi un voluminoso orologio da taschino in argento massiccio dall’aspetto tutt’altro che nuovo. Poi esordì, con gran solennità e soppesando attentamente le parole: «Vedi, Giuseppe. Io ti ho appena rivelato il mio nome e la mia natura. Del fatto che tu ci creda o no, se posso parlare sinceramente con te, non me ne frega una benemerita minchia. Quello che non ti ho rivelato ancora è il motivo della mia venuta qui, ma se continui a comportarti così mi fai passare la voglia. Però non posso permettermi di venir meno alle finalità della mia missione, e cioè portarti a conoscenza di un importante segreto». Un tuono improvviso proveniente dall’esterno interruppe il soliloquio del candido visitatore. E a don Peppino non fece proprio un bell’effetto, considerando che al suo risveglio, pochi minuti prima, il cielo era completamente sereno. «Ehm, scusa… è che ogni tanto mi faccio prendere dal discorso e tendo a dimenticare che sono qui esclusivamente in veste di messaggero. Comunque, ti dicevo che mi corre l’obbligo di comunicarti una notizia di grande importanza, sul cui valore e veridicità starà a te trarre personali conclusioni, in nome del libero arbitrio che contraddistingue la tua natura di essere umano». A questo punto fece scattare il coperchio arrugginito e un po’ piegato dell’orologio che teneva in mano e prese a fissarlo attentamente, come se stesse eseguendo mentalmente dei calcoli.
34 «Quello che devo annunciarti è che ti rimangono esattamente ottantotto giorni, quindici ore e… una decina di minuti da vivere. Così è scritto e così sarà. Sul motivo per cui si sia deciso di metterti a conoscenza di questa cosa io non posso spiegarti nulla ma, se accetti un consiglio da qualcuno più anziano di te di svariate centinaia di anni e che, incidentalmente, nella sua vita terrena è incorso nello stesso tipo di rivelazione, io ti invito a pensare a cosa dovresti fare di importante in questi giorni che ti sono stati lasciati a disposizione. Qualcosa che valga la pena di far scomodare un Angelo per avvertirti, insomma». «Coff coff!» un paio di colpi di tosse attrassero l’attenzione dei due interlocutori verso la cabina doccia. «Giusto, ho parlato di un angelo, ma in realtà in missione siamo in due… Ah, dimenticavo un’ultima cosa: le ali per noi Angeli sono un optional, le danno in dotazione solo dalla terza missione in poi. Ce le dobbiamo guadagnare, e io sono ancora solo alla prima… Buona fortuna, Zì Pe’!». Con grande fragore di cristalli rotti fece il suo ingresso nella stanza una figura molto meno elegante e carismatica della prima. Era basso, con la carnagione olivastra e una folta chioma riccia a incorniciargli due occhi spiritati e iniettati di sangue. E, a differenza del suo predecessore, era completamente vestito di nero. Un elegante abito a tre pezzi, completo di camicia e corto cravattino anch’essi neri, evidentemente tagliato su misura per calzare bene su una figura così poco slanciata. Il figuro iniziò a camminare nervosamente avanti e indietro per il bagno, borbottando a bassa voce qualcosa in un linguaggio incomprensibile e sprofondando il povero padrone di casa in un terrore ancora più profondo. Ormai qualsiasi forma di produzione sonora gli si bloccava nella gola ostruita da un tenace groppo di paura, ed era sul punto di alzarsi dal cesso e scappare via di corsa con le mutande e i pantaloni del pigiama calati. «Per me si va ne la città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente». L’omino nero gli si era ora parato innanzi, precludendogli ogni via di fuga, e aveva iniziato a parlare con una voce roca e cantilenante, come se stesse recitando una preghiera. «Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l’aere sanza stelle,
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per ch’io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s’aggira sempre in quell’aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira. Questo misero modo tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo. Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. Caccianli i ciel per non essere men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli…» Nel parlare s’era avvicinato sempre di più al suo interlocutore seduto, e concluse la breve recita a pochissima distanza dal suo naso, quasi urlandogli le parole in faccia. Quindi, mentre quel sanza infamia e sanza lodo ancora echeggiava nelle orecchie di Don Peppino, il piccolo visitatore vestito di scuro si dissolse anche lui, scavalcando la finestra che dava sul cortile interno dello stabile. Passarono all’incirca quarantacinque minuti prima che il signor Giuseppe riemergesse dai fumosi meandri del bagno di casa, durante i quali Anna non aveva mancato di andare più volte a bussare alla porta, preoccupata dai rumori che aveva sentito provenienti dall’interno e dal fumo che ne fuoriusciva copiosamente, ma in realtà più che altro ansiosa di usare lei il bagno prima che iniziasse la puntata mattutina di “Sangre Caliente” e con essa la visita delle vicine di casa. Don Peppino uscì dal bagno vestito di tutto punto e si diresse in cucina con passo malfermo, il viso cinereo e un sacchetto di plastica in mano. «Uaaaaaa, e ch’at’ cumbinat’ cca dint’, zi Pe’… ‘Stu cess pare Ciernobbìll!» l’urlo di Anna raggiunse Don Peppino mentre, ancora pallidissimo, si affrettava nei preparativi per uscire. Non udendo la consueta risposta polemica, la nuora lo raggiunse e, non appena lo ebbe guardato in faccia, ne rimase colpita arretrando di un paio di passi. «E che v’è succiess’? Pare che avite visto ‘a morte cu‘ll’uocchie…». «No, non preoccuparti per me. Piuttosto se fossi in te inizierei a darmi da fare per trovarti un lavoro, Anna. Oggi pomeriggio vado dal notaio a
36 intestare la nuda proprietà della casa ai miei nipoti, ma sappi che entro un mese tu e loro sarete messi alla porta e dovrete finalmente diventare autonomi. D’ora in poi non potrai più fare affidamento su di me». «Ma che…» non fece in tempo ad articolare alcun tipo di recriminazione che il vecchio aveva già infilato il cappotto, raccolto il sacchetto di plastica e attraversato la porta diretto all’esterno. Arrivato sulla strada raggiunse la bicicletta attaccata con una catena a un lampione della luce; la slegò e ne lisciò il sellino con un gesto quasi affettuoso per rimuovere lo strato di umidità accumulatosi durante la notte. Osservò la strada prima sulla sua sinistra e poi sulla destra quindi, assicuratosi che non passasse nessuno, inforcò il sellino, poggiò un piede sul pedale e con un ampio gesto del braccio, usandolo come un bilanciere, scagliò il sacchetto di plastica che si portava appresso dall’uscita dal bagno contro l’insegna elettorale che lo aveva accolto al risveglio in una delle mattinate più brutte della sua vita. Ora la faccia del candidato premier era decisamente più abbronzata di prima, ma soprattutto il maglioncino poggiato sulle spalle non era più uniformemente viola e presentava ampie macchie di marrone che colavano su tutta la superficie. Specchiandosi nelle vetrine di un bar mentre pedalava, don Peppino si rese conto che stava lentamente cominciando a riprendere colorito.
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FRIDAY I’M IN LOVE
Non è colpa mia. Anzi, io non c’entro per niente. La colpa è di quei settecento grammi di mozzarella di bufala comprati a Maddaloni. E dei due peperoni imbuttunati di Mimì alla Ferrovia che li hanno seguiti a ruota. Senza dimenticare la mezza teglia di tiramisù avanzato dalla domenica che ha chiuso le danze, diluita in due bicchieri di Malecòn Reserva 24 anni. Ecco, la colpa è loro e non mia se stamattina al risveglio mi ritrovo con questo bigliettino dai toni apocalittici attaccato al frigo. A essere preciso i biglietti sono più di uno, mittente Stella, e si susseguono in serie partendo da quello che sembra essere il referto di un laboratorio di analisi. Mi stropiccio gli occhi ripetutamente e cerco di analizzare questo tsunami comunicativo contornato di magnetini provenienti da tutte le città del mondo. Il foglio del laboratorio porta il mio nome e la data di ieri, e sono stati evidenziati in giallo i valori dei trigliceridi: 937, insieme a quelli di riferimento riportati a lato sulla stessa linea: <200. Occhei, mi serve davvero una nuova strizzata d’occhi, perché evidentemente non devo avere letto bene. Ci deve essere una virgola, una nota o una postilla che spieghi quello che sto leggendo. Ma il foglio successivo non fa che peggiorare ulteriormente la situazione e il mio stato d’animo. Si tratta della stampa di una pagina web, tratta dal sito www.analisidelsangue.net. Partendo da una rapida spiegazione su cosa sia questa immonda creatura chiamata appunto trigliceride, il medico on-line passa a definire gli intervalli di valori ematici dello stesso, suddividendoli in base alla gravità dei danni che tale reperto può portare all’organismo. Passo così direttamente alla fascia “>500”, dato che è stata anch’essa segnata dallo stesso evidenziatore giallo di prima: “Valori dei trigliceridi nel sangue > 500 mg/dl = pericolo gravissimo di incidenti cardiovascolari (infarti, ictus, etc.etc.) … associato a stati di grande obesità… diabete… gravi patologie dismetaboliche…”
38 Lo sguardo mi cade automaticamente sulla pancia, che in effetti negli ultimi tempi s’è fatta più prominente e al momento in posizione eretta mi oscura la visione delle caviglie. Oddio, mi sto trasformando in un gigantesco supplì di riso e non me ne sono nemmeno accorto. A quanto leggo nelle mie vene non scorre più sangue, ma una specie di melassa untuosa pronta a intasarsi in qualsiasi momento. Mi serve decisamente una sedia, se voglio continuare a leggere il bollettino di guerra che mi trovo di fronte. Raccatto al volo un saccottino dalla dispensa: troppe emozioni a digiuno, questo sì che potrebbe stroncarmi. Appresso ancora, sorretto da una calamita a forma d’asino proveniente da Santorini, un ulteriore post-it mi segnala un appuntamento fissato per questa mattina allo studio di tale dott. Vaschetta, Biologo Nutrizionista, in Piazza Amedeo. Mentre sono intento a lavarmi e vestirmi a velocità supersonica, oppresso dalla sensazione di una calamità incombente come solo l’approssimarsi di un periodo di dieta può essere, mi ritrovo a chiedermi cos’altro potrebbe capitare in un inizio di giornata così greve e carico di cattive notizie. E il qualcos’altro me lo ritrovo a due millimetri dal naso, scritto sull’ennesimo bigliettino attaccato questa volta alla porta, mentre mi accingo a uscire per dirigermi verso Piazza Amedeo. ATTENZIONE OGGI È VENERDI Già, dimenticavo. Il venerdì sera è dedicato da Stella a “la-solita-pizzacon-le-amiche”, come compensazione al mio calcetto del mercoledì. Sorvoliamo sul fatto che poi il venerdì sera esce tutta agghindata per recarsi in luoghi dove il cellulare puntualmente non è raggiungibile e dai quali ritorna a tarda ora assonnata, scapigliata e con la puzza di tabacco sui vestiti. E lei non fuma. MOLTA ATTENZIONE! STASERA ERNESTO HA INVITATO A CASA I SUOI AMICHETTI PENSA TU ALLA CENA Porca vaccaccia miseria. Quasi quasi me ne ritorno a letto. Davvero non so se riuscirò a sopravvivere al nutrizionista, a Ernesto e ai suoi
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scalmanati amichetti da gestire e sfamare per tutta una serata insieme al pensiero di Stella in giro chissà dove e con chissà chi. Il tutto in un solo giorno. Ma decido di farmi forza e cercare un lato positivo. C’è sempre, in tutte le cose, anche in quelle apparentemente più disgraziate, quindi penso che se non altro Stella non sarà presente al momento della cena, dunque le discussioni sui tremendi responsi dello Specialista circa il futuro della mia alimentazione verranno irrimediabilmente rimandate a domani. Così controllo le scorte di hamburger e patatine fritte nel congelatore e programmo di rimpinguarle insieme a qualche ettolitro di coca cola. Poi passo al computer e mi metto a cercare su e-mule qualcosa di opportuno e abbastanza lungo da tenere impegnata la combriccola di teledipendenti per l’arco della serata. Sinceramente odio le animazioni Disney, ricche di giovani casalinghe dalle molteplici sembianze e alla disperata ricerca di un buon partito da sposare e di principi azzurri ben poco virili, con le loro calzamaglie attillate e le sopracciglia rifatte. Così cerco un film di Miyazaki, nella speranza di iniziare Ernesto e i suoi compagnucci alle opere del Maestro dell’anime giapponese. Trovo subito una copia di “Porco Rosso” disponibile: clicco e avvio il download nella speranza che sia pronto per ora di cena. “Un maiale che non vola è solo un maiale.” Sono soddisfattissimo, l’ho visto da poco insieme a Stella e conservo un ricordo magico delle atmosfere riprodotte con la consueta grazia del Maestro. E poi amicizia, amore e onore come valori da conservare anche in tempo di guerra mi sembrano un messaggio ideale per questi sbarbatelli che di guerre ne devono affrontare quotidianamente, anche se di altra natura. Finalmente esco, con buoni trenta minuti di ritardo sull’orario previsto, e a meno di tanto dall’appuntamento con lo specialista a Piazza Amedeo. Il che mi costringe a non soffermarmi sulle figure che incrocio nel mio rapido incedere per il viale del parco. Proprio all’uscita del palazzo, seduto sul bordo di un’aiuola e assorto come sempre nella lettura di un libro, c’è Mimmo, il figlio di Daniela del quarto piano. Ha tredici anni, figlio unico di madre mai sposata, trascorre così il tempo che non passa a scuola. Non ha il cellulare, non gioca a pallone con i suoi coetanei, non l’ho mai visto con una consolle di videogiochi in mano, si limita a grugnire un cenno di saluto a chi lo incontra solo se assolutamente costretto dalle circostanze, altrimenti vaga con aria persa per il parco o si immerge completamente nella lettura. A prima vista, soprattutto per chi non lo conosce, sembra un disadattato, e più volte ho sentito formulare ipotesi di ritardo mentale o autismo sul
40 suo conto. Ma io, come la gran parte dei condomini, conosco la sua situazione e mi sento in dovere come minimo di non esprimere giudizi. La madre di Mimmo, la suddetta signora Daniela, è infatti dedita da tempo all’attività professionale unanimemente ritenuta la più antica del mondo, e svolge tale attività di accoglienza e ricreazione dei propri clienti al proprio domicilio, cioè nell’appartamento del quarto piano. Da ciò si può dedurre come le giornate del piccolo Mimmo non siano proprio improntate all’insegna del buonumore e il perché la sua permanenza per tanto tempo al di fuori delle mura domestiche sia dettata dalle esigenze lavorative, per così dire, della genitrice. Uno tra i più arcigni detrattori della giovane libera professionista è il signor Buonomo, che mi trovo di fronte subito dopo aver incrociato Mimmo. A essere più precisi, Buonomo non è stato contrario sin dall’inizio alle attività della dirimpettaia di pianerottolo, anzi da più parti si mormora che egli fu tra gli avventori della primissima ora. Poi però venne il momento in cui la sua frequentazione fu costretta a cessare di colpo, simultaneamente al comparire della moglie, l’irsuta e irascibilissima signora Buonomo, al suo fianco in ogni frangente della vita condominiale, e di un notevole ematoma infraorbitario coperto da un paio di Ray Ban degni del miglior Sylvester Stallone. Al momento il nostro Buonomo porta a spasso il cane. Che nel caso specifico è uno spettacolo che non intendo perdermi nonostante il ritardo. Così mi avvicino e inizio a osservarlo prima di salutare. Il cane è un pitbull, acquistato allo scopo di restituire al suo padrone quell’immagine di virilità alquanto scalfita dagli eventi succitati. “Un cane da porto d’armi”, lo presentava con orgoglio Buonomo a tutti quelli che gliene chiedessero, tenendo il guinzaglio a due mani con la solennità con cui avrebbe imbracciato un kalashnikov. Da allora, nonostante gli immani sforzi del suo padrone, affiancato di volta in volta da addestratori sempre più esperti e qualificati, il cane non ne ha mai voluto sapere di apprendere la benché minima nozione di aggressività e attacco, anzi ha iniziato a manifestare in maniera inequivocabile un carattere sempre più estroverso e giocoso. Così è andata a finire che il suo padrone ha dovuto continuare a tenerlo costantemente legato al guinzaglio per motivi opposti a quelli originari, e cioè perché non imbratti o riduca a brandelli i vestiti del primo malcapitato che gli capiti a tiro e a cui lui decida di manifestare l’affetto sconfinato che nutre per il genere umano. Da un paio di mesi, ironia della sorte, il bel cucciolone, ormai tramontato simbolo della virilità padronale, ha iniziato pure a soffrire di una fastidiosa prostatite. Per la cura della quale il padrone in questione è
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costretto a far monitorare il valore di PSA canino nelle urine con cadenza settimanale. Facile a dirsi, perché nella realtà ciò si traduce nel doverle prelevare in acto, le urine, così che il signor Buonomo da un bel po’ va in giro per il parco con una ciotolina in mano, proprio come quest’oggi. Scioglie il cane, lo osserva da lontano fischiettando con aria indifferente e poi, non appena quello si avvicina a un albero e fa per alzare la zampa, lui… zacchete! gli infila la ciotola sotto per raccogliere il campione. Ma il cane ha ormai smascherato il giochetto e interrompe fulmineamente la minzione alla vista dell’oggetto raccoglitore, per poi trotterellare fino all’albero successivo e lì riprovarci, sperando di essere lasciato a pisciare in pace. Il tutto può protrarsi per un bel po’, finché uno dei due non si arrenda, ovvero fino a che il cane non decida di tenersela o il padrone rinunci a raccoglierla. Ora questo spettacolare controllo della minzione da parte del quadrupede, se da un lato fa molto ben sperare per la salute della sua prostata, dall’altro si traduce in un tragicomico balletto per il suo proprietario, al quale ormai tutto il vicinato assiste con manifesta ilarità sottolineata da un sonoro olé a ogni cambio d’albero dei due protagonisti. «Uelà, signor Buonomo! Com’è andata la raccolta stamattina?». Certe volte sono proprio cattivo… «Nun ne parlamm’!». Non ha colto l’ironia, come al solito. «Stu’ strunz ‘e cane… Nu juorno ‘e chest’ lo faccio castrare, accussì a fernimm’ cu ‘sta storia» e nel dirlo si asciuga la fronte imperlata di sudore portandosi la mano con la ciotola vuota alla fronte. Rabbrividendo dal ribrezzo decido di proseguire sulla mia strada, così saluto e mi dirigo verso i box per prendere lo scooter. E lì si materializza il secondo quadrupede della giornata: Capucchione. Capucchione è l’esatta nemesi del cane di Buonomo: è un meticcio, sicuramente con sangue molosso nelle vene, come testimoniano gli occhi grandi e languidi e il testone ampio e squadrato dal quale deriva il soprannome riconosciutogli da tutti. Nel suo caso il destino è stato decisamente meno benevolo: se infatti lo sguardo e alcuni atteggiamenti testimonierebbero un animo decisamente affettuoso e mansueto, il suo padrone, dopo averlo raccolto solo e affamato dalla strada, lo ha destinato al ruolo di guardiano del parcheggio antistante il nostro condominio, di cui è lui stesso proprietario. E Capucchione, con senso del dovere tutto canino, si è adeguato suo malgrado al ruolo assegnatogli, laddove l’impegno si traduce
42 quotidianamente in un sonoro scattare di mascelle a un millimetro dalla rotula mia e di chiunque altro sia costretto a passare accanto alla sua posizione, in quei venti centimetri di tolleranza lasciati dalla lunga catena cui è legato. Da un po’ ho escogitato un trucco per uscire incolume e con tutte le articolazioni al loro posto dal parcheggio: salgo sullo scooter e mi dirigo verso l’uscita, i nostri sguardi si incrociano in una sequenza da mezzogiorno di fuoco, io do gas e lui prende una bella rincorsa ringhiando furiosamente, quindi freno il mezzo di blocco così che lui, arrivato a fine corsa della catena, viene strattonato all’indietro dal collare ed è costretto a riprendere frettolosamente la rincorsa. In quel momento passo a tutta velocità schioccando un sonoro bacio alla sua espressione incredula e frustrata mentre se ne torna tutto sconsolato nella cuccia. Gli voglio bene, mi fa una tenerezza infinita, ma anche per oggi l’appuntamento con la mia rotula è rimandato. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
Morfologia di una cozza ................................................................. 7 Burning down the house ............................................................... 11 L'ignavo ........................................................................................ 30 Friday I’m in love ......................................................................... 37 Il violento ...................................................................................... 64 Tutti i miei sbagli .......................................................................... 73 Il suicida ........................................................................................ 85 Felicissima sera ............................................................................. 94 Il ladro ......................................................................................... 115 La sindrome dello zoo di Gaza ................................................... 121 Wonderful Tonight ..................................................................... 125 Il lussurioso ................................................................................. 142 Highway to hell ........................................................................... 153 Meraviglioso ............................................................................... 175 Atlantide...................................................................................... 182 L'ipocrita ..................................................................................... 188 Sipario!........................................................................................ 192 eNneDiA ..................................................................................... 197 Ringraziamenti ............................................................................ 199