La stanza 123, Isabella Liberto

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In uscita il 20/7/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2018 (3,99 euro)

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ISABELLA LIBERTO

LA STANZA 123 FINALISTA AL PREMIO 1 GIALLO X 1.000

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA STANZA 123

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-218-8 Copertina: immagine Proposta dall’Autore

Prima edizione Luglio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

Questo è un romanzo di fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


A chi continua a navigare con me nonostante la tempesta‌



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PROLOGO

Luglio - 2 mesi dopo La musica mi aiutava a non pensare. A non sentire tutto quel caos. Le voci non cessavano, la mia coscienza non si placava. Era tutto un interminabile correre avanti e indietro senza sosta, come la danza delle api quando viene la sera. Lei era riuscita a convincermi, in un modo o nell’altro. Ma una parte dentro di me aveva ancora paura. Sapevamo entrambe che quella sarebbe stata la fine. Il caos non si placava, e non si sarebbe placato. “Basta!” continuavo a pensare strappandomi i capelli. “Fallo e tutto finirà… non hai altra scelta.” Andai verso lo stereo che continuava a suonare, facendo vibrare le mie viscere e alzai il volume. “Va bene… andiamo”, dissi a me stessa risoluta, aprendo la finestra e calandomi dalla grondaia. Fuori non era ancora buio, ma non mi importava. Quella sera tutto sarebbe finito.



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CAPITOLO 1. MARK

Maggio - 2 mesi prima Il calore del mattino filtrava attraverso la finestra ancora chiusa. Eravamo a maggio, ma un’ondata di caldo anomalo ci aveva fatto piombare in un’estate anticipata. Aprii la finestra, lasciando entrare la luce del mattino e godendo alcuni istanti di quel dolce panorama. I fiori, gli alberi e l’erba, appena tagliata e innaffiata, rilasciavano il loro profumo seducendo i miei sensi. Inspirai profondamente e come un idiota mi ritrovai a sorridere. Non ero mai stato un uomo particolarmente romantico o sentimentale, ma tutto, da sei mesi a questa parte, mi faceva inevitabilmente sorridere. Io e Melinda ci eravamo appena sposati. Una cerimonia semplice e veloce. Avevamo dovuto lottare contro i “suggerimenti” delle nostre famiglie che pressavano per un fidanzamento più lungo, e per una “presa di coscienza maggiore”, soprattutto da parte mia. Avevo compiuto trentasette anni e amavo follemente Melinda. Non mi andava di aspettare. Aspettare cosa poi? Mia madre mi aveva messo in guardia diverse volte, dicendo che la differenza di età tra me e mia moglie sarebbe stata un problema, non tanto per me, quanto per lei. Prima o poi almeno. Melinda aveva ventisette anni e aveva da poco terminato gli studi, la sua vitalità e la sua voglia di scoprire il mondo e “tutto quello che ci sta dentro”, come ripeteva sempre lei, secondo mia madre sarebbe stato un problema. «Vedrai che prima o poi ti mollerà per uno appena laureato e andranno a vivere in un camper chissà dove» mi aveva detto pochi giorni prima delle nozze. «Mamma ne abbiamo già parlato. Io e Melinda ci amiamo, e lei non è quel genere di persona…» Avevo tentato di non far degenerare la discussione cercando di farla ragionare con le buone, ma lei continuava a insistere.


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«Spero che tu sappia quello che fai, Mark. È successo tutto troppo in fretta con quella ragazza, lo sai che la cosa non mi piace.» «Mi dispiace mamma, ma è la mia vita» avevo troncato, mettendo fine a quella discussione irritante e irrazionale. Per noi la differenza di età non era mai stata un problema. Conoscevo Melinda e il suo carattere vitale, a volte impulsivo, non mi spaventava. Amavo tutto di lei. Lei e le sue crociate contro il mondo intero quando era arrabbiata per chissà quale motivo. Lei e la sua collezione di braccialetti di perline di plastica comprati nei mercatini vicino al mare, durante i nostri viaggi. La sua battaglia contro patatine e altro “cibo spazzatura” che di tanto in tanto mi ostinavo a portare a casa. La amavo e, nonostante i miei innumerevoli difetti, lei amava me. Era logico per me sorridere, perché la vita stessa mi sorrideva e io non potevo fare altro che sorriderle di rimando. Sentii Melinda stiracchiarsi e aprire lentamente gli occhi. Mi voltai per guardarla e il mio cuore esplose di tenerezza. «Ehi…» disse piano con la voce ancora assonnata «che ci fai lì? È presto.» Si mise a sedere sul letto e guardò distrattamente la sveglia sul comodino. Io tirai le tende e mi avvicinai a lei. «Scusa, non volevo svegliarti.» Le accarezzai il viso, levandole una ciocca di capelli castani dagli occhi. «Perché non vieni a letto?» chiese sorridendo dolcemente. Le sue guance erano calde e la pelle morbida e profumata. Dentro di me sapevo che l’effetto che mi provocava ogni volta che mi sfiorava sarebbe durato in eterno. «Ti ho sognata stanotte…» dissi infilandomi nel letto accanto a lei. «Davvero?» chiese maliziosa, vedendo la mia eccitazione. «Sì… era un bel sogno» risposi iniziando a sollevarle la maglietta che aveva rubato dal mio cassetto e che indossava come una camicia da notte, e lei prese a ridere e baciarmi. «Allora dovresti proprio raccontarmelo…» «Devi andare in facoltà stamattina?» mi chiese a colazione, mentre mi versava un bicchiere di succo d’arancia. «Sì, Jonas vuole vedermi alle nove.»


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«Io sono già in ritardo, ho la prima visita della giornata tra mezz’ora, accidenti.» Si affrettò a finire la colazione, ingollando il caffè tutto d’un fiato. «Perché non respiri un po’, Doc? Vai sempre di corsa ultimamente» la afferrai per un braccio e la baciai facendola sedere sopra di me, ma cominciò a protestare: «No, basta» protestò tra un bacio e l’altro «ti ho detto che sono in ritardo» si divincolò ridendo e prese al volo le tazze sporche, posandole dentro il lavello. «Vado a vestirmi. Faresti meglio a fare altrettanto o farai tardi anche tu, professore» mi disse ad alta voce mentre saliva le scale. Poco prima di salire in macchina le chiesi: «Riusciamo a pranzare insieme oggi?» «Ah, oggi no tesoro. Ho il turno fino alle sei» scosse la testa desolata. «D’accordo, allora ci vediamo stasera.» La baciai e la guardai salire sulla sua vecchia auto arrugginita. Mi salutò con la mano mentre imboccava la strada verso l’ambulatorio e, pochi istanti dopo, io mi avviai in facoltà. Facevo l’insegnante di storia contemporanea da sette anni ormai. Mi piaceva stare a contatto con i ragazzi, vederli studiare, aiutarli a crescere e migliorare. Per quel semestre avevo deciso di dedicarmi alla ricerca, ma Peter Jonas, il preside della facoltà, mi aveva chiamato un paio di giorni prima pregandomi di sostituire la professoressa Lawson, la quale aveva avuto un incidente e non poteva, pertanto, continuare il programma con i ragazzi. Arrivai in facoltà quindici minuti dopo e bussai alla porta di Jonas. «Professor Candice, entri pure.» Quell’omone di cento chili mi accolse distrattamente e senza guardarmi, mentre cercava di far entrare un voluminoso raccoglitore accanto a tanti altri sulla mensola di una libreria piuttosto precaria. La finestra era aperta e un piccolo ventilatore, appoggiato su un mobile vicino alla scrivania, faceva il suo lavoro, smuovendo l’aria calda di quella stanza soffocante. «Si accomodi, sono subito da lei» la sua voce si incrinò per lo sforzo che stava facendo e trattenni un sorriso. Dopo svariati tentativi, riuscì a infilare il raccoglitore sullo scaffale e si sedette, tirando un sospiro di sollievo. «Allora…» iniziò con la voce stanca.


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“Dovresti metterti a dieta bello…”, pensai guardando la sua imponente mole. «Mi dispiace per il così poco preavviso, ma come sa la professoressa Lawson non sarà in grado di tornare al lavoro prima di settembre. So che aveva deciso di dedicare l’intero semestre alla ricerca, ma…» si allentò il nodo alla cravatta che gli stringeva il grosso collo facendolo sembrare un tacchino. «Nessun problema preside, lo faccio volentieri» dissi sorridendo garbatamente. Lui mi guardò a lungo e vidi un’ombra di gratitudine attraversare il suo viso. «So che i ragazzi si sono sempre trovati bene con lei, e poi si tratta solo di poche settimane ormai.» «Ma certo, nessun problema» lo rassicurai. «Bene. Allora le do subito l’orario delle lezioni e il programma della professoressa.» Si girò e prese un foglio da una carpetta marrone che stava appoggiata sulla libreria di poco prima. Diedi una rapida occhiata al programma. “Sempre la solita roba…”, non sarebbe stato un grande sforzo. Potevo gestire le lezioni e continuare la ricerca, organizzandomi con dei turni. «Bene…» dissi continuando a leggere il foglio. «Se è tutto a posto, le consiglio di sbrigarsi. La lezione sta per cominciare.» Lo guardai stupito. «Cosa? Devo cominciare stamattina?» «Sì… vede?» mi indicò l’orario delle lezioni «oggi è lunedì. Dev’essere in aula alle dieci in punto.» Il suo faccione si piegò in un sorriso. “Potevi anche dirmelo al telefono, che diamine.” Misi da parte il mio disappunto e gli restituii un sorriso di cortesia. «Ah, ci sono anche questi» si voltò nuovamente e prese un grosso blocco di fogli piegati in due. «La professoressa aveva fatto fare un test ai ragazzi, prima dell’incidente. Sono già stati corretti, deve solo consegnarli agli studenti.» “Magnifico…” «La ringrazio professor Jonas» presi i test già corretti e intravidi alcuni


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voti drammaticamente negativi. Tentai di nascondere il mio fastidio, non mi andava di presentarmi ai ragazzi consegnando dei test che non avevo corretto io. Decisi comunque di lasciar perdere. “Ambasciator non porta pena.” «Beh, sarà meglio che vada allora.» Sorrisi alzandomi e gli strinsi la mano. Le sue dita divennero bianche per la stretta. Era come toccare cinque grosse salsicce. “Che diavolo…” Uscii in fretta dal suo ufficio, dirigendomi verso l’aula.


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CAPITOLO 2

Arrivai davanti alla porta dell’aula, ma non entrai subito. Mi concessi alcuni istanti per guardare la numerosa classe di ragazzi che approfittavano di quei pochi momenti senza insegnante per parlare tra di loro, scherzare e scambiarsi appunti. Guardai l’orologio e decisi di entrare. Non appena misi piede in aula, il brusio si spense immediatamente, lasciando spazio a un silenzio stupito e incuriosito. Posai la borsa sul grande tavolo di fronte alla lavagna e mi girai a guardare i ragazzi. «Buongiorno» cominciai «sono il professor Mark Candice. Sostituirò la professoressa Lawson per tutto il resto del semestre.» Guardai l’insieme degli alunni e notai alcune ragazze sedute sulle file in fondo all’aula, scambiarsi occhiatine e sorrisini divertiti. Mi voltai per prendere il voluminoso blocco di test corretti e lo soppesai per alcuni istanti prima di parlare: «Il preside Jonas mi ha detto che un paio di settimane fa avete fatto un test con la professoressa Lawson…» feci una pausa «ci tengo a precisare che non sono stato io a correggerli, per cui, evitate di prendervela con me per i risultati.» Alcune risatine si levarono dall’aula. “Bene, abbiamo smussato la tensione.” Diedi il compito a due ragazzi di distribuire i test, dato che non conoscevo i nomi e non mi andava di perdere tempo facendo una sorta di “appello”. Iniziai a vedere i primi segni di sconforto e decisi di risollevare loro il morale: «State tranquilli ragazzi. Dato che sarò io a darvi il voto finale non terrò conto di questo test. Prendetela più che altro come un modo per capire quali sono le parti che dovete studiare meglio e così andrete alla grande all’esame finale.» I sorrisi e i commenti positivi tra di loro mi fecero capire che avevo fatto colpo. Passai l’ora successiva a parlare con loro di quello che avevano studiato


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fino a quel momento con la precedente insegnante e mi dissi disponibile a fornire eventuali chiarimenti sui punti meno semplici del programma o su quello che non avevano capito bene. Mentre parlavo, mi resi conto che quasi tutti erano impegnati a prendere appunti o a sfogliare il libro di testo alla ricerca degli argomenti passati di cui man mano stavamo discutendo. Tutti tranne le ragazze in fondo all’aula che avevo notato all’inizio della lezione. Tre di queste parlavano tra di loro, soffocando sorrisi e cercando di non dare troppo nell’occhio. Un’altra ragazza invece, seduta a poche sedie di distanza da loro, non faceva altro che guardarle indispettita, come se il loro comportamento le desse incredibilmente fastidio. Ogni volta che riconcentrava il suo sguardo su di me, sentivo come un brivido percorrermi la schiena. C’era qualcosa di strano nel modo in cui mi guardava e nel modo in cui guardava le compagne. Nonostante la distanza, riuscivo a notare un’ombra nei suoi occhi. A fine lezione salutai i ragazzi e aspettai che l’aula fosse vuota prima di uscire. Le ragazze dell’ultima fila mi salutarono quasi in coro con un: «Arrivederci professore» senza tentare di nascondere i loro sorrisi maliziosi e le loro risatine da adolescenti. “Santo Dio”, le salutai con cortesia, ma le avrei volentieri mandate al diavolo. Poi vidi la ragazza seduta accanto a loro. Mi guardò a lungo, e di nuovo notai quell’ombra velare i suoi occhi. Si fermò a pochi passi da me e la vidi raccogliere le parole giuste prima di dire: «Mi scusi professore.» «Sì?» mi sentivo a disagio, senza sapere esattamente perché. Era bionda e abbastanza alta, non particolarmente bella. Aveva l’aria timida e un po’ spaventata, forse anche lei si sentiva a disagio per qualche motivo. «Volevo solo sapere qual è il suo giorno di ricevimento…» disse senza guardarmi negli occhi «sa, se dovessi avere bisogno di contattarla per alcuni chiarimenti.» Alzò lo sguardo verso di me e un nuovo brivido mi investì. «Ehm, sì hai ragione…» “Potrebbe chiedere in segreteria…” «Mi trovi il martedì e il giovedì dalle quattro alle sei in sala 45» dissi sorridendo garbato, ma quella ragazza mi metteva a disagio e volevo allontanarmi da lei il prima possibile. «La ringrazio» annuì e sorrise, ma non c’era gioia nei suoi occhi. «Devo prenotarmi per poter parlare con lei?»


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«No… non occorre…» “Cazzo, dovevi dire di sì!” «Perfetto! Allora ci vediamo presto, professore.» «Certo, a presto.» Un attimo prima di uscire dall’aula, mi guardò di nuovo e di nuovo intravidi un’aura oscura velare il suo viso. Era come guardare la finestra di una casa stregata dal cortile, e scorgere l’ombra del fantasma che la notte spaventa il vicinato con le sue grida disperate. Solo un istante, quel che basta per renderti insicuro e chiederti se veramente c’era o no qualcosa da vedere. Scossi la testa nel tentativo di allontanare tutte quelle stronzate paranoiche dalla mia mente. “Il caldo ti dà alla testa amico.” Presi la borsa e uscii dall’aula senza guardarmi intorno. Non lo vidi e non ne ebbi la certezza, ma sentivo che qualcuno mi stava osservando.


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CAPITOLO 3. LISA

L’autobus si bloccò due fermate prima a causa di un guasto tecnico. «Spiacente signori, sono costretto a farvi scendere tutti a questa fermata. Desolato, ma non posso più proseguire.» “Maledizione, ci mancava anche questa.” Raccolsi la borsa stracolma di libri e appunti e scesi, rassegnandomi a fare dieci minuti di strada a piedi. Per fortuna l’aria si era leggermente rinfrescata, e non mi pesò molto fare quel tragitto a piedi. Ne approfittai per pensare alla giornata e… a lui. Ripensai all’istante in cui era entrato in aula, così sicuro, così affascinante. Mi ritrovai a mordermi le labbra. Il suo modo di parlare, la sua voce, il modo in cui muoveva le mani quando spiegava. Dio se era carino. Ma quelle ragazze… ripensai ai loro commenti sfacciati e inopportuni: “Però, carino il nuovo prof. Da lui sì che mi farei interrogare”, e continue risate. Che diavolo avevano in testa quelle sciacquette? Non avevano proprio alcuna possibilità con uno così. Allontanai in fretta il pensiero di quelle ragazze, per evitare che la rabbia mi invadesse ulteriormente. Di certo lui avrà notato il loro atteggiamento e non ne sarà rimasto contento. “Il test non è andato bene, maledizione. Odio questa cazzo di materia” pensai frustrata “ma ha detto che non ne terrà conto, perché sarà lui a dare il voto finale”, questo pensiero mi sollevava parecchio. Era inoltre un ottimo modo per avvicinarmi a Mark. “Ha detto che non occorre prenotarci per andare al ricevimento, possiamo semplicemente presentarci nel suo studio.” Mi ritrovai a sorridere contenta, come se mi avessero fatto un regalo prezioso. “Devi assolutamente farti piacere questa dannata materia, o farai brutta figura… con lui.” Il solo pensiero di una bocciatura da parte sua mi fece annodare lo stomaco. Ero quasi arrivata a casa, quando d’un tratto udii una voce alle mie spalle. Una voce fin troppo familiare.


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«Ma guarda un po’ chi si rivede.» Mi girai e la vidi, con i suoi capelli ricci e rossi come le fiamme dell’inferno. Marianne. «E tu che diavolo ci fai qui?» chiesi costernata arrestandomi di colpo e guardandola come se si fosse appena teletrasportata dall’Enterprise. «Direi che è un pezzo che non ci vediamo noi due» disse sorridendomi e squadrandomi dall’alto in basso «non sembri molto contenta di vedermi… dovrei offendermi.» Mi voltai e continuai a camminare. «Marianne, va’ via ti prego.» «Si può sapere che diavolo ti prende? Perché sei così stronza con me?» «Sai bene perché» affrettai il passo, evitando il suo sguardo, ma lei mi raggiunse e mi afferrò per un braccio, costringendomi a guardarla. «Esigo una cazzo di risposta» era arrabbiata, i suoi occhi verdi brillavano come uno smeraldo iridescente. Aspettai alcuni istanti prima di parlare, mi guardai intorno più volte per sincerarmi che non ci fosse nessuno a guardarci. Ma eravamo sole, la strada era deserta e iniziava a imbrunire. «Sai bene che i miei non vogliono che parli con te.» «E da quando sono i tuoi a decidere con chi devi parlare?» «Marianne…» abbassai lo sguardo «sono così stanca di questa storia. Voglio che mi lasci in pace.» «Sai bene che non posso.» Il suo sguardo fu come una lama rovente dentro di me. «Io e te siamo legate… lo sai bene.» Sì, lo sapevo bene. Io e Marianne condividevamo un segreto. Nessuno ci avrebbe mai potute separare. Ma i miei genitori avevano ragione. Lei era un male per me. Aveva una cattiva influenza su di me e dovevo lasciarla perdere. «E dai bella» si concesse un sorriso e mi lasciò andare il braccio «faremo come ai vecchi tempi, ricordi? Ce la spasseremo senza dire niente a nessuno. Ci stai?» Involontariamente mi lasciai sfuggire un sorriso. Era sempre stata in grado di influenzarmi molto. Era un po’ come stare con la persona che vorresti in parte essere. Quella parte più libera e disinibita, che non bada alle regole e segue solo il suo istinto, vivendo di passioni ed eccitazione. La parte più pericolosa dell’uomo che si tenta sempre di nascondere e tenere a bada. «Io… io non lo so, Marianne…»


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«Ma sì che lo sai» mi diede un colpettino sulla spalla, poi si guardò intorno anche lei e a bassa voce mi disse: «facciamo così. Stasera vengo da te dopo cena, come ai vecchi tempi. E mi racconti un po’ come ti vanno le cose. Che ne pensi?» Scossi la testa incapace di prendere una decisione definitiva. Una parte di me voleva bene a Marianne, mi mancavano le nostre chiacchierate e condividere tutti i segreti con lei, ma un’altra parte pensava alle parole dei miei genitori, e al loro continuo mettermi in guardia sulla sua pericolosità. Non ebbi il tempo per decidere e rispondere che lo fece lei per me: «Lo prendo come un sì. Ci vediamo stasera.» Andò via soddisfatta e contenta, lasciandomi in mezzo alla strada a sentirmi in colpa per averle parlato nonostante le promesse fatte ai miei. Ma era impossibile liberarsi di lei. «Ehi tesoro, com’è andata la giornata?» chiese mia madre non appena misi piede in casa. “Di merda…” «Alla grande» risposi sorridendo e mi affrettai ad andare di sopra. Mi pesava molto l’idea di studiare in casa anziché nei dormitori dell’università, come facevano invece le mie compagne di corso. Ma i miei genitori si erano detti assolutamente contrari all’idea di pagare una retta così cospicua senza motivo, dato che abitavamo piuttosto vicini alla mia facoltà. Tuttavia la loro presenza, a volte troppo assillante, mi soffocava. «La cena è quasi pronta» mi disse ad alta voce mia madre mentre salivo le scale. Non avevo per niente fame, avevo lo stomaco contratto per gli avvenimenti della giornata, e non avevo la minima voglia di rispondere alle domande dei miei. Ma decisi di fare finta di niente, per non dare troppo nell’occhio, o non mi avrebbero lasciata in pace. «D’accordo, scendo tra un minuto.» Chiusi con forza la porta della mia stanza e lanciai la borsa in un angolo vicino alla scrivania, liberandomi di quel peso. Mi concessi qualche istante per respirare e poco dopo scesi di sotto. Sentivo già la voce di mia madre darmi il tormento. Dopo cena tornai in camera mia e mi lasciai cadere sul letto. Non mi sentivo stanca, nonostante la giornata fosse stata faticosa. Guardai


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l’orologio, erano ancora le nove e mezza. Andai alla scrivania e accesi il computer. Sapevo esattamente cosa cercare. Avviai il motore di ricerca e scrissi: “Mark Candice”. Si aprirono diversi risultati, tra cui pagine che rimandavano ad alcuni articoli scritti da lui, i suoi libri, e un paio di foto. Mi concentrai principalmente su quelle. Le foto di certo non gli rendevano giustizia. I suoi occhi neri erano un mare immenso che sfociavano sulla sua anima. In queste foto aveva i capelli scuri, ma a lezione avevo notato che stavano iniziando a ingrigire sulle tempie. “Sexy…”, pensai mordendomi nuovamente le labbra. Cliccai su tutte le foto che il motore di ricerca mi rimandava, e vidi che appartenevano un po’ tutte alle pagine dedicate agli articoli che aveva scritto per alcune riviste accademiche. “Sai che noia”, solo una riportava al suo profilo Facebook. Il mio cuore perse un battito. Andai immediatamente a visionare il suo profilo, ma vidi che era “privato”, vale a dire non si potevano visualizzare i contenuti senza aggiungerlo ai propri contatti. “Dannazione!” Il puntatore del mouse vagava incerto sulla scritta “Aggiungi agli amici”, non mi sembrava opportuno inviargli subito la richiesta, chissà che diavolo avrebbe pensato. I miei pensieri vennero bruscamente interrotti dal sussurro di una voce alle mie spalle: «Però, niente male.» Mi voltai spaventata. Era Marianne. “Accidenti.” Mi alzai e andai a chiudere la finestra che aveva lasciato aperta dopo essersi intrufolata nella mia stanza, e le feci segno di stare in silenzio, mettendomi un indice sulle labbra. Andai alla porta e la aprii di poco, per verificare che i miei fossero ancora di sotto. La tv era accesa, per cui al piano di sopra eravamo sole. “Bene”, chiusi a chiave e tornai a concentrarmi su di lei. Si era messa davanti al computer e stava guardando la cronologia delle mie ricerche. «Ehi! Che diavolo stai facendo?» le strappai il mouse dalle mani e, arrabbiata, iconizzai il browser, lasciando aperta la pagina del profilo Facebook di Mark. Marianne mi guardò e iniziò a sorridere. «Bene, bene, bene» commentò squadrandomi dall’alto in basso «e lui sarebbe?» chiese accennando allo schermo del computer con la testa.


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«Non sono affari tuoi, è chiaro?» «Non ti scaldare tanto, piccola. È carino» disse facendomi l’occhiolino. Sentii la rabbia montare dentro di me. Non volevo parlarle di lui, non volevo che mi trascinasse di nuovo nelle sue cazzate. «Senti è un mio insegnante, d’accordo?» tagliai corto. Lei alzò le mani in segno di resa, ma sorrideva divertita, poi si chinò in avanti e mi passò l’indice sotto il mento: «Solo che, a giudicare dalla bava che c’è qui, direi che è molto più di questo.» Allontanai la sua mano dal mio viso in malo modo. “La solita stronza.” «Non mi va di parlarne, ok?» «E perché no? Com’è che si chiama?» si girò e aprì nuovamente la pagina web che avevo iconizzato. La lasciai fare senza protestare. «Mark Candice» scandì bene il suo nome. Sentirlo pronunciare dalle sue labbra mi infastidì «cosa insegna?» mi chiese continuando a guardare la sua foto. «Storia contemporanea.» Marianne rise. «Cazzo, proprio la tua materia preferita eh?» «Già… beh dovrò farmela piacere adesso, ti pare?» «Oh, direi di sì» annuì divertita, poi fece una pausa e disse: «puoi sempre chiedere ripetizioni al bel professore» di nuovo l’occhiolino. “Non sono affari tuoi, per Dio.” «Già beh, non credo che sia il caso, francamente.» «Non mi dire che ti sei messa a fare la timida proprio adesso» mi guardò con diffidenza. Sapeva bene che non ero mai stata timida. Magari non disinibita e sfacciata come lei, certo, ma mai timida. «Senti Marianne, è un mio insegnante, d’accordo?» «Ah ma fammi il piacere! Non ti è mai fregato un bel niente di queste stronzate.» «Magari mi frega adesso.» «Perché? Cos’è cambiato adesso?» La guardai a lungo. Marianne e io ci conoscevamo da tanto tempo. Lei conosceva i miei lati oscuri, i miei errori e le mie paure. Ma stavo cercando di essere una persona migliore, e non volevo che lei rappresentasse un ostacolo. «Mi manca solo un anno per la laurea. Non voglio perdere tempo con


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queste cazzate.» «Oh, ma tesoro» si avvicinò a me con la sedia e mi prese le mani «nessuno ti ostacolerà. Sai bene che sono qui per aiutarti.» “Aiutarmi, certo…” «Mi perdonerai se ti sembro scettica…» dissi sorridendo sarcastica. «Adesso sì che mi offendi» si ritrasse indispettita e incrociò le braccia come una bambina offesa «lo sai che voglio solo il tuo bene, solo che tu sia felice.» Sempre la solita storia. Scossi la testa e sorrisi senza gioia. «Racconti sempre le stesse cazzate.» Ma lei non si scompose e si girò nuovamente al computer, trovandosi davanti la pagina di Mark, poi mi guardò e disse: «E per dimostrarti che sono qui per aiutarti…» vidi il puntatore del mouse ondeggiare pericolosamente vicino alla scritta “Aggiungi agli amici” e poi udire il “click” del tasto sinistro. “No! Ma cosa?” Il mio cuore accelerò all’impazzata. «Che accidenti hai combinato?» mi avvicinai a lei e guardai la pagina. Adesso la scritta sotto la sua foto riportava: “Hai inviato una richiesta di amicizia a Mark”. “Cazzo!” «Non avevi alcun diritto di farlo!» dissi arrabbiata e alzando leggermente la voce. «Cerca di calmarti, non è mica la fine del mondo.» Sentimmo la maniglia della porta abbassarsi nel tentativo di aprirla e pochi istanti dopo, la voce di mio padre: «Lisa? Che succede?» Mi voltai spaventata verso Marianne, ma lei stava già correndo in bagno per nascondersi. Mi alzai e andai ad aprire. Mio padre mi guardò preoccupato e iniziò a scrutare dentro la mia camera. «Va tutto bene qui dentro? Ti abbiamo sentita gridare.» «No io… stavo solo ripetendo la lezione ad alta voce.» «Ah… va bene…» Gli sorrisi e lui parve tranquillizzarsi. «Allora vado» disse, ma poco prima di scendere nuovamente di sotto guardò la maniglia della porta: «non chiudere a chiave, mi hai fatto prendere uno spavento.» «Sì, sta’ tranquillo.»


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Dopo aver chiuso la porta, Marianne fece nuovamente capolino e, guardandola arrabbiata, dissi: «Devi andartene. Adesso.» Il mio tono non ammetteva repliche, andai alla finestra e la lasciai aperta aspettando che lei si decidesse a calarsi dalla grondaia come faceva sempre. Poco prima di scendere mi sorrise e mi fece il solito occhiolino. «Buonanotte tesoro. Dormi bene.» “Al diavolo.” Serrai bene la finestra e andai a guardare lo schermo del computer. Era fatta. Il mio sguardo indugiò a lungo sulla scritta: “Hai inviato una richiesta di amicizia a Mark”. Non mi restava che aspettare.


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CAPITOLO 4. MARK

L’aria si era piacevolmente rinfrescata quando tornai a casa. Dopo una doccia rilassante, decisi di dare un’occhiata al programma della professoressa Lawson e di verificare i miei appunti degli anni passati per poter apportare eventuali modifiche. Diedi un’occhiata all’orario sullo schermo del computer, Melinda sarebbe arrivata di lì a poco. Sapevo che sarebbe stata troppo stanca per fare qualsiasi cosa, quindi decisi di farle una sorpresa e preparare la cena. Lasciai il computer acceso e andai in cucina. Verso le sei e mezza sentii aprire la porta. Era arrivata. «Ciao!» salutò ad alta voce mentre varcava la porta d’ingresso. «Sono qui!» le gridai dalla cucina. Le sue mani mi cinsero la vita finendo in un abbraccio e poi mi baciò la schiena attraverso la camicia. «Ehi, stai cucinando» osservò divertita. «Sì, madame» presi un po’ di risotto col cucchiaio di legno e glielo feci assaggiare «zafferano e funghi porcini. Il tuo preferito» sorrisi mentre osservavo con impazienza la sua reazione. «Mmh, è buono, ma scotta.» «Bene.» Presi un bicchiere e le versai un po’ di vino bianco piacevolmente fresco. «Perché non vai a sederti e ti rilassi. La cena è quasi pronta.» Mi diede un rapido bacio e accolse volentieri il mio consiglio. «Grazie amore. Sono distrutta» disse mentre si lasciava cadere su una delle sedie in cucina. «Com’è andata la giornata?» chiesi senza guardarla. Melinda sospirò. «Il solito caos. Oggi abbiamo avuto il pienone, e questo dannato caldo non aiuta affatto.» «Già, dicono che dovrebbe passare presto.» «Lo spero. E la tua giornata com’è andata?» «Tutto bene per adesso… sai, siamo ancora all’inizio.» «I ragazzi come sono?»


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«Beh, sono come tutti gli altri direi.» Versai il risotto nei piatti e per alcuni minuti consumammo la cena in silenzio. «Le ragazze sono carine?» chiese provocatoriamente Melinda, facendo un sorriso. «Dai Mel… sono ragazzine.» Lei rise, ma sapevo che non era soddisfatta della mia risposta. Era sempre stata gelosa del fatto che stessi costantemente a contatto con studentesse più giovani e spesso anche attraenti. Ma io avevo occhi solo per lei. «Scommetto che qualcuna ti ha già messo gli occhi addosso.» Ripensai alle ragazze in fondo all’aula e al modo in cui mi avevano salutato a fine lezione. «È ridicolo» dissi scuotendo la testa e sperando che la cosa finisse lì. «Beh, non potrei biasimarle del resto…» Si alzò e poco prima di mettere nel lavello i piatti vuoti, disse con tono lascivo: «Sei un gran fico, professore.» La guardai a lungo. “È così eh?” Mi avvicinai a lei e le misi dolcemente le mani sui fianchi. Mentre era intenta a lavare i piatti iniziai a baciarle il collo e a sfiorare la pelle nuda delle sue braccia. Poi avvicinai la mia bocca al suo orecchio e le sussurrai: «Lo sai che sei tu l’unica donna che mi fa perdere la testa.» Lei girò la testa verso di me e mi baciò a lungo e con passione, lasciando perdere i piatti ancora insaponati nel lavello. La feci girare verso di me e la strinsi con desiderio. Lei iniziò a spogliarmi, aveva ancora le mani bagnate, ma non mi importava. Il desiderio che mi provocava era come un incendio dentro il mio corpo. Un fuoco devastante che bruciava dentro di me a cominciare dai miei occhi, che la guardavano come se fosse la cosa più bella che avessi mai visto. La presi in braccio e la portai di sopra. La sua pelle scottava tra le mie mani, le sue labbra ardevano del mio stesso desiderio. Voglia e amore si unirono in un vortice di frenesia e passione, lasciandoci esausti ma appagati l’uno dell’altra. Lei si addormentò con la testa sul mio petto, cingendomi con le braccia. Io non ero ancora stanco e, facendo attenzione a non svegliarla, uscii dal letto e decisi di tornare al computer a rivedere il lavoro che avevo interrotto prima. Passai l’ora successiva a rivedere il programma e a effettuare alcune


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modifiche, in modo da renderlo più leggero per i ragazzi, dato che eravamo quasi alla fine del semestre. Guardai l’ora sullo schermo, erano da poco passate le undici e la stanchezza cominciava a farsi sentire. Mi passai una mano sugli occhi e poi decisi di chiudere tutto e tornare a letto, ma prima diedi un’occhiata all’account di posta. “Tutta robaccia”, pensai eliminando lo spam dalla posta in arrivo. Aprii il browser e decisi di dare un’occhiata anche a Facebook. Non lo usavo molto, mi serviva più che altro per restare in contatto con i ragazzi che spesso mi aggiungevano e mi ponevano domande sul programma o sugli esami direttamente lì anziché venire nel mio studio in facoltà, o inviarmi e-mail formali all’indirizzo di posta che mi aveva fornito l’università. Vidi che avevo diverse richieste di amicizia. Senza dubbio i ragazzi mi avevano cercato e avevano deciso di aggiungermi. Non conoscevo i loro nomi, per cui andai a guardare le foto di ogni singola richiesta. Ricordavo quasi tutti i loro volti, li avevo visti quella mattina a lezione. Ma fu una richiesta in particolare che mi tenne incollato allo schermo più del dovuto. La ragazza bionda con lo sguardo spettrale. Si chiamava Lisa Marshall e in quella foto stava sorridendo. Ma era un sorriso diverso da quello che avevo visto quella mattina a lezione. Nella foto sembrava serena e felice. Io invece avevo visto solo inquietudine sul suo viso. Aspettai alcuni minuti che mi parvero interminabili prima di decidere se accettare o meno la sua richiesta. Se avessi accettato tutte le altre e non la sua, lo avrebbe notato e ci sarebbe rimasta male. Se non avessi accettato nessuna richiesta di amicizia, i ragazzi ne avrebbero parlato tra di loro e avrebbero pensato che fossi il solito professore stronzo che ci tiene a mantenere le distanze con gli studenti. Alla fine decisi di accettarle tutte. “Ma si, che potrà mai succedere”, pensai scacciando le mie continue paranoie. “E se la situazione dovesse farsi ambigua, posso sempre porvi rimedio…” Non ero mai stato un professore rigido e “all’antica”, mi ero sempre comportato in modo elastico e amichevole con i ragazzi, senza mai oltrepassare i limiti. Ripensai a Melinda e alle sue parole, alla sua gelosia. Di certo in passato diverse studentesse si erano invaghite di me, ma non le avevo mai assecondate ovviamente. Né ero mai stato brusco


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con loro. Le avevo semplicemente ignorate, essendo più che sicuro che prima o poi avrebbero ritrovato la ragione. E così era stato, il più delle volte. Adesso, però, una strana sensazione mi impediva di stare del tutto tranquillo. Magari mi sbagliavo, ed era solo una mia stupida preoccupazione, però avevo il presentimento che presto il mio equilibrio sarebbe stato compromesso. Stanco e infastidito dalle mie stesse paure, spensi la luce e decisi di andare a dormire. Poco prima di chiudere la pagina web e di spegnere il computer, accettai l’ultima richiesta di amicizia e i miei occhi vagarono alcuni istanti sulla scritta: “Hai accettato la richiesta di amicizia di Lisa, scrivi qualcosa sul suo diario”. Il “click” del mouse riportò il mio sguardo al monitor del computer e alla foto delle nozze con Melinda, che avevo impostato come sfondo. I nostri sorrisi felici furono le ultime cose che vidi prima di chiudere tutto. L’unica cosa di cui, adesso lo sapevo, mi importava sul serio.


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CAPITOLO 5. LISA

Il caldo insopportabile del mattino seguente mi costrinse ad alzarmi prima del previsto. Avevo dormito poco e male, tuttavia, per cui fui felice di alzarmi presto. Una forte scarica di adrenalina mi era entrata nelle vene la sera prima e non mi aveva più abbandonata. Erano quasi le undici e mezza quando sul cellulare mi arrivò la notifica che Mark aveva accettato la mia richiesta di amicizia. Ero rimasta a guardare lo schermo del cellulare come ipnotizzata e senza fiato. Senza pensarci due volte avevo iniziato a sfogliare il suo profilo, guardare le sue foto e i link che aveva pubblicato. Letto ogni singolo post senza saltarne neanche uno, scoprire come la pensava su politica, religione e attualità. I suoi hobbies e le sue passioni. La musica che ascoltava, i film che guardava, i libri che leggeva. “Dio benedica l’assenza di privacy sui social network”, pensai guardando estasiata quella pagina web come se fossi entrata in possesso del suo diario segreto. Una finestra sul suo mondo e sulla sua vita, seppur virtuale. Le foto del suo profilo. I suoi occhi, il suo sorriso, le sue mani… potevo quasi toccarlo e sentire la sua pelle contro la mia. Erano quasi le due del mattino quando mi costrinsi a spegnere il cellulare e tentare di dormire almeno un po’. Ma era stato tutto inutile. L’insonnia mi aveva avvolta come una coperta pungente, piena di spine, e ogni tentativo di prendere sonno fu vano. Erano appena le cinque del mattino quando decisi di alzarmi, dopo quella notte in bianco. Mi infilai sotto la doccia e lasciai che l’acqua fredda lavasse la stanchezza dal mio corpo e dai miei occhi. Tuttavia non avrebbe lavato via l’immagine di lui che continuavo a vedere dietro le palpebre, quando chiudevo gli occhi immaginando il suo sorriso e cercando di ricordare il tono della sua voce. I suoi giorni di ricevimento erano il martedì e il giovedì. Ma avevamo lezione dal lunedì al mercoledì, il che per me era grandioso. “Vederlo tre o forse quattro volte a settimana…”, mi sembrava un sogno. Per la prima volta da due anni, ero terribilmente ansiosa di andare


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all’università. L’avrei visto, e questo mi dava la forza di affrontare il pensiero di una giornata di studio e di lezioni interminabili. Alle sei e mezza ero già pronta per uscire. Solitamente non riuscivo a fare colazione insieme ai miei. Loro uscivano di casa dopo di me e io avevo un autobus e poi un treno da prendere. Arrivai in facoltà alle otto meno un quarto e, come spinta da una febbre violenta, mi precipitai in aula sperando che fosse ancora vuota per poter riuscire a trovare un posto in prima fila. Così avrei potuto guardarlo negli occhi per tutto il tempo. Con mia grande fortuna c’erano parecchie sedie vuote nelle prime file. Senza attendere oltre, presi posto quasi davanti alla cattedra, dove sapevo si sarebbe appoggiato per spiegare la lezione del giorno. Dopo alcuni minuti l’aula iniziò a riempirsi. Io guardavo febbrilmente verso la porta, aspettando che entrasse da un momento all’altro, pronta a studiare bene la sua camminata, il suo sguardo e provare a sentire il suo profumo. Verso le otto e un quarto entrarono in gruppo le tre ragazze del giorno prima. Quelle che con grande sfacciataggine non avevano fatto altro che commentare in modo del tutto inopportuno Mark e quanto fosse carino. “State lontane da lui, santo Dio.” Le vidi salire i gradini dell’aula sempre ridendo tra di loro come tre idiote, fino a fermarsi negli stessi esatti posti del giorno precedente. Una di loro, la più “carina”, sembrava essere uscita da un concorso di bellezza, o qualche merdata del genere. Non faceva altro che guardarsi allo specchio e sistemarsi continuamente i capelli, o asciugarsi le sbavature del lucidalabbra color rosa barbie del cazzo. “Dio com’è patetica”, pensai irritata. L’aprirsi della porta mise fine ai miei pensieri. Mark era finalmente arrivato. Non appena lo vidi, il mio cuore perse un battito e mi ritrovai a trattenere il respiro. Indossava una semplice camicia color acciaio e un paio di jeans. Niente giacca. Faceva troppo caldo. «Buongiorno a tutti, ragazzi» salutò cordiale, concedendoci uno dei suoi dolcissimi sorrisi. Si guardò rapidamente intorno e poi d’un tratto il suo sguardo si concentrò su di me, rimanendo a fissarmi per alcuni istanti che mi parvero interminabili. Mi persi nei suoi occhi e le mie mani iniziarono a sudare a tal punto che


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dovetti asciugarle sui jeans. Iniziò la lezione e io cercai di prendere appunti. Mi sarebbero di certo serviti. Stava parlando dell’influenza che ebbero nazismo, fascismo e autoritarismo in Europa negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale. “Davvero molto interessante.” Non me ne fregava un cazzo di Hitler, Mussolini e delle loro porcate. Riuscivo a fatica a concentrarmi sulla lezione. Non facevo altro che perdermi nei miei pensieri. Guardavo con attenzione il modo in cui muoveva le mani mentre spiegava. Le sue labbra che si aprivano e chiudevano mentre parlava. I suoi occhi che vagavano per l’aula, cercando di guardarci un po’ tutti. Di tanto in tanto gettava uno sguardo nella mia direzione, e mi sentivo il viso andare a fuoco. La lezione terminò due ore dopo e io lo guardai andare via dopo aver raccolto le sue carte e il libro di testo. «Ci vediamo domani ragazzi» disse poco prima di uscire. “No… ci vediamo più tardi…” Era martedì e sarei andata nel suo ufficio a chiedere parecchie delucidazioni in merito alla lezione del giorno. Avevo fatto bene a prendere tutti quegli appunti. Approfittai della breve pausa tra una lezione e l’altra per andare in bagno, e con mio grande dispiacere incrociai le tre “Miss dell’ultima fila”. Concessi loro solo una rapida occhiata e mi chiusi la porta del w.c. alle spalle, rimanendo ad ascoltare tutto quello che dicevano. «Dio, non ne posso più di tutte queste lezioni» stava dicendo una di loro. «Già. Per non parlare del fatto che tra poco abbiamo gli esami e siamo indietro un casino con lo studio» aveva commentato un’altra con una risatina nervosa. «Oh, ma per favore ragazze! Volete darvi una calmata?» aveva detto “Miss lucidalabbra” «state sempre lì a parlare di studio e di esami. Mi avete rotto.» Breve pausa. «Ma Debby, siamo quasi a fine mese…» “Miss lucidalabbra”, ossia Debby, aveva risposto: «Già, ma io non sono affatto in ansia per questi esami. E al contrario di voi non sono per niente stufa di queste lezioni… anzi…» La sua voce si era piegata insieme alle sue labbra in un sorriso malizioso. «Il nuovo professor gnocco mi sta facendo davvero amare questa


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materia» altra risatina. Le due amiche fecero una pausa prima di parlare: «Debby non cominciare. È un insegnante, ricordalo» aveva detto una di loro. «Dio, quanto siete noiose…» pausa per sistemarsi i capelli «sapete? Ho intenzione di farmi spiegare la lezione un po’ meglio.» «Che diavolo vuoi dire?» «Voglio solo andare da lui al ricevimento, tutto qui.» La zip di una trousse per il trucco si chiuse. “Al ricevimento da lui?” Una rabbia mi invase facendomi aumentare il battito cardiaco talmente tanto che temevo si sarebbe sentito attraverso quella porta sottile. «Sei per caso impazzita? Che intenzioni hai?» le avevano chiesto le ragazze. «Perché tutte queste storie? Non posso avere un chiarimento su una lezione? E poi non sono affari vostri, dannazione.» «Tu sei matta» avevano commentato ridendo le ragazze, e di lì a poco uscirono tutte e tre, lasciando il bagno deserto. Io uscii di lì pochi minuti dopo, incapace di controllare la mia rabbia. Che diavolo aveva in mente quella sgualdrina? Improvvisamente mi resi conto che una ragazza così poteva rappresentare un problema. Ma io non glielo avrei permesso. Passò ancora qualche minuto e finalmente uscii dal bagno. Sapevo bene cosa avrei dovuto fare.


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CAPITOLO 6

La piccola sala d’attesa fuori dagli uffici dei docenti era piacevolmente rinfrescata. Un vero sollievo in quel giorno così caldo. Arrivai davanti all’aula 45 dieci minuti prima che iniziasse l’orario di ricevimento di Mark. Provai a bussare e anche ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Lui non era ancora arrivato. Con mio grande sollievo, nemmeno Debby si era fatta viva. Questo mi permetteva di stare sola con lui senza che nessun altro si mettesse in mezzo. Alle sedici e dieci udii dei passi in fondo al corridoio e poi lo vidi camminare verso di me. Aveva lo sguardo chino sul cellulare, stava scrivendo un messaggio probabilmente. “A chi accidenti stai scrivendo?”, mi chiesi travolta da una sensazione simile a una folle gelosia. Pochi istanti dopo alzò lo sguardo e mi vide. Mi sentivo le gambe molli, come se stessi affondando dentro le sabbie mobili. «Oh, ciao. Sei qui per il ricevimento?» mi chiese stupito. Mi alzai tenendo lo sguardo incollato al suo viso. Annuii flebilmente e quando gli risposi: «Sì…» stentai a riconoscere la mia voce. Ero in preda al panico. Lui mi guardò a lungo e poi annuì. «Va bene. Vieni, accomodati» disse dopo aver aperto la porta con la chiave. L’aria nella stanza era viziata e c’era un caldo soffocante, così andò ad aprire la finestra e mi invitò ad accomodarmi sulla sedia di fronte alla scrivania. Lui prese posto dietro. «Allora…» disse senza guardarmi, iniziando a sistemare gli appunti sul tavolo che la leggera brezza, proveniente dalla finestra aperta, fece muovere lievemente. «Di che si tratta?» mi sorrise gentilmente. Aveva la camicia leggermente sbottonata e alcuni peli del petto si intravedevano da quella piccola scollatura. Dio, gli sarei saltata addosso senza pensarci neanche due volte. Sentii la fronte imperlarsi di goccioline di sudore e le mie guance andare


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a fuoco. Lui mi stava ancora guardando in attesa di una risposta. “Svegliati, cazzo!”, urlai a me stessa riscuotendomi. «In realtà professore…» iniziai schiarendomi la voce e cercando di sistemarmi meglio sulla scomoda sedia di plastica «volevo parlarle del test che abbiamo fatto con la professoressa Lawson.» Decisi di prendere tempo e conservare la scusa degli “appunti oscuri” per la prossima volta. Lui mi guardò sorpreso e annuì. «Sì?» «Beh ecco… ho paura che non sia andato molto bene e sono un po’ preoccupata» provai a far uscire una risatina non troppo convinta. Lo vidi sorridere e mi sentii bruciare. «Non dovete preoccuparvi per quel test, vi ho spiegato che non ne terrò conto per il voto finale.» «Ma ecco vede… pensavo che forse potevamo rivedere insieme alcune cose su cui sono andata peggio…» Lui mi interruppe con un gesto della mano: «Mi fa piacere vedere che hai voglia di riparare e fare un buon esame. Ma i test ve li ho lasciati proprio per questo motivo. Così potete vedere quali sono le domande a cui avete risposto male e riprendere meglio gli argomenti.» «Sì, ma ecco, io speravo che lei mi desse una mano a rivedere tutto e magari darmi qualche dritta… per così dire…» Il mio sorriso si spense sulle labbra pochi istanti dopo aver notato la sua reazione un po’ infastidita, anche se tentò di non darlo a vedere. «Scusami… ehm… mi ricordi il nome, per piacere?» “Oddio, non si ricorda nemmeno come mi chiamo”, pensai con dispiacere. «Lisa… ehm, Lisa Marshall…» “E d’ora in poi vedi di ricordarlo…” «Bene, Lisa.» Sentirgli pronunciare il mio nome mi provocò una fitta al cuore. «Facciamo così: rivedi tutto con calma a casa da sola. Se dovessi avere ancora problemi vieni qui e ne parliamo assieme. Ma devo però avvertirti che non accetterò domande sull’intero programma, bensì solo su alcuni punti che ti sono stati particolarmente ostici, chiaro?» Il modo in cui mi “mise in guardia” mi spiazzò. Era chiaro che stava cercando di mantenere le distanze. Voleva dire che non sarei potuta andare al ricevimento da lui ogni volta che volevo? Questo pensiero mi fece sprofondare. Io avevo bisogno di stare con lui.


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«Va bene… certo» dissi annuendo e tentando di sorridere. Capii che avrei dovuto escogitare un altro piano per poterlo vedere fuori dalle lezioni e avere contatti con lui. «Sono sicuro che una volta ripresi tutti gli argomenti, andrai alla grande anche senza il mio aiuto» sorrise gentilmente e le mie paranoie di poco prima si dissolsero come fumo leggero. “Dovrò fare un esame con i fiocchi, dannazione.” «Allora, la ringrazio per la disponibilità, professore» dissi alzandomi e porgendogli la mano. Lo guardai rapita, studiando bene il suo viso e cercando di imprimere bene nella mia mente ogni singolo dettaglio. Lui mi guardò e accennò un sorriso cortese, poi mi prese la mano e me la strinse. «È stato un piacere. Sono a vostra disposizione, ragazzi.» “No, niente ragazzi… qui ci sono solo io”, pensai scrutandolo a lungo e continuando a stringergli la mano. Lo sentii tentare di ritrarsi, e mi accorsi che stavo stringendo un po’ troppo, così lasciai andare la presa. «Ci vediamo domani professore. Buona serata.» «A domani. Buona serata anche a te» disse facendo un cenno con la mano. Non appena chiuse la porta dello studio sentii il rumore di un paio di tacchi avvicinarsi. Dopo alcuni istanti apparve Debby. Si era messa in tiro per venire a parlare con Mark. Un moto di rabbia si sprigionò dentro di me. “Come diavolo ti sei conciata?” Guardò verso di me e mi squadrò bene dall’alto in basso prima di chiedermi: «È qui l’ufficio del professore Candice?» La guardai a lungo. Aveva un vestito bianco attillato e fin troppo corto, con una scollatura vertiginosa che metteva in risalto il seno abbastanza prosperoso. I capelli perfetti e spruzzati di lacca. Il solito, immancabile lucidalabbra da barbie, e un paio di tacchi da dodici centimetri. “Dove diavolo vai vestita così?” Lei mi stava ancora fissando in attesa che mi decidessi a rispondere. «Sì, ma il professore non c’è. Ha annullato il ricevimento per tutta la settimana» mi guardò sgranando gli occhi incredula. «Come sarebbe? Non ha detto nulla a lezione.» «Già beh, che vuoi farci? Avrà avuto qualche contrattempo personale.» Fece un passo verso di me, che ero praticamente fuori dalla porta di Mark.


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«Ti dispiace se provo a bussare?» mi chiese aspettando che mi levassi di mezzo. «È inutile, ci ho già provato io. Puoi provare a parlare con lui domani a lezione.» Lei scosse la testa spazientita «domani non posso venire a lezione…» Dopo una breve pausa mi guardò e mi chiese: «Pensi che possa lasciargli un biglietto sotto la porta?» “Che idea del cazzo”, sorrisi e le dissi: «Ma certo! Buona idea, credo che lo farò anch’io.» Mi sorrise e si sedette su una sedia, tirando fuori dalla minuscola borsetta un blocchetto per appunti e una penna rosa con la piuma in cima. Dopo alcuni istanti si rialzò e mi diede il foglietto accuratamente piegato, in modo da non far vedere cosa c’era scritto all’interno. «Scusa, ti dispiace lasciarlo tu? Dato che lui non c’è ne approfitto per fare altro» piegò la testa di lato come un cucciolo e mi regalò uno dei suoi sorrisi più o meno seducenti. «Ma certo, nessun problema» risposi sorridendo anch’io. «Grazie mille. Allora ci vediamo eh» mi salutò senza guardarmi mentre andava via ondeggiando pericolosamente su quei maledetti tacchi di plastica. Mi assicurai che non fosse più nei paraggi prima di aprire il bigliettino e leggere cosa aveva scritto. “Caro professor Candice, sono Debra Seller. Mi chiedevo se potevamo parlare insieme del programma e delle modalità d’esame. Le lascio il mio numero… mi contatti quando vuole e a qualsiasi orario”. Roba da non credere. “Che sfacciata del cazzo”, pensai accartocciando il foglietto di carta. Uscii in fretta da lì e mi ritrovai nel giardino della facoltà. Senza farmi vedere, mi nascosi dietro un muretto e tirai fuori l’accendino dalla mia borsa. Avvicinai un angolo del foglio alla fiamma dell’accendino e lo lasciai cadere a terra. Guardai il bigliettino di Debby piegarsi su se stesso e incenerirsi con rapidità devastante. La fiamma dell’accendino ondeggiò dentro i miei occhi e tutto ciò che vidi quando guardai ai miei piedi, fu un piccolo mucchietto di cenere che il vento stava già portando via. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrĂ assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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