ALBERTO BERTONI
LA TERZA CHIMERA
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LA TERZA CHIMERA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-696-7 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Marzo 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Questo romanzo è opera di fantasia. I personaggi e i fatti narrati sono del tutto immaginari. Qualsiasi riferimento a persone, fatti, associazioni e luoghi realmente esistenti è da intendersi puramente casuale.
Uno spettacolo agghiacciante! Credo di capire perchÊ abbiano deciso di tenerlo nascosto... ... Senza curarsi di ricavarne onore, oppure umiliazione... ... Gettando via la cultura e l’esperienza scientifica accumulate nel corso degli anni. Si sono affrettati a chiudere quella voragine di terrore che loro stessi avevano aperto... Katsuiro Otomo - Akira
Per Valentina, ancora.
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Mi chiamo Greg Sullivan e sto morendo. Non è rilevante come lo sappia: è così e non ho bisogno della conferma di nessun dottore per esserne certo. Morirò e non mi importa, tanto ho terminato tutto quello che dovevo fare e adesso sono solo un relitto dimenticato in questa stanza vuota. Anzi, a essere onesto, c'è ancora una cosa che vorrei fare prima di lasciarmi vincere dagli anni e dalla malattia. Vorrei raccontare come è iniziato tutto questo, vorrei raccontarvi chi ero, ma soprattutto vorrei parlarvi di Sal e di come cambiò la mia vita. Non mi illudo che questi fogli vengano mai stampati. Il governo probabilmente farà come ha fatto con tutte le altre cose che ho scritto. Archivierà tutto da qualche parte sottoterra, in un magazzino pieno di scartoffie e forse prima o poi lo farà esaminare da un esperto, ma a questo punto non mi interessa più. Ho già scritto tutto quello che volevano loro. Adesso scrivo solo per me stesso. Consideratelo un modo per fare ordine nei miei ricordi, per scendere a patti con ciò che è stato e accettarlo una buona volta.
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Tutto è iniziato molti anni fa. Ero un giovane neuropsichiatra militare e lavoravo allo U. S. Army Psychiatric Center di Lynchburg, in Virginia. Trascorrevo gran parte delle mie giornate chiuso in un piccolo ufficio ad analizzare tracciati elettroencefalografici e preparare delle relazioni per il mio superiore, il colonnello Headster. Non posso dire che quel lavoro mi piacesse particolarmente, ma era quello per cui avevo studiato e non mi potevo lamentare. Fortunatamente, qualche anno prima, avevo ottenuto da Headster di poter dedicare una mattina alla settimana ai colloqui con i pazienti. Si trattava principalmente di giovani marine che manifestavano gli effetti di uno stress post traumatico in conseguenza a qualche azione militare, o di vecchi reduci scontrosi che avevano difficoltà ad adattarsi alla vita civile, dopo avere servito il paese per gran parte della loro esistenza. Ci avevo messo degli anni per ottenere quell'incarico e volevo che Headster mi riconoscesse il merito dei loro progressi, quindi, la giornata che dedicavo alle visite era il momento più importante della mia settimana. Passavo la serata precedente riguardando gli incartamenti e riascoltando i nastri con i colloqui. Poi mi recavo al lavoro in anticipo per rendere più accogliente il mio ufficio, altrimenti sempre ingombro di carte e molto disordinato. Quella mattina ero in ritardo. Stavo percorrendo di corsa il corridoio del terzo piano che portava al mio studio, quando Nellie, la mia segretaria, mi avvisò che il capo mi aveva cercato. «Grazie Nellie, lo chiami e gli dica che salirò da lui più tardi».
Non mi capitava mai di essere in ritardo, soprattutto nel giorno delle visite, ma stavolta la mia auto mi aveva lasciato a piedi. Possedevo una
10 Mitsubishi Colt grigia. Un vecchio rudere che avevo dai tempi dell'università, il cui motore vantava più di duecentocinquantamila chilometri. Nonostante mostrasse i segni di un'evidente trascuratezza e qualche ammaccatura, non mi aveva mai dato particolari problemi, eppure, quella mattina, si era rifiutata categoricamente di partire. Entrai in ufficio e mi sedetti, poi mi guardai intorno. Non avevo tempo per riordinare. Raccolsi i fogli sul tavolo e li nascosi in un cassetto, sistemai ordinatamente alcune penne in una tazza di ceramica col logo della base, poi mi strinsi la testa tra le mani, massaggiandomi le tempie con i palmi aperti. Non erano nemmeno le dieci e avevo già mal di testa. «Posso far entrare il signor Hogan?» chiese Nellie dall'interfono. «Dammi un momento» risposi. Credo che ogni medico abbia uno o due pazienti che farebbe volentieri a meno di vedere. Per quanto mi riguarda, il signor Hogan era uno di quelli. «Ma tenente... Sta già aspettando da più di un'ora...». «Al diavolo... Va bene Nellie, fallo passare». «Sissignore. Ho avvertito il colonnello che salirà da lui appena ha finito qui. Non se ne dimentichi».
Bruce Headster era il responsabile della struttura da oltre vent'anni e quando convocava qualcuno non si trattava mai di buone notizie. Passai gran parte della mattinata pensando a quale potesse essere il motivo della chiamata. L'idea di essere stato assente proprio quando il capo mi era venuto a cercare mi metteva profondamente a disagio, soprattutto perché era successo nel giorno delle visite. Percorsi il breve tragitto dall'ascensore alla porta del suo ufficio, pensando a cosa dire a mia discolpa. La sua segretaria mi venne incontro: «Signor Sullivan? Il colonnello la sta aspettando. Mi segua per favore». La seguii fino a una porta sulla cui superficie spiccava una targhetta di ottone con scritto Col. L.T. Headster. Lei bussò e aprì. «Colonnello? È arrivato il signor Sullivan».
11 L'ufficio era sontuoso, con enormi librerie addossate alle pareti e un'unica vetrata davanti alla quale era stata sistemata la sua scrivania. Headster distolse lo sguardo dal monitor del computer e mi venne incontro con la mano aperta: «Greg. Si sieda, la stavo aspettando». Dopo una vigorosa stretta, congedò la segretaria e io mi accomodai, a disagio, su una delle poltroncine imbottite di fronte a lui, pronto a scusarmi per il ritardo di quella mattina. Il colonnello non mi guardò nemmeno, aprì una cartellina gialla e ne tirò fuori una serie di fogli. «Se lo ricorda questo?» chiese. Io presi l'incartamento dalle sue mani e lo riconobbi subito: era il mio USASET.
Un USASET (United States Army Staff Evaluation Test) è un test interno che viene spedito dal comando centrale dell’esercito ai medici impiegati nei suoi ranghi, per valutarne la competenza in vista di promozioni o incarichi più prestigiosi. Non era la prima volta che ricevevo un USASET, lo compilavo e lo rispedivo alla Central Evaluation Commission, senza mai ricevere notizie, almeno fino a quel giorno. «A quanto pare ha fatto centro, tenente». «Sono stato promosso?» chiesi. «Veramente non lo so, qui dice solo che la vogliono vedere». «La commissione?». «Il Pentagono».
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Atterrai a Washington DC iI giorno seguente. La segretaria di Headster mi aveva prenotato un posto su un aereo civile perché, con un preavviso così ristretto, non era riuscita a farmi imbarcare in nessun aereo militare. Al mio arrivo fui avvicinato da un soldato in uniforme. Mi chiese se fossi Gerg Sullivan, controllò i miei documenti e mi invitò ad accomodarmi in auto. Il traffico era scorrevole, ma il viaggio fu comunque abbastanza lungo. Al Pentagono venni accolto da un secondo militare che mi appuntò sulla giacca un tesserino magnetico di riconoscimento e mi invitò a seguirlo. Era la mia prima visita al quartier generale del Dipartimento della Difesa e rimasi affascinato dalla mole di quell’edificio. Per diversi minuti seguii il giovane attraverso un dedalo di corridoi, guardando ammirato la moltitudine di dipendenti governativi affaccendati nelle loro abituali mansioni. Giunti davanti a un’anonima porta in legno bianco, il soldato si fermò e mi fece cenno di entrare. «E qui che si riunisce la commissione medica di valutazione degli USASET?» chiesi. «Non so cosa sia un USASET, signore. Mi hanno solo detto di accompagnarla alla stanza 15C, signore. Prego, entri. Io la aspetterò qui e quando avrà finito la riporterò alla macchina». Entrai. La stanza era più piccola di quanto mi fossi aspettato ed era completamente vuota, a eccezione di un tavolo di legno sistemato al cento e delle sedie. Al mio ingresso i presenti smisero di parlare e si scambiarono delle fugaci occhiate. Poi presero posto.
13 «Buongiorno tenente medico Sullivan», disse una voce dal fondo. «Si accomodi». Mi affrettai a eseguire. Quando tutti furono seduti, l’uomo estrasse un foglio di carta da una borsa sotto al tavolo e iniziò a leggere a voce alta: «Prima di iniziare le presentazioni, la devo informare che, ai sensi dell’articolo 4 della legge 51 del 4 maggio 1993 sulle norme che tutelano la sicurezza nazionale, tutto quello che diremo in questa stanza sarà registrato. Ai sensi dell’articolo 5 della stessa legge, la informo che lei è tenuto al più stretto riserbo circa le motivazioni e i contenuti di questa riunione. Tutto quello che diremo dovrà restare segreto. Se così non dovesse essere», proseguì aggiustandosi gli occhiali, «lei sarà giudicato per direttissima da un tribunale a porte chiuse con mandato dei servizi segreti. Se pensa di non essere in grado di soddisfare queste condizioni, può alzarsi adesso e uscire da quella porta, altrimenti cominciamo». Sentii su di me gli sguardi gelidi dei presenti e con una certa titubanza risposi: «Per me nessun problema, cominciamo pure». «Bene, allora mi permetta di presentarmi. Sono il Generale Rosen dell’Ufficio Reclutamento, di fianco a me c’è il signor Raily dei servizi segreti militari, il generale medico Brennan e i signori Leman e Grant, del Consiglio di Sicurezza Nazionale a Washington». Mentre Rosen indicava i suoi colleghi, io salutai ciascuno di loro con un deferente cenno del capo. Confesso di essere stato un abbastanza confuso. Ormai lavoravo nell'esercito da più di dieci anni, ma non mi era mai capitato di trovarmi in una stanza con così tanti personaggi importanti. «Riconosce questo?» disse Rosen, distogliendomi dalle mie riflessioni. Il generale stava indicando una serie di fogli sul tavolo. Li osservai e annuii con un cenno del capo. Si trattava del mio test USASET. «A beneficio del nastro, tenente. Dica sì o no». «Sissignore, è il mio test USASET». Due dei presenti si guardarono con aria interrogativa. «Innanzitutto credo di doverle una spiegazione» proseguì Rosen. «Quest’anno non ci sarà nessuna valutazione USASET. Il test che lei e tutti i suoi colleghi avete ricevuto è solo una… copertura».
14 Lo fissai incredulo, ma il generale proseguì: «L’unica domanda per la quale ci interessava una risposta è…» Rosen sfogliò frettolosamente l’incartamento e, trovato il foglio che cercava, lo tirò fuori dal fascicolo e me lo porse. «Questa» concluse, «la numero sette». Rilessi la domanda. Effettivamente l’avevo trovata insolita ma non vi avevo dato troppo peso. In essa si chiedeva di commentare il tracciato di un elettroencefalogramma. Quando alzai gli occhi dal foglio, vidi cinque paia di occhi che mi fissavano. A quel punto prese la parola il generale medico Brennan e, rivolgendosi a Rosen, disse: «Mi permetta di continuare, Tom». Quando Rosen assentì, Brennan si rivolse a me e si presentò: «Io sono l’ufficiale medico responsabile dell'USAIN, lo United States Army Institute for Neuroscience». Lo guardai perplesso: «Non l’ho mai sentito nominare». «Non ne dubito, dottor Sullivan. Ci teniamo a mantenere le attività del nostro istituto molto riservate, ma non è questo il punto. Abbiamo spedito quel test a tutti i neurologi militari del paese con il solo proposito di sapere cosa ne pensassero dell’EEG della domanda sette e la sua risposta ci ha molto colpiti, tenente». Ripresi in mano il foglio che avevo appoggiato davanti a me e gli concessi una seconda occhiata. Brennan proseguì: «Ne vorremmo parlare un attimo se non le dispiace». «Ma perché inscenare tutto questo?» chiesi, alludendo all’intera mole del test. «Ci ho faticato sopra per più di una settimana… Se vi interessava solo un’opinione sul tracciato della domanda sette, perché non limitarsi a quello?» «Avremmo dovuto dare troppe risposte, tenente Sullivan. Per esempio avremmo dovuto ammettere che quel paziente esiste davvero». «Le ricordo che tutto questo è top secret», aggiunse Rosen. Mi ricordavo la domanda sette. Mi ci ero scervellato per giorni. Il tracciato principale era anomalo. I vari ritmi cerebrali presentavano delle caratteristiche insolite, come se il paziente in questione fosse sedato molto profondamente o addirittura in coma farmacologico. Ma non era stato quello ad attirare la mia attenzione, bensì una sorta di
15 rumore di fondo presente su tutto il tracciato al punto da farmi sospettare che la macchina fosse difettosa o sottoposta a una qualche interferenza. Vedete, si presume che l‘apparato per l’EEG registri solo le onde cerebrali, ma in realtà non è proprio così: durante la monitorizzazione dei segnali elettrici corticali vengono spesso registrate onde elettriche “esterne” che modificano il tracciato. Questo accade piuttosto normalmente e per due ordini di motivi: interferenze di natura endogena, ovvero onde elettriche generate a livello del cuore, movimenti oculari, potenziali cutanei e via dicendo, oppure di origine esterna, che possono essere dovute ad altri strumenti collegati al paziente o più banalmente dalla presenza di televisori o radioline nella stanza. Nulla di strano quindi… Ma poi avevo guardato meglio. «Lei ha notato che il rumore di fondo ha un andamento ciclico, tenente Sullivan. È per questo che si trova qui». Gli altri mi fissavano in silenzio. Aprii la bocca per dire qualcosa ma la richiusi subito, non c'era molto da aggiungere. Il generale continuò: «Nessuno dei nostri se n’era mai accorto». Poi si chinò per prendere un foglio che aveva in borsa e iniziò a leggere: «La ciclicità del rumore di fondo presenta picchi di altezza variabile ma la separazione degli impulsi non appare casuale, bensì ordinata e costante». «Beh, non è poi così strano», tentai di minimizzare. «Un’interferenza ciclica può essere dovuta a un qualche tipo di apparecchiatura che emette onde, non saprei…». Brennan mi interruppe: «Non abbiamo collegato niente al nostro paziente, signor Sullivan. E naturalmente nella stanza in cui si trova non solo non esistono televisori o radio, ma il locale stesso è stato progettato per assorbire le onde elettromagnetiche provenienti dall’esterno». Brennan mi fissò con odio e proseguì: «Prima che lei lo presuma, le dirò che non si tratta nemmeno di un artefatto dovuto a un difetto dell’apparato elettroencefalografico. Quelle onde sono generate dalla corteccia cerebrale del nostro paziente, dottor Sullivan».
16 Si chinò per estrarre dalla borsa una grossa pila di fogli che gettò sul tavolo davanti a me - si trattava di centinaia e centinaia di tracciati elettroencefalografici - ma poi parlò rivolto ai suoi colleghi. «L’andamento ciclico del rumore di fondo è stato confermato dai nostri calcolatori anche su tutti gli altri tracciati relativi al paziente». Mi fissò: «Come ci è arrivato? Sono mesi che lavoriamo su questi grafici e una cosa così evidente ci è sempre sfuggita». Aprii la bocca per rispondere ma il generale non me ne diede il tempo: «Voglio che lei si unisca a noi Greg».
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Durante il viaggio di ritorno, mentre l’autista mi accompagnava all’albergo dove avrei passato la notte, ero completamente assorto nei miei pensieri. Avrei dovuto scegliere al più presto e comunicare la decisione l’indomani mattina alla persona che mi avrebbe accompagnato all’aeroporto. Tutto mi appariva così insensato. «Lei è il candidato ideale, Greg. Non è sposato, non ha figli. Potremmo trasferirla all’Istituto entro un paio di giorni. Lei si dedicherebbe esclusivamente a questo paziente». «Non capisco il motivo di tutto questo… di tutta questa segretezza. Chi è costui? Cosa gli è successo?» «Questo non glielo posso dire, Greg. Anzi la prego di non domandarmelo mai più». L’autista mi accompagnò all’Hilton, dove mi vidi assegnare una deliziosa stanza d’angolo con terrazza e salottino. Mi feci servire una cena in camera, consapevole che l’esercito stava spendendo una piccola fortuna per il mio soggiorno. Sapevo che avrei accettato. Lo sapevo fin dall’inizio. Di qualunque cosa si trattasse, la presenza di tutti quei generali poteva significare solo che la mia carriera ne avrebbe tratto una decisa spinta verso l’alto. Volevano me. Tutti quei grossi papaveri avevano bisogno di me: Greg Sullivan, neuropsichiatra militare attualmente assegnato allo U.S. Army Psychiatric Center di Lynchburg in Virginia. E mi volevano per qualcosa di grosso, qualunque cosa fosse. Dopo la tensione delle ultime ore, mi sentivo al settimo cielo. “Forse qualche pezzo grosso ha avuto un incidente”, pensai. “Oppure quei tipi dei servizi segreti stanno sperimentando un qualche tipo di droga da usare negli interrogatori, chi può dirlo?”. Terminai la cena guardando la televisione, poi aprii il frigobar e ne estrassi una mignon di champagne. Riflettei sull’opportunità di aprirla,
18 sapendo che mi sarei dovuto accollare personalmente i cinquanta dollari di spesa e quindi la stappai. «Al diavolo» mi dissi, «devo festeggiare».
Allora non potevo sapere di essere spiato, ma era così. Almeno cinque telecamere avevano ripreso ogni mia mossa nella stanza e avevano trasmesso le immagini a un furgone parcheggiato poco distante dall’albergo. Lo so perché me lo ha detto Brennan molti anni dopo, in una delle sue visite, e io non credo che mi abbia mentito. «Ti tenevamo d'occhio sai, non avresti mai potuto farla franca». E invece io ce l'avevo quasi fatta e questo lo sapeva anche lui, anche se non avrebbe mai saputo come. Ma sto correndo troppo. Ci sono altre cose da raccontare prima. Prima ci sono i sogni. E c'è Sal.
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Fu così che partii alla volta dello United States Army Institute for Neuroscience (USAIN). A Lynchburg ormai girava la voce di un mio imminente trasferimento, ma io mi ero attenuto agli ordini e avevo mantenuto il più stretto riserbo. Il mio diretto superiore, il colonnello Headster, sapeva solo che avevo superato l’USASET e che sarei stato trasferito a Washington. Non ci furono tanti saluti. Quando un’anonima berlina nera venne a prelevarmi, mi limitai a caricare una valigia nel bagagliaio e ad accomodarmi sul sedile posteriore. Nessuna stretta di mano, nessun abbraccio. Solo un breve saluto a Nellie e la richiesta di disdire i miei pazienti. Vedete… Non sono mai stato particolarmente incline ai rapporti umani, non sono solito socializzare con i conoscenti e in tutta la mia vita non sono mai andato oltre la prima birra con un collega dopo il lavoro. Potrebbe trattarsi di timidezza ma io non lo credo. Da giovane, quando ero al college, ero troppo preso dagli studi per avere il tempo di frequentare i compagni di corso, e le mie doti fisiche, per quanto non mi consideri poi così male, non mi hanno mai posto al centro dei discorsi delle ragazze. Così mi limitavo a studiare, passando molto tempo per conto mio. Nelle forze armate, i gradi comportavano una limitazione in più nei rapporti umani ma, se non altro, ti assegnavano un posto ben definito nello schema generale. Nell'esercito non ci sono amici con cui passare del tempo, solo persone a cui devi obbedire e persone che devono obbedire a te. Questo coincideva con l'idea che avevo del lavoro, quindi mi ci trovai subito benissimo. Solo sporadicamente amavo concedermi una birra al circolo ufficiali e in alcune di queste occasioni potevo persino dedicarmi a una breve chiacchierata con qualche avventore, ma
20 preferivo che tutto questo rimanesse un'eccezione all'interno della mia giornata piuttosto che la regola. A pensarci adesso, forse è stata proprio questa la mia salvezza. Una persona diversa al mio posto sarebbe impazzita.
Passai le prime due settimane all’Istituto, analizzando tracciati elettroencefalografici. Al mio arrivo mi accolse personalmente il dottor Brennan, mi assegnò una camera, un ufficio e mi presentò il signor Joe Bennett, il tecnico di neurofisiopatologia col quale avrei dovuto lavorare e che, tra le altre cose, si sarebbe dovuto occupare del mio ambientamento provvedendo alle mie prime necessità. Il centro, che ospitava un centinaio di persone tra ricercatori e soldati, era stato ricavato all’interno di una magione dei primi anni venti completamente ristrutturata dall’esercito. Si trovava in mezzo a una vasta zona boscosa nell’Idaho settentrionale. Per arrivarci avevo volato fino a Missoula, nel Montana, e quindi ero stato trasportato in auto lungo l’interstatale 90 fino a Coeur d’Alene. Da qui avevo seguito la 95 per quasi sessanta miglia attraversando una moltitudine di piccoli paesini, prima di arrivare a una stradina privata che, nei pressi di Trenton, si inoltrava nel bosco imbiancato. Il cartello all’ingresso diceva semplicemente “U.S.A.I.N.” e avvertiva gli avventori che proseguire senza autorizzazione era vietato dalle leggi federali. L’auto si fermò e l’autista mostrò delle carte alla guardia. Intorno a me non c’era molto da vedere. Il bosco all’interno della recinzione metallica era identico a quello esterno. Il soldato mi guardò attraverso il finestrino, poi sollevò la sbarra bianca e rossa e ci lasciò passare. Impiegammo quasi mezz’ora per raggiungere l’edificio più vicino. Mi fecero scendere e mi portarono dal dottor Brennan. Il generale mi spiegò che l’edificio centrale, quello che ospitava i laboratori di ricerca, era stato acquistato dal governo durante la seconda guerra mondiale per ricavarne un centro di comando d’emergenza,
21 dotato di un bunker antiaereo abbastanza grande da ospitare comodamente eventuali ospiti illustri. La base non venne poi effettivamente sfruttata e quindi, alcuni anni prima, era stata convertita nell’Istituto. «Certo che è un po’ fuori mano», dissi. Ero ancora indolenzito per il viaggio e stringevo con entrambe le mani una tazza di caffè. «A noi piace così» rispose il generale. «Un camion arriva ogni settimana con le provviste, quindi non ci manca niente, inoltre il tipo di ricerche che conduciamo qui ci induce a una certa riservatezza». Il personale della base era ridotto a 120 persone. Cinquanta militari veri e propri, sistemati in una piccola caserma, assicuravano la protezione della struttura. A comandarli, anche se allora non lo sapevo, c’era quello stesso Thomas Raily che avevo avuto modo di incontrare al Pentagono. Venti tra personale tecnico, cuochi, e addetti alle pulizie, facevano in modo che tutto funzionasse a dovere e i rimanenti erano ricercatori, medici o tecnici di laboratorio.
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Come sempre lavoravo da solo. Joe mi aveva dato un cd con decine di tracciati elettroencefalografici e io stavo ultimando un rapporto che avrei dovuto consegnare a Brennan appena pronto. Ci tenevo a fare buona impressione e passai le mie giornate rinchiuso nell’ufficio che mi era stato assegnato, cercando di dare un senso a quell’infinità di picchi irregolari così da scrivere qualcosa di arguto sul foglio, ancora bianco, che avevo davanti. Dopo avere studiato centinaia di tracciati, il senso di confusione era diventato totale. Ero giunto al punto di non riuscire nemmeno più a osservare la ciclicità del rumore di fondo grazie alla quale mi era stato concesso di lavorare a questo progetto. C’era, questo sì. Ma osservarla in un tracciato breve era decisamente più facile che in quella miriade di picchi. Per molti giorni non fui sicuro di cosa stessi guardando. Poi, lentamente, iniziai a definire una serie di fatti. Ce n’erano almeno tre di cui ero ormai sicuro: il paziente era mantenuto in coma farmacologico, era un bambino ed era perfettamente sano.
L’inverno stava volgendo al termine, ma quella era stata una giornata fredda e col calar della sera un vento gelido aveva preso a soffiare con una forza tale da far tintinnare i vetri delle finestre dell’ufficio. Nel tepore della piccola stanza, illuminata solo dalla lampada da tavolo, avevo iniziato a camminare su e giù. Cosa ci fa un bambino in una base militare? Cosa gli è successo e perché lo tengono in coma farmacologico?
23 Guardai uno dei tracciati per l’ennesima volta, cercando una conferma ai miei sospetti, ma non dovetti fissarlo a lungo per esserne sicuro. Il tracciato era estremamente immaturo, non poteva appartenere a un adulto. Quel paziente poteva avere sei o sette anni, non di più. Non vi avevo riscontrato nessuna anomalia significativa, salvo il rumore di fondo. Da ciò potevo dedurre che quella dovesse essere la causa del suo ricovero. Nei libri di testo non compariva nessuna sindrome caratterizzata da quel tipo di anomalia e mi chiedevo quali conseguenze avesse determinato nel soggetto, visto che lo si manteneva così pesantemente sedato. Il giorno seguente avrei dovuto portare la mia relazione al generale Brennan e non l’avevo ancora ultimata. Mi risedetti al tavolo e osservai il monitor del mio Mac alla ricerca delle parole giuste. Poi mi venne un’idea. Riguardai i primi grafici e li confrontai con gli ultimi, non ci misi molto a trovare ciò che cercavo. «Due anni...» sussurrai alla stanza vuota senza nemmeno accorgermene.
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«Prego tenente Sullivan, si accomodi». Brennan prese dalle mie mani la relazione e mi accompagnò a una delle sedie di fronte alla sua scrivania. Da quando ero alla base, il generale mi si rivolgeva sempre col mio appellativo militare, evitando di utilizzare il titolo di “dottore”, che mi avrebbe qualificato come un collega piuttosto che come un sottoposto. «La ringrazio, generale» dissi, sprofondando in una comoda poltrona imbottita. Avevo passato la notte preparandomi a quell’incontro. Avevo terminato la relazione, l’avevo stampata e l’avevo inserita in una di quelle cartelline azzurre con la scritta “confidential” in cui dovevano essere riposte tutte le mie comunicazioni col generale. Poi avevo pensato a come comportarmi. Il contenuto del mio rapporto presumeva tutta una serie di domande che non sapevo se fosse il caso di porre. Consideravo quello un mio paziente e quindi mi ritenevo nel diritto di saperne il più possibile, ma l’aura di segretezza impostami dal mio superiore era tale che non volevo che le promesse di carriera che mi erano state fatte potessero venire compromesse da quello che il generale avrebbe potuto classificare come un eccesso di curiosità. Penserete che fu semplicemente codardia, fatto sta che decisi di non dire niente e rimasi lì seduto per molti lunghi minuti mentre Brennan leggeva il dossier, annuendo di tanto in tanto. Aveva iniziato a piovere poche ore prima. Sul vetro della finestra alle spalle del generale si stavano accumulando piccole goccioline che presto mi avrebbero precluso la vista del bosco in cui era nascosta la base. «Lei è molto acuto, tenente» disse Brennan. «Se l’avessimo avuta tra noi dal principio, avremmo fatto molti più progressi». Poi mi fissò: «Ha delle domande, tenente medico Sullivan?».
25 «Nossignore» risposi d’istinto. Ne avrei avute decine e per la verità mi ero ripromesso di porgerne qualcuna, ma giunto al quel punto avevo risposto di getto. Non ebbi il tempo di pentirmi della mia avventatezza perché lo sguardo del generale divenne estremamente benevolo. «Bene» mi disse. Prese il telefono e chiese alla sua segretaria di chiamare il signor Bennett, poi disse semplicemente: «Può chiamarlo Sal. Non è il suo vero nome, ma noi lo chiamiamo così. Ha sette anni ed è vero che è in coma farmacologico. «Il signor Joe Bennett le farà avere i risultati di un’altra serie di esperimenti che abbiamo condotto su Sal, vorrei che lei ci desse un’occhiata e che poi mi prepari un altro di questi rapporti». «Sissignore». «Lei mi piace, Greg. È una persona che sa stare al suo posto. Non cerchi di mettere il naso dove non deve e le garantisco che conserverà un bel ricordo della sua permanenza all’Istituto. Lo consideri una specie di trampolino di lancio se vuole». «Se non c’è altro…». «Una cosa sola, generale». Brennan, che aveva afferrato i braccioli della sedia per alzarsi, li lasciò e rilassò la schiena sul sedile con un sospiro. «Mi dica». «Il bambino… Sal. È sedato in tutti i grafici che ho esaminato e i più vecchi sono di due anni fa. Negli ultimi mesi si nota un’anomalia nelle onde delta piuttosto accentuata, vede…». Allungai le mani sui fogli che avevo davanti e indicai uno dei picchi al generale, che però non mi levò gli occhi di dosso. Capii che la conversazione era finita, ma ormai non potevo andarmene senza essere congedato nuovamente quindi lasciai perdere e mi affrettai a concludere. «Beh, volevo dire che il farmaco che gli state dando gli fa male. Se Sal fosse sotto la mia responsabilità vi suggerirei di sospenderlo». «Non si preoccupi, tenente» disse Brennan, afferrando nuovamente i braccioli. «Sappiamo fare il nostro lavoro». Tre ore più tardi ero di nuovo nel mio ufficio e avevo davanti una pila di fogli ordinatamente sistemati di fianco al Mac, esattamente dove Bennet li aveva lasciati prima di andarsene.
26 «Cosa significa tutto questo, Joe?». Ero ancora scosso dopo l’incontro col generale e alla vista di Bennett non ero riuscito a trattenermi. Bennett era un omone nero, alto più di un metro e novanta, che poteva forse pesare centocinquanta chili. Aveva pressappoco la mia età, ma era molto più stempiato. I suoi occhi non tradirono nessuna sorpresa a quelle parole. «Sai che non posso dirti nulla di più rispetto a quello che ti ha detto il generale», rispose con la sua vociona profonda dal vago accento del sud. Joe era solo un tecnico e per quello che ne sapevo avrebbe potuto non saperne molto più di me, ma notai un velo di tristezza passare nei suoi occhi. «Sta morendo» dissi. «Lo sappiamo» rispose Joe. «Dimmi solo una cosa, negli ultimi due anni, quante volte hanno sospeso il trattamento farmacologico?» Joe Bennett ritenne che la risposta a questa domanda non gli fosse preclusa e decise di accontentarmi: «Mai». Me lo aspettavo, così provai a insistere: «Tenere un bambino in coma per tutto questo tempo equivale a ucciderlo lentamente, perché gli state facendo questo? Voglio dire… com’è la sua situazione fisica? Cosa gli è successo?». Non ci voleva un medico per capire a cosa alludessi. Le persone vengono generalmente tenute in coma farmacologico perché hanno riportato danni al cervello e si preferisce curarli mantenendoli in uno stato vegetativo per evitare danni maggiori. I tracciati elettroencefalografici di Sal mostravano un’apparente normalità neurologica e quindi era lecito presumere che il ragazzino avesse altri problemi a livello fisico. «Greg… non so se…». «È un mio paziente, no? Vorrei almeno poter avere un quadro generale delle sue condizioni fisiche, che gli è successo?». «Non posso risponderti, non senza aver chiesto al boss. Mi è stato ordinato di non dire niente». Joe si alzò a fatica dalla poltrona e si avviò verso la porta. Nell’aprirla si voltò e si girò un’ultima volta verso di me. Mi guardò. «Sal sta bene», disse.
27 Alzai lo sguardo su di lui con la faccia di chi attendeva altre informazioni. Joe se ne rese conto. «Fisicamente, intendo dire. È sempre più debole e sta perdendo i capelli ma a parte questo…». «Ma allora perché?». Joe aprì la porta. «Questa è un’informazione che ti potrà dare Brennan se deciderà che devi sapere. Arrivederci, Greg».
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L’incartamento era più grosso dell’altra volta. Notai che gli esami a cui sottoponevano il bambino non riguardavano tutte le parti del corpo allo stesso modo. Si concentravano soprattutto sul sistema nervoso: TAC, PET, c’erano persino delle comunissime lastre radiografiche. Al ragazzo erano state iniettate decine di traccianti radioattivi, i cui spostamenti all’interno dell’organismo erano stati seguiti con dei complessi macchinari. Impiegai settimane tra quelle carte, senza riuscire a farmi un’idea di cosa stessero facendo. Il ragazzo era debilitato, gravemente sottopeso e con i muscoli in gran parte atrofici. Gli esami del sangue mostravano evidenti segni di intossicazione dalle varie sostanze adoperate nei test e dalle droghe che lo mantenevano nel suo stato vegetativo, ma oltre a ciò... Nessuna malformazione, nessun tumore, nessuna malattia infettiva... «Perché Greg? Rifletti... Cosa cercano?». «Cosa cercano...» dissi tra me e me guardando le carte, «così disperatamente?».
Passai i giorni seguenti lavorando sulle carte che mi aveva fatto avere il generale, concedendomi di tanto in tanto una birra con Joe alla caffetteria della base. In quelle occasioni cercavo di distrarmi, così non parlavamo mai di lavoro. Joe era un brav'uomo. Durante il mio periodo alla base non mi feci molti amici e, a essere onesti, non posso dire nemmeno di essere diventato amico di Joe. Questo è forse uno dei pochi rammarichi che ho, visto quello che è accaduto in seguito. Perlopiù passai il tempo rinchiuso nella mia stanza a incrociare dati e a pensare.
29 Cosa voleva veramente da me il generale? Avevo avuto una brillante intuizione quando avevo notato quell'andamento ciclico e questo mi aveva fatto entrare nella "squadra", ma continuavo a non sapere niente. Come potevano sperare che avrei avuto un'altra intuizione geniale se nessuno voleva spiegarmi quale fosse la situazione? Forse il caso era davvero molto delicato, probabilmente era ai limiti della legalità e questo li faceva avanzare con i piedi di piombo anche nei miei confronti. Forse Brennan non si fidava di me. Certo, come avrebbe potuto, ero l'ultimo arrivato. Mi aveva preso in virtù di quella singola intuizione e adesso sperava di usarmi il più possibile rivelandomi il meno possibile, perché non si fidava di me. Temeva la mia reazione quando avessi saputo la verità su questa faccenda. Avrei voluto stupirlo con nuove importanti considerazioni, ma, guardando e riguardando quelle carte, tutti quegli esami, tutti quegli esperimenti, davvero iniziavo a sentirmi abbastanza a disagio. Iniziai a prendere la cosa da un altro punto di vista. Non "perché", non "chi" ma "cosa". Cosa stavano cercando? Dove puntavano tutti quegli esami? Li esaminai di nuovo, ancora e ancora. Iniziai a mettere i primi paletti. Come detto in precedenza, non tutte le parti del suo corpo venivano studiate con la stessa insistenza. A Brennan e il suo staff interessava in particolar modo il suo cervello. La maggior parte degli esami era concentrata sul sistema nervoso di Sal. Dai dati in mio possesso (che arrivavano fino a due anni prima del mio arrivo alla base) non emergeva niente di particolare. Quindi, o mi stavano nascondendo qualcosa o non avevano concluso nulla. E se fosse stato un problema legato al tipo di test che stavano facendo? E se non avessero trovato niente perché i test non erano quelli giusti? Non lo potevo dire senza sapere cosa stavano cercando, ma avevo alcuni indizi: tanto per cominciare quella interferenza ciclica. Dato che la fisiologia del cervello di Sal era perfettamente normale, allora la causa di quell'interferenza poteva essere ricercata con dei test. Per un neuropsichiatra i test sono materia quotidiana. Ce ne sono per qualsiasi tipologia di sindrome e ne avrei potuti trovare alcuni anche per quella
30 di Sal, qualsiasi cosa fosse. E qui arriviamo all'altro problema: perché non lo svegliavano? Nelle mie carte non c'era la risposta e il generale non me lo voleva dire quindi, se volevo che si fidassero di me, dovevo accettarlo senza tante storie, ma questo mi riportava al punto di partenza. Oppure no... Iniziai a passeggiare per la stanza. «Diciamo che il ragazzo debba dormire», dissi tra me e me. «Prendiamolo come una premessa. Quanto profondo deve essere il suo assopimento?». Esistono farmaci che regolano il livello di sonno. Esistono da diversi anni e sono stati utilizzati in anestesia. Ci sono stati casi di operazioni al cervello, durante le quali il paziente veniva tenuto in uno stato semicosciente perché alcune sue facoltà cognitive erano necessarie per il buon esito dell'operazione. All'epoca esistevano alcuni farmaci, non molti a dire il vero, che potevano essere utilizzati anche in psichiatria. Un paio li avevo usati io stesso in passato su dei miei pazienti. Se avessimo potuto ridurre la portata di quel coma farmacologico, se avessimo agito sulla sua soglia di sonno senza svegliarlo, ma diminuendone di molto la profondità, fino al punto, per esempio, da portare la sua condizione in una sorta di stato pseudo-ipnotico nel quale il ragazzo avrebbe potuto persino parlare pur senza essere veramente sveglio? Non ci sono altri modi per studiare un cervello. Se tutti quegli esami non portavano da nessuna parte, nessun altro test che non comportasse un differente livello di veglia avrebbe mai dato dei risultati soddisfacenti. Presi in mano la cartella clinica di Sal. In realtà la situazione era più complicata di così. Il farmaco che avevo in mente era tossico. Molto più tossico di tutto quello che già assumeva. Inoltre, quel coma così prolungato nel tempo lo aveva debilitato fino a un punto in cui un ulteriore incremento della tossicità sarebbe stato letale. Se gli avessimo abbassato chimicamente la profondità del sonno lo avremmo ucciso.
31 Non si poteva nemmeno tentare, con il suo fisico in quelle condizioni. Il ragazzo non avrebbe resistito più di... «E se questo non importasse?» dissi alla stanza vuota. «Sal morirà comunque. Non mi sembra che la cosa disturbi più di tanto il generale Brennan perché, se davvero non lo volesse uccidere lentamente, la smetterebbe di fargli tutto questo... Se grazie alla mia idea Sal vivesse un po' di meno ma i suoi esami dessero dei risultati più significativi?». Ci pensai a fondo. Più ci pensavo più mi convincevo della mia idea. Adesso avrei dovuto parlarne a Brennan, ma Brennan non mi aveva chiesto un consiglio sugli approcci terapeutici di Sal, mi aveva semplicemente consultato per conoscere la mia opinione sugli esami a cui era stato sottoposto. Avrei dovuto giocare bene le mie carte per guadagnarmi la sua fiducia. Quella notte non riuscii a chiudere occhio.
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«Mi dica tenente», disse Brennan non appena ci fummo accomodati, allontanando per il momento la relazione che avevo appoggiato sul tavolo. «Ha guardato le carte?». «Certamente». «Cosa ne pensa?». «Penso che il ragazzo sia sano, ma questo lo sapete già, no?». Fissai il volto impassibile del generale chiedendomi fin dove mi sarei potuto spingere. «Signore. Col suo permesso suggerirei di provare con il Prandoxalin». Il generale si destò dalle sue riflessioni e mi fissò: «Cosa sta dicendo?». «Beh. È evidente che vi interessa il suo cervello. Ci sono due modi per studiare un cervello, generale. Voi vi limitate all’osservazione strumentale e questo vi ha condotti alla scoperta del rumore di fondo ciclico presente negli EEG. Il secondo modo per studiare un cervello è quello tradizionale e consiste nel far parlare il soggetto e magari sottoporlo a dei test». Il volto del generale sembrò impallidire: «Questo è impossibile!». «Non lo è». Mi pentii delle mie parole un istante dopo averle pronunciate, ma ormai tanto valeva andare fino in fondo, così proseguii: «La profondità del sonno di Sal può essere diminuita e...». «Tenente Sullivan! Lei non è qui per...». «Generale, ho passato quasi un mese a leggere i dati dei vostri esperimenti e sa cosa ne ho concluso? Niente. Non volete dirmi perché quel ragazzo è così importante per voi ma deve concordare con me che tutto questo non vi sta portando da nessuna parte». Quando trovai il coraggio di guardare il generale notai che l’ira era sparita dal suo sguardo. Adesso riuscivo a leggervi solo delusione.
33 «Tenente Sullivan». Il generale si alzò, mettendo così fine al colloquio. «Per motivi che non sta a lei conoscere, Sal deve rimanere sedato. Ora, se mi vuole scusare...». «Per questo ho pensato al Prandoxalin. È una droga che agisce sul sistema cognitivo. Allenta la pressione sui centri del...». «No!». «Il soggetto non percepirà alcun cambiamento, continuerà a dormire...». «No». «Ma potrà sentire e potrà parlare». «Lei non capisce, Sal non deve...». «Non si accorgerà di essersi svegliato». «Se ne vada».
Brennan rimase in piedi per un po' dopo che fui uscito. Si avvicinò alla finestra e la dischiuse. Si accese una sigaretta. Non fumava molto, ma il fumo lo rilassava e lo aiutava a mettere in ordine le idee. Forse era stato troppo precipitoso. In fondo la mia idea non era così malvagia. Dopo l'incidente di Meadows, tenere addormentato il ragazzo era stata l'unica soluzione che aveva pensato e ora, dopo la morte di Richards, l'intera responsabilità del progetto ricadeva completamente su di lui. Non poteva rischiare. Però... C'era il problema della SCRS. Quella era una delle cose che non mi aveva detto. I primi segni della malattia erano apparsi un mese addietro e quella parte degli esami non mi era volutamente stata data. La situazione fisica di Sal era disastrosa, ma la SCRS lo avrebbe ucciso ancora prima. E se fosse valsa la pena di fare un tentativo? Dalla morte di Richards, da quando il Progetto era finito nelle sue mani, non aveva avuto risultati di sorta da presentare alla Commissione. La morte di Sal avrebbe decretato il fallimento della sua direzione. Aveva bisogno di risultati, altrimenti lo avrebbero sostituito. Brennan si chiese se davvero valesse la pena di correre il rischio.
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Non era da me comportarmi così. Avevo avuto un atteggiamento spocchioso con un mio superiore. Mi ero basato sulle informazioni in mio possesso, che erano tutt'altro che complete. Lo staff che si occupava del ragazzo non era formato da stupidi e se finora non l’avevano svegliato, avranno senza dubbio avuto i loro buoni motivi. L'esercito ha delle regole e il mio comportamento non sarebbe stato accettato. Senza farci nemmeno caso, iniziai a preparare la valigia. Non ci misi molto, in fondo avevo solo un paio di scarpe, qualche maglione e la biancheria. Mi distesi sul letto e spensi la luce, preparandomi a lasciare quella gabbia di matti. Bussarono. «È aperto». «Sono Joe», disse l’enorme figura che entrò nella stanza. Accesi la luce. «Amico...» disse con un’espressione a metà tra il curioso e il divertito. «Devi averli fatti incazzare davvero poco fa!». Continuai a fissare il soffitto senza dire niente. «Il boss ti vuole rivedere».
Quando entrai, notai subito la cartellina sulla scrivania. Avvicinandomi vidi che, appuntata alla copertina gialla, c’era la fototessera che mi avevano fatto quando mi ero arruolato nel esercito. Il generale alzò lo sguardo: «Lei è una continua sorpresa, tenente. Lo sa? Questo non c’era nel suo dossier» disse, indicando l’incartamento. Mi sedetti senza dire niente. «Come sa che non lo abbiamo già fatto?».
35 «Il Prandoxalin esiste da non più di un anno e mezzo e viene impiegato come terapia sostitutiva sperimentale da non più di otto mesi». «E lei ha le analisi del sangue degli ultimi due anni, giusto… Ha mai somministrato il Prandoxalin, dottor Sullivan?». «Al centro dove lavoravo prima veniva utilizzato, sì». «Lo somministrava lei?». «Non direttamente, ma monitoravo diversi pazienti in trattamento». «Pensa di poterlo somministrare a Sal?». «Sissignore». «Molti suoi colleghi pensano che il Prandoxalin risulterà letale per Sal. Lei cosa ne pensa?». Decisi di giocare a carte scoperte. «Sissignore. Il Prandoxalin lo ucciderà». Fissai il generale negli occhi alla ricerca di una qualche reazione causata da queste parole e trovai il coraggio di proseguire. «Ma forse non subito. Forse fra una settimana, forse tra un mese o due». Il generale finalmente si sottrasse al mio sguardo e batté col dito sulla foto attaccata al dossier: «Lei è una continua sorpresa, tenente…».
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«Andiamo». Quando Joe entrò nel mio ufficio mi trovò già pronto. Gli ultimi cinque giorni erano stati i più intensi da quando ero giunto all’Istituto. Dopo l’incontro col generale, mi era stato dato l’incarico di trattare Sal con il Prandoxalin e questo presupponeva tutta una serie di controlli negli esami del ragazzo che servivano per mettere a punto la procedura. Per quanto potessi vantare una certa esperienza, non c’erano studi clinici che riguardassero pazienti tenuti in coma farmacologico per così tanto tempo. Inoltre, il fisico di Sal era decisamente provato per il prolungato periodo di inedia e per la tossicità delle varie sostanze chimiche che gli erano state somministrate. La prima cosa che volevo fare era intervenire sullo stato fisico del ragazzo. Brennan non sembrava dispiaciuto di perderlo, ma uccidere un bambino di otto anni con un farmaco sperimentale, la cui tossicità era ampiamente dimostrata, non rientrava nei miei piani. Avrei modificato la sua dieta, aggiungendo un numero maggiore di vitamine e zuccheri, gli avrei applicato degli elettrodi per la ginnastica passiva in modo da ridurre i danni causati dall’immobilità e solo dopo una decina di giorni avrei iniziato a somministrargli il Prandoxalin. Non mi aspettavo grosse novità per i primi tempi. Il farmaco sarebbe dovuto essere assorbito dalla corteccia fino a saturare i recettori. Questo poteva richiedere alcuni giorni. Joe mi condusse attraverso una serie di corridoi fino alla porta di un ascensore. Lo chiamò avvicinando il suo badge magnetico al sensore e, dopo una breve attesa, la porta si aprì. Scendemmo per alcuni minuti. «Mi hanno detto che durante la seconda guerra mondiale questi locali furono usati come bunker per la difesa antiaerea» disse Joe.
37 Quando le porte si aprirono ci ritrovammo in un ambiente molto grande. Il soffitto era costituito da una cupola di cemento, ingentilita da una ragnatela di bianchi tralicci metallici da cui pendevano le plafoniere dell’illuminazione. All’interno dell’unico ampio salone circolare era stata ricavata una vasca, anch’essa rotonda, larga due o tre metri e profonda uno. Joe avanzò verso la vasca parlando ad alta voce: «Come sta oggi il mio piccolo campione? Ciao Sal! Oggi non sono solo, sai? Ho portato con me un amico, il dottor Sullivan». Solo quando Joe mi guardò riuscii a scuotermi dal senso di sorpresa che mi aveva bloccato al ingresso del locale. Mi avvicinai alla vasca: «Ciao Sal, mi chiamo...». E fu allora che lo vidi.
Sal galleggiava nell’acqua completamente nudo. Polsi e caviglie erano assicurati a degli anelli sul parapetto tramite delle cordicelle di gomma. Esse, limitandone i movimenti, lo costringevano in una posizione che ricordava l’Uomo vitruviano di Leonardo. Ignaro della mia sorpresa, Joe aveva indossato dei pantaloni di gomma ed era entrato nella vasca continuando a parlare. «È l’ora della pappa, piccolino! Cosa c’è di buono oggi? Ah! Il tuo preferito... non vuoi indovinare? Pollo!». Detto questo, attaccò un tubo di gomma al sondino naso-gastrico che fuoriusciva dalla mascherina per l’aria fissata sul viso del ragazzo e uscì dall’acqua per attaccare a un gancio un sacchetto pieno di liquido biancastro. «Quello sarebbe pollo?» chiesi. «Veramente non lo so» disse Joe, «ma secondo me odora di pollo». Mi avvicinai alla vasca. Il viso di Sal si era contratto in una smorfia di dolore. «Fa sempre così quando mangia» disse Joe. «Poi si rilassa». «Perché lo tenete nell’acqua?» chiesi. «È stata un’idea di Brennan. Deprivazione sensoriale» disse Joe, mimando il segno delle virgolette con le dita. «E poi questa non è proprio acqua. È una soluzione salina sterile, lo protegge dalle piaghe,
38 dai parassiti e lo tiene caldo. Vieni a vedere», disse. «La vedi quella valvola? L’acqua viene cambiata continuamente durante il giorno, così eliminiamo i suoi escrementi e lo teniamo pulito». «Ma che senso ha tutto questo? Perché lo tengono qui? Cosa gli è successo?». Joe ruotò l’enorme stazza verso di me, avvicinandosi: «Permettimi di darti un consiglio doc. Qua dentro» bisbigliò, «non fare domande». Joe spostò lo sguardo verso una telecamera attaccata al muro, poi si allontanò nuovamente, proseguendo ad alta voce: «Io sono solo una specie di inserviente. Lo lavo, lo nutro e lo sposto quando gli devono fare gli esami. Non so altro Greg. Veramente». Fine anteprima. Continua... Anche in ebook da maggio 2014 a 5,99 euro