In uscita il 31/3/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine marzo e inizio aprile 2018 (3,99 euro)
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GABRIELLA RAIMONDI
LA TRIPA, IL CAPOTE, LA CAPA
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni
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LA TRIPA, IL CAPOTE, LA CAPA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-190-7 Copertina: immagine proposta dall’Autore
Prima edizione Marzo 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
La storia e i personaggi di questo romanzo sono di pura fantasia a eccezione dei fatti storici realmente accaduti.
Fuggire da un passato lontano per rifugiarsi nel conforto di nuove emozioni Non coscienti che il vissuto è vita che vive ancora e vivrà per sempre GR
A Flavio. Compagno di vita.
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1. NICOTIANA TABACUM
Arianna aveva solo sei anni quando vide germogliare per la prima volta alcuni chicchi di grano in un batuffolo di cotone imbevuto. Era periodo di Quaresima e la nonna Teresa le aveva insegnato come coltivare in un piattino le piantine da portare in chiesa il Giovedì Santo per onorare i Sepolcri. Le aveva detto anche che doveva avere pazienza poiché, prima di gemmare, i semi dovevano restare al buio per un paio di giorni. Così Arianna aveva tenuto gelosamente quelle future piantine sotto il letto, controllandole ogni mattina. Quando vide spuntare i primi germogli chiari, fu colta da un’irresistibile emozione. Imparò che la natura aveva fatto un prodigio. Li pose vicino alla finestra e, dopo una sola settimana, vide le piccole gemme trasformarsi in fili verde brillante. Erano solo semini, poi la luce del sole aveva fatto il miracolo. La loro crescita e la loro trasformazione l’avevano incantata e da allora era nata in lei una profonda passione per le piante. Arianna sorrise ripensando a quei batuffoli e semini mentre viaggiava in treno da Madrid a Barcellona per raggiungere Dario. Cinque anni prima aveva scelto di vivere in Spagna per approfondire le sue ricerche sulle origini della coltura del tabacco, poiché proprio lì erano nate le prime coltivazioni europee dopo la scoperta delle Americhe. Fin da piccola, Arianna si era appassionata anche alla storia di Cristoforo Colombo e dei suoi marinai che, sbarcando sulle terre che credevano le Indie, avevano visto gli indigeni fumare le foglie di una pianta che chiamavano cojibá. L’aveva letto in un libro dalle illustrazioni
8 sgargianti che raccontava come i capi tribù fumassero durante le celebrazioni religiose, offrendo il fumo alle divinità, e andassero magicamente in trance profetizzando gli eventi. Erano semplici foglie arrotolate e si riteneva avessero proprietà curative ed esoteriche. Infatti, nella metà del 1500, la nicotiana fu importata dal “nuovo mondo” come sostanza curativa. Proprio sul tabacco, qualche anno prima, Arianna aveva preparato la sua tesi di laurea in Scienze Agrarie. Sebbene non fumasse, tra lei e il tabacco c’era un forte legame. Una sorta di liaison. Suo padre da qualche tempo gestiva una tabaccheria e per tre generazioni la sua famiglia aveva lavorato alla Manifattura del tabacco di Napoli. Il suo bisnonno aveva confezionato sigarette e sua nonna Teresa, che era la più piccola di otto figli, era stata sigaraia fin dopo la seconda guerra mondiale. A quel tempo le foglie impacchettate, sigillate e pronte per la fermentazione arrivavano dalle piantagioni della Campania e anche dall’America. La manifattura produceva diversi tipi di sigari e sigarette in base alla qualità di tabacco e alle stagioni di raccolta nel paese d’origine. Suo nonno Giovannino, addetto allo smistamento verde, si ammalò, intossicato dai vapori del tabacco fermentato, e morì poco dopo la nascita del figlio Antonio che, giovanissimo, fu assunto come trinciatore. Trasferito poi alla manifattura di Lucca, conobbe Delia, addetta al confezionamento dei sigari Toscani, e la sposò. Erano i genitori di Arianna. Dario era il migliore amico di Arianna. Il loro primo incontro era stato in realtà uno scontro. Si erano conosciuti all’università, sebbene frequentassero corsi diversi. Arianna da qualche tempo cercava l’occasione per un’esperienza all’estero e seguiva i bandi per le borse di studio. Aveva voglia di cambiare aria, di scoprire nuovi mondi e nuove culture. Era sempre stata una ragazza curiosa, attratta dalle grandi scoperte. Un po’ come Cristoforo Colombo.
9 Il giorno in cui il docente di Botanica Giampaolo Rossetti comunicò ai suoi laureandi che si era aperto un bando Erasmus per la Spagna, Arianna riconobbe l’occasione che stava aspettando. Rossetti la incoraggiò a iscriversi, convinto che la media dei suoi voti l’avrebbe fatta entrare in graduatoria. Purtroppo i posti disponibili furono ridotti da tre a due e lei, terza, venne esclusa. La delusione fu enorme. Dopo alcuni mesi seppe che uno dei due vincitori aveva rinunciato e s’illuse di accedere di diritto a quel posto. Invece qualcuno le disse che era già stato assegnato a Dario Rossetti, otto anni più anziano di lei e di gran lunga fuori corso. Era il fratello minore del professor Rossetti. Arianna s’infuriò e reagì con una scenata nel cortile dell’università. Assalì verbalmente Rossetti accusandolo, proprio lui che si batteva per il diritto di tutti allo studio, di nepotismo per avere “raccomandato” suo fratello. Minacciò di fare scoppiare un putiferio. Aggredì anche Dario, non solo verbalmente, lanciandogli addosso un libro di chimica. Non si seppe mai come, ma il bando venne riaperto ai tre posti iniziali. Così anche lei riuscì a rientrarne e a partire per la Spagna. Per uno strano gioco del destino, lei e Dario si ritrovarono non solo nello stesso corso di studi, ma anche a condividere l’appartamento a Madrid. Questa convivenza li aiutò a conoscersi meglio. Oltre alla passione per la natura e per i viaggi, avevano tante cose in comune e, sebbene affrontassero i problemi quotidiani in maniera opposta, diventarono grandi amici. Un’amicizia forte, quasi una dipendenza. Ma mai un coinvolgimento sentimentale. Dario, dopo due anni, riuscì finalmente a laurearsi in chimica e, assunto da un’azienda spagnola, si trasferì a Barcellona. Arianna rimase a Madrid come ricercatrice per l’università. I primi tempi questa lontananza destabilizzò Dario che, un po’ alla volta, riuscì a organizzare la propria vita in autonomia. Però si sentivano ogni giorno e cercavano di incontrarsi almeno un paio di volte al mese.
10 Erano, infatti, passate due settimane da quando avevano trascorso un weekend a Siviglia. Arianna aveva voluto visitare la Reale Casa del Tabacco che era stata la manifattura più importante di Spagna e dalla quale Bizet aveva preso spunto per musicare la storia della sigaraia Carmen. Mancava poco all’arrivo a Barcellona e Arianna rilesse sullo smartphone il messaggio di suo padre: “Congratulazioni! Sarà un’esperienza indimenticabile”. Tramite il Ministero degli Esteri, era riuscita ad allacciare dei contatti con l’università di Santa Clara a Cuba. Da un po’ progettava di visitare la terra dove il tabacco aveva avuto origine e dove si creavano le mescole più pregiate del mondo. Il suo desiderio stava per concretizzarsi. Sarebbe andata a lavorare a Cuba e non vedeva l’ora di dirlo a Dario. Il telefono squillò. «Ehi, dove sei? Arrivi o no?». La voce di Dario era impaziente come sempre. «Sarò a Barcelona Sants fra qualche minuto. Rilassati!» rispose Arianna con una risata. «Questa tua euforia non mi piace. Non presagisce nulla di buono. Cos’è questa cosa importante che devi dirmi?». «Abbi pazienza ancora cinque minuti e lo saprai. Visto quanto sei ansioso, ho fatto bene a dirtelo solo poco prima di partire da Madrid». «...Non ho capito. Cosa hai detto?... Ari, ti sento spezzata… non ti sento più…». «Chiudo… sto arrivando». Il sorriso rimase sulle labbra di Arianna mentre il treno entrava in stazione. Arianna riconobbe da lontano la figura snella di Dario. L’abbigliamento un po’ trasandato, la camicia metà fuori dai jeans, i sandali francescani, la barba incolta, i capelli arruffati e lo sguardo vispo e vigile dietro agli occhiali che sbirciava dentro a ogni vagone.
11 Scesa dal treno, si tenne nascosta fra la folla per non farsi vedere e, aggirandolo alle spalle, lo sorprese. «Prima o poi tu mi farai diventare scemo!» disse abbracciandola. «Sempre a fare scherzi! Fatti guardare… Sei una bambola!». «E tu il solito… allampanato! Ma ti guardi la mattina prima di uscire?» disse spettinandogli ancora di più i capelli. «Che fine ha fatto la tua ultima fidanzatina? Non è scoccata la scintilla esplosiva? Ti ha lasciato, vero? Dai, ho fame! Dove mi porti?» disse facendo come sempre mille domande senza aspettare una risposta e stringendosi al suo braccio. Presero la metropolitana che li portò nella zona universitaria. Anche se non erano più studenti, quando stavano insieme continuavano a far finta di esserlo. «Allora, cos’è questa importante novità che dovevi dirmi di persona? Ti sei innamorata? Ti sposi? Cosa?» chiese Dario abbassando gli occhiali per guardarla dritto negli occhi. «Uffa! Sei insopportabile, ansioso e nevrotico. Come ho fatto a rimanerti amica in questi cinque anni? Come va il lavoro, piuttosto?». «Come al solito. Sono nella “emme” fino al collo. Ormai sono tre anni che analizzo sterco di cavallo e concimi alla Químico Perez». «Non fare così! Come cantava De Andrè: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. E poi… non puzzi così tanto!» aggiunse odorandolo e continuando a prenderlo in giro. «Sai, anch’io ho una sorpresa per te. Sono riuscito a organizzare un laboratorio in cantina. Non vedo l’ora di fartelo vedere!» disse lui con orgoglio. «Bravo! L’hai fatto finalmente! Erano anni che te ne sentivo parlare». Le chiacchiere e le risate dei due amici echeggiavano nel vagone della metropolitana quasi vuoto. Arrivarono al capolinea, scesero e si diressero al Tapas Bar. Il locale si trovava a un isolato da casa di Dario ed era il loro ritrovo preferito.
12 «Juan, guarda chi ti ho portato!». Dario salutò il gestore con modi familiari e andò dritto verso il solito tavolino nella veranda. «Hermosa, come sempre» rispose lui sorridendo ad Arianna e porgendole la mano unta. «Bentornata. Accomodatevi, vi porto subito vino tinto e tapas». «Gracias Juan, tu sì che sai come conquistare una donna!» rispose lei divertita. Nel caldo pomeriggio di luglio la veranda era la parte più fresca del bar. Arianna e Dario si accomodarono. Lui continuava a fissarla con aria inquisitoria senza dire una parola. Allora lei prese dalla borsa un fascicolo e, dopo averlo guardato qualche secondo, sorridendo lo porse all’amico. «Ecco qua… leggi! Così la smetterai di scrutarmi come l’ispettore Clouseau». Dario prese l’incartamento e lesse ad alta voce: «Protocollo esecutivo dell’accordo tra il Governo della Repubblica Italiana e il Governo della Repubblica Socialista di Cuba…». Smise di leggere e guardò Arianna «…cosa significa, Ari?». «Uffa, volevi sapere? Allora leggi. Leggi…» replicò impaziente. Dario continuò. «La Parte italiana, rappresentata dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e la Parte cubana rappresentata dal Ministero delle Relazioni Estere della Repubblica Socialista di Cuba, animati dal desiderio di intensificare la cooperazione culturale, scientifica e tecnologica e… bla, bla, bla… hanno convenuto che in collaborazione con le università e i centri di… bla, bla, bla… per corsi di post-dottorato e di ricerche congiunte… bla, bla, bla… con l’Università de L’Avana… per lo sviluppo e la gestione delle risorse agrozootecniche… bla, bla, bla… soggiorno di 6 mesi presso l’Università Agraria di Santa Clara…». Si zittì continuando a fissare il foglio. «Allora? Non è grandioso?», Arianna quasi urlò. «Finalmente andrò a Cuba! Va avanti… su, su, continua, continua…».
13 «No, non continuo. Cosa significa? A Cuba!? E quando dovresti partire? Perché non me lo hai detto?». Il tono della voce era serio. Dario si tolse gli occhiali. I suoi occhi verdi la fissarono. Arianna prese il bicchiere di vino rosso che Juan aveva portato e ne bevve un sorso. Poi disse: «Te lo sto dicendo! Non sei contento per me? Sono anni che voglio andare a Cuba. Ne sento parlare sin da bambina. Ti ricordi il manifesto in camera mia?». «No. Quale manifesto?» replicò scocciato. «Lo avrai visto mille volte! Quel bellissimo ragazzo con la barba e il sigaro in bocca… la frase No hay imagen más falsa que reclamar derechos sin haber cumplido deberas (Non c’è immagine più falsa che pretendere diritti senza adempiere i doveri), non ti fa venire in mente nulla?» disse mentre Dario continuava a fissarla. «Per mio padre quella frase era il Vangelo. Verità assoluta! Forse non te l’ho mai raccontato, ma fu lui a portarmi quel poster quando nel ’95 andò a Cuba con la delegazione sindacale della Manifattura per visitare una fabbrica di sigari. Ancora oggi ne parla! Ho imparato chi era Che Guevara solo qualche anno dopo, quando mi regalò I diari della motocicletta. Quella storia ha segnato la mia adolescenza, acceso ancora di più la mia ammirazione per lui e la curiosità di visitare Cuba... Dai, Dario, continua a leggere. Lì dove dice “borse di studio per perfezionamento, specializzazione e ricerca…”. È uno studio sulla biodiversità. Importancia del mantenimiento de la pureza genética e sul nutrimento delle piante tropicali e subtropicali» proclamò con voce roboante. Dario posò il fascicolo sul tavolo, prese la mano di Arianna guardandola negli occhi color miele che brillavano come raggi di sole. «Sei mesi sono tanti, come farò senza di te!?». Quella di Dario non sembrava una domanda, ma piuttosto un grido d’aiuto quasi disperato.
14 Arianna non si sorprese. Fissò lo sguardo implorante dell’amico e poi scoppiò a ridere. Si liberò la mano e riprese il bicchiere di vino. «Non fare il melodrammatico. Non sei un bravo attore. So che sei contento per me. Allora, brindiamo o no?». «Ma che smania avete tutti quanti di andare in America Latina! Ti ho già detto che mio fratello è partito?». «Sì, mi avevi accennato qualcosa. È andato per conto dell’università?». «No, macché università! Sai che anche lui è fissato con quei posti! Mia madre lo ha nutrito con i canti degli Inti Illimani, i romanzi di García Márquez e le poesie di Neruda! Era da tempo che voleva fare un viaggio in America Latina e un mese fa è partito». «Da solo?». «Sì, ha fatto lo zaino ed è andato! Ha detto che avrebbe fatto tutto il Centro America in bus. Dopo la morte della mamma, mi aveva detto che aveva bisogno di stare da solo» rispose Dario sorseggiando il vino. «Mi sarebbe piaciuto accompagnarlo e trascorrere un po’ di tempo con lui, ma non me l’ha neanche chiesto. Da quando sto in Spagna, mi manca molto. Per me Gipi è stato come un padre… lo sai». «Sì, lo so. Infatti, quando ti ho conosciuto, credevo che Rossetti fosse il tuo babbo». Poi sorridendo continuò «Però… con lo zaino e in autobus. Piacerebbe anche a me! Tu continui a chiamarlo Gipi. Non sei più un bambino e lui non è più un ragazzino! Ma quanti anni ha il professore?». «Ha vent’anni più di me e quand’ero piccolo era troppo difficile chiamarlo Giampaolo». «Anche tu cominci a essere vecchio!» esclamò ridendo forte, mimando una bocca senza denti e provando a far sorridere l’amico con una smorfia. «Dai, passiamo da casa, mettiamoci il
15 costume e andiamo in spiaggia. Sto squagliando! Sono venuta a Barcellona per andare al mare, mica per te!». Uscirono dal Tapas Bar e si diressero verso l’appartamento di Dario. Era un bilocale nella zona universitaria che in quel periodo dell’anno era piuttosto tranquilla. Come le altre volte, lei si sarebbe sistemata nella camera da letto e lui sul divano nel soggiorno. «Allora vuoi vedere il laboratorio?» chiese Dario mentre l’amica cercava il costume nella valigia. «Me lo farai vedere più tardi. Adesso andiamo al mare, ti prego. Non vedo l’ora di fare una nuotata». Mezz’ora dopo, la metropolitana li lasciò a plaja de Mar Bella, una delle spiagge cittadine più popolari di Barcellona. Ma Arianna aveva in mente solamente il suo viaggio. E se con i piedi camminava in Spagna, con la testa era già a Cuba. Ogni volta che riprendeva l’argomento del suo dottorato, Dario cambiava discorso, trovando una scusa per distrarla, proponendo un’altra nuotata oppure un gelato. Nei due giorni successivi non ne parlarono più. Lei conosceva benissimo l’amico. Lui viveva ogni distacco come una tragedia e avrebbe impiegato qualche settimana per digerire la notizia della sua partenza. «Stamattina ti va di andare al mercato delle pulci?» chiese Dario mentre facevano colazione. «Sì! Mi piace da morire! Trovo sempre qualcosa da comprare. Sarò pronta in cinque minuti» rispose Arianna finendo il suo caffè. Come sempre il Mercat Els Encants era affollatissimo. Un’area semplice con un tocco futuristico per via del tetto metallico che, come un prisma di luce sfaccettata, moltiplicava i colori di tutto ciò che vi si rispecchiava: vestiti, mobili, suppellettili, antichi giochi, manichini e ancora vecchie foto, cartoline, poster e
16 locandine. Gente che frugava, rovistava, contrattava, comprava e barattava. Più che un mercato dell’usato, sembrava la sala d’attesa di una stazione dove improvvisamente la gente aveva aperto e rivoltato i bagagli contenenti la propria vita passata. Girovagando da una bancarella all’altra, Arianna provò vecchi cappelli e un boa con piume di struzzo, contrattò e comprò due vecchie tavole con disegni di orchidee tropicali; poi la sua attenzione cadde sul poster di un film cubano degli anni ’70. Un uomo corpulento con la barba incolta la invitò a curiosare, e lei non seppe resistere. Tra manifesti di propaganda della rivoluzione, magliette e cartoline raffiguranti Fidel e il Che, notò una scatola di sigari. Un cofanetto rettangolare di legno chiaro. L’etichetta di carta con il marchio della fabbrica era completamente consumata e non più leggibile, ma in basso erano ancora visibili data e luogo di provenienza: Cuba 1958. Se originali, quelli dovevano essere alcuni tra gli ultimi sigari arrotolati e inscatolati prima che i rivoluzionari trionfassero sull’Isola. «Dario, guarda… sigari cubani. È un segno del destino!» esclamò prendendo l’astuccio tra le mani. «Quanto vuoi per questa? È originale?» chiese all’uomo con la barba. Lui garantì l’autenticità di data e provenienza, raccontandole anche un aneddoto su come l’aveva avuta. Dopo alcuni minuti di contrattazione, Arianna la portò via per cinquanta euro. «Tu sei matta!», disse Dario. «Cinquanta euro… e non fumi neanche!», continuò con tono di rimprovero. «Ma che ne sai tu!», esclamò lei accarezzando la scatola. «Questi sigari sono proprio una reliquia! Gli ultimi prima del cambiamento. Fu il 1° gennaio del ’59 che il dittatore Fulgenzio Batista e i suoi compari fuggirono da Cuba con tutto l’oro delle riserve nazionali» commentò appassionata. Aprì il gancio metallico e portò la confezione al naso, inspirando.
17 «Senti che profumo! Dopo più di cinquant’anni si sente ancora l’odore del tabacco buono!». Si diressero a piedi verso la Pla?a de la Sagrada Familia e pranzarono in un fast-food vicino al laghetto del parco di Pla?a Gaudì. Dario fu piuttosto silenzioso per tutta la mattina. «Allora, la smetti di tenermi il broncio da tre giorni? Perché ti scoccia così tanto che vada a Cuba?» chiese finalmente Arianna. «Non lo so. Sento che mi state abbandonando tutti. Prima mio fratello, adesso tu… Da quando è morta mia madre… mi sembra di non appartenere più a nessuno» rispose con un velo di tristezza negli occhi. Arianna capì e smise di prenderlo in giro. «Giampaolo non ha più telefonato?» chiese prendendogli la mano. «Macché! Mi ha chiamato più di due settimane fa. Ho provato a richiamarlo, ma risulta irraggiungibile, e questo mi preoccupa. Non ha voluto spiegarmi nulla sul motivo di questo viaggio». «Non essere così ansioso. Magari sarà in una zona isolata a caccia di nuove specie di felci e piante carnivore… o a trovare una fidanzata latina» disse Arianna per sdrammatizzare. «Figurati! Dopo che la moglie l’ha lasciato, ha vissuto solo per mia madre. Lei nutriva per lui un amore esagerato». «Sei geloso?». «No, io ero e sono sempre stato il piccolino di casa. Mia madre ci adorava entrambi. Aveva solo noi. Lo sai… Lei è stata sfortunata con gli uomini. Non si è mai sposata. Io e mio fratello portiamo il suo cognome. Mio padre ci lasciò quando avevo quattro anni e non mi ha mai voluto riconoscere. E Gipi… lui non ha mai conosciuto il suo e sono certo che gli sia mancato molto. E forse è per questo che si è sentito in dovere di farmi da padre». «Vedrai, starà benissimo e sono sicura che presto si farà sentire». Poi, per distrarlo dai ricordi amari, continuò: «Che ne dici, andiamo alla Barceloneta?». Lì incontrarono i vecchi amici dell’università e, tra una passeggiata alla Rambla, un piatto di pinchos e qualche cervezas,
18 passarono la serata in allegria. Tornarono a casa a notte inoltrata, mezzi ubriachi. Quando si svegliò, Arianna aveva un atroce mal di testa. Dario dormiva ancora profondamente. Cercò di non svegliarlo, raccolse la sua borsa lasciata per terra la notte prima, si preparò un espresso molto forte e si sedette sul piccolo balcone all’ombra, ripensando a Giampaolo e alla preoccupazione che stava dando al fratello. A lei il professore era sempre piaciuto. Timido, introverso e schivo, che s’infervorava quando parlava d’impollinazione e di piante. Il suo non era un interesse amoroso, ma ne era affascinata, sebbene quell’uomo avesse quasi l’età di suo padre. Ai tempi dell’università, spesso lei lo ritrovava, fuori l’orario delle lezioni, tra i viali attorno alla facoltà a scrutare i tronchi degli alberi o a raccogliere foglie, rami secchi e semi caduti. Tra tutti i suoi studenti, solamente lei riusciva a capire appieno il suo stupore ogni volta che vedeva spuntare un bocciolo in giardino. Diceva che “per capirla, la natura deve essere osservata attentamente”. Le tornarono in mente i sigari comprati a Els Encants. Erano ancora nella borsa. Li prese, aprì la scatola e sollevò la carta che li avvolgeva. Il profumo di tabacco le fece socchiudere gli occhi. I sigari erano tutti ben allineati. Le anille, con un disegno rosso sbiadito, perfettamente poste alla stessa altezza. Anzi no! La fascetta di uno era leggermente più in basso. Tirò fuori proprio quello. Lo rigirò tra le mani e cercò di leggere la scritta scolorita con il nome della casa de tabaco che lo aveva prodotto. Questo gesto le rievocò il ricordo di sua nonna. Lei le raccontava con orgoglio di quando lavorava alla manifattura di Napoli, delle lunghe giornate passate a confezionare sigari e dei tempi in cui le sigaraie, per il solo fatto di essere donne lavoratrici che volevano stare “al pari” degli uomini, erano considerate libertine. Anche se Arianna era solo una bambina e non comprendeva fino in fondo
19 questa storia, in qualche modo quelle parole le avevano segnato la vita. Ripensò anche al viso stanco di sua madre che, dopo aver impacchettato centinaia di sigari Toscani, tornava a casa portandosi addosso l’odore della giornata e preparava la cena senza dire una parola, mentre Arianna avrebbe desiderato le sue attenzioni. Allora non capiva che quel silenzio era il prezzo del suo duro lavoro. «Ho sentito l’odore del caffè. Ne è rimasto un po’ anche per me?». La voce assonnata di Dario la riportò al presente. «Certamente! Ne hai bisogno. Come ti senti?» chiese lei con un sorriso. «I nostri amici sono proprio fuori di testa! Con quel gioco dell’indianata sulla spiaggia, abbiamo bevuto un casino!». «Però è stato divertente. E comunque ero sobrio. Tanto sobrio da rendermi conto di essere ubriaco!» esclamò Dario ridendo cercando di sistemarsi i capelli arruffati. «Cosa facevi con quel sigaro in mano? Hai deciso di iniziare a fumare?». «Non ci penso nemmeno! Piuttosto mi è venuta un’idea. Andiamo giù a vedere il tuo laboratorio?». «Accidenti! Fammi prima svegliare, finire il caffè…». La piccola cantina aveva una finestrella e un lungo tavolo con il ripiano in formica equipaggiato come un vero laboratorio di analisi: un microscopio, con lampada incorporata, dotato di lenti e filtri polarizzatori colorati, un micrometro, un essiccatoio, un bruciatore Bunsen, vetrini, cilindri graduati, provette e strumenti per la dissezione botanica. E ancora: acqua distillata, etanolo, glicerolo, acidi e reagenti di ogni tipo. «Però! Ti sei attrezzato bene! Manca soltanto un Soxhlet!» esclamò Arianna guardandosi intorno. «Vuoi aiutarmi a scoprire la mescola di questo Havana? Senti che profumo!» disse annusando per l’ennesima volta il sigaro. Dario la guardò incuriosito, mentre lei era già seduta sullo sgabello e preparava gli utensili per l’analisi del tabacco.
20 «Cosa vuoi fare? Sei sempre la solita curiosa!» disse porgendole un paio di guanti in lattice. Arianna non rispose. Nel corso degli anni Dario aveva imparato che era inutile provare a fermare l’amica. Per assecondarla, anche lui si mise a preparare i vetrini e prese il bisturi con la lama più sottile. Come una calamita, l’attenzione di Arianna fu di nuovo attratta dal sigaro “diverso” dagli altri. Lo prese e, indossati i guanti per evitare di contaminare l’analisi, cominciò a sentire, annusando, le caratteristiche organolettiche di quelle foglie ormai secche da anni, ma che la confezione di legno di cedro aveva aiutato a mantenere perfette. L’odore aromatico e fruttato escludeva ogni presenza di muffe, l’aspetto era integro e così anche il colore. Era pronta per passare all’esame microscopico, indispensabile per l’identificazione dei vari componenti. Con il sigaro posto su una lastra di vetro, impugnò il bisturi e, con la precisione di un chirurgo, tagliò la capocchia, appena sopra l’anilla. Raccolse con la punta del dito le briciole del tabacco che fuoriuscirono, le schiacciò fra le dita e odorò ancora. Poi le portò alla bocca e le assaggiò. Non sapevano di muffa, anzi avevano il sapore di frutti tropicali. Tolse la fascetta e cercò di srotolare la prima foglia. La capa del sigaro era secca, fragile e si sbriciolò in mille pezzettini. Decise allora di incidere il sigaro nella sua lunghezza per non rovinare anche il capote che racchiudeva la tripa finemente sminuzzata. Dario assisteva in silenzio a quell’operazione degna di una sala operatoria. Quando finalmente il sigaro si aprì, Arianna chiuse gli occhi e aspirò forte. «Senti… il profumo del vento del sud». Vagliò il contenuto con le pinzette, prese una piccola quantità di tabacco con una palettina e la mise sul vetrino per analizzarla al microscopio. La prima cosa da controllare era la presenza di eventuali corpi estranei nella mescola: sabbia, terra o sporcizia. Poi ne prese ancora un po’, lo pestò nel mortaio affinché le
21 sostanze aromatiche venissero fuori e travasò tutto dentro una provetta pulita. Versò alcune gocce d’acqua distillata e la scaldò leggermente sul becco Bunsen per far dilatare meglio i tessuti e osservarne le caratteristiche. Prelevò i frammenti di una parte interna della foglia, compresa una piccola nervatura, e li mise su un altro vetrino. Aggiunse due gocce di etere di petrolio e schiacciò con un’altra lastrina di vetro trasparente. «Ecco fatto. Anche se non ho gli strumenti giusti, è tutto quello che posso fare. Adesso dobbiamo aspettare qualche minuto affinché la foglia possa essere più “leggibile”. Poi cercherò di fare un’analisi più dettagliata» disse soddisfatta. «Ari, cosa stai cercando esattamente?». «Non lo so, ma è divertente!» rispose. Mentre un po’ distrattamente guardava quel sigaro sventrato, Arianna notò qualcosa tra le foglie arrotolate. Qualcosa di anomalo. Avvicinò la lampada e con il bisturi separò bene il capote dalla capa. Poi con la pinzetta afferrò quella che sembrava una foglia più chiara e diversa dalle altre. Lentamente cercò di tirarla fuori. Erano sottilissimi pezzetti di carta velina, ingialliti dal tabacco e dal tempo, che si sbriciolavano a ogni leggero strappo. C’erano dei segni scuri. Sembravano parole. «Ma che cavolo è?», disse ad alta voce con occhi sgranati, guardando emozionata e incredula. Dario si avvicinò per capire cosa stesse succedendo. Rimase in silenzio. Arianna continuò a tirare fuori quei piccoli frammenti di carta, li mise tutti sopra un supporto scuro e, sebbene mancassero dei pezzetti, riuscì a ricomporre le parole di quel messaggio: La victoria _____ cerca. _____ de nuevo a mí. Nuestro _____nacer.
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2. FRAGILE PARADISO
Inseguita dalla luce del sole, la notte diventò giorno. L’isola verde poggiata sul mare cristallino fece brillare gli occhi di Dario che dall’alto osservava l’alternarsi di palme lucenti e campi smisurati di canna da zucchero con i pennacchi rosa. Il panorama era spettacolare. Man mano che l’aereo scendeva di quota si potevano distinguere anche i fondali, le lagune e le piccole isole. Tutto aveva una luminosità insolita, quasi accecante. Dario, avvolto nei suoi pensieri, senza volerlo li espresse a voce alta. «Gipi aveva una voce strana. Ed è lì da qualche parte!». La telefonata del fratello, ricevuta qualche giorno prima, lo aveva messo in agitazione. Non lo sentiva da quasi un mese. «Lo so… però la comunicazione era molto disturbata» rispose Arianna allacciandosi la cintura. «Prima che s’interrompesse, sono riuscito solamente a capire che dal Messico si stava spostando a Cuba… a Santa qualcosa… Santa Clara o forse Santiago… non ho capito… e comunque quello che mi fa agitare ancora di più è che ha detto che stava cercando qualcosa che riguardava nostra madre. Stava per dirmi una cosa importante, ne sono sicuro». «Non arrovellarti ancora con quella telefonata. Hai deciso di partire e io ho promesso di aiutarti». «Ho provato a richiamarlo anche ieri dall’aeroporto… Niente! Almeno sapessi dov’è, dirgli che sto arrivando!». «Riproverai ancora. Vedrai, riusciremo a rintracciarlo». Mentre l’aereo toccava terra, Dario cercava di focalizzare qualche altro particolare importante nelle parole dette da suo fratello.
23 Nonostante l’arrivo di tanti turisti, il controllo passaporti fu rapido. L’agenzia, oltre ai biglietti, aveva fornito loro la tarjeta de turismo e la prenotazione di un hotel statale nel quartiere El Vedado. Sebbene avesse viaggiato spesso, Dario sembrò impacciato quando il doganiere gli chiese di guardare in una webcam per fare le foto di viso e profilo. Il disagio aumentò di fronte alle osservazioni dell’uomo per la foto del passaporto senza la barba. Quando finalmente gli fu detto di passare, Dario si fermò per aspettare l’amica, ma una donna in uniforme lo pregò di proseguire, poiché lì non era permesso sostare. Arianna, oltre al passaporto e alla tarjeta, mostrò all’ufficiale il permesso di studio all’università di Santa Clara e, sebbene fosse in anticipo di qualche settimana, il doganiere non le chiese il motivo. «Perché sei così nervoso? Poco fa avevi una faccia! Sembrava fossi un trafficante!» disse Arianna con un sorriso ironico. «È vero, sono agitato. M’innervosiscono tutti questi divieti e controlli». «Siamo a Cuba. È già tanto che ci lascino andare in giro da soli. Fino a qualche anno fa gli stranieri arrivavano qua solamente in gruppi organizzati e un controllore politico li accompagnava a ogni passo per limitare al minimo il contatto con la popolazione. Come diceva mio padre “per controllare anche i pensieri”». L’agenzia a Barcellona li aveva informati che, non avendo acquistato un pacchetto turistico, nessuno sarebbe venuto a prenderli in aeroporto e per andare in albergo avrebbero dovuto arrangiarsi con un taxi, facendo attenzione a prendere solo quelli autorizzati. Seguendo le indicazioni di una donna in divisa e walkie-talkie, attraversarono la sala con le vetrine dei negozi assolutamente vuote e si diressero fuori dal terminal.
24 Dario notò che il gruppo di turisti che aveva viaggiato con loro fu accolto da una giovane e bella guida in uniforme che lo accompagnò verso un bus bianco e blu con il logo della Compagnia di Stato. A loro invece toccò mettersi in fila. Mostrarono il voucher dell’albergo all’addetto e attesero alcuni minuti. Quando fu il loro turno, si accomodarono in una macchina vecchia e scassata, a modo suo accogliente, con piccoli ventilatori sopra le loro teste e una fresca tappezzeria colorata. Un ritmo di salsa usciva dalle casse laterali. Arianna si sentiva felice. Finalmente era a Cuba per vivere l’esperienza in una piantagione di tabacco e conoscere i luoghi da sempre mitizzati nei racconti di suo padre. Il lungo viale che dall’aeroporto portava al centro de L’Avana era costeggiato da palme da cocco e case basse dai colori pastello che un tramonto infuocato rendevano ancora più intensi e luminosi. Poco traffico, solo qualche autobus sgangherato, vecchie motociclette e sidecar di fabbricazione russa. Ai lati, grandi cartelloni con i volti di Fidel Castro e Che Guevara con le storiche frasi di propaganda inneggianti alla rivoluzione. Man mano che il taxi si avvicinava alla città, il traffico s’intensificava. Arianna e Dario notarono subito le coloratissime macchine americane degli anni ’50. Si guardarono e scoppiarono a ridere intonando la canzone del film Grease, cult della loro infanzia. Sembrava d’esserci finiti dentro e da un momento all’altro si aspettavano i T Birds impomatati e le Pink Ladies con capelli cotonati. L’aria tropicale e vacanziera allontanò da Dario, seppur per un attimo, ogni apprensione per Giampaolo. L’Hotel El Paseo Central era una bella villa coloniale a due piani, tinteggiata di giallo pallido, con porte e finestre laccate di bianco, come le colonne all’ingresso. Una balconata di ferro decorata circondava un ampio patio, dove quattro sedie a dondolo erano a disposizione dei clienti.
25 La loro camera al primo piano era semplice, pulita e aveva due letti separati. Nessuno si offrì di portare in camera i loro bagagli. Accettarono questa condizione come un ovvio particolare della cultura anticapitalista. L’agenzia aveva assicurato che El Vedado era una zona vicina all’università e modaiola, ma di sicuro non lo era la strada del loro hotel. Infatti Arianna e Dario dovettero cercare a lungo un posto dove cenare. Tra vie poco illuminate e quasi deserte, finalmente videro un’insegna, “J. y J. Paludar”. Timidamente entrarono in quella che sembrava una casa privata. Una donna in ciabatte li fece accomodare nella veranda con quattro tavoli affacciati sulla strada. Non c’erano altri clienti. Justina, così disse di chiamarsi, presentò loro l’unica pietanza preparata per la cena, così come una mamma avrebbe fatto con i propri figli: ropa vieja. Il nome non sembrava allettante, ma dopo pochi minuti Justina servì un grande piatto dall’ottimo profumo: manzo tritato con riso e aggiunta di pomodori, peperoni e tante spezie. Mangiarono tutto fino a ripulire il piatto. Chiesero della birra e Justina portò due cervezas gelate. Finita la cena ne chiesero altre due. La señora si scusò, ma non ne aveva più. In cambio portò due mojito con tanto ghiaccio tritato. Quindi, Justina e suo marito Jorge si sedettero al loro tavolo per assicurarsi che avessero gradito la cena e per fare due chiacchiere. Erano curiosi di sapere da dove venivano, il motivo del loro viaggio e quanti giorni si sarebbero fermati a L’Avana. «Sono un’agronoma specialista del tabacco» rispose Arianna con orgoglio. «Inizierò presto un dottorato di ricerca all’università di Santa Clara». «Alloggiate in una casa particular?». «No, all’Hotel Paseo Central». «Peccato! Non mancate di farlo. Nelle case particular entrerete in contatto con la nostra ospitalità e aiuterete le famiglie a portare avanti l’impresa privata» disse Jorge. «E vi raccomando una passeggiata sul Malecón. Lì vivrete appieno lo spirito di noi
26 cubani. Da qui non è lontano. Seguite il paseo e arriverete dritti al mare» disse indicando il viale. «Siamo appena arrivati. Certamente ci andremo domani» rispose Dario trattenendo uno sbadiglio. Ma la stanchezza per il lungo viaggio non gli fece dimenticare il vero motivo di quella partenza affrettata. Prese il suo smartphone. La foto sullo schermo lo ritraeva insieme al fratello. Provò a chiamarlo. Nulla. Cercando una connessione dati inesistente, chiese se ci fosse la Wi-Fi. Justina e Jorge, perplessi e un po’ dispiaciuti, scossero la testa e risposero di no. Dario si sentì in imbarazzo «Non fa niente… Proverò dall’albergo». Jorge, incuriosito, gli chiese se poteva osservare da vicino quella novità tecnologica. «Da quando Raúl è al governo, anche qui sono state introdotte queste modernità, ma non ne abbiamo di così avanzate» disse vedendo scorrere altre immagini con il touch screen. Dario tentò di spiegare il concetto di wireless, ma fu un fallimento. «Qui Internet è fortemente controllata e molti siti sono oscurati o filtrati. Nelle case private è ancora vietata. Non credo che l’albergo disponga di una rete libera. Solo alle Istituzioni o ad alcune imprese statali è consentito l’accesso. Ci sono dei centri dove si possono mandare le email, ma coprono solamente la rete interna dell’isola. Il servizio è consentito a tutti i cittadini, ma è molto caro». Anche da questi particolari, i due amici cominciarono a rendersi conto di quanto l’embargo degli anni passati e, ancora adesso, avesse tenuto lontano quel popolo dal resto del mondo. La strada verso l’albergo era poco illuminata, con tratti bui e deserti. Dario cercò di fare luce sul marciapiede con la torcia del suo cellulare e le loro ombre proiettate all’indietro parevano
27 riflesse in una città inesistente. Da lontano, portata dal vento, arrivava l’eco del ritmo di una salsa. «Sembra di essere in uno di quei vecchi telefilm Ai confini della realtà, te li ricordi?» disse canticchiando la colonna sonora, rivolgendosi sul viso la luce biancastra dei led. «Smettila! Non sono così vecchia!» rispose Arianna fermandosi a guardare delle grandi felci oltre il cancello di una villa coloniale che sembrava disabitata. «Guarda che meraviglia!». Stava per allungare la mano per toccarle, quando sentì un cigolio, e nel buio vide ondeggiare due puntini rossi luminosi. «Vieni via! Questa mania di toccare ogni pianta!» disse Dario tirandola per un braccio. Arianna ebbe un sussulto, suggestionata anche dalla musichetta intonata poco prima dall’amico. Nella veranda un paio di anziani fumavano tranquillamente un sigaro cullandosi su vecchie sedie a dondolo e godendosi la serata. Raggiunsero l’hotel dopo un paio d’isolati. Provarono a vincere il caldo soffocante della stanza disadorna accendendo il condizionatore vicino al letto che, anche sbuffando e lacrimando sul pavimento, non riuscì a rinfrescare l’aria. «Vado a fare la doccia» disse Arianna. Nel lavandino del piccolo bagno c’era solo il rubinetto dell’acqua fredda, così anche nella doccia. Arianna si sorprese quando scoprì che l’acqua usciva naturalmente tiepida. I vecchi tubi di ghisa dipinti di bianco emettevano strani suoni a ogni passaggio dell’acqua. Quando si mise a letto, Dario dormiva già. Il condizionatore aveva preso il ritmo regolare della centrifuga di una vecchia lavatrice che stancamente continuava a sbuffare e gocciolare, e l’aria sembrava più fresca. La mattina dopo la luce filtrava forte dalla grande finestra con i vetri opachi e retinati. Arianna allungò il braccio per spegnere il condizionatore e chiudere la tenda. Cercò di stirarsi i muscoli del
28 collo completamente bloccati. Sorrise guardando Dario che dormiva di sasso russando con la bocca aperta. Poi si rigirò nel letto cercando ancora qualche minuto di sonno, ma inutilmente. Il russare di Dario le fece venire voglia di soffocarlo con un cuscino. Si alzò. Dal bagaglio prese l’incartamento con i documenti da presentare all’università. Voleva ricontrollarli per essere sicura di non avere dimenticato nulla. Nel fondo della valigia c’era la scatola dei sigari comprata a Barcellona. L’aveva portata con sé come portafortuna. Gliel’aveva suggerito suo padre. In un sacchetto ermetico, aveva messo anche il sigaro lacerato e il suo contenuto. Una volta assegnata la destinazione, avrebbe eseguito un esame più approfondito con gli strumenti giusti di un vero laboratorio di botanica. Dopo aver scoperto quello strano messaggio nascosto, lei e Dario avevano esaminato a lungo la mescola di quel sigaro, cercando di fare al meglio l’analisi degli elementi e dei componenti presenti. Oltre alla nicotina, avevano rilevato azoto, fosforo e potassio in notevole quantità, mentre altri elementi secondari come il calcio erano quasi assenti. Un’anomala presenza di rame aveva incuriosito Dario. Per alcuni giorni Arianna aveva pensato solo a quel sigaro e al messaggio ritrovato, fantasticando sul significato delle poche parole scolorite scritte più di cinquant’anni prima. Tornata a Madrid, ne aveva parlato al telefono con suo padre. Anche il signor Antonio si era appassionato alla scoperta della figlia, domandandosi come avesse fatto a trovarlo, e soprattutto chi e perché avesse nascosto la missiva dentro il sigaro. Stimolando ancora di più la curiosità della figlia, le aveva raccontato, ancora una volta, di quando, vent’anni prima, lui e due colleghi furono accompagnati alla fabbrica di sigari nella provincia di Santa Clara su scassate camionette. Con nostalgia, raccontò molti altri dettagli ancora vivi nella sua mente. In particolare la curiosità
29 suscitata delle giovani sigaraie nel vedere tre giovani italiani vestiti alla moda, con jeans e camicie colorate. Per i cubani gli anni ’90 erano tempi particolarmente duri. Ritornare a Cuba era il suo più grande sogno. A quel punto le aveva raccomandato di portare con sé la scatola e di tenerlo aggiornato sui suoi spostamenti e, se le era possibile, visitare quella fabbrica. Qualche settimana dopo, Dario l’aveva cercata al telefono dicendole che Giampaolo finalmente lo aveva chiamato. Lei conosceva bene il legame forte, quasi morboso, che univa lui e il professore. Dario non faceva nulla senza prima chiedere un consiglio al fratello e Giampaolo l’aveva sempre sostenuto in ogni scelta. «Ari, devo trovarlo e sapere cosa gli sta succedendo» le aveva detto turbato. «Sento che c’è qualcosa non va. Potrebbe avere bisogno di me. Lui per me c’è sempre stato». Arianna allora gli aveva proposto di partire con lei, rintracciarlo e raggiungerlo. «Basta, russi come un trattore! Questa stanza mi opprime. Non si può neanche aprire la finestra! Alzati, andiamo a fare colazione. Dobbiamo ancora prenotare un’auto per andare a Santa Clara» disse lei tirandogli contro il cuscino. Dario senza scomporsi glielo tirò indietro farfugliando «Lasciami dormire». Era il loro modo di giocare e prendersi in giro. Arianna faceva la dura e Dario la vittima, ma si adoravano. La colazione era servita in uno scarno buffet allestito nella sala accanto alla reception, sul lato in ombra del giardino. Pane tostato, caffè, poca marmellata, niente burro, ma tanta frutta fresca: anguria, mango, papaia e guayaba che dall’odore e dal sapore ricordava fichi d’india maturi. «Stamattina andiamo a portare i miei incartamenti all’università. È qui vicino» disse Arianna eccitata all’idea di dover passare sull’isola i prossimi sei mesi. «Sì, mi sembra un’ottima idea per cominciare». Finita la colazione, si lanciarono alla scoperta de L’Avana.
30 La strada che dall’hotel portava all’ateneo era incorniciata da ville un tempo splendide, ma ormai decadenti, appartenute sicuramente a ricchi americani prima che fuggissero o fossero cacciati da Fidel Castro. Dopo qualche isolato i due amici si ritrovarono davanti alla scalinata imponente e austera dell’università. Il maestoso colonnato dell’ingresso, con la statua di bronzo dell’Alma Mater, li mise quasi in soggezione. L’ampio giardino interno era pulito e tenuto in ordine come a voler conciliare la serenità nello studio. C’erano silenzio e rispetto. Presso la segreteria Arianna cercò la signora Ernestina che avrebbe dovuto darle la documentazione da consegnare alla facoltà di agraria a Santa Clara. L’accolse una donna di colore con tratti somatici europei: naso diritto, capelli lisci e occhi castano chiaro. Dopo i soliti convenevoli, accompagnò i due ragazzi attraverso le aule e le sale storiche più importanti, elencando con orgoglio tutte le attività dell’Università più grande delle isole caraibiche. Arianna e Dario la seguivano attenti e curiosi. «L’istruzione a Cuba è una cosa seria ed è tenuta in grande considerazione» disse Ernestina. «Sapete che tutti i cicli di formazione scolastica, inclusa l’università, sono completamente gratuiti?». Formulò la domanda e, senza aspettare la risposta, continuò: «Quando Fidel Castro salì al potere, creò un sistema interamente statale e vietò le istituzioni private proprio per aumentare l’alfabetizzazione della popolazione. Anche nei piccoli centri rurali furono istituite scuole e biblioteche per consentire a tutti di avere un’istruzione. È lo Stato che mette a disposizione degli studenti tutto il materiale scolastico. Oggi a Cuba non ci sono più analfabeti» disse con fierezza. «Ma immagino che l’educazione scolastica abbia una forte impronta ideologica» sottolineò Arianna.
31 «Certamente. I ragazzi sono tenuti ad avere anche un impegno sociale oltre che politico. Infatti, una volta l’anno, tutti svolgono lavori nei campi insieme ai contadini. L’operazione culturale è stata una delle grandi vittorie del socialismo popolare, senza differenze razziali, né sociali. Negli anni ’60 i neri e i creoli furono ammessi all’università e a lavorare negli uffici pubblici. La costituzione cubana sancisce l'uguaglianza fra tutti i gruppi etnici e condanna ogni forma di discriminazione e intolleranza» concluse la donna con orgoglio mal celato. Ernestina non aveva vissuto la rivoluzione, ma aveva sviluppato un forte senso di appartenenza alla cultura del suo Paese e faceva anche parte della Federación de Mujeres Cubanas. «È una struttura fondata dalla moglie di Raúl Castro, per svolgere attività femminili con compiti non solo politico-amministrativi ma anche socio-culturali, per combattere la mentalità che dà per scontate l'inferiorità e la sottomissione femminile» disse. Arianna ascoltava e le pareva di risentire le parole di suo padre: “Cuba è un paese incredibilmente giusto”. Finita la visita, tornarono negli uffici. Ernestina diede ad Arianna tutti i carteggi necessari e il nome del referente a Santa Clara: profesor titular Felipe García Fuentes. Lui le avrebbe assegnato la piantagione di tabacco nella quale avrebbe lavorato e seguito le diverse fasi della produzione, dalla semina alla raccolta. Avrebbe cominciato fra tre settimane, quindi lei e Dario avevano tutto il tempo per dedicarsi alla ricerca di Giampaolo e magari godersi quella piccola vacanza. Si sedettero su una panchina nel giardino a respirare l’aria profumata e calda de L’Avana. Questa città dolce e amara trasmetteva sentimenti contrastanti e anche le persone incontrate fino a quel momento apparivano allegre e tristi allo stesso tempo. «Hai sentito con che “amor di Patria” parlava Ernestina? E con che orgoglio ci mostrava le aule dove aveva studiato Fidel! Non smetterei mai di sentire le loro storie, anzi mi piacerebbe
32 raccoglierle, parlare con chi ha veramente vissuto quegli anni!» disse Arianna. «Quell’uomo potrebbe essere stato un rebelde. Guarda come tiene il sigaro tra le labbra. Guarda i suoi lineamenti. Avrà settant’anni. Lui certamente ha vissuto la rivoluzione» rispose Dario indicando un giardiniere con il cappello di paglia e un grosso Avana spento in bocca che raccoglieva con cura le foglie del vialetto. Arianna non ci pensò due volte. Colse l’occasione per provare a fare due chiacchiere con l’anziano signore, per capire e confrontare le anime contrastanti della Cuba di allora e di adesso. Si alzò dalla panchina e gli andò incontro. «Hola señor» disse con discrezione. L’uomo sollevò il viso scurito dal sole e segnato dagli anni. Tenendo ben stretto il suo sigaro tra i denti, non rispose ma ricambiò il saluto portando la mano grinzosa al cappello. Arianna gli chiese se poteva chiacchierare con lui e lo invitò a sedersi sulla panchina per riposarsi un po’. Gli offrì dell’acqua per rinfrescarsi dalla calura. L’uomo accettò volentieri di sospendere il lavoro per qualche minuto. Disse di chiamarsi Luis e di lavorare in quel giardino da trent’anni. Bastarono pochi convenevoli per sciogliere il ghiaccio. Parlarono di quanto era cambiata Cuba da quando era stata aperta al turismo, di quanto adesso i giovani sembravano insofferenti alle restrizioni imposte dal regime e agognavano la “bella vita” degli Stati Uniti. Confrontarono l’esistenza di chi aveva vissuto Cuba prima e dopo la rivoluzione e di chi, in quest’ultima, aveva visto l’unica forma giusta e sostenibile. Luis raccontò del lusso sfrenato in cui vivevano gli americani durante gli anni ’60 e di come quell’isola era diventata un posto buono solo per gli affari illeciti delle mafie. Arianna era affascinata dalle parole di quell’uomo, dal suo orgoglio cubano e persino dal movimento del sigaro che continuava a ondeggiare su e giù fra le labbra a ogni parola.
33 Anche se spento, emanava un buon profumo. Quanta storia e quanti cambiamenti gli occhi di Luis avevano visto passare da quei vialetti. L’uomo chiese da dove venivano e dove alloggiavano. «Siamo a L’Avana di passaggio, devo andare a Santa Clara per un dottorato di ricerca agraria. Sono un’esperta di tabacco» rispose Arianna. «Conosco bene quella provincia. Non c’è tabacco nelle piantagioni in questa stagione. I campesinos stanno preparando i campi per la semina». «Sì, lo so. Infatti inizierò tra qualche settimana. Mi assegneranno una zona. Seguirò tutte le fasi: dalla semina, al trapianto, alla maturazione delle foglie e magari riuscirò a vedere la raccolta della prima mañanita» rispose compiaciuta. «Non tutti i terreni sono buoni per produrre tabacco. Le coltivazioni migliori sono a Pinar del Río. Perché vai a Santa Clara?». «È stata l’università di Firenze in accordo con quella de L’Avana a decidere. E comunque per me va bene. M’interessano anche le coltivazioni di cacao e canna da zucchero». «Lo zucchero era la risorsa più importante del Paese. Ci legava ai nordamericani come un cordone ombelicale, ma con l’embargo tutto è cambiato. L’Unione Sovietica ha sostenuto per molti anni la nostra agricoltura, ma dopo il crollo del muro…». L’uomo s’interruppe, bevve un sorso d’acqua, poi continuò. «La mia famiglia e io vivevamo in un piccolo villaggio nella Provincia di Villa Clara, vicino al grande zuccherificio. Un giorno El Che parlò agli operai incoraggiandoli ad affrontare le difficoltà a venire… Ogni rivoluzione ha il suo prezzo da pagare» aggiunse dopo una lunga pausa. Si fermò ancora a riprendere fiato. «Ho lavorato nelle piantagioni per anni. Ero un bambino quando Fidel e i suoi barbudos ci liberarono da Batista. Ricordo ancora mio padre nel ’59, sul cassone del camion accanto a El Comandante e
34 agli altri compañeros con le bandiere rosse sventolanti» raccontò nostalgico. Arianna ascoltava volentieri i ricordi di quell’uomo semplice che aveva vissuto gli anni della nascita della Repubblica Democratica Socialista. Dario si rese conto che proprio l’università poteva essere un punto di partenza per la ricerca di Giampaolo. Prese dalla tasca il telefono e mostrò all’uomo la foto di lui e Gipi. «Questo è mio fratello. È un professore di Botanica e ama esplorare i giardini delle università. Per caso l’ha visto in questi giorni?». Il vecchio guardò la foto, scosse la testa, poi portando la mano sulla tesa del cappello di paglia si alzò, salutò i due giovani amici e tornò a raccogliere le foglie col suo rastrello. «Cavolo, Dario! L’hai fatto scappare! Perché gli hai mostrato la foto del professore? Si è insospettito! Qui il governo controlla tutto e i cittadini si sentono spiati. Dobbiamo fare le nostre ricerche senza attirare troppo l’attenzione. E poi non ti ha detto che stava andando a Santa Clara?» urlò Arianna sottovoce, infuriata. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
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