La zattera in Duomo, Chiara Giudici

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In uscita il 28/2/2018 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2018 ( ,99 euro)

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CHIARA GIUDICI

LA ZATTERA IN DUOMO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni

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LA ZATTERA IN DUOMO

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-178-5 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Dedicato a Sonia e Mattia: la mia prima lettrice e il mio primo sostenitore

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La grande vasca, illuminata dalla luce che scendeva obliqua dalle vetrate del soffitto, riempiva l’aria di un’atmosfera azzurrognola creando vivi giochi di luce tra le pareti ricoperte da brillanti piastrelle mosaicate. A quell’ora del giorno, con quella luce, la piscina assumeva le sembianze di una luminosa grotta marina, sensazione accresciuta dal fatto che, generalmente, nelle ore di quei pomeriggi invernali poteva tranquillamente nuotare sola nelle acque di quella dimenticata piccola piscina di periferia. Era stanca morta, mentalmente stanca, ma sapeva che farsi una decina di vasche in stile l’avrebbe aiutata a rilassarsi e a non pensare più a quella mattinata cominciata non proprio nel modo migliore. C’era anche, nel farsi quella nuotata, la piacevole aggiunta di sentirsi finalmente pulita, libera dall’odore tremendo che sembrava insinuarsi tra i suoi capelli e nella sua pelle. Scivolare lentamente nell’acqua era una delle poche cose che la facesse sentire meno lercia. Seduta sul bordo della piscina, tra i riflessi azzurri della luce sulle pareti, muoveva i piedi creando vortici e bollicine nell’acqua un po’ troppo fredda, immergendosi poco alla volta, le gambe che si coprivano di pelle d’oca. Si era quasi immersa fino alla pancia quando sentì il tonfo provenire dalla corsia accanto alla sua, poco al di sopra della sua testa. Vide immediatamente cosa aveva provocato il rumore e i brividi le risalirono fin sopra alla nuca. Accanto a lei, nell’acqua, il braccio galleggiava, lacerato all’altezza del gomito, la pelle piagata e biancastra che cominciava immediatamente a gonfiarsi e a suppurare lasciandosi dietro piccoli galleggianti brandelli di carne morta dalla ferita slabbrata. «Merda che schifo!» esclamò. Ci mise meno di un secondo per risollevarsi oltre il muretto della vasca e uscire dall’acqua. In piedi, sopra di lei, uno di loro la fissava con aria stolida. «Che schifo! Cosa ci fai tu qui? Non dovresti esserci!» Lui, alto e secco, con un’assurda divisa da ausiliario del traffico, continuava a fissarla con gli occhi grigi e vacui e la bocca semiaperta. «Mi hai sentita schifoso? E cosa hai da guardare?» Non ottenne nessuna risposta, d’altronde loro non rispondevano mai e gli occhi che la fissavano non davano alcun segno di aver capito,


6 evidentemente non era tra i più furbi. Sacramentando si rimise l’accappatoio sopra al costume e si diresse verso l’ingresso mentre lui continuava a seguire ogni suo movimento con lo sguardo. Arrivata davanti alla biglietteria cominciò a battere furiosamente sul vetro spaventando il custode, un ometto grasso con spessi occhiali e una targhetta color bronzo appuntata alla camicia con inciso il proprio nome, R. Enzo, che se ne stava intento nel leggere la cronaca sportiva. «Mi scusi! Ne è entrato uno nell’acqua!» Lo sguardo dell’uomo, per un momento, parve inespressivo come quello dell’ausiliario a bordo vasca. «Cosa? Ma è impossibile, ho controllato l’entrata per tutto il tempo.» «Leggendo il giornale?» «Ma cosa c’entra signorina? Sì, ho letto un pochino il giornale, ma non mi sono mai distratto per più di cinque minuti.» «Si vede che è entrato in quattro minuti.» «L’hanno aggredita?» Domanda più che scema, R. Enzo sapeva benissimo che se uno di loro l’avesse aggredita lei non si sarebbe trovata a parlare con lui, ma mezza divorata a bordo vasca con le budella che finivano in acqua. D’altro canto, se lui non fosse stato uno che pone domande mezze sceme non sarebbe stato lì pacifico e beato nel suo gabbiotto di vetro a leggere delle ultime partite. «Hanno inquinato l’acqua», continuò, «non ci si può più entrare, è un vero schifo!» Cosa diavolo era venuto a fare quell’ausiliario dannato in piscina? Lo sapevano tutti che l’umidità velocizzava la loro putrefazione. «In che senso inquinato l’acqua?» «Un braccio. Un braccio mezzo putrido è caduto nella vasca.» «Nella vasca grande? L’olimpionica?» «Sì, nella vasca grande.» «C’eri solo tu in acqua?» «Io e quell’essere.» «Ed è ancora lì?» «Guardi lei stesso.» R. Enzo uscì dalla biglietteria per affacciarsi alla grande vetrata che dava sulle vasche. Accanto alla piscina olimpionica, dove Sofia lo aveva lasciato, l’ausiliario continuava a ciondolare sul bordo vasca mentre il suo macabro lascito galleggiava placidamente tra le corsie. «GesùGiuseppeeMaria!» ansimò. «Ma perché proprio a me? Perché nel mio turno? Ma proprio oggi che dovevano uscire le classifiche?» Soddisfatta per aver provocato finalmente una reazione, senza dire una parola, abbandonò R. Enzo intento nei suoi rosari e andò correndo negli spogliatoi lasciandosi alle spalle l’atrio pieno di spifferi e rintanandosi nel caldo umido del locale docce. Aveva le labbra bluastre come uno di quei maledetti cosi morti e pelle d’oca su tutto il corpo, sarebbe stato bello se la doccia fosse stata bollente, ma sapeva che l’avrebbe trovata al massimo tiepida. Si lavò rapidamente prima di rinfilarsi nell’accappatoio fradicio e di iniziare la solita guerra contro i suoi capelli. Dallo specchio quell’ammasso crespo e disordinato di riccioli castani sembravano


7 prometterle una dura quanto inutile battaglia; lei si diede subito per vinta, come sempre, e si limitò ad asciugarli alla meglio con il tubo d’aria calda della piscina, pettinandosi con le dita delle mani. Andò a recuperare il suo zaino nell’armadietto e si rivestì in fretta: calzamaglia, calzettoni, maglia di lana, due maglioni, fuori faceva un freddo bieco, umido e appiccicoso come solo a Milano in inverno può fare. Quando finalmente fu pronta, nella scarpiera aperta accanto agli armadietti l’aspettava una bella sorpresa: i suoi stivaletti non c’erano più. «Cazzo non è possibile!» esplose. Si mise a carponi per cercare le scarpe anche dietro alla panca con attenzione, come era possibile che le fossero sparite le scarpe? Chi poteva portarsi via un paio di stivaletti? Erano nuovi, ma non di marca, dovevano essere state quelle maledette stronzette del corso di nuoto sincronizzato under sedici che avevano finito la lezione poco dopo il suo arrivo. In preda alla rabbia cominciò a prendere a calci un paio di box, le avrebbe volute strangolare quelle carognette se solo le avesse avute sotto mano. Si maledisse per non aver messo le sue scarpe nell’armadietto chiuso come faceva sempre, ma quel giorno non aveva voluto farlo perché mentre andava in piscina aveva pestato una cacca sul marciapiede e, anche se si era pulita con dell’erba e sul provvidenziale zerbino di un bancomat, le faceva schifo mettere le scarpe, che immaginava ancora un po’ sporche, vicino allo zaino. Sconfortata si sedette sulla panca, come cazzo sarebbe tornata a casa? In infradito? Fu in quel momento che si accorse di un paio di crocs dall’orribile colore verde mela che la guardavano da sotto la fila degli armadietti, non ci pensò nemmeno un secondo prima di prenderle e infilarle sui calzini, sempre meglio che tornare in ciabattine da spiaggia. Come una furia in zoccoli di gomma si avventò nuovamente sul gabbiotto del custode, aveva tutte le intenzioni di inveire contro quelle troiette che le avevano rubato le scarpe, ma la sedia era vuota: dalla grande vetrata che dava sulla vasca lo vide intento a raccogliere pezzi di cadavere dall’acqua con un retino. Si chiuse fino al collo la giacca a vento, sprofondò il viso nella sciarpa, infilò la sua mandria di capelli imbufaliti in un berretto di lana e, inforcando ai piedi le sue nuove crocs verde mela, si preparò ad affrontare la gelida tundra fino a casa. L’acqua della doccia era bollente, quasi ustionante, ma era un bene che lo fosse. Impugnando una ruvida spazzola di crine Sofia si sfregava furiosamente le braccia, il ventre, le gambe finché la pelle non fu paonazza. Era arrivata a casa con i piedi assiderati e i pochi minuti di acqua tiepida che si era potuta concedere con i suoi due gettoni in piscina


8 non erano bastati a farla sentire pulita. Non c’era nulla che le facesse schifo come quei cosi e continuava a vedersi davanti agli occhi quel braccio bianco come il latte che perdeva brandelli di carne putrida in acqua. «Che schifo, che schifo, che schifo!» Continuava a ripeterlo come un mantra mentre sfregava con forza, probabilmente avrebbe cambiato stabilimento, non aveva la minima intenzione di ritornare in quell’acqua, ma era un peccato perché aveva già pagato l’abbonamento per dieci entrate e in quel periodo cinquanta euro per lei erano un vero investimento. In accappatoio si mise a gironzolare per casa prima di andare a iniettarsi una dose della sua droga personale: la posta elettronica. Diede una rapida visione alle varie promozioni, annunci di negozi on-line e offerte di poster, ma a parte delle e-mail commerciali non c’erano novità, nessuno le aveva risposto, tanto per cambiare. Crollò sulla poltrona accendendosi una sigaretta. Aveva sperato in almeno una rispostina, anche solo un “Al momento non ci serve nessuno ma la contatteremo e bla bla bla” e dopo il colloquio avuto in mattinata, dove le si offriva uno splendido lavoro di giratrice di bistecche, “Tirocinio scarsamente retribuito ma per ora nessuna garanzia! Sai, ci sono tantissimi altri candidati a questa posizione e poi hai già trent’anni e non possiamo detrarti fiscalmente…”, il silenzio della posta elettronica, dove da settimane non riceveva altro se non offerte di viaggi premio e abbonamenti televisivi, fu un nuovo colpo al cuore. Accese la tv in un rapidissimo zapping finché non si soffermò sui deliri del wedding planner accorso per il matrimonio reality di una star della tv locale: sullo schermo l’uomo appariva paonazzo e urlava torture turche verso i propri collaboratori se non gli avessero portato immediatamente boscaglie di pisello odoroso in nuance crema e lillà. Dopo pochi minuti, comunque, anche quelle scene di follia la stufarono a morte, si fece una “googlata” per scoprire se esistesse veramente una pianta tanto infelice da chiamarsi “pisello odoroso” scoprendone non solo l’esistenza, ma anche un’effettiva bellezza. Infine si buttò, come spesso accadeva, su vari blog di cucina decidendo che si sarebbe dedicata alla preparazione di un gustoso piatto di lasagne alla genovese. Il problema era che in casa non c’era quasi nulla e non aveva né i soldi né la voglia di andare a fare la spesa, aspettava sempre che ci andasse Sara. Così le gustose lasagne alla genovese divennero uno strano ibrido di lasagne al pesto condite con cannellini e il riso avanzato dal giorno prima, ma all’amica sarebbero di certo piaciute, bastava non usare troppo burro o troppo olio. Stava ancora spadellando cannellini al sugo quando la porta si aprì sbattendo. Sara, in piedi sull’ingresso, mulinò la sua borsa di plastica coccodrillata bordeaux


9 facendola volare fin sopra al divano. «Sono a casa», cinguettò, «che buon odorino, GNAMMI!» Si sbracò sulla poltrona e accese la tv sul sesto canale dove a quell’ora trasmettevano il suo telefilm preferito: la storia di cinque casalinghe spaziali che risolvevano casi di omicidio, e le loro movimentate vite sessuali, saltellando qua e là per lo spazio tempo. «Cosa stai cucinando?» chiese senza togliere gli occhi di dosso alla sigla iniziale della serie. «Lasagne fantasia.» «Buone! Ma è un piatto molto grasso?» «Niente burro e meno di un cucchiaio di olio.» «Perfetto! Allora posso anche mangiarmi un paio di patatine mentre guardo la tv.» Agguantò un pacchetto di patatine al formaggio e si svaccò ancor di più. «Tu hai visto un po’ di tv oggi?» chiese. «Sara, non ricominciare con questa storia! Non mi fa ridere per niente!» «Ne hai vista almeno un’ora?» insistette ridendo e ammiccando con i suoi enormi occhioni blu. «Odio quando citi la pubblicità della pay tv!» sbuffò. «Sai che i medici ordinano di vederne sempre almeno un’ora al giorno» continuò l’altra tra il serio e il divertito. «Quelli non sono dei veri dottori!» «Però hanno il camice bianco!» insistette Sara. «A me danno una certa fiducia.» «Come è andata oggi al lavoro?» le chiese tentando di cambiare argomento. «Molto bene!» rispose l’altra. «Pensa un po’, oggi abbiamo capito come far risparmiare un bel po’ di soldi a un nostro cliente, basta cambiare regione sociale.» «Guarda che si chiama ragione sociale, non regione» la interruppe. L’amica sembrò non farci neppure caso: «Cambi la cosa sociale spesso, tipo una volta all’anno, e puoi pagare un pochino meno tasse. Non è fantastico?» «Certo, è meraviglioso!» Sara lavorava in uno studio di commercialisti, faceva la segretaria e centralinista, ma ogni truffa escogitata dallo studio la rendeva allegra e orgogliosa come se l’avesse architettata lei stessa. «Ti va di uscire questa sera?» le chiese guardandola con i suoi occhi azzurri da gattona soriana. «Potremmo andare a berci una birra o qualcosa del genere.» «Preferirei di no, sai che sono a corto di soldi.» «Ma dai Sofi, per una birra! Non cadrà il mondo! Guarda che se vuoi te li anticipo io.» «Non dovevi uscire con ciccetto tuo?» «Ciccetto mio ha il calcetto a cinque con gli amici questa sera.» «Immagino! Come ieri e tre giorni fa e sabato scorso, diventerà un vero sportivo! Mi meraviglia che non sia già stato convocato dal Milan.» Sofia accompagnò quelle parole beffarde con un mezzo sorriso, non si sarebbe certo stupita nello scoprire che Roberto, in arte “ciccetto mio”, quando diceva di andare a correre dietro al pallone in realtà andasse a correre dietro a un paio di bocce, ma lo sguardo di Sara, mentre le rispondeva candidamente «Robi ci tiene a restare in forma», la fece


10 sentire una vera acida stronza. Si impose di smetterla di prenderla in giro e spense il fuoco appena in tempo prima che i fagioli riscaldati bruciassero. Se ne stava mollemente seduta in cucina con due enormi piattoni svuotati sul tavolo, le padelle che riempivano il lavandino fino al rubinetto: non erano solo i piatti dell’ultimo pasto, ma una collezione di stoviglie lerce che andava avanti da almeno tre giorni, un’assurda gara di resistenza a chi avesse ceduto per prima mettendosi a pulire. Sofia era già al secondo ammazzacaffè quando improvvisamente un rumore dal salotto la fece sobbalzare, sembrava che qualcosa si fosse lasciato cadere con un leggero tonfo sul pavimento. Sara la guardò: «Sofi hai sentito anche tu?» Era spaventata e si rannicchiò istintivamente nella nicchia tra il muro e il frigorifero da dove stava prendendo una bottiglia di coca zero. Che fosse uno di loro? Al solo pensiero le venne un’ansia terribile. Pochi mesi prima alla signora del quarto piano uno di quei cosi era caduto sul balcone dal tetto, nessuno sapeva come fosse finito sulla terrazza del palazzo, comunque si era spiaccicato proprio sul terrazzino della signora Gallazzi ed era riuscito a strisciare a carponi fino alla cucina della povera donna che era quasi morta d’infarto nel trovarsene uno nella sua cucina, con le gambe spezzate dalla caduta e il cranio sfondato dall’urto contro i suoi vasi di gerani. Poteva essere capitato ancora, uno di loro poteva essere entrato dal balcone o dalle finestre, anche se non le sembrava di averne mai visto uno arrampicarsi. Agguantò dalla credenza un grosso coltello da pane a doppia punta, una specie di arma da samurai che Sara aveva comprato in una televendita dopo aver visto un cuoco dai nudi pettorali scolpiti segare la marmitta di un motorino con quel coltello. Avanzò verso il salotto mentre l’amica, dietro di lei, la seguiva silenziosa e armata di una grossa padella per fare le bistecche grigliate. Entrarono una alla volta, coprendosi le spalle a vicenda come avevano visto fare nelle serie tv sui poliziotti. La sala era vuota, nessuno dietro al divano, nessuno accanto al mobiletto ancora pieno delle tazzine e ninnoli in cristallo di sua nonna, nessuno vicino alla grande porta a vetri, ma l’ingresso per il balcone era aperto. Piano piano, come un ninja, Sofia si avvicinò alla porta e ne uscì con un balzo felino. Fuori non c’era assolutamente nulla, a eccezione di una pianta di rosmarino morta e annerita. C’era qualcosa d’altro però, a guardar bene: accanto al grosso vaso si trovavano una tazzina piena d’acqua e un piattino da dolce con dei rimasugli di cibo. «Sara, ma che cazzo! Hai dato ancora da mangiare a Polly!» Da quando quel gatto era andato a vivere nell’appartamento accanto, circa tre mesi prima, la sua coinquilina lo aveva mentalmente


11 adottato. Sara la guardò con aria colpevole e un sorrisino da schiaffi. «Ma miagolava poverino, era fuori dalla finestra e mi miagolava. Mi chiamava!» «Quante volte ti devo dire di non dargli un cazzo? Polly ha già un padrone, è un gattaccio obeso e per nulla denutrito, ma se continui a dargli da mangiare prima o poi entrerà in casa. Lo sai che sono allergica in modo pazzesco!» «Ma Sofi, quando miagola è così dolce e poi ha un musino…» «Ma cosa hai nel cervello? Purè? Nessuna meraviglia che nessuno ti abbia divorata! Lo sai che sono allergica! Cazzo, lo sai! Lo sai che avere bisogno di un medico di questi tempi è una sfiga! Se continui a dargli da mangiare lui entrerà. Non voglio gatti in casa! Ti ho chiesto solo questo… anche tu non dovresti volerli, credo che i gatti mangino le oche!» «Sofi, mi dispiace tanto.» Il bel viso lentigginoso di Sara assunse un’aria veramente triste e Sofia si sentì nuovamente una maledetta stronza. Non avrebbe dovuto essere sgarbata con l’amica, dopotutto era lei che si occupava praticamente di ogni cosa che comportasse spese di denaro, dal supermercato alle bollette. Certo anche a Sara faceva comodo non avere un affitto da pagare, ma Sofia sospettava che se avesse voluto avrebbe potuto trovare sistemazioni anche più vantaggiose di quella che lei le offriva o almeno un posto dove nessuno la trattasse sgarbatamente. «Ok Saretta, scusami! Mi dispiace, ma tu non dare più nulla da mangiare a Polly, ok?» Fortunatamente quella bestiaccia non era entrata in casa, altrimenti avrebbe cominciato a soffrire di asma e raffreddore. Rientrata nel salotto, Sofia si lasciò cadere pesantemente sul divano appoggiandosi ai cuscini leopardati che Sara aveva appena comprato per, parole sue, “Svecchiare l’arredamento”. Fu questione di un secondo prima di sentire un verso lacerante, come una sirena che esplodesse nelle sue orecchie, e un’ombra nera invadere il suo campo visivo. Fu un attimo, una folgore, Sofia fece in tempo solo a vedere quell’unico bagliore giallo prima di chiudere gli occhi mentre la bestia affondava gli artigli nel suo cuoio cappelluto e nella sua faccia. Sentiva Sara urlare, sentiva le unghie artigliarle la pelle, sentiva la bestiaccia soffiare e ringhiare. “Fai che non prenda gli occhi, ti prego, fai che non prenda gli occhi” pensò disperatamente. Agitava le mani alla cieca sulla sua testa, cercando di intercettare l’animale, e si dimenava sul divano come un’invasata, poi, improvvisamente e con forza, un morbido colpo la investì in pieno volto facendola sobbalzare e, con un miagolio furioso, il gatto saltò via dal suo cranio. Aprì gli occhi, uno alla volta, temendo di scoprire di aver perso la vista o un bulbo oculare, invece ci vedeva ancora benissimo. Sara era in piedi davanti a lei brandendo il


12 cuscino leopardato con il quale aveva scacciato il suo aggressore, gli occhi sgranati dallo spavento. «Era sotto il cuscino», farfugliò, «il gatto era sotto il cuscino, ti sei seduta sopra di lui.» All’angolo della stanza Polly la guardava rabbioso e spaventato con il suo unico occhio giallo. «Maledetta bestiaccia!» Sofia scattò in piedi e cominciò a inseguire l’animale per l’appartamento finché, dopo averlo stretto in un angolo, con un gesto rapido si avventò sul felino sollevandolo dalla collottola. La bestia soffiando le graffiò e morse le mani, ma ormai che differenza poteva fare? Si diresse come un bufalo sul pianerottolo, seguita dall’amica, e cominciò a suonare il campanello della casa accanto finché la porta non si aprì. Al contrario di Sara, che aveva immediatamente cercato di fare amicizia prima di decidere che non ne valeva la pena, Sofia aveva visto il nuovo vicino solo un paio di volte nell’androne della scala, non si erano nemmeno salutati, ma ora gli lanciò addosso il gatto come fosse un’arma. L’animale si divincolò scomparendo nell’appartamento. «Il tuo gatto mi ha aggredita! Quel coso è l’anticristo! Non deve più entrare in casa mia! Alza il muretto del balcone, facci una grata, mettici un compensato, non m’importa. Non voglio più vedere questo maledetto gatto!» «Merda!» Il vicino la guardava come inebetito, il suo fiato puzzava di vino. «Merda», ripeté, «mi sa che sei allergica.» Gli occhi le lacrimavano, la faccia le formicolava e prudeva, se la toccò: era gonfia e molle. «Ti porto in ospedale.» Il vicino aprì la porta di casa facendo apparire un lungo corridoio dipinto per metà di blu e una rastrelliera con una giacca a vento, la prese e tirò fuori un paio di chiavi. «Sono mezzo ubriaco, ma penso di poterti portare all’ospedale.» «Non ci penso nemmeno!» Non si sarebbe fatta accompagnare in macchina da uno che non conosceva e pure ubriaco. «Ci andrò! Ma andrò da sola, in metropolitana, mi accompagnerà Sara!» «Sofi mi sa che è meglio se andiamo in macchina con lui e in fretta!» La faccia di Sara era spaventata come se avesse uno di quei maledetti corpi morti davanti agli occhi. Possibile che fosse messa così male? Si diresse verso casa con calma, non intendeva farsi vedere impaurita, e si guardò nello specchio all’ingresso. Sembrava veramente uno di quei cosi schifosi: gli occhi erano piccoli e rossi, il viso e gli zigomi erano gonfi e deformati, il collo era ornato da un doppio mento che era certa di non avere pochi minuti prima, la bocca era una specie di hot dog rosso che galleggiava in mezzo alla faccia gonfia e bianca come cagliata. Quando uscì di casa le gambe le tremavano e le ginocchia le cedevano. «Ho deciso che andremo in macchina» disse un secondo prima di farsi trascinare da Sara e dal vicino lungo le scale del palazzo.


13 La sala d’attesa, come al solito, era piena di gente, le luci al neon illuminavano facce livide e sguardi persi, c’era persino uno di quei cosi disgustosi che, seduto ordinatamente su una sedia accanto al calorifero, sbatteva in continuazione contro al muro la mano intrappolata nel serbatoio dell’acqua di una caffettiera. Era strano pensare a uno di loro che tentava di farsi un caffè. Intanto il doppio schermo appeso alle pareti diffondeva musica rilassante mentre un’avvenente infermiera dai seni enormi dava consigli pratici per evitare incidenti, cose tipo: se trovi liquidi di cui non sai la provenienza non berli, non utilizzare il ferro da stiro per lisciarti i capelli, non ingerire cibo se è ustionante, metti i prodotti velenosi lontani dai bambini, non fare jogging di notte sulla provinciale o non usare l’acido muriatico per toglierti lo smalto dalle unghie. La donna alla reception era gentile e materna, ma non si poteva certo dire che fosse molto sveglia, era terribilmente difficile farsi capire da lei e il vicino di casa, complice anche l’ubriacatura o forse il senso di colpa, le stava letteralmente sbraitando contro per convincerla che il suo era un caso urgente. «La guardi», urlava indicandola e portando la sua faccia tanto vicino al vetro della reception da farle sbattere la fronte e il naso, «le assicuro che di solito non ha questo genere di labbra, e nemmeno questi occhi!» «Ha fatto in passato interventi estetici? Capita che il silicone alla lunga faccia questi effetti» chiese la donna. «Mi prende per il culo?» urlò il vicino. «Questo è shock anafilattico!» «Signore, lei si deve calmare o chiamerò il reparto di psichiatria, l’avverto!» «Smettetela di urlare e datemi qualcosa! Si tratta di allergia, è solo allergia» cercò di dire Sofia, ma le sembrò di avere un’enorme bistecca a ostruirle la bocca. «E va bene!» la donna sospirò. «Facciamo un codice giallo e non se ne parla più» disse con aria di concessione. Pochi secondi dopo due infermieri la stavano spingendo su una lettiga, cercò di chiedere dove la stessero portando, ma la lingua era completamente indipendente dalla sua volontà e riuscì solo a sputacchiare saliva mentre la respirazione diventava sempre più difficile. Schiattare per colpa di un gatto. Non era giusto, era tutta colpa di Sara e di quel maledetto ubriacone. Improvvisamente un’infermiera bionda, dall’incredibile naso aquilino, entrò nel suo campo visivo. «Si sente bene?» Non aspettò risposta. «Presto! Qui serve cortisone.» In meno di un secondo si ritrovò con le gambe sollevate, la felpa aperta e una flebo nel braccio. Forse, dopotutto, non sarebbe morta proprio quella notte. «Stia tranquilla», la donna le si rivolse con un tono gentile, «vedrà che tra non molto starà meglio.» Detto questo se ne andò lasciandola sola nel


14 corridoio del pronto soccorso mentre intorno alla sua barella si agitava un enorme traffico di camici bianchi che le rivolgevano occhiate frettolose per constatare se fosse ancora viva. A un certo punto vide passare persino un corpo morto in vestaglia e pantofole che si trascinava per i corridoi lasciandosi dietro la solita puzza di putredine mentre, accanto a lei, un uomo seduto su una sedia aspettava tenendosi premuta al braccio una tovaglia con stampate delle margherite e delle coccinelle. Poco distante una ragazza giovanissima, con lunghi capelli mori e pesanti segni di mascara nero sotto gli occhi, si guardava nervosamente intorno. Chiuse gli occhi per quello che le parve poco più di un secondo, ma quando li riaprì l’uomo con la tovaglia non c’era più e la ragazzina con gli occhi da panda era in piedi e stava parlando con due uomini in camice che, con un tono di voce tanto alto da riempire il corridoio, le dicevano di chiamare il fidanzato oppure i genitori, che avrebbe dovuto fare dei test per vedere se non aveva malattie veneree e le consigliarono di andare da uno psicologo. Avevano un’aria supponente e arrogante e alla fine la ragazza se ne andò visibilmente prostrata mentre i due uomini le auguravano buona fortuna urlando alle sue spalle che avrebbero pregato per lei. Poi si avvicinarono a Sofia. «Bene, bene, bene. Come si sente?» le chiese quello più alto. «Un po’ meglio.» La sua voce era flebile, ma era di nuovo in grado di parlare. «Si sente bene? Allora è inutile che stia qui! Direi che possiamo dimetterla» disse quello più basso. «Non sarebbe meglio tenerla in osservazione fino a domani?» chiese il primo medico. «Potremmo farle un paio di esami! Lei sa cosa ha causato il suo malessere?» «Allergia», rispose, «allergia al gatto.» «Bene, bene, bene» continuò il secondo. «La paziente si sente meglio e sa cosa ha causato il malessere. Perché tenerla qui con l’ospedale completamente intasato e senza posti letto, dico io! Mandiamola a casa! Arrivederci signorina e stia più attenta ai felini.» I due medici se ne andarono lasciandola sola con una grassa infermiera chiamata per toglierle la flebo e riaccompagnarla all’uscita. Le tremavano le gambe, ma fu in grado di rivestirsi e camminare abbastanza bene. Accanto al portellone d’uscita ritrovò la ragazza che era stata mandata via dai due medici, stava parlando con la stessa donna dal naso affilato che le aveva somministrato il cortisone. Quando le fu vicina volle ringraziarla per l’aiuto prima che la pachidermica infermiera la spingesse oltre la porta, di nuovo nella sala d’aspetto.


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Nonostante il sole la giornata era gelida. Imbacuccata nella giacca di piumino stringeva le chiappe per il freddo che la panchina di marmo le trasmetteva attraverso i pantaloni troppo leggeri. Si era appena mangiata un cheeseburger da un euro e venti e ora non le restava che aspettare le tre, ma mancava ancora un’ora e faceva un gran freddo. Eppure, anche se aveva dormito malissimo la notte prima, non riusciva proprio a starsene a casa. Sara non c’era e lei si stava annoiando da morire, non aveva voglia né di leggere né di guardare la tv, non aveva nessuna voglia di mettersi a mandare curriculum vitae o rispondere ad assurdi annunci di lavoro o passare l’aspirapolvere. Era rimasta a letto fino a tardi, ma da quando si era alzata non aveva fatto altro che bighellonare per i corridoi di casa senza riuscire a fare nulla di utile. Alla fine aveva deciso di uscire con largo anticipo. Si tolse un guanto per riuscire a mangiare meglio le patatine fritte senza riempirle di peletti della lana e rimase a guardare gli operai che si affannavano nella piazzetta davanti a lei. I muratori erano giovani e stranieri, forse alcuni di loro erano belli, ma chi avrebbe potuto dirlo sotto a tutti quegli strati di lana macchiati dalla calce e dalla vernice? Stavano preparando un grosso basamento in cemento armato per un’altra statua, ormai ne erano spuntate almeno cinque in città e l’effige in bronzo dello scomparso benefattore nazionale cominciava a diventare persino più infestante delle statuette di gesso di Padre Pio. Erano ormai passati più di quattro anni dalla sua morte e nei primi tempi trascorsi dopo il grave lutto le giunte comunali avevano fatto a gara per chi avesse eretto la statua più grossa e più brutta. Milano non poteva certo essere da meno, in fin dei conti era la città che gli aveva dato i natali e ne aveva catalizzato l’ascesa! Quindi, dopo una miriade di statuette seminate per le vie cittadine, il comune aveva optato per una gigantesca effige che avrebbe per sempre ornato l’entrata principale del Castello Sforzesco. Eppure, quando iniziò la grande crisi il contributo dato dal grande statista nella lotta per la sopravvivenza dell’umanità non fu esattamente esaltante, ma chi era stato in grado di riconoscerlo durante il cordoglio e il dolore per la perdita di una guida nazionale? Quando i


16 primi arrivarono, divorando molti insegnanti, filosofi, ricercatori e rettori universitari, nessuno parlò mai di stato di calamità e lui men che meno visto che dopo il massacro di numerosi magistrati e giornalisti veicolò la pubblica opinione arrivando fino a far velatamente ipotizzare che l’epidemia fosse una sorta di divina volontà per liberare la nazione dagli inutili, dai facinorosi, dagli intriganti e dai cospiratori in genere. Ma quando la mattanza si estese a politici, avvocati ed economisti, o banalmente a chiunque avesse un Q.I. pari almeno a novanta, le cose presero tutta un’altra piega. Il governo chiese all’esercito di intervenire e venne avviata la nuova trattativa Stato-mafia per fornire ogni famiglia della penisola di un kalashnikov per uso difensivo e personale, tutto ciò senza grandi risultati se non far cominciare una lunga serie di rapine, stupri e saccheggi, i cui colpevoli, nel Tg della sera, erano ovviamente quei corpi putridi e affamati. Fu varato persino un “Progetto Arca”, per portare in salvo al largo dell’isola di Lampedusa le migliori menti tra economisti e politici, ma presto si scoprì che i corpi non solo galleggiavano, ma sapevano anche nuotare piuttosto bene, benché l’acqua accelerasse la disgregazione delle spoglie. Il leader nazionale cercò allora di proteggersi rifugiandosi in una villa bunker dove raccolse le più promettenti, e graziose, giovanette del paese e fu proprio lì, mentre era intento a diffondere sapere e conoscenza tra le giovani menti, che venne divorato da alcuni di loro entrati attraverso l’impianto di aereazione. Molti altri importanti politici si nascosero per settimane, alcuni per mesi, temendo un’analoga fine, ma ben presto la grande crisi terminò, i corpi cominciarono a vagare in cerca di cibo che non erano più in grado di trovare. Per qualche motivo ignoravano totalmente i superstiti e piano piano la vita ricominciò da dove era stata interrotta. Dalle televisioni eserciti di opinionisti tentavano di dare una spiegazione all’accaduto, per mesi non fu possibile fare zapping senza incontrare almeno una delle fedelissime della grande guida sciogliersi in fiumi di lacrime ricordando il benefattore e il suo grande impegno per salvare il paese, vennero trasmesse almeno venti puntate di approfondimento per capire se i corpi fossero tornati a causa degli alieni, delle radiazioni o del surriscaldamento terrestre mentre nei talkshow gli accoliti del leader ne piangevano la dipartita ricordandone la bontà, la generosità, l’onestà e raccogliendone il pesante onere di ricominciare a governare il paese senza la sua guida sicura e il suo rigore morale. E proprio quell’onestà e quel rigore volevano essere rappresentati, a imperitura memoria, nelle statue che si moltiplicavano nelle città e che lo ritraevano alto, bello, ancora giovane, mentre reggeva la costituzione nazionale tra le mani.


17 Quelle statue erano diventate una vera e propria infestazione: ogni giorno ne incontrava una, in umile vetroresina, accanto alla pensilina degli autobus, ora non mancava che quella enormità in bronzo proprio davanti all’entrata del castello. In realtà, dopo i primi mesi “caldi” del grande lutto, gli animi si erano molto calmati. I suoi fedelissimi seguaci si erano poco alla volta dispersi e avevano smesso di andare in tv a espandere fiumi di salatissime lacrime per il leader perduto. Solo alcuni, i più ottimisti, coltivavano in cuor loro la speranza che un giorno sarebbe tornato, forse un po’ putrido, ma sempre combattivo e indomito nel perseguire il bene del paese, tuttavia si poteva dire che, ormai, una figura considerata fondamentale per vent’anni fosse stata dimenticata e accantonata come erano stati accantonati a loro tempo gli yo-yo e i videoregistratori VHS, ma ormai molti dei progetti commemorativi, che erano stati deliberati a centinaia nel momento del maggior cordoglio, erano stati messi in cantiere e a quattro anni di distanza, con la tipica velocità con la quale si procedeva nel paese, ancora ne affioravano, a malapena degnati di uno sguardo dai passanti, mentre sempre di più ci si rivolgeva verso il cielo dove, da un aeroplano che sembrava non scalasse mai a terra per evidenti ragioni di sicurezza, la nuova guida del paese e la sua cerchia di giovani menti brillanti trasmettevano le direttive per la resistenza della nazione. Ogni giorno un comunicato stampa, un video trasmesso dai Tg, un hashtag o almeno un twitter riportavano le nuove grandi conquiste in materia di lavoro, economia, legalità e futuro. Sofia stava giusto cercando di rincuorarsi, considerata la sua triste situazione lavorativa, pensando alle ultime ottimistiche parole trasmesse dall’areoplano governativo. Ad aiutarla nel migliorare il suo umore c’erano anche i fondi delle patatine e i muscolosi operai nigeriani quando, improvvisamente, una zaffata di odore dolciastro e pesante la scosse. Un’ombra enorme si stagliò su di lei coprendole il sole, girandosi vide alle sue spalle una donna gigantesca, alta e grossa; il seno cascante strabordava dall’ampia scollatura di un vestitino di lycra fucsia che a malapena poteva contenere il ventre enorme e il sedere gigantesco; l’unico occhio delle sue orbite infossate era di un azzurro pallido e slavato. La donna agitava verso Sofia le mani verdognole e gonfie, ornate da artigli perfettamente laccati di rosso con dei disegni di fiorellini bianchi e rosa, unghie estremamente curate per un corpo morto, ma la sola idea che quella specie di balena decomposta potesse toccarla con le sue manacce putride la fece sobbalzare e in meno di un secondo fu ad almeno una decina di metri dalla panchina. Il donnone la seguiva con


18 lo sguardo dimenando le braccia e andando a sbattere contro la panca nel tentativo di scavalcarla. Non le piaceva per nulla che i corpi le riservassero simili attenzioni, di solito bighellonavano in giro senza mostrare di vedere o interagire con qualcuno in particolare, ma era la seconda volta in due giorni, se contava anche l’ausiliario del traffico in piscina, che uno di loro sembrava avere dell’interesse per lei. Non le era mai capitato, ma non era certo incoraggiante, che fossero diventati più di bocca buona? Abbandonò alle sue spalle la grassona e si inoltrò nel cortile del castello e da lì nel parco. Nonostante il freddo non mancavano mai sportivi che facevano jogging e che la superavano sui vialetti fra i pini. Raggiunse velocemente la struttura in vetro e cemento della biblioteca nel cuore del parco e aspettò che Massi arrivasse perché lei non aveva le chiavi per aprire nonostante le avesse chieste mille volte. Alle tre e mezza ancora non sembravano esserci segni di vita e stava per andarsene quando finalmente Massi si decise a emergere dai cespugli in fondo al vialetto con il suo pacco di riviste e quotidiani sotto il braccio. «Sei in ritardo!» gli disse. «Quei b-b-bastardi!» urlò l’uomo in elegante giacca blu e cravatta gialla. «Quei bastardi di m-m-merda!» «Massi, ma con chi ce l’hai oggi?» chiese. Massimiliano trovava sempre qualcuno contro cui scagliare la sua rabbia e frustrazione, in particolare andava totalmente fuori di melone per vecchi e zombi, di quei tempi i principali visitatori della biblioteca pubblica. «Con quei b-b-bastardi della metropolitana. Non mi facevano uscire perché non trovavo il biglietto. Perché a-a-a-adesso devi avere il biglietto per uscire.» «Guarda che è da un bel po’ che è così!» «Sì, ma io oggi non trovavo il m-m-mio biglietto. E loro non mi facevano uscire! Ho detto: a-a-ascolta per favore lavoro alla biblioteca, la prendo t-t-tutti i giorni la metropolitana, per oggi dai, fai l’amico! E quello sai cosa fa? Mi dice: No, se non hai il biglietto non ti f-f-f-faccio uscire. Il b-b-bastardo di merda! E io gli ho detto che la metro fa schifo e io la pago sempre per v-v-v-v-viaggiare in piedi e non mi siedo mai, e poi puzza. E sai cosa ho fatto? Sai cosa ho fatto? Ho dovuto comprare un biglietto nuovo! Per uscire!» disse battendosi il pugno un paio di volte sulla fronte coperta dai riccioli grigi. «Ma perché non fai l’abbonamento, scusa? Comunque, possiamo entrare? Così evitiamo di congelarci le chiappe!» Il caldo tropicale che li accolse all’interno della biblioteca fu piacevole anche se l’aria era secca e polverosa. Cominciò a sistemare le riviste e i giornali del giorno comprati da Massi prima di accendere il pc e dare un’occhiata all’opac per vedere se erano state fatte richieste di prestito on-line. Ovviamente nessuna richiesta. Massi intanto si sistemò nella sua posizione di


19 comando dietro alla scrivania, si tolse le scarpe e accese la radio a palla su un canale di heavy metal e rock music. «Li senti questi? La senti questa c-c-chitarra? Sono i Satan. Sono della New Wave of British Heavy Metal m-m-movement che c-c-c’era alla fine degli anni Settanta. E la chitarra è Steve Ramsey.» «Che fico!» rispose mentre sistemava secondo l’ordine Dewey un paio di libri che lei stessa aveva consultato la settimana prima; poi cominciò a girovagare tra gli scaffali delle riviste e delle guide turistiche per scegliere qualcosa da sfogliare. Le piaceva andare un paio di volte la settimana a fare la volontaria in biblioteca. Non aveva molto da fare e la compagnia di Massi spesso non era delle migliori, ma era un buon modo per impegnare il tempo di una disoccupata: poteva leggere tutto quello che voleva e le sembrava giusto dare il proprio contributo al mantenimento di un catalogo decente, ormai era lei a fare tutti gli acquisti e ordinazioni di libri che probabilmente nessuno avrebbe letto. Dal canto suo Massimiliano, unico e ultimo dipendente pubblico della biblioteca del quale non erano riusciti a liberarsi perché appartenente alle categorie protette, si limitava a malapena ad aprire e chiudere la biblioteca e a contattare il fornitore della macchinetta del caffè e snack. Sofia si lasciò sprofondare sulla poltroncina all’ingresso sfogliando distrattamente un catalogo dell’arte di Cattelan in Lombardia. La radio continuava a trasmettere urla atroci con sottofondo di organi da chiesa: «Questi sono i Carcass. Sono di l-lLiverpool come i Beatles. Nel 1993 pubblicano l’album Heartwork. Dopo, Michael Amott abbandona la b-b-band per tornare in Svezia.» «Che fico!» rispose lei senza ascoltare veramente e senza levare lo sguardo dal catalogo. Più tardi avrebbe fatto un giro su internet e avrebbe appuntato dei libri che la ispirassero per i prossimi acquisti, magari un catalogo di Cattelan che andasse oltre i suoi lavori in Lombardia poteva essere interessante. «Non ti ho ancora chiesto cosa hai c-c-combinato alla faccia.» «Ti sembra molto gonfia?» chiese sfiorandosi il viso con una mano. Massimiliano rise: «Sembri l’Alba p-p-Parietti con quella boccaccia! O l’Angelina Jolie.» «Sì, certo! La loro copia più brutta e più scema.» «Ma c-c-cosa hai combinato?» «Ho avuto un incontro di box con il gatto del vicino.» «F-f-felino bastardo!» «Puoi dirlo forte Massi!» «FELINO BASTARDO!» urlò Massimiliano. In quel momento un uomo alto e snello, sulla trentina, entrò dalla porta principale della biblioteca fino alla reception. Indossava una tutina da jogging aderentissima di tessuto tecnico bianco e blu e si fecce strada tra i divanetti continuando a saltellare da una gamba all’altra e facendo la corsa sul posto. «Ecco che


20 arriva un r-r-rompicoglioni e non vorrà nemmeno i libri» le bisbigliò Massi mentre il corridore si avvicinava. «Giorno!» disse sgarbatamente all’uomo, Massimiliano era sempre diffidente e riottoso verso gli sconosciuti. «Vuole sfogliare il giornale o è qui per un prestito?» si intromise Sofia. «Ci sono anche i dvd.» «Veramente sarei venuto per prendere un tè caldo, mi hanno detto che in biblioteca c’è la macchinetta delle bevande.» Che stupidaggine pensare che uno dei corridori che affollavano il parco venisse per qualcosa di diverso da un bicchiere di tè o un caffè. «Sa, è per gli zuccheri», continuò lui, «quando si corre al freddo serve il giusto apporto nutrizionale di zuccheri, liquidi e sali minerali perché la sudorazione, e io soffro di sudorazione sovrabbondante, porta via un sacco di oligoelementi.» «La macchinetta è dietro a quegli scaffali!» Sofia gli indicò l’angolo snack per troncare velocemente la lezioncina da nutrizionista e altre imbarazzanti confessioni fisiologiche. L’uomo andò nella direzione indicata, sempre saltellando, e si fermò solo quando la macchinetta sputò fuori il suo tè. Quel tipo con manie da salutista che rivelava candidamente a una sconosciuta di soffrire di sudorazione abbondante era molto probabilmente un cretino totale, rifletté Sofia, ma era anche un bel ragazzo dai capelli folti e le spalle larghe da granatiere, alto, slanciato e in tutina aderentissima. «Va meglio ora?» gli chiese con voce gentile. «Fuori fa un gran freddo per correre, si sieda un attimo sulle poltrone. Può sfogliare un giornale se vuole.» «Il freddo non è un problema», rispose lui, «blocca un po’ i miei problemi di iper-sudorazione e rinvigorisce il corpo tonificando la mente.» Detto questo, però, si sedette sulle poltroncine mentre sorseggiava il suo tè guardandosi intorno tra i libri e gli scaffali. Massimiliano, dalla sua scrivania, continuava a scrutarlo con aria truce. «L’uso della m-m-macchinetta del caffè sarebbe riservato agli u-u-utenti» sbottò. «Non farci caso», gli disse Sofia in un soffio, «è solo scorbutico.» Lo sconosciuto le sorrise, anche il suo volto era molto bello. «Vieni qui spesso a correre al parco?» «Questa è solo la seconda volta, prima andavo al parco Lambro, ma ultimamente preferisco venire qui. Il parco Lambro è talmente vicino alla tangenziale, non conosco il livello di polveri sottili di quell’area. E lei? Lavora qui?» «In biblioteca? Ogni tanto, settimanalmente. Do una mano come volontaria, potrei farti un prestito se vuoi, sei interessato a qualcosa?» «Non credo, no grazie. Quindi è una bibliotecaria!» disse lui sprofondandosi nella poltrona. «Solo volontaria» rispose lei. «Io faccio l’assicuratore. Ha un’assicurazione?» chiese facendole segno di sedersi vicino a lui. Sofia gli andò accanto. «Non ho nemmeno la macchina!»


21 Lui spostò il busto verso di lei fissandola diritta negli occhi con sguardo profondo: «Potrebbe fare una polizza vita!» disse facendosi ancora più vicino, il suo alito sapeva di tè e mentine. «Sa, di questi tempi… chi può mai sapere quando verrà divorato da un corpo mentre si beve il suo caffè al bar, la sua giacca potrebbe impigliarsi in una portiera e lei essere trascinata via urlante dal veicolo, la testa che sbatte a ogni asperità del terreno, oppure scivolare, cadere dalle scale e spezzarti il collo. Chissà quando arriverà? Faccia una polizza a vita! Può fare una mista o una tcm…» Improvvisamente il locale venne pervaso da un forte lezzo: macilento, gli occhi rivoltati nelle orbite, la bocca spaccata che lasciava intravedere denti anneriti e consunti, un vecchio corpo si fece strada tra gli scaffali. Era una loro conoscenza quasi quotidiana, molto spesso il vecchio zombi si presentava in biblioteca, lui e il suo enorme riporto di capelli bianchi fissati con un codino al lato destro della testa, la camicia a righe con un gigantesco colletto a punta anni Settanta. Dalla puzza che faceva poteva benissimo trattarsi di un cadavere di quarant’anni fa piuttosto che di un fanatico del vintage. Ogni volta il vecchiaccio si sedeva in un angolo della sala lettura, prendeva un giornale e cominciava a strapparlo masticandone le pagine. Poteva durare anche tutto il giorno e nel frattempo rendeva l’aria a dir poco insopportabile, quando non tralasciava di abbandonare pezzi di carne marcita qua e là tra i divanetti. «Ancora quel v-v-vecchio bastardo!» urlò Massi. «Se mi riempie di nuovo di vermi il tappeto g-g-giuro che lo rispedisco all’inferno.» L’affascinate idiota distolse lo sguardo dagli occhi di Sofia e lanciò un’occhiata intorno dilatando le narici come un cinghiale, la stanza era pervasa da un odore ben diverso da quello del suo alito alla menta. «Credo sia meglio che io mi rimetta a correre» disse alzandosi in piedi. «È stato un vero piacere signorina…» «Sofia» disse lei. «Sofia», ripeté lui, «signorina Sofia… o forse signora?» «No, no! Signora no!» rispose lei sentendo improvvisamente delle rughe spuntare sotto ai suoi occhi. «Signorina Sofia, allora! Beh, è stato un piacere. Spero di rivederla presto e mi raccomando, pensi a quello che le ho detto! Pensi al futuro, pensi a una polizza!» E detto questo riprese la sua rapida corsetta sparendo oltre la porta a vetri. «A mai più r-r-rivederci r-r-rrompicoglioni! O no? Vero Sofia?» sbraitò Massimiliano mentre cercava di convogliare verso l’uscita il vecchio corpo armato di scopa di saggina. L’idea di assistere a un combattimento all’ultimo sangue tra Massimiliano armato di scopa e quel corpo putrido la fece risprofondare nella depressione. «Massi non sto ancora tanto bene dopo la notte scorsa


22 e questo odore mi fa vomitare. Ho sbagliato a venire, credo che me ne andrò a casa.» Passò buona parte del pomeriggio gironzolando senza meta tra i negozi del centro, tutto sommato ormai era arrivata fino a lì! Diede un’occhiata ad alcune vetrine di vestiti costosi quanto un rene nuovo, si fermò ad ascoltare un paio di cd in cuffia al negozio di musica e si spruzzò una cisterna del nuovo profumo per donna “Ressusciter” dal tester in profumeria, ma non aveva nulla da fare e nessuno da incontrare. In compenso quando prese la metro per rincasare erano quasi le cinque e pensò che, quando fosse arrivata a casa, forse avrebbe trovato Sara di ritorno dal lavoro. Ne fu molto felice perché non aveva voglia di stare a casa da sola. Appena superato il portone del suo palazzo venne chiamata da un leggero bisbiglio proveniente dalla porta in fondo al corridoio del piano terra. La porta era aperta leggermente e da quella minuscola apertura due occhi la stavano guardando da oltre le lenti dalla montatura leggera in metallo. «Signorina Clerici», la chiamò il sussurro, «signorina Clerici!» Santo Dio, pensò, ci mancava solo quello scassa palle dell’ingegner Beretta. «Buongiorno ingegnere, mi dica» rispose nel tono più cortese possibile in direzione della porta chiusa. «Vorrei sapere se si è ricordata dei libri che le avevo chiesto. Si ricorda dei miei libri? Le avevo chiesto L’opera architettonica tra Vitruvio e Boris Iofan e Il materialismo storico nell’architettura cinese, se lo ricorda?» continuò la voce in tono sempre più petulante. «Sa bene che per me è impossibile uscire di casa, per me è pericolosissimo uscire! Altrimenti sarei andato io stesso in biblioteca!» Dio Santissimo che piaga umana, pensò Sofia, dopo tutti quei mesi quello scemo ancora non aveva accettato che nessuno lo avrebbe divorato, non più di quanto avrebbero divorato la subrette maggiorata che, tutta nuda, dava il meteo dopo il Tg regionale con delle nuvolette a coprirle il seno e un sole a nasconderle il pube. «Oggi non sono andata in biblioteca», mentì, «mi dispiace ma non mi sono sentita bene e sono uscita solo per andare in farmacia.» «Capisco», rispose la voce dietro alla porta, «magari la prossima settimana, vero? Non sa che consolazione potermi distrarre con delle buone letture mentre vivo questa sorta di strana prigionia. Non sa quanto è difficile vivere relegati.» «E allora esci pezzo di cretino!» borbottò sommessamente tra sé, avrebbe voluto dirglielo apertamente, invece gli rispose con cortesia: «Ma certo ingegnere! La prossima settimana le porterò tutto quello che vuole, a me non costa nulla farlo!» La porta si aprì di qualche centimetro e l’uomo le fece un sorriso che per un attimo parve rianimare la sua faccia grigia e smorta. «La ringrazio tanto! Lei è veramente molto


23 gentile!» e detto questo chiuse la pesante blindata. Sofia salì a due a due le scale fino al quarto piano dove viveva e lì le sue speranze di trovare Sara vennero subito deluse: arrivata alla porta la trovò ancora chiusa con doppia mandata, nessuno era rincasato. In compenso il rumore della serratura che scattava fece uscire il vicino di pianerottolo dalla sua tana. Due agguati in una sola giornata erano un attentato alla sua pazienza, ci mancava solo quell’etilista amico dei felini. «Come ti senti oggi?» le chiese senza preamboli. I suoi occhi erano lucidi e arrossati e dalla porta aperta del suo appartamento fuoriusciva un pesante odore di marjuana. Sofia avrebbe voluto chiedergli dove se la procurasse, ma non osò e non volle perdere il suo vantaggio su di lui con simili richieste confidenziali. «Molto bene! Nonostante il tentativo il tuo mostro monocolo non è riuscito a uccidermi.» «Guarda che Polly è un gatto molto mansueto!» «Certo! Mansueto come un velociraptor! Senti per me puoi anche allevare cuccioli di caimano, ma non voglio esserne coinvolta! Mi basta che lo tieni lontano dalla mia casa! Altrimenti metto di mezzo l’amministratore. Sono abbastanza convinta che il regolamento condominiale vieti la presenza di animali.» «Posso rialzare il divisorio tra i nostri balconi con una rete o mettere un pannello. Lo farò in questi giorni, ma ho visto che date da mangiare al gatto. Continuerà a venire qualsiasi cosa faccia se si è abituato ad avere cibo da voi. Cosa pretendi? È un animale, va dove gli conviene.» Hai fatto tombola ubriacone, pensò lei. «Non sono io a dare da mangiare al tuo gatto, ma la mia coinquilina, comunque ho già parlato con lei e non succederà più, quindi pensa a come dividere in modo definitivo i nostri balconi.» «Hai ancora la bocca molto gonfia, sai?» «Lo so!» rispose aprendo la porta di casa. «E so anche chi devo ringraziare!» e detto questo si chiuse l’uscio alle spalle sbattendolo in modo un poco teatrale. Quel tizio non le piaceva per nulla e non solo per la questione del gatto. Era sempre sporco, puzzava di sudore e vinaccio scadente e non le piaceva il modo in cui la guardava quando si trovavano sulle scale. Però sapere dove trovare dell’erba e fumarsi una canna non sarebbe stato male. La sua amica Gaia aveva gusti un po’ troppo pesanti in fatto di droghe e lei non si faceva una canna da quando il suo spacciatore di fiducia, un amico che faceva la facoltà di biologia, non era stato divorato da alcuni corpi che, dopo la bella cena, si erano presi anche la briga di liberare tutte le cavie del laboratorio universitario: più di centocinquanta ratti con herpes ai testicoli. Di certo, però, non avrebbe mai chiesto nulla al vicino, ma forse avrebbe potuto farlo Sara. Perché no? Si sdraiò sul divano e accese la tv


24 chiedendosi se l’amica sarebbe andata a chiedere dell’erba di sua spontanea iniziativa dopo aver saputo che il vicino ne faceva uso. «Ciao! Sono a casa!» ululò Sara dal corridoio mentre Sofia si svegliava di soprassalto. La tv era ancora accesa, ma, escluso il riverbero azzurrognolo del monitor, la stanza era buia, non aveva idea di che ore fossero. «Stai bene?» le chiese Sara. «Hai la bocca ancora molto gonfia.» «Sì, sto bene. Sono anche andata in biblioteca oggi, non sono a casa da molto, ma devo essermi addormentata. Che ore sono? Sei appena tornata?» «Sì», rispose l’altra, «dopo il lavoro ho fatto un aperitivo con una collega, sono tornata a cambiarmi prima di uscire con ciccetto mio.» «Vuoi mangiare qualcosa?» «No, ho già fatto l’aperitivo, sai che i martini sono molto calorici?» «Ho visto il vicino, dice che metterà un divisorio sul balcone per il gatto. Dice anche di non dargli più nulla da mangiare o continuerà a venire qui.» «Sofia mi dispiace così tanto per questa storia del gatto! Avevi proprio ragione tu! Guarda ti ho preso un regalino.» Sara cominciò a frugare nella borsa finché non ne tirò fuori un portachiavi di plastica a forma di gattino tigrato. «Guarda», disse, «ha un pulsante sotto la coda. Lo vedi? E se lo schiacci…» premette il tasto e il gattino emise un ruggito metallico mentre i suoi occhi irradiavano una forte luce blu piuttosto inquietante. «L’ho comprato da un Senegalese in metropolitana. Non è carino? Ti prometto che sarà l’unico gatto in casa. Domani vado a regalare al vicino i croccantini che avevo comprato per quando Polly mi veniva a trovare così non cadrò in tentazione quando vedrò quel bel musino nero.» «Perché non porti al vicino anche un po’ di erba gatta? Credo che il padrone apprezzerebbe molto più del gatto! Specie se è arrotolata in una cartina» le disse Sofia. «Dovrei andare a comprarla al negozio di animali, ma potrebbe essere un buon modo per far vedere che non siamo arrabbiate con Polly» rispose l’amica. Dimenticava sempre che con Sara era praticamente impossibile parlare per metafore. «Intendevo dire che il vicino si fa di canne dalla sera alla mattina. Oggi l’ho visto sul pianerottolo con gli occhi tutti rossi e una puzza di erba addosso che avrebbe fatto svenire un cane antidroga.» «Ma veramente? Che forte! Magari ce ne vende un pochino!» «Se la vuoi parlaci tu con quel cavernicolo! Io meno lo vedo meglio sto!» rispose soddisfatta, pilotare Sara era fin troppo facile. «Sofi, ma per caso vuoi uscire anche tu con noi questa sera? Andiamo in un posticino carino sui Navigli.» «Dovrei venire a fare da candelabro? Io, te e ciccetto tuo?» «Ma no! Non saremmo solo in tre! Ci sono anche altri amici e qualcuno del calcetto. Alcuni dei ragazzi che giocano con Robi sono molto carini, anzi credo che almeno un paio potrebbero piacerti. C’è un tipo di nome


25 Ivan che è un gran figaccione e anche simpatico. Solo se hai voglia di divertirti senza menate però! Marta c’è stata e lo chiama animale da letto, Marta a volte è una vera porca.» «Non so se ho tanta voglia di mangiare nel piatto dove ha mangiato Marta. Sai quella vecchia storiella delle piattole…» «Ma Sofi! Marta non aveva affatto le piattole! È una storia vecchia, almeno di due estati fa, e l’avevi messa in giro tu! Non erano piattole, ma eritema da sabbia! Se l’era preso anche ciccetto mio l’eritema da sabbia!» «Ma c’è anche Marta questa sera?» Sofia la trovava veramente insopportabile: una stronzetta figlia di papà che andava in giro raccontando a tutti la storiella di lei che viveva e si manteneva grazie al suo lavoro di fotografa per siti web. Come aggravante, inoltre, non faceva che ripetere quanto fosse stanca e quanto lavoro avesse e quanto fosse figo il suo lavoro. Per qualche oscura ragione tutti quanti sembravano troppo idioti per capire che la stronzetta lavorava, più o meno, due o tre ore alla settimana e che tutti i conticini della piccina venivano prontamente saldati dal papino. La odiava in modo viscerale. «No, Marta non ci sarà. Da quando ha un nuovo ragazzo si fa vedere molto poco.» «Comunque non saprei, sai che non ho molti soldi da spendere.» «Dai Sofi! Non puoi sempre fare la mummia! E poi è venerdì sera! Cinque o sei euro per una birra… Non esci mai, mai, mai con noi!» «È che cerco di risparmiare il più possibile…» «Ma per una volta puoi anche lasciarti un po’ andare! Dai, ci divertiamo! Questa è tutta gente che non conosci. Gli amici di ciccetto mio sono così simpatici.» «Ho un aspetto orribile con questa boccaccia tutta gonfia!» «A questo non devi pensare, ghe pensi mi!» rispose Sara mettendosi a frugare nella borsetta. In meno di un secondo ne tirò fuori una grossa busta di plastica semitrasparente rosa piena di cosmetici. «Tira in avanti la bocca, come per dare un bacio» disse brandendo tra le mani un rossetto color albicocca. «Sei sicura di quello che fai? Io eviterei…» «Tranquilla Sofi, una volta che avrò finito la tua bocca sembrerà più bella di prima. Sono un’esperta! Lo sai bene che mi vedo sempre tutti i tutorial di youtube sul make up. Ne ho appena visto uno incredibile! Una ragazza rifaceva il trucco a un corpo morto con un fondotinta pazzesco, nascondeva tutte le imperfezioni: punti neri, pori dilatati, prime rughe e putredine. Alla fine il corpo avrebbe potuto iscriversi a un concorso di bellezza e non sfigurare per niente! Senti un po’ cosa facciamo… prima stendo un velo di rossetto color pesca, rifinisco i bordi della bocca con il correttore color cacchetta per restringere le labbra, dopo faccio i contorni con una matita color prugna, una mano di rossetto rosa chiaro, una


26 spolverata di cipria per fissare, un velo di lucidalabbra trasparente virante al fucsia e tutto è risolto!» «Non converrà metterci anche un po’ di vernice e di calcestruzzo?» «Zitta o mi rovini tutto» le rispose l’amica mentre lavorava di correttore con la massima concentrazione, la lingua che faceva capolino tra due file di denti in una smorfia che testimoniava il suo grande impegno. Nonostante temesse terribilmente il risultato finale Sofia si rilassò: fin da bambina le piaceva farsi truccare o pettinare dalle amichette, era un po’ come essere accarezzate e coccolate, così non si ribellò nemmeno quando Sara le disse che le avrebbe fatto un trucco smoke per gli occhi con un ombretto color tropical sex on the beach. «Ecco fatto!» esclamò. «Ora, se vuoi, posso farti anche una manicure water marble. Ho comprato proprio ieri uno smalto nuovo color petrolio.» «No grazie Saretta! Sono a posto così» rispose dirigendosi in bagno per guardare il risultato. Lo specchio le mostrò la sua faccia di sempre, ma ora aveva un sano colorito abbronzato, guance rosee come solo nella prima giovinezza se ne hanno, sguardo da miciona sexy un po’ volgarotta e la bocca di un’attrice porno dopo lo straripamento del silicone. La tumefazione non era per nulla scomparsa, semplicemente era di color rosa acceso. «Non mi pare che il gonfiore sia stato mimetizzato, anzi forse si vede persino di più!» «Ma è proprio questo il bello Sofi! Non puoi nasconderlo, allora fallo sembrare una cosa volontaria.» «Non sembro una puttana? Secondo me sembro una puttana.» «Ma cosa stai dicendo? Quanto sei retrò! Non sembri affatto una puttana, sei sofisticata! Ormai tutte si truccano così, prova a sfogliare le riviste.» «Ma le donne sulle riviste sono persone che si truccano in questo modo per andare a sfilare su un red carpet o per andare a un casting porno o per andare a dichiarare in un talk show di non aver mai partecipato a delle riprese porno.» «Non dire stupidaggini! Stai benissimo, sei bellissima, e con tutto il mio sforzo per farti diventare così bella non vorrai mica stare a casa, vero? Non te lo permetto. Questa sera esci con noi!» L’aria al di fuori del locale era irrespirabile a causa delle esalazioni dei corpi che galleggiavano rigonfi nell’acqua del naviglio, ma all’interno del locale un erogatore diffondeva un profumo leggero di spezie e agrumi sopra alle teste delle persone sedute tra i tavolini. Il posto era carino, ma era anche costoso, pensò Sofia: una birra costava ben sette euro, possibile che Sara e la sua gang dovessero sempre frequentare quei maledetti localini da finta upper class? Come se non bastasse l’amica l’aveva fatta sedere vicino a Ivan, il così detto “bestia da letto”, “gran figone” e “simpaticone”. Sofia non aveva termini per definire la veridicità del primo appellativo, ma di certo non le sembrava che la


27 conversazione di quel tizio potesse farlo definire “un simpaticone” e, per quanto fosse innegabilmente un bel ragazzo, più che “un figone” lo avrebbe definito “un fighino”: capelli castani folti, bei lineamenti del volto, occhi verdi con ciglia arcuate come quelle di una donna, spalle larghe e fisico snello. Tutto questo condensato in un’altezza di un metro e sessanta scarso. Se fosse stato un’auto sarebbe stato una Smart. Si dava un gran daffare per cercare di farle vedere quanto fosse arguto, snocciolava successi ottenuti sul lavoro e aveva già detto almeno quattro volte che aveva fatto la Bocconi. Probabilmente Sara non aveva mancato di dirgli che l’amica che avrebbe portato era una single disperata bisognosa di attenzioni virili. Forse il nano da giardino si sentiva persino in dovere di essere galante con lei. Oltre al pocket man, intorno al tavolo si trovavano Sara, ciccetto suo, un paio di amici di ciccetto che giocavano a calcetto con lui e una coppia taciturna e imbronciata. I fidanzatini erano più giovani rispetto a tutti loro, ventitré o ventiquattro anni a occhio e croce, ma sembravano già piagati dalla noia di cinquant’anni di vita insieme, forse avevano litigato prima di arrivare al pub. Sara la presentò a tutti, come al solito fu un piacere dover raccontare a un branco di estranei che non aveva un lavoro, che si era laureata in scienze inutili e che divideva con Sara l’appartamento della nonna deceduta. «In realtà Sofia si dà un gran daffare» disse Sara. «Fa la volontaria in biblioteca e aiuta dei piccoli, poveri, bambini stranieri a imparare la lingua italiana.» «Che cosa carina!» cinguettò la ragazza giovane con una vocina sottile che mal si accostava alla sua faccia imbronciata. «Deve essere bellissimo lavorare con i bambini, io li amo proprio i bambini!» Ma dalla sua espressione non si sarebbe detto che potesse nutrire il benché minimo affetto per qualsiasi cosa che non fosse una boccetta di Prozac. «Sì, è carino» rispose Sofia restando sulle sue. Preferiva evitare quel discorso: la gente pensava sempre che stare con i bambini fosse qualcosa di meraviglioso e appagante, mentre pochi sapevano, in realtà, che frustrazione poteva essere dover passare tre ore filate accanto a un marmocchio che, per quanto tu dicessi e facessi, aveva come unica occupazione quella di continuare a riaspirare il moccio nel naso. Presto, l’imbarazzante sequenza di domande che la gente si sente in dovere di rivolgere a uno sconosciuto appena presentato finì e la conversazione si spostò sulle ultime puntate del talent show “Like a crow”, Sara ne era appassionata ed era convita che il vincitore della sfida finale sarebbe stato un giovane cantante che si era presentato allo show per realizzare la promessa fatta alla madre in punto di morte. Quando


28 finalmente i drink e gli stuzzichini vennero portati al tavolo Sofia fu la prima ad avventarsi come un condor sulle patatine con salsa messicana mangiandosi anche la parte di Sara che ovviamente non toccò nulla perché la salsa al formaggio era troppo calorica. Le patatine piccanti le misero una sete terribile, ma visto che la birra aveva lo stesso valore del platino la sorseggiò centellinandola e, arrivata a metà boccale, decise che sarebbe uscita a fumarsi una sigaretta. Non era facile affrontare il tanfo dei navigli, per questo all’uscita del pub una ragazza sorridente offriva a chi se ne andava una scatoletta di tappi per il naso sulla quale era stampato il logo del locale. Sofia li rifiutò, aveva in borsa una confezione di crema al mentolo da spalmarsi sotto le narici proprio in situazioni come quella e, dopo essersi cosparsa il naso di pomata, si sedette a fumare su una panchina di fronte all’entrata del bar, il cappuccio sollevato per proteggersi dalla pioggerellina leggerissima che riempiva l’aria. Da lì poteva guardare i corpi che galleggiavano placidamente nel canale come grossi fiori appassiti. Stava osservando un enorme ratto sguazzare con l’eleganza di un cigno tra i cadaveri putridi quando “Pocketman” la raggiunse. «Hai da accendere?» le chiese tenendo tra le labbra una sigaretta. Si sedette vicino a lei. «Non ti fa impressione rimanere qui a guardare i morti?» le chiese. «Ormai ci siamo tutti abituati, no?» «Hai ragione, immagino di sì. Un collega dice che presto dovremo cominciare a svolgere le nostre indagini di marketing inserendo anche i corpi morti nei gruppi di ricerca.» «Mi sembra una cosa ridicola!» Come si poteva fare della ricerca di mercato su dei morti? «La speranza è che anche loro abbiano un loro settore di consumo. All’economia gioverebbe se si riuscisse a capire come inserirli nelle dinamiche del mercato.» «L’unica cosa che quelli consumano è il cervello, non credo abbiano altri interessi.» «Tu dici? Ne sei proprio sicura? Eppure anche loro sono continuamente bombardati da messaggi commerciali e non mi stupirebbe se presto cominciassero a essere sensibili a certe dinamiche economiche.» «Tu parli a vanvera!» rispose. «Di cosa stai parlando? Sono morti! Tutti morti! I morti non consumano, non desiderano, non comprano. I morti hanno almeno la fortuna di essere usciti per sempre da tutto questo. Fine delle ricerche di marketing. Almeno post mortem dovreste lasciarci in pace cazzo.» «Ho detto qualche cosa che ti ha fatto arrabbiare?» le chiese stringendosi accanto a lei. «Ma no, figurati!» rispose Sofia con irritazione. Il problema non era ciò che diceva, ma quello che era: non gli erano mai piaciuti gli economisti bocconiani di quel tipo, tutta gente che dimenticava troppo spesso che l’economia non era altro che una filosofia applicata ai soldi.


29 «Non volevo farti arrabbiare!» continuò lui. «Sei così diversa dalle altre amiche di Sara, veramente non ti immaginavo così, quando mi ha detto che voleva presentarmi un’amica…» Quindi non si sbagliava, Sara l’aveva effettivamente messa in vetrina e si era pure adoperata per sistemare l’imballaggio. «Non immaginavo proprio di conoscere una come te.» «E cosa ti immaginavi? Una capra?» Tutti quei discorsi la mettevano in imbarazzo. «Sei spiritosa e sei anche bellissima.» «Bellissima?!» Rise, non si capacitava. «Credimi bello, ho avuto momenti migliori! Non sono esattamente al top, non so se mi spiego.» Essere definita bellissima mentre portava ancora sul viso i segni di uno shock anafilattico era quantomeno inaspettato. Lui le si avvicinò mettendole un braccio intorno alle spalle e guardandola con i suoi occhi verdi e lucidi. «Hai una bocca così bella! Non ne ho mai vista una più bella! Vorrei morderla e baciarla.» Quindi era questo? Tutto lì? Tutte quelle moine per una bocca da film porno? Le venne voglia di ridere. «Per quanto ogni giorno si sentano nei Tg notizie di gente divorata, il cannibalismo rimane un reato grave» gli disse tra il divertito e l’imbarazzato. «Allora mi limiterò a baciarla» rispose lui mentre si avvicinava velocemente al suo volto. Sofia si alzò in piedi mettendo le sue labbra fuori dalla porta di quel nanerottolo e dei suoi ormoni. Non poteva credere a quello che stava succedendo: tanta galanteria e complimenti così espliciti solo per quella boccaccia da rana gonfia di allergia. Buttò la sigaretta e rientrò nel locale senza dirgli niente, lui la seguì a pochi passi di distanza con la faccia da cane bastonato, ma appena furono di nuovo seduti al tavolo “Pocketman” le appoggiò una mano sul ginocchio accarezzandole lentamente la gamba. Sofia non riusciva a credere a quello che stava succedendo. Per più di mezz’ora ascoltò Sara e l’altra ragazza disquisire su quale fosse la migliore ricetta mandata in onda nel programma di cucina “Nudi e Crudi” dove degli aitanti giovani cuochi in perizoma e cappello da chef si sfidavano a colpi di forchettone e ricette per vincere l’ambito mattarello d’oro. Secondo Sara la ricetta migliore era quella del manzo in crosta, ma l’altra ragazza non era per nulla d’accordo. Nel frattempo quella specie di gremlins che le sedeva accanto le faceva scivolare dita leggere e veloci lungo la coscia dal ginocchio al cavallo dei suoi leggings e poi di nuovo giù al ginocchio. La cosa cominciava a metterla a disagio, forse gli altri se ne sarebbero accorti e in quel caso sarebbe stata una figura di merda col botto farsi palpeggiare in pubblico dal primo gnomo appena conosciuto. A un certo punto ebbe anche il dubbio che ciccetto avesse intuito


30 qualcosa, perché se ne stava zitto a guardarla dritta in faccia senza che nessuno dei due dicesse una parola, il volto perplesso e gli occhi puntati su di lei come due fanali. Roberto era un tipo piuttosto malizioso, probabilmente aveva capito tutto da un pezzo. «Vado un attimo in bagno» disse Sofia alzandosi. Passò strusciando tra il tavolo e la panca, costretta a passare proprio davanti al naso del nanerottolo, e si avviò verso il fondo del locale. Quando riaprì la porta del gabinetto, dopo aver fatto pipì, si ritrovò “Pocketman” accanto al lavandino del bagno delle donne, proprio di fronte alla porta dalla quale era appena uscita. «Ma che cazzo… un pedinamento al cesso?» Lui la prese per un gomito e la trattenne mentre stava per andarsene. «Sofia perché non la piantiamo di giocare?» «A cosa ti riferisci?» chiese lei per prendere tempo e organizzare una risposta. «Possiamo stare qui come due scemi e tu puoi tornare di là a farti palpare sotto a un tavolino in mezzo a un bar, perché sappi che io continuerò a palparti, oppure potremmo andare a casa mia, berci qualcosa, fumarci qualcosa, rilassarci e divertirci come due adulti che vogliono passare una bella serata insieme.» «Ma come ti permetti? Cosa sei? Un satiro? L’altezza del satiro di certo ce l’hai!» disse lei in tono volutamente stridulo che ben si accompagnava alla sua aria offesa. «Ma senti un po’ Santa Rosaria! Quella che si è fatta palpeggiare per trenta minuti sotto al tavolo di un bar!» Perfetto! Ci mancavano solo le recriminazioni e le speranze frustrate di un porco. La questione andava chiusa immediatamente. «Ok bello! Amici come prima e a mai più rivederci!» Tentò di andarsene, ma lui le strinse il braccio ancora di più. «Non facciamo bambinate! Mi piaci, tu ne hai voglia, quindi perché no? Andiamo da me. Sarà una bella serata, vedrai! Ci beviamo qualcosa insieme, ci facciamo una canna, quattro chiacchere e vediamo come evolve la serata. Senza impegni, quel che sarà, sarà.» Si sollevò sulle punte dei piedi e stringendola alle spalle la baciò sulle labbra. La sua bocca era morbida e tiepida. In fin dei conti perché no? Era da un sacco di tempo che non andava a letto con qualcuno, tanto che probabilmente “Pocketman” avrebbe trovato i fantasmini del suo amico Pacman, e poi quel tipo non era tanto male se non si faceva caso ai suoi modi da maniaco, all’altezza, ai suoi esecrabili studi in economia e al fatto che a spingerlo verso di lei erano state le sue enormi labbra tumefatte, il che lasciava presupporre una certa propensione a pratiche sessuali non esattamente in linea con i suoi gusti. Perlomeno era grazioso, pulito, sapeva farci con le mani e i suoi vestiti profumavano di bucato. E nemmeno le piaceva troppo, anche questo era un bene. «Hai delle birre a casa? E magari una cannetta?» gli chiese. «Tutto quello che vuoi, my


31 dearly!» Ritornarono al tavolo, ma si sedettero per pochi minuti prima che lei si alzasse di nuovo: «Scusate tutti», disse, «grazie per la serata, è stato carino, ma credo che andrò a casa. Ho un po’ di mal di testa e sono stanca.» «Ti accompagno io a casa» le disse prontamente il ciccetto di Sara. «Ma no Robi, non ti disturbare! Guarda, in un secondo sono a Porta Genova e da lì prendo il 12 notturno.» «Ti accompagno io, tanto stavo giusto per andarmene» disse “Pocketman” alzandosi in piedi e prendendo la sua giacca. «Sono anche io stanco e domani devo fare un sacco di cose! Non è un problema, tanto in macchina a quest’ora ci mettiamo cinque minuti.» Robi insistette: «Sofi, non farti problemi! Ti do io un passaggio, non mi disturba affatto.» «Ciccetto mio!» squittì Sara, «se Ivan deve andare via e dice che le dà un passaggio lui non c’è problema, no? Un conto diverso era se doveva tornare da sola, ma Ivan è un tipo proprio gentile. Vero Ivan?» «Certo!» rispose lui. «Allora buona notte a tutti! Ci sentiamo in questi giorni.» L’appartamento era un piccolo monolocale al piano terra di una palazzina in zona Ripamonti, un’unica stanza di proporzioni misere, probabilmente ricavata dalla portineria, ma era pulita e arredata piuttosto bene. Dopotutto le dimensioni e l’accuratezza erano perfettamente in linea con il proprietario. «Prego, accomodati» le disse indicandole un divanetto rosso sotto al soppalco con il letto. Sofia si sedette. «Cosa vuoi? Birra? Vino? Un cuba? Una grappa? Ho tutto!» «La birra va bene» rispose. “Pocketman” le si sedette a fianco con due bicchieri tra le mani. Sofia sorseggiò la sua birra cercando di ignorare gli sguardi languidi che la mettevano in tremendo imbarazzo. «E così ti occupi di marketing, giusto?» «Sì, di ricerca marketing.» «Cosa produce la tua ditta?» «Ma, in realtà non produce nulla, diciamo che dà maggiore mercato a prodotti di terzi.» «In partica non fate nulla se non rietichettare roba fatta in Cina.» «Non è proprio così, sei un po’ riduttiva. Anche se in sintesi…» Le mise un braccio intorno alle spalle e le appoggiò una mano sul ginocchio, a Sofia venne una fitta di ansia, cosa cazzo le era venuto in mente di andare in quella cazzo di casa? Si alzò in piedi mettendosi fuori dalla portata delle mani di “Pocketman” e cominciò a gironzolare per l’unica stanza. Alla parete di ingresso erano appese quattro fotografie che ritraevano il padrone di casa in una foresta pluviale. «Ma questo sei tu? Dove ti trovavi?» «Sono le foto di un viaggio in Brasile.» «Figo! Quando ci sei andato?» chiese lei incuriosita, pensando che avrebbe persino potuto rivalutarlo un pochino. «Tre o quattro anni fa, prima della grande crisi insomma.» Lui la raggiunse. «Qui sono sulla Costa Verde», le disse


32 indicandole una fotografia, «qui sono in Amazzonia», continuò appoggiandosi al suo corpo, «qui invece sono a Maranhão», le mise una mano sul ventre, «e infine eccomi a Bonito» concluse facendole scivolare la mano sotto all’ombelico. A quel tocco Sofia si senti drizzare i peletti sul coppino. «Credo di dover andare in bagno!» gli disse e sgattaiolò fuori dalla stanza attraverso l’unica porticina, accanto all’angolo cottura, che, per fortuna, si rivelò essere del bagno e non dello sgabuzzino. Si sedette sul coperchio della tazza e cercò di darsi una calmata, in fondo nessuno l’aveva costretta ad accettare quell’invito, era venuta di sua spontanea iniziativa perché voleva farlo, o no? Guardò fuori dalla finestra accanto al water, da lì poteva vedere il piccolo giardino della palazzina e, più oltre, viale Ripamonti. Avrebbe potuto salutare il nanerottolo e andarsene, dopotutto chi poteva impedirle di tornarsene a casa? Bye bye baby, è stato bello finché è durato… ma era veramente quello che voleva? In fondo quando lui le aveva proposto di andare a casa sua non le era sembrata affatto un’idea malvagia, forse era solo da troppo tempo che non si trovava in una situazione simile, perciò si sentiva tanto nervosa. Era trascorso un bel po’ dall’ultimo ragazzo che aveva frequentato: era stato durante un momento nel quale si sentiva particolarmente insicura e bisognosa di attenzioni, ma si era rivelato un vero disastro… dopo poche settimane era evidente che di quel tipo odiava tutto: il modo in cui la guardava, le sue battute sceme, la maniera in cui mangiava, tutte le situazioni nelle quali riusciva a farla imbarazzare. Un vero stillicidio della pazienza concluso dopo quattro mesi di corna… che si era inventata di sana pianta per riuscire a farsi mollare. Era passato un sacco di tempo, un po’ di sano sesso senza domani poteva solo farle bene! «Tutto ok lì dentro?» chiese una voce oltre la porta chiusa. «Sì, tutto a posto.» Si alzò, decisa a uscire e a lasciarsi andare. Prima di tornare nel salottino si diede una furtiva occhiata allo specchio, il trucco che le aveva fatto Sara si stava rovinando trasformandola in una specie di mascherone del carnevale di Rio, cosa poteva mai pretendere da quel povero nanerottolo? Lei sembrava davvero un puttanone. «Vuoi mangiare qualcosa Sofia? Hai fame?» chiese lui quando tornò a sedersi sul divano. «Magari dopo… quella canna di cui parlavamo?» Un po’ di fumo non poteva che aiutarla a rilassarsi. «Ma certo!» “Pocketman” agguantò un astuccio a forma di autobus londinese dal tavolino e ne tirò fuori un sacchetto con un paio di pezzi di hascisc marrone scuro. Lo scaldò, lo sbriciolò, lo preparò in una cartina e infine le porse la canna perché l’accendesse. A Sofia non era mai particolarmente piaciuto l’hascisc perché le dava sempre mal di


33 testa, preferiva di gran lunga la marjuana, ma aspirò avidamente fumo nei polmoni e cercò disperatamente di tranquillizzarsi mentre se ne stava seduta sul divano del nanerottolo, lui la fissava con i suoi occhioni verdi che sembravano incenerirla. Senza rendersene conto si era già fumata mezza canna, così la passò a lui che, dopo un paio di brevi tiri, la appoggiò accesa sul posacenere in mezzo al tavolino. Le si fece più vicino, tanto che Sofia percepì il peso del suo corpo contro di lei, una mano le sistemò in modo gentile i capelli dietro alle orecchie mentre l’altra risaliva velocemente le sue gambe. «Sei così bella!» le mormorò prima di baciarla di nuovo, le dita che raggiungevano la sua cintola e si fermavano a giocherellare con l’elastico dei leggins. Le sue labbra erano morbide, le mani calde, forse se avesse chiuso gli occhi avrebbe anche potuto lasciarsi scivolare tra quelle carezze, ma raramente Sofia chiudeva gli occhi. Mentre la baciava le parve di vedere solo il suo naso, ora le sembrava assurdamente troppo grosso per quella faccia minuta, i punti neri tra le narici, un paio di brufolini sottopelle all’attaccatura delle sopracciglia, e le gambette assurdamente corte distese sul divano. Lui probabilmente la sentì irrigidirsi perché aumentò il proprio impegno nel baciarle il volto e il collo mentre le infilava una mano nei pantaloni per accarezzarla. «Aspetta un attimo!» boccheggiò. Lui non mostrò di averla sentita, si distese sopra di lei e continuò a baciarle il collo con un leggero ansito. «Fermati!» continuò in tono più deciso. Lui avvicinò la bocca al suo orecchio. «Per favore» sussurrò prima di baciarle il lobo. Le prese il panico, in un attimo ripiegò le ginocchia sotto al bacino di lui e spinse con tutta la forza che aveva, il corpo sopra di lei fu come sbalzato via da una molla e finì ruzzoloni giù dal divano. Come aveva potuto avere tanta paura? Era uno scricciolo che non le arrivava al mento e a malapena raggiungeva il suo peso. Il volto di “Pocketman” affiorò oltre i braccioli del divano, i begli occhi verdi erano diventati due spilli mentre il volto arrossato era un unico grumo di rabbia e frustrazione, sembrava un gatto che si mettesse a soffiare inarcando la schiena e gonfiando il pelo. «Perché lo hai fatto?» esplose lui. «Ti ho detto di fermarti per due volte, la terza volta ho agito!» rispose lei alzandosi in piedi con aria volutamente sicura e spavalda. «E perché avrei dovuto fermarmi?» «Forse perché te l’ho chiesto?» «Non capisco, pensavo che anche tu lo volessi.» «Lo pensavo anche io, ma evidentemente mi ero sbagliata.» Cercò di rivolgersi a lui con un tono più dolce: «Mi dispiace tanto, sai? Non è mica colpa tua, è colpa mia!» Decise che gli avrebbe indorato la pillola. «Sai, credevo di essere pronta a voltare pagina, ma non è così.


34 Qualche mese fa sono stata lasciata da uno a cui tenevo molto e credo di non essere ancora pronta.» «Sara non mi ha detto nulla di tutto ciò.» «Che vuoi che ti dica? Avrà pensato che ero pronta per qualcosa di nuovo, ma non è così.» «Se può farti cambiare idea sappi che io non ho mai avuto nessuna intenzione di avere una relazione con te, nemmeno per un secondo.» Tombola! Che cosa carina da dire, pensò. «Senti tagliamola corta, ok? Me ne vado a casa. Che mezzi devo prendere da qui?» «Non ne ho la più pallida idea!» «Fammi dare un’occhiata a internet così vedo di capire se c’è un cazzo di notturno che possa portarmi a casa!» «Niente internet! L’abbonamento è scaduto. Non hai uno smartphone? Oppure puoi chiamare un taxi, no?» I giga del suo piano tariffario erano ormai un lontano ricordo e aveva esattamente quattro euro nel portafoglio e un conto bancario che si stava prosciugando inesorabilmente, non aveva nessuna intenzione di chiamare un taxi. «Mi presti il tuo telefono? Oppure…», ingoiò l’umiliazione, «non potresti portarmi tu?» «Io? Il tizio che hai fatto andare in bianco dopo averlo attizzato tutta sera? Sono le quattro di notte, non ho nessuna voglia di tirare fuori la macchina e rimettermi a guidare. Puoi dormire sul divano se vuoi.» Sollevò la seduta del divano aprendo il vano sottostante. «Ecco qui! Coperta, maglietta e pantaloncini per gli ospiti. C’è una lucina appesa al soffitto del soppalco. Buona notte!» e detto questo si ritirò come un gufo offeso nel suo letto a due metri da terra, spegnendo immediatamente la luce e lasciando Sofia nell’oscurità. Brancolando nel buio, le mani tese in avanti per tastare la camera attorno a lei, riuscì a raggiungere il letto. Si sdraiò senza svestirsi, coprendosi in qualche modo con il plaid che trovò in un angolo e si rannicchiò. Che merda di serata! Sarebbe dovuta restare a casa a guardarsi le repliche delle casalinghe iperspaziali. Quella sarebbe stata l’ultima volta che usciva con Sara e i suoi maledetti amici, brutti stronzi fighetti e figli di papà. Anche se doveva ammettere che la schifosissima conclusione della schifosissima serata era stata un vero tocco da maestro tutto merito suo. A starsene lì al buio, da sola, in una casa sconosciuta, accucciata come un cane in una coperta grande appena un metro per un metro si sentiva come la piccola fiammiferaia, quasi quasi le veniva il magone. Faceva anche freddino e si mise addosso la sua giacca. Come se non bastasse il gufo sulla sua testa si era pure messo a russare come un tricheco. Come faceva un uomo così piccolo a fare un casino così grande? Era certa che non avrebbe chiuso occhio tutta notte, non avrebbe potuto dormire nemmeno per un secondo, sarebbe rimasta sveglia, triste e vigile come


35 una sentinella un’ora prima dell’alba, senza chiudere un solo occhio: come avrebbe potuto fare altrimenti? Quando riaprì gli occhi per un attimo non riuscì a capire dove si trovasse, pensò persino di essere a casa propria, ma nell’oscurità non riuscì a riconoscere nulla che potesse orientarla. Sentiva di avere un muro al proprio fianco e questo non era normale, inoltre sentiva qualcosa camminarle lungo la schiena. Ci volle un attimo perché ricordasse e, allora, riuscì anche a capire cosa le stesse correndo lungo la spina dorsale, o meglio, chi. La mano andò ad afferrarle il grembo, risalendo poi fino al suo seno, il leggero ansito nell’orecchio era come un vento caldo e umido che le scivolasse nei timpani. «Sei così bella» le sussurrò nelle orecchie. Cazzo, la molestia notturna al dormiente era veramente troppo! Da quanto tempo il mostriciattolo era andato avanti a palparla senza che lei se ne accorgesse? In ogni caso sempre un minuto di troppo. E che ore potevano essere? Cosa poteva fare? Picchiarlo? Scappare via? Farci del sesso e farlo contento? Oppure poteva pestarlo con una padella, rubargli le chiavi della macchina e fuggire via fregandogli l’auto. Ovviamente la giusta via stava nella moderazione. «Hai un preservativo?» chiese con tono carezzevole. «Certo!» rispose la voce nel buio. «Comincia a metterlo, io vado un attimo in bagno a darmi una sistemata. Capisci? Arrivo subito subito.» Gli schioccò un bacio sulla guancia e si divincolò fuori dal letto, oltre il corpo disteso nell’oscurità. Nel buio totale cercò di individuare le sue scarpe e la borsa finché non ci inciampò sopra, agguantò tutto e si diresse a memoria verso il bagno. «Fai presto!» le disse lui. «Ma certo! Non ti preoccupare, solo un secondo!» gli rispose. Quando arrivò in bagno accese la luce sotto allo specchio e si guardò. Aveva un aspetto orribile, il mascara era tutto colato e sembrava una specie di panda, per fortuna però aveva la sua giacca addosso. Fuori dalla finestra il cielo era diventato di una sfumatura chiara di viola mentre alcune nuvole cominciavano ad avere riflessi screziati, il mattino non poteva essere troppo lontano. Aprì l’acqua del lavandino, si infilò le scarpe e spalancò la finestra. L’aria era fredda e pungente, quasi quasi le venne la tentazione di tornare al caldo sotto le coperte con il piccolo mostro, ma in un attimo era già nel giardinetto del palazzo. Velocemente raggiunse il cancello sperando che il bottone per aprirlo fosse su una colonnina esterna all’atrio altrimenti avrebbe dovuto scavalcare. Non aveva pensato a questo problema finché non si era trovata in giardino, ma ovviamente la fortuna non poteva aiutarla nemmeno nelle banalità: il pulsante per l’apertura non era


36 all’esterno. Con una rapida occhiata decise di scavalcare il cancello elettrico per le auto perché, rispetto al cancelletto, offriva una sbarra orizzontale in più sulla quale appoggiare i piedi. Si sollevò quindi tra le sbarre di ferro riuscendo con fatica a issarsi a forza di braccia con il busto oltre alla cancellata. Con l’agilità di una foca in qualche modo riuscì a sistemarsi a cavalcioni sulla cima, ora non doveva che discendere dalla parte opposta. Improvvisamente un ronzio riempì l’aria, con suo sommo terrore il cancello cominciò a vibrare finché non iniziò a muoversi con lei sopra. Era a due metri e mezzo buoni da terra, se fosse caduta era più che sufficiente per farsi male. Si aggrappò al cancello con la disperazione e la grinta del cowboy al rodeo, nello spostamento il suo sguardo ritornò alla finestra aperta dalla quale era uscita. Incorniciato dalle imposte di legno della finestra lui la guardava, completamente nudo con il telecomando del cancello in mano. Quando finalmente quel trabiccolo del demonio fu fermo poté scendere e sgattaiolare via lungo il viale alberato. La notte aveva raggiunto i suoi termini, ma la luce stentava a farsi strada in quelle ultime ore di buio, il marciapiede brillava dello scintillio di mille piccoli aculei di ghiaccio e il freddo sembrava immobilizzare l’intera città. Non c’era una sola anima per la strada, non una macchina, nemmeno corpi morti vaganti, nessuno alla pensilina in mezzo al viale. Stava per congelarsi nell’attesa, il collo rattrappito tra le spalle incassate come quello di una vecchia tartaruga quando finalmente passò il tram del mattino che l’avrebbe portata in centro e poi verso il Cimitero Monumentale da dove avrebbe potuto prendere un secondo mezzo per arrivare a casa. Quando salì nessuno sguardo si rivolse verso di lei, nessuno sembrava nemmeno essersi accorto della sua presenza, ma d’altronde quei visi rivolti al finestrino non parevano in grado nemmeno di vedere la città che scivolava davanti ai loro occhi: le facce erano livide, grigie e inespressive, le bocche serrate tanto da rendere le labbra due impercettibili fessure pallide oppure, al contrario, aperte e scompaginate, con le mandibole che sembravano disossate. Da quando non lavorava più si era quasi dimenticata le espressioni e i volti incolori che si possono incontrare sul tram di primissima mattina. Si sedette di fianco a una donna cinese con un enorme sacco pieno di abiti e si fece cullare dal cigolio mentre piano piano la città si svegliava fuori dai finestrini. Dopo due tram e una metropolitana arrivò a casa quando ormai i pochi alberi sul viale erano un unico stormire di cinguettii e un sole pallido, velato dalle nubi, cominciava a rischiarare la via. Distrutta salì le scale due a due, non vedendo l’ora di infilarsi nel letto, ancora vestita e truccata, e lì dimenticarsi la serata e la nottata e “Pocketman” e le troppe


37 birre e i cancelli elettrici. Quando finalmente arrivò al pianerottolo si ritrovò davanti una scena pietosa: il vicino era accucciato a terra accanto alle scale, teneva una bottiglia di Rhum vuota in mano e con l’altra accarezzava l’aria di fianco al suo gatto monocolo acciambellato sul gradino. Quando la vide si alzò con fatica e si trascinò verso di lei. Sofia cominciò ad armeggiare con le chiavi sperando di riuscire a sgusciare nell’appartamento prima che lui la raggiungesse, ma fu una speranza vana, lui le afferrò una spalla e le piazzò il suo grosso faccione rosso davanti. «È questa l’ora per tornare a casa, signorinella?» sbiascicò. Sofia poté vedere un gamberetto fare capolino tra i peli della sua barba sporca. «Mollami, cazzo di Kraken!» strillò, ma lui sembrava non averla nemmeno sentita. «Fila a letto puttanella!» le disse sghignazzando e dandole una pacca sul sedere prima che lei potesse infilarsi in casa e chiudere la porta con doppia mandata, chiudendo fuori di casa quella orribile nottata. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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