In uscita il 2 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio H LQL]LR IHEEUDLR ( 99 euro)
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ALBERTO BERTONI
LADRI DI CORPI
ZeroUnoUndici Edizioni
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LADRI DI CORPI Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-436-6 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Gennaio 2021
Questo romanzo è opera di fantasia. Ogni riferimento a personaggi realmente esistiti o fatti realmente accaduti è da intendersi del tutto casuale o usato in chiave fittizia.
Per Caterina.
4
L'ANTIQUARIO
Il signor Flan si alzò dalla sua poltrona preferita quando sentì il rumore del cancello in giardino. Andò alla porta, muovendosi lentamente. L'anca gli doleva sempre in inverno, ma ultimamente il dolore si faceva vivo anche in questa stagione. Sapeva che avrebbe dovuto farsi vedere dal dottore ma non lo avrebbe fatto. Non aveva più importanza ormai. Quando aprì l'uscio, il chiarore del mattino invase l'ingresso, le cui finestre erano sempre coperte da robusti tendaggi. Il signor Flan si concesse un respiro profondo, strizzando gli occhi per proteggerli dalla luce. «Buongiorno signor Flan!» gli gridò il ragazzo di colore che era appena entrato nella sua proprietà. «Vado a prendere gli attrezzi nel garage». Il signor Flan alzò una mano in segno di saluto, rilassando gli occhi che ormai si erano abituati alla luminosità esterna. «Lascia stare gli attrezzi, Jerome. Vieni qui, ti devo parlare». Senza attendere una risposta, il signor Flan rientrò in casa e aprì la finestra dell'ingresso. Quando Jerome fece capolino, il vecchio si stava dirigendo lentamente alla sua poltrona. «È permesso?» chiese il ragazzo. «Di cosa voleva parlarmi signor Flan?». «Entra, Jerome. Accomodati. Ho fatto il caffè». Jerome non poteva dire di conoscerlo bene. Tagliava l'erba del suo giardino tutte le domeniche da maggio a settembre, e per questo veniva generosamente pagato, ma non era mai stato dentro quella casa. La prima impressione non fu delle migliori, odorava di chiuso e di vecchio. Superò l'ingresso, cercando con gli occhi il signor Flan, poi, guardandosi intorno, notò che l'ampio soggiorno era stracolmo di anticaglie. Sulle librerie in quercia che circondavano la stanza trovavano posto armi antiche, elmi, clessidre, decine di orologi da taschino, modellini di velieri in legno e tantissimi altri oggetti stravaganti di cui lui ignorava la funzione. E poi libri, libri dappertutto, sistemati l'uno di fianco all'altro in pile disordinate. Gli avevano detto che il signor Flan era un antiquario, ma Jerome non si sarebbe mai aspettato che avesse una casa come quella. «Accomodati». La voce lo distolse dall'iniziale sensazione di smarrimento. Il signor Flan era seduto su una poltrona imbottita. Davanti a lui, su un tavolino, era sistemato
5 un vassoio con una caraffa e due tazze vuote. L'odore del caffè stava riempiendo l'aria. Flan aveva scostato le tende anche in sala, così la luce del mattino entrava formando dei triangoli bianchi all'interno dei quali fluttuavano dei piccoli granelli di polvere. Jerome avanzò verso la poltrona destinata a lui, continuando a guardarsi intorno. Flan lo notò e se ne compiacque: «Ti dispiacerebbe versarne una tazza anche a me, ragazzo?». «Certamente, signor Flan. Stavo guardando... Lei ha una casa davvero piena di cose strane!». Flan ridacchiò: «Accomodati». «L'erba è cresciuta parecchio dalla settimana scorsa, mi piacerebbe anche trovare il tempo per sistemare le assi dello steccato a est. Alcune si sono staccate e hanno bisogno di una bella sistemata». Flan, liquidò l'argomento con un gesto: «Oggi niente lavoro, Jerome. L'erba può aspettare». Jerome versò il caffè nelle due tazze e attese pazientemente che il vecchio gli dicesse il motivo di quell'invito. Flan si portò la tazza davanti al petto e la strinse con le mani quasi a volerne assorbire il calore. «Ho saputo che ti sei diplomato a pieni voti e che in autunno andrai al college». «Sissignore» rispose il ragazzo, sentendosi leggermente a disagio per il modo in cui gli sembrava che Flan lo avesse guardato. «Ho una borsa di studio per la facoltà di economia all'UCLA di Los Angeles». «Bravo ragazzo!» gli disse Flan, «quella è un'ottima struttura». Continuò a fissarlo come se lo stesse esaminando da vicino per la prima volta e notò che il ragazzo doveva essersene accorto perché subito dopo distolse lo sguardo. «Di' un po', hai visto quella macchina rossa qui davanti, sul vialetto?». Jerome si allungò per guardare fuori dalla finestra, non aveva fatto particolare caso alle auto parcheggiate venendo qui e non ricordava. «Intende la Camaro?» disse Jerome, chiedendosi come avesse fatto a non notare quel gioiellino. «Proprio quella» rispose Flan, infilandosi una mano nel taschino della camicia dal quale tirò fuori una chiave nera con il logo Chevrolet. «È il mio regalo per te. Per festeggiare il tuo successo negli studi». Detto questo gli tirò la chiave che Jerome prese al volo. «Cos'è? Uno scherzo?». Il padre di Jerome era morto molti anni fa e la madre faceva due lavori per mantenere se stessa e il figlio dignitosamente. Anche se Jerome ne avesse avuto la possibilità, mai e poi mai si sarebbe comprato una macchina come quella. «Nessuno scherzo Jerome, io sono ricco e quell'auto è tua... Il mio regalo per il diploma». «Ma...» interruppe Jerome.
6 Flan non lo lasciò proseguire. Lo fissò con intensità e gli disse: «In cambio dovrai fare una cosa per me». A Jerome non piaceva quello sguardo e si insospettì. «Voglio raccontarti una storia. Voglio che tu te ne stia qui zitto e mi stia a sentire fino a che non sarà finita, tutto qui. Poi potrai andartene al volante della tua auto nuova». Flan spostò lo sguardo fuori dalla finestra e Jerome guardò la chiave che teneva in mano soppesandola con un crescente entusiasmo. «Certamente signor Flan, come vuole, io...». «Alcune cose potranno sembrarti strane, ragazzo. Altre sono annebbiate dal passare degli anni. Quasi tutte ti sembreranno incredibili... È una cosa che non ho mai fatto... parlarne, intendo...». Flan si concesse un sorso di caffè: «Ma adesso sento il bisogno di raccontare tutto a qualcuno. Ascolterai la mia storia?».
7
379 D.C. IL VENDITORE D'OLIO
L'anno del Signore 395 fu un anno speciale. L'imperatore Teodosio morì e il suo enorme impero fu diviso fra i suoi due figli. A Onorio toccò la parte occidentale, mentre al più giovane, Arcadio, quella orientale. In un solo giorno, il più grande impero che il mondo avesse mai visto, un territorio che si estendeva ininterrottamente su tutta l'Europa dal Portogallo alla penisola arabica e comprendeva tutte le province africane che si affacciavano sul Mediterraneo, fu diviso in due con un tratto di penna e il nostro nuovo imperatore divenne un bambino appena undicenne. Non che a me importasse. All'epoca ero solo di qualche anno più vecchio del mio sovrano e il lavoro occupava completamente le mie giornate. Il mio nome era Tatnis. Vivevo in un villaggio della Moesia Romana, dove la mia famiglia, originaria della capitale, si era stabilita poco prima della mia nascita. Eravamo benestanti. Abitavamo in una casa di legno al centro di una collina di ulivi. Era piccola, come tutte le case dell'epoca, costituita da una sola stanza senza finestre e col pavimento in terra battuta. Io non ci stavo praticamente mai, se non per dormire. Ricordo che nel prato davanti a casa, c'era un enorme albero di cedro sul quale da bambino amavo arrampicarmi e dove rimanevo anche per ore perso nei miei pensieri, ammirando il vicino Mar Nero fino a che mia mamma non si accorgeva della mia assenza e iniziava a urlarmi di scendere. Ero un ragazzino felice. Il 395 fu anche l'anno del mio matrimonio. Avevo sedici anni. Mia madre aveva cucito per me una tunica nuova che, di lì in avanti, avrebbe sostituito l'unica altra veste in mio possesso e mio padre aveva organizzato una festa come non ne avrei mai viste. Era stato invitato tutto il villaggio. I suoi amici sistemarono delle panche e dei tavoli sotto agli ulivi e arrostirono un enorme montone che mangiammo tutti insieme dopo la cerimonia. Ci furono canti e balli per tutta la notte e fiumi di vino, rosso e speziato, a dissetare dalla calura estiva. Conoscevo già la mia sposa, per quanto non le avessi mai rivolto la parola. Era la figlia di un altro romano, un giovane mercante amico di mio padre di nome Pardus. La mia famiglia produceva olio e Pardus lo acquistava per poi
8 andare a venderlo ad alcuni ricchi patrizi di Costantinopoli ai quali noi semplici contadini non avremmo mai avuto accesso. Il suo rapporto con Pardus, anno dopo anno, si era rivelato estremamente soddisfacente per entrambi tanto che, quando sua moglie partorì una figlia femmina, fu immediatamente chiaro che l'avrebbero data in sposa a me. Si chiamava Giulilla, il giorno delle nozze aveva tredici anni ed era bellissima. Dopo il matrimonio iniziai i lavori di ampliamento della casa sulla collina, che in vista della prole che avrei generato, forse non sarebbe stata abbastanza ampia da contenerci tutti. Oltre agli ulivi, i miei genitori avevano un piccolo orto e delle galline. Avevamo anche un mulo, il cui acquisto si era reso necessario per trasportare i pesanti cesti di olive fino al frantoio giù in paese. Una sera Pardus, che mi aveva preso in simpatia, mi propose di accompagnarlo a Costantinopoli per vendere l'olio. Mi disse che stava iniziando a invecchiare e gli avrebbe fatto bene un aiuto e io non me lo feci ripetere due volte. Non mi ero mai allontanato da casa e nemmeno immaginavo come avrebbe potuto essere una vera città. Ricordo perfettamente quel viaggio. Pardus venne a prendermi all'alba col suo carretto. Giulilla mi diede un involto di stoffa che conteneva il pane ancora caldo che aveva fatto per noi, assieme a un bicchierino in terracotta pieno di miele e a della carne secca. Pardus invece portò del vino, che avremmo potuto bere alla sera prima di coricarci. Partimmo dopo avere caricato le anfore di terracotta piene di olio, il viaggio fino alla capitale sarebbe durato quattro giorni e naturalmente per tutto il tragitto avremmo dovuto dormire all'aperto. Le strade romane, anche alla periferia dell'impero erano sempre in ottime condizioni e a volte ci capitò di dividere la cena con qualche altro viandante incontrato per caso, scambiandoci racconti e bevendo alla nostra salute. Al nostro arrivo, Costantinopoli ci accolse con tutta la sua magnificenza. Ne rimasi strabiliato. Oltre l'immensa doppia cinta muraria, costellata da altissime torri, una moltitudine di case e piazze si estendeva a perdita d'occhio. Ovunque c'erano splendore e ricchezza. Ho vissuto una vita molto lunga e ho fatto moltissime esperienze ma non ho mai più provato il senso di esaltazione che ebbi quando vidi tutto quello splendore per la prima volta. Il palazzo dell'imperatore d'oriente era la costruzione più grandiosa che avessi mai visto. Guardie dalle armature in cuoio borchiato di ferro giravano ovunque, portando foderi decorati attaccati alla cintura e i grandi scudi con lo stemma imperiale attaccati alla schiena.
9 Ovunque c'erano più persone di quanto immaginassi: mercati, botteghe, genti che parlavano linguaggi sconosciuti che si affrettavano lungo le vie della città. Pardus mi presentò ai suoi clienti. Giulilla era figlia unica, sua madre era morta di parto e lui non si era più risposato, quindi le era molto affezionato e probabilmente vedeva in me una specie di figlio. Oltre al nostro olio, Pardus vendeva anche alcuni prodotti del suo orto e poi balsami e unguenti che si procurava chissà dove. Ci fermammo solo due giorni. Dal momento che gli affari erano andati bene, prima di ritornare, Pardus mi portò anche all'ippodromo per assistere a una corsa di bighe. Fu bellissimo! L'ippodromo era enorme e conteneva migliaia di persone urlanti che incitavano i cavalli. Ovunque sventolavano le bandiere dell'impero e facevano bella mostra di sé delle sculture che raffiguravano dei ed eroi. La più grandiosa di queste sculture era posta al di sopra dei carceres dai quali partivano le bighe e rappresentava un'enorme quadriga i cui quattro cavalli in bronzo dorato pareva scalpitassero per partecipare alla corsa. Ne rimasi affascinato al punto da chiedergli chi mai avesse creato un'opera di tale bellezza e lui mi rispose che non lo sapeva. Quella quadriga in bronzo era molto antica ma era stata sistemata nell'ippodromo solo di recente per volontà dell'imperatore. Assistetti a tutte le gare quindi Pardus mi portò in una locanda dove cenammo come due buoni amici e mi chiese se mi andasse di accompagnarlo anche la prossima volta. «Vedi...» mi disse. «Io non ho nessuno tranne Giulilla e mi farebbe piacere che tu proseguissi i miei affari quando sarò troppo vecchio». Io non aspettavo altro. Ci avrebbe pensato mio padre a raccogliere le olive in mia assenza. Dopo aver visto Costantinopoli, desideravo solo di potervi ritornare. Fu così che iniziai a viaggiare con Pardus due o tre volte all'anno. Furono gli anni più belli di una vita felice, anche se Giulilla non riuscì mai a darmi il figlio che io avrei invece tanto desiderato. Pardus mi mostrò i palazzi più eleganti e maestosi della città, mi portò ai combattimenti dei gladiatori, alle terme e fece in modo che io familiarizzassi il più possibile coi suoi clienti. Alla morte di mio padre, ereditai la casa di legno e la collina di ulivi. Poco dopo venne a mancare mia madre e Pardus si ruppe una gamba cadendo da una scala. Non ne morì ma non riuscì più a camminare senza aggrapparsi a un bastone e dovette smettere di viaggiare. Io ero abbastanza uomo per occuparmi degli ulivi e iniziai a recarmi a Costantinopoli da solo per vendere l'olio. La mia famiglia prosperò.
10 Pardus si risolse a venire a vivere a casa nostra perché col passare degli anni era diventato sempre meno autosufficiente. Questa coabitazione, invece di essere impegnativa finì per diventare preziosa dal momento che lui poteva tenere compagnia a Giulilla durante le mie sempre più prolungate assenze inoltre per me era diventato un amico e al mio ritorno era un piacere discorrere con lui di cosa si dicesse a Costantinopoli o di come stessero andando gli affari. A volte portavo a lui e Giulilla un regalino o un qualche liquore esotico che bevevamo assieme davanti al fuoco. Invecchiai, e la mancanza di un figlio divenne prima un rammarico, poi un peso. I dolori alle ossa mi costrinsero a ridurre i viaggi. Anche la raccolta delle olive mi risultò sempre più faticosa ma non potevo permettermi uno schiavo quindi mi rassegnai ad arrangiarmi come meglio potessi. Fortunatamente trovai dei clienti per il mio olio tra gli abitanti dei villaggi vicini e, anche se non potevano permettersi di pagare le somme che riuscivo a ottenere a Costantinopoli, mi risparmiarono quei lunghi viaggi che, con l'andare del tempo, erano diventati sempre più gravosi. Il 447 fu un anno terribile. Durante quell'inverno si susseguirono diversi terremoti. Fortunatamente, gli effetti nel nostro villaggio non furono così disastrosi come altrove ma riuscirono comunque a terrorizzarne gli abitanti, già indeboliti dalla carestia dell'estate precedente. Poi arrivò quella maledetta sera. È passata un'eternità da quel giorno ma la ricordo come se fosse ieri. Avevo sessantotto anni. Ricordo che faceva molto freddo, pioveva da giorni e le strade erano ricoperte da fango. Quella sera ero a casa, cercavo di riscaldarmi davanti al fuoco scambiando due parole con Pardus, che nonostante avesse superato da un pezzo gli ottanta, conservava ancora l'acume di un tempo, mentre Giulilla preparava la cena. Stavo ascoltando distrattamente il rumore della pioggia martellare sul tetto, mentre davanti ai miei occhi un ceppo crepitava tra le fiamme e quando entrarono, mi colsero completamente di sorpresa. Erano tre, forse quattro. Barbari. Vestiti di cuoio. Il primo spalancò la porta con un calcio ed entrò gridando seguito dagli altri. Prima che potessi dire o fare qualsiasi cosa uno di loro trafisse Giulilla con la spada. La vidi morire senza emettere un suono, troppo sorpresa persino per gridare. Gli altri non persero tempo con mia moglie. Puntarono dritti su me e Pardus.
11 Ebbi il tempo di alzarmi dalla sedia e guardare il mio assalitore. Era orribile. Non sembrava nemmeno un uomo. Aveva la fronte schiacciata e molto alta, due occhi piccoli e un naso deforme e premuto sul viso. Aveva le guance solcate da cicatrici orizzontali e tra esse spuntava una barba disordinata e rada. Prima che potessi fare qualsiasi cosa si gettò su di me pugnalandomi alla pancia. Gridai e istintivamente spostai le mani sul braccio che teneva la lama per togliermelo di dosso ma le gambe mi cedettero e caddi a terra. Si gettò sopra di me e affondò nuovamente la lama nel mio addome. Il dolore fu tremendo. Sapevo che sarei morto, non avevo speranze ma ebbi un moto di rabbia nei suoi confronti. Allungai le mani verso la sua gola temendo solo di non avere la forza per strangolarlo. Lui non se ne curò nemmeno, estrasse la lama dalle mie carni e la ripiantò nel mio petto. Una delle mie braccia cadde al suolo come morta. Con l'altra mano strinsi la sua gola con tutto l'odio che mi rimaneva in corpo. Quell'essere non se ne preoccupò minimamente e avvicinò la sua orrenda faccia alla mia urlando di eccitazione. Ricordo l'odore di marcio del suo alito e il calore del mio sangue. Urlai ma dalla mia bocca non uscì alcun suono. Poi ricordo che la vista svanì e anche i rumori si abbassarono. Il dolore si attenuò, le sensazioni. Tutto divenne opaco e indistinto. Solo le mie dita continuarono a stringere disperatamente la sua gola. Poi, per un istante che sembrò non avere mai fine, fu solo buio. E silenzio. Un attimo dopo aprii gli occhi. Mi alzai in piedi e sentii una fitta acuta a un fianco. Ebbi un breve capogiro che subito passò per l'eccitazione della lotta. Il cuore mi batteva veloce, mi sentivo forte, avrei potuto lottare contro un orso. Sentivo che le mie membra erano dure come la roccia. Iniziai a provare una forte vertigine e temetti di cadere a terra, esitai, chiedendomi cosa fosse successo, quando Pardus mi riportò alla realtà. Il suo corpo giaceva poco lontano da me ricoperto di sangue. I responsabili di tutto questo stavano mettendo a soqquadro la stanza alla ricerca di qualcosa che potesse essergli utile. Mi paralizzai per il terrore. Una manata sulla schiena mi destò. «Capo, dobbiamo andare!». Mi girai verso la voce e vidi uno di quegli uomini mostruosi. Non seppi cosa pensare. Il primo impulso fu quello di piantargli in faccia il pugnale che tenevo in mano ma non feci nulla. Mi diede una spinta, si avvicinò e disse: «Tutto bene?». «Sì» risposi e lui se ne andò lasciandomi solo. Un altro capogiro. Questa volta più forte. Avevo bisogno d'aria. Mi diressi oltre la porta. Il freddo pungente della sera e la pioggia che mi cadde sulla testa mi fecero sentire meglio ma solo per un attimo.
12 Attorno alla casa, una moltitudine di uomini a cavallo percorreva la collina. Nessuno sembrava badare particolarmente a me. Poi udimmo il suono di un corno. L'uomo che mi aveva preceduto salì su uno dei cavalli che aspettavano all'esterno e mi fece cenno di andare. Nuovamente ebbi l'impulso di colpirlo con il mio coltello. Quale coltello? Mi guardai le mani e lo vidi: un grosso coltellaccio puntinato di ruggine e tutto sporco di sangue. Non avevo mai avuto un coltello così. Rimasi a fissarlo per un po' poi mi accorsi che la mano che lo stringeva non era la mia. Nemmeno le gambe, più in basso, erano le mie e nemmeno... Un altro capogiro. Stavolta fu molto forte, barcollai. Caddi. Udii l'uomo che mi aveva preceduto gridare a squarciagola. Il linguaggio in cui si esprimeva era diverso da qualsiasi cosa avessi mai sentito ma capivo ugualmente tutto: «Capo, stai bene? Sei ferito?». E ancora: «Presto! Aiutatemi! Urghal è ferito!». Prima di svenire sentii delle mani che mi afferrarono e sentii che mi caricavano su un cavallo. Poi più nulla.
13
447 D.C. IL GUERRIERO
Aprii gli occhi di scatto, come per risvegliarmi da un brutto sogno. Ero disteso su una stuoia, sopra di me, una tenda marrone sbatteva rumorosamente scossa dal vento. Dov'ero finito? Perché mi avevano rapito? E poi... Alzai le braccia e i miei incubi divennero realtà. Davanti a me avevo due grosse mani carnose, sporche di terra e sangue, con spesse unghie spaccate incrostate di lordura e un anello di ferro che non avevo mai posseduto. Non riuscii a trattenere un conato di vomito. Nel muovermi, avvertivo la sensazione di un corpo non mio. Avevo un dolore al fianco destro che non sapevo spiegare ma non me ne preoccupai. Piuttosto mi portai le mani al volto. Fu orribile. Quello che sentii era un viso grottesco: la fronte era eccessivamente alta, come se fosse stata allungata artificialmente in qualche modo e il naso era grosso e schiacciato. Un nuovo capogiro. Mi costrinsi a mantenere la calma. A fare il punto della situazione. Mi chiamo Tatnis, sono un venditore d'olio, sono sposato con Giulilla. Ieri sera... Ommioddio! Giulilla... Ricordavo che erano entrati in tre, o forse erano quattro. Hanno ucciso Giulilla e uno di loro mi ha... Istintivamente mi portai le mani al ventre dove il coltello mi aveva trapassato. Nessun dolore: quello che sentii era un addome eccessivamente abbondante ricoperto da una corazza di cuoio borchiato. Mi alzai. La fitta al fianco si fece sentire di nuovo. Mi guardai: la corazza era sporca di sangue, forse ero stato ferito ma non mi importava. Quelli non erano i miei vestiti ma soprattutto quello non era il mio corpo. Il panico iniziò ad annebbiarmi la vista, il cuore iniziò a battere selvaggiamente e mi dovetti appoggiare a una sedia per non cadere. Cercai di mantenere la calma, chiusi gli occhi, respirai e per un po' funzionò, poi mi riguardai le mani e vomitai nuovamente. «Urghal! Ti sei alzato?» disse una voce alle mie spalle. Mi voltai. C'era una ragazzina tutta sporca e coi capelli arruffati che si stava dirigendo verso di me tenendo in mano un secchio. «Ti ho detto di stare disteso, sei ferito. Ho preso dell'acqua». Le frasi che pronunciava erano simili a grugniti ma non facevo difficoltà a capire ogni singola parola. Mi afferrò per la vita e mi rimise disteso sulla stuoia logora. La testa mi girava e non opposi resistenza. Mi levò la corazza
14 e iniziò a passarmi uno straccio bagnato sul fianco. «Uh!» disse una voce che non era la mia. «Stai fermo!» rispose lei e proseguì nella sua opera. Chiusi gli occhi. "Sono morto", mi dissi. "Questo è l'inferno". Poi svenni nuovamente. Quando riaprii gli occhi, rimasi immobile per un po' cercando di convincermi che fosse tutto un sogno. La donna non c'era più. Il vento faceva sbatacchiare rumorosamente il telo della tenda che mi riparava dall'esterno. Alle narici arrivava l'odore di escrementi di cavallo. Prima di ogni altra cosa, mi guardai le mani e dopo avere nuovamente constatato che non erano le mie decisi di alzarmi. Il fianco mi doleva ma non così tanto. Quella ragazzina mi aveva fasciato con dei panni puliti. Una volta in piedi mi accorsi di essere più alto, questo nuovo corpo era più pesante ma anche più giovane e tonico. Mi sentivo più forte di quanto fossi mai stato. Uscii dalla tenda. Il sole stava tramontando e sentii l'aria gelida della sera sul viso. Avevo il torso nudo ma non provavo freddo. Svenire non mi aveva portato fuori da quell'incubo. La vallata era popolata da miglia di tende tutte uguali. Per le strade si avvicendavano barbari vestiti di cuoio e donne ricoperte di stracci. Qualcuno mi salutò. In lontananza si accendevano fuochi e ci si preparava per la notte. Dov'ero finito? Non riuscii a riconoscere quel luogo ma ritenevo di non essere troppo lontano da casa. Un uomo mi si avvicinò e mi diede una forte pacca sulla spalla. «Urghal! Come stai? Cat dice che sei ferito». "Urghal..." Doveva essere il mio nome. Guardai lo sconosciuto davanti a me cercando nei miei ricordi chi fosse, ma non lo sapevo. Poi, quasi senza accorgermene, pronunciai un grugnito: «Sto bene», gli dissi nella sua lingua. Mi accompagnò poco più avanti, superando le forge dove dei maniscalchi inchiodavano ferri ricurvi sotto gli zoccoli dei cavalli. Non avevo mai visto fare nulla di simile e stavo quasi per chiederne la ragione quando arrivammo nel luogo dove altri barbari stavano mangiando davanti a un fuoco. Mi diedero un bicchierone di peltro pieno di vino e una seconda sonora pacca sulla spalla, io sedetti per terra con loro e iniziai a bere. Mi portarono anche una scodella di stufato. Mi accorsi di avere fame e l'assaggiai. Masticare con una bocca che non era la mia mi disgustò e non riuscii a terminare il pasto ma bevetti tutto il vino e ne chiesi dell'altro. Attorno a me tutti parlavano a voce alta. Come prima, capivo ogni cosa anche se non riconoscevo le singole parole. Non mi unii ai loro discorsi, ero ancora sotto shock.
15 I barbari erano di corporatura massiccia e avevano tutti il naso schiacciato ma solo alcuni di loro avevano una fronte alta come la mia. Notai che avevano le guance rigate da numerose cicatrici e istintivamente mi portai le mani al volto per accertarmi di averle pure io. Continuava a girarmi la testa e il vino peggiorò la situazione. Me ne diedero un terzo bicchiere, poi un quarto. Se avessi bevuto così tanto solo un paio di giorni prima sarei crollato al tappeto ma ora sentivo di reggerlo abbastanza bene. Me ne stetti in disparte e nessuno mi disturbò. Qualcuno stava raccontando una storia di guerra e i barbari attorno a lui bevevano e ridevano. Qualcuno mi chiese in quella strana lingua se potesse finire il mio piatto che io avevo abbandonato a terra. Io gli risposi di sì, poi continuai a bere. Mi dovettero riaccompagnare alla tenda qualche ora più tardi perché a stento riuscivo a reggermi in piedi. Sentii che uno dei due diceva all'altro che avevo perso molto sangue e che era normale che fossi in quelle condizioni. La ragazza che mi aveva curato dormiva rannicchiata in un angolo sotto a una pelliccia nera. Mi gettai a terra poco lontano da lei, pregando di svegliarmi da quell'incubo. L'incubo non finì. Per i tre giorni seguenti rimanemmo accampati in quella vallata. Le mie condizioni migliorarono. Scoprii che quella al fianco era una vecchia ferita che Urghal si era procurato durante uno scontro a sud del Danubio. Sembrava guarita ma si era riaperta durante la cavalcata verso la mia collina. Aveva perso molto sangue. Aveva rischiato di morire. Passai quei tre giorni in uno stato di completa apatia. Continuavo a guardarmi le mani, le gambe e il busto cercando una risposta a questa situazione. Non uscivo dalla tenda. La ragazza, Cat, mi portava da mangiare e da bere, mi ripuliva la ferita e mi cambiava la fasciatura. Tutto del mio nuovo corpo era disgustoso, dall'odore che emanava al suono della sua voce, alla forma stessa delle membra che ai miei occhi apparivano tozze e deformi. Iniziai a pensare che Dio avesse voluto punirmi per qualche mio peccato, negandomi l'ascesa in paradiso con la mia Giulilla, ma io nella mia vita non ero stato particolarmente malvagio. Forse aveva punito il barbaro, Urghal, per avermi ucciso, concedendo a me di utilizzare il suo corpo, come risarcimento per il mio, ormai morto. Cat si occupava di me, era visibilmente preoccupata per la mia condizione ma pensava fosse dovuta alla ferita. Non poteva immaginare cosa fosse davvero successo al suo Urghal.
16 La notte si accoccolava vicino a me per scaldarsi con il mio corpo e dormiva profondamente. Io invece mi svegliavo in continuazione, non riuscendo ad adattarmi alla mia nuova struttura fisica. Ogni posizione mi dava fastidio. Avevo ripreso a mangiare e i capogiri si erano fatti sempre più rari ma pensavo continuamente alla mia casa, alla collina di ulivi, a Giulilla e Pardus, alla vita che mi era stata strappata e che rivolevo disperatamente indietro. Il quarto giorno udimmo il suono di un corno echeggiare per tutto l'accampamento. Non me ne curai, perso nei miei pensieri, ma Cat piombò nella tenda e mi fece alzare: «C'è una riunione di capi, Urghal. Non hai sentito il corno? Fai presto!». Non feci in tempo a protestare, lei prese la mia corazza e mi costrinse a indossarla. Uscii dalla tenda senza sapere dove andare ma intuii la direzione quasi subito. Molti altri barbari si stavano affrettando verso una delle grandi tende centrali. Li seguii. All'interno del tendone c'erano due o trecento di quei barbari. Notai che ognuno di loro aveva il cranio deformato come il mio, con la fronte eccessivamente alta e schiacciata. Ridurre le persone in quello stato era probabilmente un segno di distinzione o qualcosa del genere. Nella tenda regnava la confusione, ognuno parlava con qualcun altro. Non ero interessato ai loro discorsi e cercai un angolo dove potermene stare in pace. D'un tratto calò il silenzio. Dal fondo della tenda entrarono una dozzina di guerrieri ancora più enormi di me, vestiti con eleganti armature di cuoio borchiato. Portavano al fianco una spada dal fodero riccamente decorato e sulla testa un elmo di ferro lucente. Si disposero su due file, girati gli uni verso gli altri. Il silenzio era perfetto. Degli schiavi entrarono, trascinando una grossa sedia di legno che sistemarono al centro, tra le due file di guerrieri. Stava per entrare il capo dei barbari, il loro re. Noi stavamo in piedi senza osare proferir parola. Io mi ero pentito di essermi sistemato così in disparte, perché dalla mia posizione non si riusciva a vedere bene. Gli schiavi dispiegarono sul pavimento delle stuoie di lana e se ne andarono. Entrò un barbaro vestito riccamente, era grasso ed effemminato, ricoperto di seta colorata. Si posizionò vicino al trono di legno e annunciò l'ingresso del re. Anzi, non lo definì "re". Usò un'espressione il cui significato era pressappoco "piccolo padre", nella loro lingua: Attila. L'uomo che prese posto sul trono era basso di statura, portava in testa una sottile corona d'oro formata da un disco centrale da cui si protendevano verso l'alto numerosi raggi appuntiti. La sua armatura era, di cuoio come la nostra, ma riccamente lavorata e impreziosita da eleganti fibbie di ferro. Porta-
17 va dei gambali di pelle con le suole chiodate e dei guanti, anch'essi di cuoio, che gli arrivavano fino all'avambraccio. Il volto era coperto da un'ispida barba nera e folte sopracciglia sovrastavano due occhi freddi e neri. Nel complesso l'aspetto non poteva definirsi "regale". Mi incuteva una paura irrazionale, come se avessi davanti il diavolo in persona. Quando si sedette, l'uomo grasso vicino a lui fece un cenno e noi tutti ci sedemmo a nostra volta. Poi se ne andò. La riunione fu abbastanza lunga. Appresi che presto avremmo attaccato e distrutto Costantinopoli, le cui mura erano state irrimediabilmente danneggiate dai terremoti dei giorni scorsi. Le sue spie lo avevano informato che ben cinquantasette delle torri di guardia erano crollate e questo rendeva le difese della città ormai compromesse. Sapevano che stavamo arrivando e stavano affannandosi in una disperata ricostruzione ma non avrebbero mai potuto fare in tempo. Noi eravamo i capi. Avremmo sgomberato il campo all'alba e avremmo cavalcato alla testa dell'esercito mentre le donne avrebbero accompagnato i carri delle vettovaglie. Avremmo dovuto stare all'erta perché i Romani avrebbero potuto tentare un attacco a sorpresa, ma avremmo sicuramente vinto. E la capitale dell'Impero d'Oriente, con tutte le sue immense ricchezze, sarebbe stata nostra. Quando uscì, scortato dalle sue guardie del corpo, io me ne tornai nella mia tenda. Costantinopoli... Ricordavo la magnificenza di quella città. Davvero il terremoto ne aveva danneggiato le mura? Ma soprattutto, come avrei potuto combattere? Io non avevo mai fatto male a nessuno in vita mia né avevo mai maneggiato una spada. Diamine! Non sapevo nemmeno andare a cavallo. Mi consideravano un capo? Come avrei fatto a sopravvivere a quella situazione? Quella notte non riuscii a dormire. All'alba, un corno risuonò nell'aria e l'accampamento prese vita. Quando Cat iniziò a smontare la tenda, qualcuno condusse un cavallo marrone lì davanti facendomi capire che era ora di andare. Un gruppo di barbari era già in attesa che io li precedessi. Montare a cavallo si rivelò naturale come comprendere quello strano linguaggio. Mi avviai in testa al gruppo, lasciando Cat alle prese con la tenda. La colonna del nostro esercito si snodava per centinaia di metri. In testa, circondato dalle sue guardie, Attila cavalcava uno splendido stallone nero, dietro di lui i comandanti come me e dietro di noi una moltitudine disordinata di barbari o, come preferivano chiamarsi tra loro, Unni. Cavalcavamo per tutte le ore di luce senza fermarci mai. Alla sera ci accampavamo e mangiavamo. Dormivamo, per poi ripartire alle prime luci del giorno seguente. Cat si occupava di montare e smontare la mia tenda, era
18 molto veloce in questo. Non le parlavo quasi mai perché dovevo mangiare con gli altri capi e quando ritornavo alla tenda lei era già addormentata. Al mattino partivo prima di lei, lasciandola sola a sbrigare tutto il lavoro. Passarono diversi giorni, poi uno degli osservatori che precedevano il convoglio ci avvertì che presto saremmo arrivati a un villaggio. La notizia diffuse tra gli Unni una crescente eccitazione. Avremmo razziato quella povera gente. Da quando quell'incubo era iniziato, avevo vissuto in uno stato di vera e propria depersonalizzazione. Agivo in maniera passiva, concentrato sulle mie nuove mani o sulla mia nuova statura, piuttosto che sul cosa stessi facendo. Cavalcavo, pensando a quel corpo che non riuscivo a concepire come mio, mangiavo, esaminando il modo in cui si muovevano le mie dita e mi coricavo, ascoltando il suono estraneo del mio respiro. Cat forse era l'unica che se ne fosse accorta ma non me ne parlava e io non avevo certo intenzione di dirle nulla. A dispetto di quel che aveva preannunciato il nostro sovrano, finimmo per fare un giro piuttosto lungo per arrivare a Costantinopoli. L'orda degli Unni era formata da circa trecentomila tra guerrieri, donne e bambini. Non potevamo percorrere troppe miglia prima di riaccamparci nuovamente, inoltre Attila decise di razziare tutti i villaggi della zona. Lo faceva, mi dissero, per dare la carica ai guerrieri e soprattutto per diffondere il terrore tra i Romani che, nel frattempo, stavano tentando in ogni modo di riparare il più possibile delle mura della città. Giunti nei pressi di quel primo villaggio, con un cenno mandai avanti i miei uomini. Non volevo uccidere dei poveri innocenti. Continuavo a vivere in uno stato di apatia. Mi sembrava di avere perso il senso della realtà. Anche gli altri capi facevano così. Lo facevano per dare modo ai guerrieri più giovani di avere il battesimo del sangue con dei poveracci prima di cimentarsi in una battaglia vera con un esercito organizzato ed efficiente come quello romano. Fermo sul mio cavallo, assistetti agli stupri e ai massacri perpetuati da quegli animali. Ammazzarono persino i bambini, rubarono tutto quanto potesse esser loro utile e poi appiccarono il fuoco al resto così, chi fosse riuscito a fuggire, non avrebbe comunque avuto un posto dove ritornare. Le donne sopravvissute vennero rese schiave e la sera stessa subirono gli abusi di molti barbari ubriachi. Continuavo a vivere come se la mia permanenza in quel corpo fosse provvisoria. Con la certezza che un giorno mi sarei svegliato col mio vecchio aspetto, ma non accadde mai e continuai a trascinarmi avanti, miglio dopo miglio, saccheggio dopo saccheggio, razzia dopo razzia.
19 Guardavo il mondo dal mio cavallo, svuotato di ogni emozione, sempre più consapevole della perdita del concetto di me. Impiegammo due mesi per arrivare a Costantinopoli. Quando fummo a pochi giorni di distanza le nostre avanguardie ci informarono di una cosa che a loro dire aveva dell'incredibile. Le mura della città erano state completamente riparate. Costantinopoli era difesa da un'impenetrabile doppia cinta muraria fortificata larga oltre sessanta metri. Fu un colpo estremamente duro per il morale di tutti. I Romani ci attaccarono il mattino seguente. Attaccarono senza un preavviso, sperando di prenderci di sorpresa e in parte ci riuscirono. Io ero nella mia tenda quando si udì il corno. Indossai la corazza e la spada, feci in tempo a prendere l'arco e corsi fuori verso le scuderie. Fu diverso. Per la prima volta ero in pericolo. L'avanguardia di un esercito era penetrato nel nostro campo per ucciderci tutti. Agii d'istinto, senza permettere che la mia inerzia mi condannasse a morte e agii in fretta. Il mio corpo era stato forgiato da innumerevoli combattimenti e, come era accaduto per lo stare a cavallo, scoprii presto di avere una certa attitudine per il combattimento con quella grande spada e con l'arco. Montai a cavallo e iniziai a urlare per chiamare i miei uomini. Non avevo indossato l'elmo ma non mi importava. L'eccitazione per la lotta mi possedeva completamente. Senza nemmeno aspettare che i miei Unni fossero tutti arrivati, mi gettai alla carica verso i Romani, urlando a squarciagola e scoccando frecce dal mio enorme arco. L'avanguardia romana ripiegò con l'intento di farsi seguire e gli Unni si gettarono in avanti. Nella mia vita precedente ero stato un venditore d'olio, ma anche a me sembrava evidente che ci stessero attirando in una trappola. In quel momento non mi importava. Volevo solo lottare e uccidere, così corsi in avanti assieme ai miei uomini, senza nemmeno attendere il resto delle truppe. Il grosso dell'esercito Romano ci attendeva poco più avanti. Al nostro arrivo ci tirarono nuvole di frecce. Molti di noi furono colpiti e caddero da cavallo ma gli altri piombarono su di loro come una massa urlante. Io avevo terminato le frecce e spronavo il cavallo in avanti mentre menavo fendenti con la spada. Eravamo in inferiorità numerica e ci avrebbero massacrati se il grosso delle nostre forze non fosse arrivato al più presto. In quel momento, per la prima volta, mi sentivo vivo. Combattere mi piaceva. Il mio corpo era forte e veloce. Calavo lo spadone sui Romani e sentivo frantumarsi sotto i miei colpi scudi e ossa. Ero instancabile.
20 I sensi erano acutizzati dalla frenesia della battaglia, riuscivo ad analizzare in un istante la situazione e a spostarmi per aiutare un compagno in difficoltà o per scansare un giavellotto che mi avevano lanciato contro. Non avrei mai immaginato di essere capace di tanto. Qualcuno alle mie spalle riuscì a trafiggere il mio cavallo al ventre mentre ero impegnato in combattimento con un Romano e fui disarcionato. Conscio della mia vulnerabilità, mi rimisi subito in piedi, sperando di non avere niente di rotto. Non avevo mollato la spada, quindi proseguii a combattere. Combattere a piedi era più pericoloso. A piedi ci si muoveva più lentamente e si aveva una visione limitata della situazione. Tuttavia i cavalli in una mischia sono bersagli facili perciò era un fatto non così inusuale il ritrovarsi a terra. Vidi arrivare un Romano. Il corpo era coperto dal grande scudo e il piccolo gladius si intravedeva di lato, pronto a penetrare le mie carni dal basso verso l'alto. Alzai lo spadone e colpii per primo. Lui parò con facilità ma accusò la forza del colpo e il suo scudo si deformò. Alzai il braccio e colpii con una forza ancora maggiore, poi ancora e ancora. Lo scudo si deformò sotto la potenza dei miei colpi, poi lo sentii urlare e capii che dovevo essere riuscito a rompergli l'avambraccio. Vidi il suo scudo abbassarsi di lato come se il tenerlo sopra la testa gli procurasse troppo dolore e colpii per un'ultima volta. Lui vide la spada arrivare e lo alzò istintivamente. Col braccio rotto non riuscì a opporsi alla mia furia e lo spadone glielo fece schizzare di lato prima di piantarsi profondamente nel suo cranio. Urlai il mio trionfo e me lo staccai dalla lama con un calcio. Combattere mi faceva sentire vivo. Vidi un Romano avvicinarsi da dietro, caricai la spada e mi girai portando un potente fendente in orizzontale che lo colse di sorpresa. Il suo corpo fu quasi tagliato in due. Sangue e visceri schizzarono fuori da lui prima ancora che smettesse di camminare. Ne uccisi un altro e poi un altro ancora. Avevo la faccia schizzata di sangue e la corazza sporca. Altro sangue gocciolava dalla mia lama quando si fermava. Se fossi morto in quel momento sarei morto felice. La battaglia mi separò dai miei compagni e mi ritrovai da solo. Capii che dovevo riunirmi con gli altri perché altrimenti mi avrebbero circondato e ucciso. Mi guardai intorno ma nel caos della guerra non li vidi. Mi aggirai circospetto, conscio del pericolo in cui mi trovassi poi, per tutto il campo di battaglia si udì un corno, mi voltai riconoscendolo all'istante. Quello era il corno di Attila. La strategia dei Romani era stata migliore della nostra ma quando il nostro re si unì allo scontro, portando con sé centomila guerrieri scatenati, il mio cuore si riempì di gioia.
21 Galoppava circondato dai suoi generali lasciandosi dietro una scia di sangue. Io realizzai in che direzione dovessi procedere e mi riunii agli Unni. Ottenuta la loro copertura continuai ad avanzare uccidendo un romano dopo l'altro. Ero una furia. La battaglia proseguì per tutto il giorno. Prima di sera ci ritirammo. Ero stremato. Appresi che il capo dei Romani era morto e gli altri si erano messi al sicuro all'interno delle fortificazioni. La nostra non era stata una vittoria semplice: avevamo subito perdite pesantissime. Ci trascinammo all'indietro per cercare un posto riparato in cui passare la notte e poter curare i feriti. Forse Attila l'indomani avrebbe ordinato un nuovo attacco. Io mi reggevo a stento in piedi. Mi dolevano gli arti, perdevo sangue da un braccio e da un brutto taglio all'addome, inoltre con la caduta da cavallo mi ero procurato una contusione alla spalla sinistra che adesso mi faceva molto male quando si muoveva. Fu Cat a trovarmi. Mi corse incontro e mi abbracciò. Mi trascinò verso il nostro carro, gettò delle pelli di lupo sulle assi e mi ci distese sopra. Lì vicino aveva preparato un secchio con dell'acqua e delle pezze pulite. Per prima cosa mi diede del latte di giumenta da una borraccia, poi mi levò la corazza e il fodero, poi tolse anche i calzari e la tunica incrostata di sangue, lasciandomi nudo. Ero troppo stanco per oppormi. Lei iniziò a pulire le ferite con i panni umidi, le cosparse di un balsamo profumato il cui effetto fu estremamente piacevole, mi lasciai andare e fui quasi sul punto di addormentarmi quando lei si alzò la veste e si inginocchiò sopra di me. Non me lo aspettavo ma non posso dire di aver opposto resistenza. Facemmo l'amore lì sul carro, in mezzo a migliaia di altri barbari che nemmeno ci guardavano, protetti solo dall'oscurità che intanto era calata. Al mio risveglio, la mattina seguente, scoprii di avere garze pulite attorno alla pancia e sul braccio. La piccola Cat dormiva rannicchiata al mio fianco. Attila non ordinò un nuovo attacco. Ci ritirammo a ovest per riprendere le forze e allestimmo un campo. Gli uomini dovevano riprendersi dalle ferite prima di poter combattere. Le forze dei Romani erano state gravemente indebolite e ora erano rinchiuse all'interno della cinta muraria. Non sarebbero usciti in campo aperto nuovamente per affrontarci. Avremmo dovuto prepararci a un assedio e questo avrebbe richiesto la costruzione di torri, arieti, piattaforme e quant'altro si fosse reso necessario. Il legname attorno a noi non mancava quindi non ci sarebbero stati problemi. Riuscire davvero a penetrare a Costantinopoli era tutta un'altra faccenda.
22 Le sue due altissime cinte murarie fortificate erano distanti sessanta metri l'una dall'altra. Penetrare la prima significava ritrovarsi in trappola. Praticamente un suicidio. Rimanemmo nel nuovo campo per alcuni giorni. I Romani non si fecero vedere. Qualcuno tornò sul terreno dello scontro per derubare i corpi dei caduti e portare via tutto quello che poteva essere recuperato. Riempimmo interi carri con armi e armature, inoltre ne ricavammo, anelli, calzari, archi, qualche moneta e numerose frecce. Io rimasi nella mia tenda per la maggior parte del tempo. Cat diceva che avevo bisogno di riposo e aveva ragione. Le ferite, in particolare quella all'addome, mi dolevano ma sarebbero guarite se fossi rimasto tranquillo. La sera raggiungevo gli altri capi per cena e così iniziai a conoscerli un po'. Fu durante uno di questi banchetti che vidi Attila per la terza volta. Stavo mangiando della carne da un tagliere e parlavo con un capo Unno che si chiamava Erdegha. Attorno a noi gli altri bevevano vino o si trastullavano con qualche schiava quando il re si avvicinò al nostro tavolo e si sedette. Lo fece in silenzio, io nemmeno me ne accorsi. Vidi Erdegha ammutolirsi e mi voltai. Attila era seduto a pochi passi da me. «C'è del vino?» disse semplicemente. In due o tre si affrettarono a riempirgli un bicchiere. Le schiave furono scacciate e tutti presero posto attorno al tavolo di legno grezzo. Calò il silenzio. Attila estrasse un foglio e lo posò sul tavolo. Probabilmente nessuno di noi sapeva leggere, certo non io, così rimanemmo immobili in attesa che parlasse. «Il bottino è stato molto scarso e le perdite tra di noi molto elevate». Si guardò attorno. Quando quell'uomo ti guardava direttamente negli occhi era impossibile non rabbrividire. «Tuttavia» proseguì «è giusto premiare il valore di chi tra di voi si è distinto in battaglia». Il foglio che aveva portato si rivelò essere una lista di nomi. Attila si annotava personalmente i nomi di coloro che avevano dimostrato coraggio e valore durante le battaglie e quando era necessario accettava il consiglio delle sue guardie personali. «Urghal» disse, guardandomi: «Dieci borse d'argento». «Gra», proseguì: «Cinque borse d'argento». E avanti così fino a esaurire i nostri nomi. Tutti i capi ricevettero qualcosa. Era consuetudine che essi la dividessero coi propri sottoposti per aumentarne la fedeltà, ma solo a pochi altri furono date dieci borse. Ne fui molto orgoglioso. «Domani passerà un mio incaricato e vi porterà quanto vi spetta», concluse.
23 Per un po' nessuno parlò. Fu lui a rompere il silenzio. Si alzò in piedi e allungò il braccio col bicchiere verso il centro del tavolo: «A quelli di noi che non ci sono più!». «A chi non c'è più!» ripetemmo in coro. Attila non ordinò l'assedio a Costantinopoli. Ci fece muovere verso l'Illirico e i Balcani. Avremmo dovuto mettere a ferro e fuoco i loro territori per costringere i Romani a uscire allo scoperto in modo da sconfiggerli una volta per tutte. Attila aveva giudicato che il loro numero fosse più che sufficiente per proteggere Costantinopoli, ma se fossero caduti sul campo di battaglia le cose per la città sarebbero cambiate. I Romani non potevano permettere che facessimo terra bruciata attorno alla loro capitale e certamente sarebbero intervenuti a difesa di quelle popolazioni inermi. Avremmo fatto ciò che sapevamo fare meglio. Il nostro numero era tale da permetterci di accerchiare ognuno di quei villaggi e penetrarci contemporaneamente da tutte le direzioni. Nessuno doveva avere scampo. Fu così, che a partire dalla settimana successiva, ci mettemmo nuovamente un viaggio. Di paese in paese, le orde di barbari urlanti terrorizzavano i cittadini che poi venivano uccisi per la strada. Attila ordinò che di quelle città non rimanesse nulla. Uccidevamo anche le donne e bambini, saccheggiavamo i loro averi e bruciavamo il resto, risparmiando la vita solo a un ridotto numero di donne che trasformavamo in schiave. Di città in città, portavamo la morte e il nome del nostro signore divenne ovunque sinonimo di paura e distruzione. Ciononostante i Romani non si fecero vedere. Attila decise allora di allargare il raggio di distruzione attorno a Costantinopoli e attaccò il territorio degli Acatziri. Dovevamo essere feroci. Dovevamo terrorizzarli. Le notizie che sarebbero giunte ai Romani non li avrebbero fatti sentire tranquilli nemmeno all'interno della loro fortezza. Dovevano avere paura di noi. Cedere al panico. Se me lo avessero detto quando ancora ero Tatnis, il venditore d'olio, non ci avrei creduto ma, dopo più di un anno di questa vita, mi ci stavo iniziando ad abituare. Avevo uno scopo. Alle mostruosità ci si può abituare e io finii per diventare un ingranaggio della macchina di morte del nostro sovrano. Guidai i miei uomini di città in città, saccheggiai, stuprai, bruciai e soprattutto uccisi decine e decine di innocenti. Usavamo il terrore come arma nei confronti dei nostri nemici e io ne ero consapevole. La nostra strategia si rivelò vincente. Gli Acatziri mandarono un ambasciatore al nostro campo per negoziare la resa. Accettarono di unirsi a noi in massa e, per avere salva la vita, giurarono fedeltà al nostro signore e accrebbero di molto le nostre fila.
24 La capitale dell'Impero d'Oriente era isolata. Così Attila mandò finalmente i suoi ambasciatori a negoziarne la resa. I giorni si susseguirono monotoni dopo le battaglie di casa in casa dei giorni precedenti. Non sapevamo come procedessero le trattative, né se avremmo dovuto attaccare il giorno seguente. Appresi molto sui costumi degli Unni. Vidi i membri dell'aristocrazia legare, con delle tavolette di legno, la testa e il naso dei bambini piccoli in modo che, crescendo, avessero un cranio deformato come il mio, con quella fronte alta che li avrebbe distinti dagli altri. Si allenavano nella lotta fin da giovanissimi, si incidevano le guance in segno di coraggio ed erano talmente abituati alla morte che non provavano la minima compassione per nessuno. Continuai a cenare con gli altri capi ogni sera e mi feci dei buoni amici. A qualcuno di loro dovetti la vita e molti di loro la dovettero a me. C'era rispetto tra di noi. Il rispetto che solo chi è stato sullo stesso campo di battaglia con te ti può portare. La notte tornavo nella mia tenda e facevo l'amore con Cat. In fondo avevo di nuovo meno di trent'anni e lei mi faceva stare bene. Pensavo sempre meno alla mia vecchia vita. Non che non me ne ricordassi, ma iniziavo a sentirmi una persona diversa. Prima ero Tatnis e adesso semplicemente ero Urghal. Ero due cose diverse e separate, ma pur sempre io. Attila, in cambio di tutto il sangue che avevo versato per lui, mi aveva dato una piccola fortuna che Cat conservava in un baule nella nostra tenda. Lei era Thin'Elhm, la donna di un capo. A nessuno sarebbe passato per la mente di rubargliela. I Romani accettarono il prezzo di Attila perché li lasciassimo in pace. Diedero al nostro re una montagna di denaro, sotto forma di tributo annuale e una striscia di terra, a patto che accettasse di non attaccare Costantinopoli. Quando lo venimmo a sapere ne fummo tutti confusi. Nemmeno io capii se quella fosse una vittoria. L'idea di entrare a Costantinopoli e raderla al suolo si era impadronita di me e confesso che provai una certa delusione quanto mi dissero che ce ne saremmo semplicemente andati. Alcuni giorni dopo, ero andato dall'armaiolo per farmi fare delle modifiche al fodero della spada che non voleva saperne di stare nella posizione migliore per l'estrazione quando uno dei miei ragazzi mi venne a chiamare: «Urghal, lui ti vuole parlare». Non c'era bisogno di specificare che fosse “lui”. Scoprii che Attila aveva convocato una cinquantina di noi capi. Ci aspettava in una delle sue tende. Numerose schiave ci misero a nostro agio e ci versarono da bere. Poi lui entrò. Anche se sei un fedele servitore, anche se uccidi per lui, anche se daresti senza esitare la vita per lui, Attila è una di quelle persone che, quando ti
25 guardano, ti inducono a pensare: «Ecco, è finita, mi vuole uccidere». Non c'è una spiegazione razionale in questo, ma è così. Era talmente tanto il terrore che incuteva nella gente che anche chi gli era vicino, a volte, non riusciva a non esserne vittima. Attila non era stupido e naturalmente non ci convocò per sterminarci. Ci disse che da quel giorno saremmo stati i suoi generali e avremmo avuto sotto di noi tutti gli altri capi. Ci disse che non aveva mai avuto intenzione di attaccare Costantinopoli dopo avere visto che i Romani erano riusciti nell'intento di riparare le mura perché ciò ci avrebbe impegnati in un assedio lungo anni mentre lui aveva altri progetti. Attila voleva distruggere Roma. Voleva conquistare il mondo intero. L'orda si mise in marcia verso l'Impero Romano d'Occidente, fu un cammino lungo. Recentemente i Romani avevano spostato la capitale da Roma a Ravenna ma distruggere la Città Eterna, sede del papato e centro della cristianità, avrebbe avuto soprattutto un significato simbolico, esaltando la figura di Attila nei secoli e trasformandolo da re degli Unni a terrore dell'occidente intero. Con un impero alle spalle, ritornare a distruggere Costantinopoli sarebbe stato solo una questione di tempo. Al nostro esercito, lungo il cammino, si unirono gli Eruli, i Rugi e gli Sciri: popolazioni nomadi che sentendo parlare di Attila avevano chiesto udienza per giurargli fedeltà. Il numero delle nostre truppe crebbe considerevolmente. Purtroppo venimmo a sapere che anche i Romani stavano stringendo alleanze. I Burgundi, i Goti e i Visigoti non volevano Attila come loro re e si coalizzarono con Roma per impedirci di arrivare in Italia. Marciammo e conquistammo, distruggendo ogni cosa al nostro passaggio. Saccheggiammo paesi, bruciammo villaggi. Le orde di Attila si lasciarono alle spalle migliaia di morti per fare sì che i Romani si lasciassero indebolire dal terrore. Superammo la Dalmazia e proseguimmo verso nord con l'intento di attaccare la Gallia e impadronircene per poi calare in Italia dall'alto. Giunti in Gallia, capimmo che ci stavano aspettando. I Romani evidentemente preferivano che lo scontro finale avvenisse lontano dalla capitale. Attila all'inizio si diede a manovre diversive per far sì che lo scontro avvenisse nel luogo a lui più congeniale. Dopo alcuni giorni ci dirigemmo quindi nella regione dello Champagne, dove trovammo enormi spazi aperti, ideali per gli spostamenti equestri nei quali noi Unni eccellevamo. Non dovemmo attendere molto, presto gli eserciti di Roma ci raggiunsero e la più grande battaglia alla quale partecipai ebbe inizio. Lo ricordo come fosse ieri. Non potrei mai dimenticare tutto quel sangue. Mi buttai nella mischia galoppando, seguito dai miei guerrieri scoccando
26 frecce dal cavallo. Riuscii ad abbattere molti soldati prima che potessero avvicinarsi a me ma ero consapevole che queste fossero solo le schermaglie iniziali. Terminate le frecce fu la volta dello spadone Unno. I Romani avevano sofisticate armi da guerra che riuscirono a fare non pochi danni tra le nostre fila ma la nostra cavalleria era in grado di aggirare i loro carri e compiere rapidissime sortite che si spingevano fino al cuore del loro schieramento. Preso dalla foga della battaglia, finii per perdere di vista il quadro generale e per molte ore continuai a uccidere, e uccidere, e uccidere ancora, senza rendermi conto di come stessero andando le cose ai miei compagni. Nella confusione che mi circondava non riuscivo nemmeno a capire se fossimo in vantaggio o meno. L'unica cosa che notai era il numero dei morti. Ovunque guardassi c'erano mucchi di cadaveri. Cadaveri Romani e Unni sparsi ovunque in numero inimmaginabile. Il loro sangue creava delle pozzanghere sul terreno. Continuai a combattere. Il mio cavallo, in certi tratti, era costretto a galoppare letteralmente su mucchi di corpi senza vita e purtroppo a causa di questi, si spezzò una caviglia e mi disarcionò. Proseguii a combattere cercando di non inciampare a mia volta. Uccisi molti avversari. Gli eserciti Romani, all'epoca, erano in gran parte costituiti da barbari, arruolati più o meno volontariamente tra le legioni imperiali. A quel punto della battaglia, molti di loro non si difendevano nemmeno, limitandosi a camminare verso di me come sotto shock, con la spada orientata verso terra e negli occhi un orrore infinito. Cadaveri si aggiunsero a cadaveri. Nel punto di incontro dei due eserciti contrapposti c'erano talmente tanti morti che a un certo punto non si riuscì più a camminare e la presenza di tutti quei corpi costituì un argine alle manovre della cavalleria che andò a nostro svantaggio. Io avevo perso l'orientamento e avanzavo a caso, mietendo vittime tra i pochi che incontravo. Ormai perlopiù Romani terrorizzati che piangevano e invocavano pietà. Solo quando suonò la ritirata capii che avevamo perso. Seguii quel suono e ritornai sui miei passi, calpestando i cadaveri che coprivano il terreno. Ci misi ore per arrivare all'accampamento e quando entrai mi resi conto di come fosse orribilmente vuoto. La battaglia aveva portato all'annientamento quasi totale di entrambi gli eserciti. In quel campo dello Champagne, in un solo giorno morirono più di centosessantamila uomini.
27 Attila era furibondo, il suo esercito era stato quasi annientato e per la prima volta aveva dovuto battere in ritirata per non perderlo del tutto. Ci spostammo più a nord per riorganizzarci e curarci. Non sarebbe finita lì. Cat impazzì di gioia nel vedermi tornare. Mi portò alla tenda e mi diede da mangiare. Non ero stato nemmeno ferito. Il giorno seguente levammo il campo e iniziammo a marciare verso la Gallia più interna. Dovevamo riprenderci dalla battaglia e riorganizzare le truppe. Ci accampammo molto più a nord. Attila mandò messaggeri a tutte le tribù barbare dei dintorni per cercare degli alleati. Non ebbi modo di sapere quali fossero i suoi piani. Per molti mesi il nostro sovrano si chiuse in se stesso e non parlò con nessuno. Quasi tutti i generali, quarantatré su cinquanta erano rimasti uccisi e con loro molti dei miei uomini. Il re avrebbe dovuto riorganizzare le nostre orde, altrimenti sarebbero risultate squilibrate e chi aveva perso il proprio capo non avrebbe saputo con chi schierarsi, ma questo non sembrava essere importante e al momento la ricerca di alleati assorbiva completamente le sue giornate. Furono mesi tranquilli per me. Senza nulla di particolare da fare rimasi confinato nell'accampamento e passai molto tempo con Cat. Gli Unni sono poligami. Più le loro origini sono aristocratiche più mogli hanno. Il nostro sovrano per esempio aveva decine e decine di mogli (e centinaia di figli) ma Urghal sembrava avere solo Cat. Quando presi il suo corpo, avrà avuto circa ventitré o ventiquattro anni e forse non aveva avuto occasione di sposarsi nuovamente ma ora ci si aspettava che io prendessi almeno un'altra moglie. Perlomeno questo era quello che mi dicevano gli altri capi quando parlavo con loro. Io sono sempre stato monogamo e l'idea di avere due o tre mogli mi lasciava perplesso. Non avrei saputo come organizzarmi, come fare... Cat era una bambina - avrà avuto poco più di sedici anni - ma era tutto quello di cui avevo bisogno, anzi, per uno che fino a qualche anno prima aveva superato i sessantacinque anni, era proprio il massimo. Rimanemmo rintanati in quel campo ai confini del mondo per più di un anno, poi un giorno Attila convocò tutti i capi nella grande tenda delle assemblee. Promosse molti di loro a generali e assegnò loro un'orda, rimescolando finalmente quelle che erano state decimate. Poi ci ordinò di prepararci a partire. Di lì a poco avremmo invaso l'Italia. Attila aveva stipulato nuove alleanze e si stava preparando alla guerra. Le sue spie lo avevano informato che i Romani, dopo la nostra recente sconfitta, non ci consideravano più un pericolo e non attendevano un altro attacco. Anzi, ritenevano che ce ne saremmo presto tornati in oriente.
28 La fortezza di Aquileia, il bastione dei Romani a nord est era poco difeso e se avessimo sfondato lì l'Italia intera sarebbe stata nostra. Per tutti la città fortificata, posta a pochi passi, dal mare era semplicemente inespugnabile. Nessuno era mai riuscito ad aprire una breccia in quelle mura di pietra che contenevano le truppe da inviare in Gallia, in Germania, nei Balcani e in Pannonia. In quel luogo, il via vai di legioni e di soldati provenienti da tutto l'impero era tale che si diceva che ad Aquileia si parlassero una decina di lingue. Sapevamo che poteva essere sguarnita, dal momento che anche i romani avevano subito tantissime vittime durante l'ultimo scontro, ciononostante Aquileia era ritenuta la città meglio fortificata di tutto l'occidente tanto che era conosciuta come "fortezza vergine" perché nei 632 anni dalla sua fondazione nessun esercito l'aveva mai penetrata. Questa consapevolezza, unita alla nostra recente sconfitta, diffusero un crescente disagio tra gli uomini. Quando la carovana si mise in moto, diretta verso sud, sapevamo che una vittoria ad Aquileia avrebbe gettato nel panico i Romani ma sapevamo anche che espugnarla non sarebbe stato affatto semplice. Nell'estate del 452 superammo le Alpi Giulie, giungemmo in vista di Aquileia e la e cingemmo d'assedio. Nelle settimane successive, iniziammo ad abbattere alberi per costruire un ariete e delle enormi torri d'assedio. L'ariete fu ottenuto da un unico abete secolare. Lo dotammo di perni per poterlo movimentare e lo proteggemmo dai lanci con una copertura in legno ricoperta da pelli di animale. Quando Attila ordinò l'attacco, le torri d'assedio furono addossate alle mura. Mentre gli uomini salivano le scale per venire respinti dai difensori asserragliati sulle merlature, più di duecento guerrieri sollevarono l'ariete e lo abbatterono sulle pesanti porte di legno e ferro della città. L'ariete si abbatté con una violenza devastante. Io mi riparai dai lanci di sassi e frecce dietro a una torre d'assedio, gridando ordini ai miei uomini e ascoltando da lontano il rumore dei colpi prodotti dal suo urto con una porta che sembrava non volesse mai cedere. Il tempo sembrò scorrere più lentamente, il ritmo degli schianti era di circa uno ogni due minuti. Rumori tutti uguali, mescolati alle grida provenienti dall'interno e dall'esterno delle mura. I lanci di pietre, frecce e pece bollente complicavano il lavoro degli uomini all'ariete. Poi ci fu un suono diverso: la porta si era rotta e presto avrebbe ceduto del tutto. Quando gli osservatori ci diedero il segnale, ordinammo ai guerrieri di salire sulle torri in numero ancora maggiore in modo da far sì che i Romani non potessero spostare le difese alla porta. Dalle dieci torri, una moltitudine di Unni tentò di riversarsi in città, mentre più in basso il ritmo del pesante ariete non accennava a calare.
29 Le spie non ci avevano mentito. In quei giorni Aquileia non era particolarmente difesa. Le legioni all'interno non erano abbastanza numerose per respingere un assalto condotto da dieci diverse posizioni, sorvegliando contemporaneamente anche la porta. Si suddivisero per affrontarci tutti e il nostro numero li soverchiò. Quando le loro difese finalmente cedettero, penetrammo in città da otto delle dieci torri, iniziando a seminare morte e distruzione. E quando finalmente anche la porta si spalancò, il resto del nostro esercito si riversò all'interno come un fiume in piena. E per la Fortezza Vergine fu la fine. Dopo essere rimasta inespugnata per più di seicento anni, Aquileia non era riuscita a resistere agli Unni di Attila per più di tre mesi. Assetati di sangue e di vendetta per la sconfitta subita l'anno prima, passammo a fil di spada ogni abitante della città. Nell'eccitazione della battaglia non venne risparmiato nessuno. Poi passammo ai muri, alle case e alle chiese. Poco dopo di Aquileia non rimase che il ricordo. Il messaggio che arrivò a Roma fu chiarissimo: Il flagello di Dio era molto vicino alla Città Eterna e stavolta niente lo avrebbe fermato. Dopo aver dato alle fiamme Aquileia, la nostra avanzata si fece inarrestabile. Proseguimmo la nostra marcia su Roma a tappe forzate, distruggendo tutte le altre città del nord Italia: Altino, Concordia Saggittaria. Seminammo distruzione in tutto il Veneto fino in Lombardia. Caddero Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, e finalmente i Romani si decisero ad affrontarci. Le legioni romane ci aspettavano sul Mincio ma il loro numero era inferiore a quanto ci saremmo aspettati. Attila diede il segnale e le sue orde li fecero a pezzi senza quasi riportare perdite. Avevamo vinto. Ormai nulla ci avrebbe impedito di arrivare a Roma e cancellarla per sempre dalla faccia della terra. Ci fermammo a nord del Fiume Po per organizzarci al meglio. Il nostro Re non voleva muoversi precipitosamente e intendeva preparare l'attacco nel migliore dei modi. Inviò delle spie in avanti, disegnò mappe dettagliatissime e si riunì continuamene con noi generali per elaborare una strategia. Mentre i preparativi erano in corso, un messaggero inviato da Roma venne a chiedere udienza. Temendo una trappola, io venni incaricato di ascoltare quanto avesse da dire per poi riferire al re. Il messaggero mi disse semplicemente che un'ambasceria sarebbe partita a breve da Roma per incontrare Attila e che il capo delegazione sarebbe stato il papa Leone I in persona. Quando lo riferii al mio signore lui pensò subito a una trappola, e ordinò di aumentare la sorveglianza.
30 Nel frattempo, preparativi per la marcia in Italia non si fermarono e il morale delle truppe era altissimo. Nessuno di noi riusciva a capacitarsi che Leone I si esponesse a un tale pericolo. Una volta arrivato nei pressi del nostro accampamento sarebbe stato semplicissimo per noi catturarlo o ucciderlo, gettando Roma nel caos ancora prima di essere in vista delle sue mura. Consapevole che nessuno si sarebbe esposto a un rischio simile, ne parlai col mio sovrano e gli raccomandai prudenza e come ordinato, durante i giorni prima dell'incontro, inviai uomini a cavallo a perlustrare le strade e i boschi per individuare eventuali soldati nascosti ed evitare così che le forze papali ci potessero attaccare mentre eravamo distratti dall'incontro. Quando il convoglio del papa fu in vista, mi riferirono che non contava di più di una trentina di uomini. Un numero che non poteva rappresentare un problema per le nostre difese. Gli ambasciatori di Sua Santità ci chiesero di poter tenere l'incontro in campo aperto e Attila acconsentì. Successe alcuni giorni dopo. Il papa arrivò con la sua piccola scorta e fu accolto con tutti gli onori. Attila si era preparato a sterminarli tutti e a prendere il pontefice in ostaggio ma prima voleva capire perché quel vecchio si fosse esposto a un tale pericolo. Cosa aveva da dirgli? Attila lo precedette al centro di una radura dove avrebbero potuto parlare indisturbati e, mentre i miei uomini controllavano ogni movimento delle guardie papali, i due re uscirono dalla staccionata che delimitava il nostro accampamento e iniziarono a passeggiare come due persone qualsiasi. Come tutti, anch'io rimasi affacciato alla palizzata, guardando quei due parlare e aspettando di cogliere il segnale che avrebbe fatto scattare la trappola. Nel frattempo cercai di immaginare cosa si stessero dicendo, cercai di intuire qualche frase dalle espressioni ora dell'uno, ora dell'altro ma non ci riuscii. Nessuno ci riuscì. Nemmeno Attila lo disse mai. Quando l'incontro terminò. Papa Leone I ritornò a Roma con la sua scorta. E sotto i nostri sguardi increduli, Attila ordinò la ritirata. Ritornammo in Gallia, e poi più a est. Il sogno di conquistare il mondo era svanito. Tra gli Unni girava voce che ci saremmo nuovamente diretti a Costantinopoli ma il morale era molto basso e a pochi importava davvero. Cosa poteva aver detto quell'uomo al re degli Unni per causare un simile cambio di rotta. Ci vollero mesi prima che io riuscissi a porgere questa domanda direttamente a lui. Attila non rispose.
31 Era cambiato, pareva non essere più capace di incutere il terrore irrazionale che fino a poco prima aveva fatto tremare gli avversari davanti a lui. Gli dissi che gli uomini non capivano e si stavano perdendo d'animo e gli suggerii di fare qualcosa per motivarli, altrimenti l'orda avrebbe finito per sciogliersi. Lui mi mise una mano sulla spalla e disse semplicemente: «Hai ragione, Urghal. Gli uomini meritano un po' di svago. Ci penserò». Alcune settimane dopo, mentre ancora proseguivamo la marcia verso est, ci fermammo nei pressi dell'attuale Ungheria e il nostro signore ci comunicò la sua intenzione di prendere una nuova moglie. Era una buona idea tutto sommato: a tutti serviva qualcosa per recuperare dallo shock dell'improvvisa partenza dall'Italia e un matrimonio poteva essere un modo per festeggiare lasciandoci alle spalle l'amarezza. Attila organizzò la cerimonia più sfarzosa a cui chiunque di noi avesse mai assistito. La ragazza era poco più di una bambina ma era bellissima e vestita come una regina. Il banchetto di nozze fu sontuoso, c'era vino a fiumi per tutti i soldati e carne, pollame, e i cibi più raffinati. Fu l'ultima volta che vidi Attila. Durante quella cena, improvvisamente morì. C'è chi disse che fu avvelenato ma io non lo credo. Era circondato dai suoi soldati e nessuno di noi avrebbe mai fatto una cosa del genere. Altri dissero che era la maledizione che gli aveva scagliato il papa. Più probabilmente fu solo una disgrazia. La giovane moglie pianse per tutto tempo, prima per lo shock poi, rendendosi conto di essere rimasta sola in mezzo a migliaia di barbari, temendo per la sua sorte, ma nessuno di noi osò mai toccarla. Anche lei era Thin'Elhm, la donna di un capo. Nessuno dei figli di Attila era davvero degno di succedergli. L'orda si divise. Molti se ne andarono. Io seguii per un po' suo figlio Ellac ma non c'era alcuna grandezza in lui. Presto decisi di andarmene. Avevo finito per amare Attila. Avrei dato la vita per lui ma adesso era tutto finito e, come tanti altri, non riuscivo a vedere in Ellac niente di suo padre. Lo dissi a Cat e lei ne fu felice. Era stanca di guerre, stanca di vedermi indossare l'armatura e di augurarmi buona fortuna senza sapere se mi avrebbe più rivisto. Mettemmo i nostri pochi averi e tutto l'argento che avevamo risparmiato in un carro e partimmo in direzione est. Fu un viaggio piacevole. Talmente tanti Unni avevano lasciato l'orda che molti contadini si erano organizzati per fornire vitto e alloggio ai viandanti. Avanzammo piano, senza una meta precisa. Guardandoci intorno per scegliere un posto che ci piacesse dove poter passare il resto della nostra vita.
32 Alla fine arrivammo in un paese di nome Uhr, vicino a Chersonesus, nell'attuale Crimea e decidemmo di stabilirci lì. Eravamo piuttosto ricchi. Trovai dei costruttori e li pagai perché mi aiutassero a costruire una casa in un praticello subito fuori città, vicino all'inizio di un bosco. Quando fu pronta ci trasferimmo lì. Il resto della vita di Urghal e Cat fu tranquillo. Gli anni delle violenze e delle guerre furono lasciati alle spalle. La mattina andavo a caccia nel bosco mentre Cat si prendeva cura dell'orto. Dopo pranzo facevo piccoli lavori, spaccavo la legna per l'inverno, o mi recavo al mercato per qualche acquisto. Furono anni sereni, rovinati in parte solo dal fatto che, per quanto ci provassimo, io e Cat non riuscimmo ad avere dei figli. Col passare degli anni, l'assenza di qualche figlio prima e di qualche nipotino poi, si fece sentire, ma andò così. E ce ne facemmo una ragione. Il denaro di Attila ci avrebbe permesso di vivere nel lusso ma né io né Cat avremmo desiderato una vita diversa. Comprammo pelli dal conciatore, un paio di vestiti nuovi (i nostri erano davvero logori) da una signora del luogo che per qualche moneta d'argento si offrì di realizzarli per noi, facemmo costruire dal fabbro delle staffe di ferro che rinforzarono la casa e il tetto in vista delle abbondanti nevicate invernali e di tanto in tanto ci permettevamo un sacco di farina, del pane appena fatto, o un barilotto di birra. Una o due volte all'anno acquistavo da uno dei pastori un agnellino, lo arrostivo allo spiedo e lo mangiavamo davanti al camino. Era una vita semplice ma non avremmo potuto chiedere altro. Ogni giorno ripensavo ad Attila, a cosa potesse avergli detto quel vecchio papa per convincerlo ad andarsene. Fu allora che la religione cristiana iniziò ad attrarmi. Forse quell'uomo avrebbe potuto spiegare anche perché io mi ritrovassi nel corpo del mio carnefice. Ripensai molto anche alla mia vecchia vita, per quanto ormai nulla di essa mi mancasse più. Nel 479, in un giorno di novembre, andai in città e comprai del vino, poi acquistai della carne di manzo e del pan dolce col miele. Non ebbi il coraggio di spiegare a Cat il perché lo stessi facendo. Le dissi solo che mi sentivo in vena di festeggiare. Il manzo alla brace era squisito e il pan dolce col miele era il suo preferito quindi, sebbene fosse curiosa, lasciò perdere e si godette la cena. Come avrei potuto spiegarle che quel giorno era il mio centesimo compleanno? Forse ero l'uomo più longevo del mondo, anche se, nel corpo di Urghal, di anni ne avevo solo 56. La nostra vita proseguì tranquilla per altri dieci. Poi, nel 489 io mi ammalai.
33 C'era stato un inverno eccezionale. Faceva un freddo tale che il camino acceso giorno e notte e le numerose pelli con cui ci coprivamo non riuscivano a tenerci caldi. Fuori c'era talmente tanta neve che era impossibile uscire di casa ma avevamo delle provviste e almeno non patimmo la fame. La notte un vento gelido faceva tremare le pareti di legno e si infiltrava nelle fessure. Sentivamo ululare i lupi in lontananza. Erano l'unica forma di vita che si aggirasse all'esterno e, notte dopo notte, si aggiravano pericolosamente vicino al villaggio in cerca di cibo Io e Cat superammo l'inverno, ma all'inizio della primavera iniziai a tossire. Poco da principio, poi la tosse si fece più forte. Quando mi venne la febbre capii di avere preso la polmonite. Cercai di resistere il più possibile. Passai giorni interi raggomitolato sotto le pelli a sudare e a rabbrividire. Iniziai a tossire sangue. La febbre aumentava sempre di più e i decotti che Cat mi preparava non avevano alcun effetto su di me. Era arrivata la mia ora. Cat non sembrava contagiata e questo mi rincuorava. Avrebbe avuto una vita agiata, con tutti i soldi che le avrei lasciato, non le sarebbe mancato nulla. Quel giorno cercai di dirle addio. Avevo delirato per tutta la notte ma poi ero tornato cosciente. Cat era al mio fianco e mi teneva la mano tra le sue. Per quanto mi sforzassi non riuscii a parlare perché appena ci provavo iniziavo a tossire e sanguinavo, e per un po' di tempo soffrivo troppo per riprovarci. Mi addormentavo, mi svegliavo, tossivo. Non so per quanto tempo ho resistito. So che Cat era sempre lì. Ogni volta che riuscivo ad aprire gli occhi lei c'era, mi tergeva la fronte e mi teneva la mano. La vidi piangere. Avrei voluto dirle qualcosa, abbracciarla, ma ero scosso da brividi fortissimi e dolorosi al punto che a volte mi mancava persino il respiro. Poi la vista si annebbiò e non tornò più. Scivolai in un sonno scosso da forti convulsioni e per un lungo istante ci fu solo la mano di Cat che stringeva la mia a tenermi ancorato alla realtà. Poi più nulla. Quando aprii gli occhi vidi il mio corpo, quello che era stato di Urghal, giacere immobile tra le pelli e la paglia che copriva il pavimento. Istintivamente pensai di essere diventato una specie di spettro per riuscire a guardarmi in quel modo, poi ebbi un capogiro e istintivamente mi portai la mano destra alla fronte. In quel momento capii di essere nel corpo di Cat.
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489 D.C. LA VEDOVA
Stavo ancora stringendo la mano di Urghal. La liberai. Com'era potuto accadere di nuovo? Iniziai a toccarmi il corpo, estremamente più minuto del precedente, poi mi guardai le mani e fissai, incredulo, il cadavere davanti a me. Iniziai a pensare di essere in qualche modo maledetto. Per qualche motivo Dio si prendeva gioco di me e non mi abbandonava al mio destino, tenendomi in vita per scopi che non potevo immaginare. Subito dopo questo primo momento di sbigottimento, il secondo pensiero fu per Cat. Se io ero in lei allora... Era morta? Io l'avevo uccisa? «Cat!» dissi, alla stanza vuota. «Dove sei piccola?». Un nuovo capogiro ma non ci feci caso. Mi strinsi la testa tra le mani e singhiozzai. La neve aveva appena iniziato a sciogliersi e le strade ne erano completamente ricoperte. Mi buttai addosso una pelle di lupo e uscii di casa. Camminavo lentamente. Il corpo di Cat era totalmente diverso dal precedente: lei era incredibilmente più leggera, più debole e molto più bassa. Camminare a una diversa altezza dal terreno mi dava una sensazione di disorientamento inoltre, la nausea che mi aveva preso poco prima continuava a tormentarmi. Camminare all'aria aperta mi faceva bene. Come avevo potuto fare questo alla piccola Cat, che razza di mostro ero diventato? Ascoltai il silenzio che avevo dentro di me, sperando di avvertire da qualche parte la presenza di Cat ma non c'era niente. Camminai per molte ore, quindi presi una decisione e mi diressi dal capomastro del villaggio. Quando arrivai, bussai alla porta con troppa forza e le deboli mani di Cat mi fecero male. «Chi è?» disse lui, aprendo la porta. «Buongiorno signore...». Mi bloccai risentendo la voce di Cat. Poi capii che ero io a produrla e repressi una lacrima. «Cosa posso fare per lei?». «Mio marito è morto. Ho bisogno di due dei suoi apprendisti per dargli sepoltura». I due apprendisti del capomastro mi scortarono verso casa. Mostrai loro il mio precedente corpo che giaceva lì dove lo avevo lasciato. Poi li condussi
35 in giardino e chiesi loro di scavare una fossa vicino alla casa. Io preparai il corpo di Urghal meravigliandomi di quanto fosse pesante. Lo pulii, gli pettinai i capelli e rimossi i suoi effetti personali perché non volevo che quei due giovani tornassero a cercarli in mia assenza. Lo calammo nella buca e lo coprimmo con la terra. Una volta terminato, diedi loro una moneta ciascuno e loro si allontanarono tutti contenti. Forse non l'avevano nemmeno mai vista una moneta d'argento. Quella notte, mi coricai da solo per la prima volta dopo tanto tempo. Non riuscii a dormire. Ero tormentato. Come era potuto succedere di nuovo? La cosa che più mi pesava era il senso di colpa. Mi sentivo responsabile per Cat. L'avevo uccisa. Nei giorni seguenti non uscii di casa. L'adattamento a un nuovo corpo comporta un periodo iniziale cui la diversità di tutte quelle cose che normalmente uno considera "normali" crea uno stato di nausea che va e viene: l'odore innanzitutto, normalmente non ci facevo caso ma adesso che era diverso, quando lo notavo, mi dava una sensazione di nausea, poi il muovere la bocca, il deglutire, il passare la lingua su una dentatura che non era la mia: nausea, il camminare a un'altezza diversa, con membra più leggere: nausea, il toccarmi e sentire una differente consistenza dei miei arti: nausea, lo stesso guardare il mio nuovo me stesso, scoprendomi ogni volta diverso da quanto mi aspettassi, mi dava la nausea. Rispetto a prima il disorientamento era forse minore perché conoscevo quel corpo e lo amavo ma l'effetto fu comunque molto simile. Ci misi diversi giorni a riavermi dallo shock, poi iniziai a fare delle riflessioni di tipo pratico: com'era successo? Come avevo fatto a entrare nel corpo di Cat? Iniziai a cercare delle somiglianze tra la mia prima morte e la seconda. Tatnis era stato ucciso, Urghal era morto di malattia. In entrambi i casi avevo preso il corpo di chi mi stava più vicino - nella stanza con Tatnis erano presenti altri tre barbari e Pardus ma Urghal era il più vicino - e poi c'era un contatto. La prima volta che morii stringevo Urghal alla gola, durante la seconda Cat mi teneva la mano. Un contatto, in tutti e due i casi. Pensai che forse, se era successo due volte sarebbe potuto succedere una terza volta. Volevo provarci ma avevo paura. Era una cosa contro natura e non era affatto detto che non ci fosse qualche altro fattore a determinare queste mie reincarnazioni. Forse Dio si stava solo prendendo gioco di me così come quel vecchio papa si era preso gioco di Attila.
36 Fu l'amore per Cat che mi fece decidere. Mi sentivo male a occupare il suo corpo e se fossi morto nel tentativo, sarebbe stata la giusta punizione per ciò che le avevo tolto. Inoltre, anche se mi doleva ammetterlo, non volevo vivere nel corpo di una vecchia donna. Non mi ci sarei mai abituato. Avrei tentato di rubare un altro corpo; se non ci fossi riuscito avrei riposato per sempre con la mia Cat. Se ci fossi riuscito sarei stato immortale. Non volevo agire precipitosamente. La prima cosa da fare era scegliere il corpo adatto. Doveva essere giovane, e robusto. Mi ero abituato a essere forte e non volevo un corpo debole. Presi a passeggiare in paese guardandomi intorno. C'erano tanti ragazzi, apparentemente tutti adatti ma qual era l'età giusta? Doveva essere un uomo di vent'anni o un ragazzino di dieci? Ci pensai su per diversi giorni poi la mia scelta cadde sul figlio del fabbro. Si chiamava Vik, era un bel ragazzone alto, sui sedici anni dall'aspetto sano, con corti capelli biondi e occhi chiari, un fisico solido e un'aria intelligente. Dopo avere deciso il modo in cui lo avrei fatto, iniziai i preparativi. Per prima cosa cucii assieme delle pelli per ricavarne dei sacchi. Non ero molto pratico di cucito quindi il lavoro non venne benissimo ma, viste le circostanze lo considerai accettabile. Dopo aver terminato, dovetti scegliere un posto nel bosco dove poter nascondere alcune cose che avrebbero potuto tornarmi utili. Scavai una fossa abbastanza profonda in una zona isolata con una lentezza esasperante. Con la forza di Urghal ci avrei messo meno di un'ora. Nel corpo di Cat, lo scavo occupò buona parte del pomeriggio e quando finii avevo le mani ricoperte da vesciche. Deposi quindi la borsa con l'argento, dalla quale trattenni per me solo alcune monete, all'interno di uno dei sacchi, vi aggiunsi il mio spadone Unno, l'arco, il mio coltello da caccia, la mia pietra focaia, tutte le frecce che avevo e i nostri pochi monili. Chiusi il sacco e lo misi all'interno di un secondo sacco. Chiusi pure questo e ripetei l'operazione con i sacchi che avevo fabbricato. Poi misi il tutto nella buca, lo ricoprii col terriccio e nascosi le tracce con delle foglie. Mi alzai e mi guardai intorno per essere sicuro di ricordare il punto esatto, poi vi trascinai sopra una grossa pietra in modo da rendere ancora piÚ facile determinare la sua ubicazione. Quando tornai a casa ero tutto dolente. Mi facevano male le mani, la schiena, le braccia e avevo la veste completamente logora. Mi dovetti sdraiare e poco dopo mi addormentai. Avrei rimandato gli altri preparativi al giorno seguente.
37 L'indomani, di buon mattino, mi diedi una bella ripulita, poi presi una corda e la tagliai in tre parti, con la prima delle quali realizzai un cappio che poi misi in un angolo. Andai nella legnaia e cercai un bastone che avesse la giusta forma: pesante ma non troppo e della lunghezza giusta. Infine trovai un altro dei coltelli di Urghal e lo riposi assieme alle due corde e al ciocco di legno. Si avvicinava il momento di agire e iniziai ad avere paura. Avrei potuto morire. Continuai a ripetermi che sarei morto felice e che sarei stato per sempre con Cat e questo mi diede coraggio. Uscii. Una volta in paese, andai dritto dal fabbro; il suo ragazzo stava martellando un pezzo di ferro assieme al padre, mi compiacqui della mia scelta quando vidi quanto robuste fossero le sue braccia. Il fabbro mi salutò e venne verso di me. Dopo averlo salutato, gli dissi che avevo bisogno di inchiodare una staffa metallica tra due assi che si stavano dilatando nella mia abitazione. Mi rispose che mi avrebbe mandato il ragazzo non appena avesse finito il suo lavoro. Acconsentii, salutai e me ne tornai indietro. Una volta a casa presi tra le mani il grosso bastone di legno e aspettai. Non ci volle molto. Vik arrivò un'ora dopo, vidi che portava con sé delle barre di ferro e un martello. Mi misi il bastone dietro alla schiena e lo accolsi sulla porta. «Buongiorno Vik, vieni. Ti mostro il punto in cui le assi si sono separate». Entrò, gli indicai il fondo della stanza e mi feci precedere. «Proprio qui, vedi» dissi, indicando il muro di legno. Non vedendo niente di particolare lui si sporse, avvicinando gli occhi alle assi del muro e in quel momento lo colpii alla nuca con il bastone. Quella era la parte più pericolosa del mio piano, perché se avessi colpito troppo forte avrei potuto ucciderlo e se invece fosse rimasto in grado di reagire, avrebbe potuto facilmente avere la meglio su una donna della mia età. In ogni caso colpii forte perché, non essendomi ancora abituato alla forza di Cat, non volevo rischiare di fallire. Alzai subito il braccio per colpire di nuovo ma non fu necessario. Il ragazzo piombò rumorosamente al suolo. Gettai via il bastone. Presi una delle corde e gli legai le mani dietro alla schiena, poi presi il cappio e lo feci passare attorno a una trave del tetto, lo fissai e verificai che il nodo scorsoio funzionasse a dovere. Nascosi il coltello da cucina sotto a un asse del pavimento non lontano da Vik, misi una sedia sotto al cappio e infine, con la terza corda, legai saldamente una delle mie caviglie a una delle caviglie del ragazzo che ancora giaceva a terra incosciente. Doveva esserci un contatto tra di noi. Era tutto pronto. Dovevo solo trovare il coraggio di impiccarmi.
38
Mi misi in piedi sulla sedia. Afferrai il cappio e me lo misi attorno al collo. Dovetti lavorare in equilibrio su un piede solo perché la caviglia che avevo legato a quella di Vik costringeva la mia gamba sinistra a rimanere tesa all'infuori. Non fu troppo difficile comunque. Agitai la gamba che avevo legato alla sua perché volevo accertarmi che il nodo che ci univa non si sciogliesse facilmente. Lui produsse un rumore con la bocca, poi rimase fermo a respirare rumorosamente con una delle due gambe tesa e sollevata dal suolo. Ero pronto. Forse stavo per fare l'ultimo errore della mia vita ma mi ero spinto troppo avanti per rinunciare. Con l'unica gamba a disposizione rovesciai la sedia, precipitando al suolo per pochi centimetri prima che il cappio, stringendosi sulla mia gola, arrestasse la caduta. Fu doloroso. Spaventosamente doloroso. Non avevo mai preparato una forca né l'avevo mai visto fare. Il tratto di corda che mi separava dal suolo era troppo corto e il peso di Cat troppo leggero per spezzarmi il collo, quindi rimasi appeso a soffocare mentre mi divincolavo in preda al terrore più cieco. Avrei fatto qualsiasi cosa in quegli ultimi istanti di lucidità per togliermi da quella situazione. Ma il coltello era troppo lontano e con la forza delle mani non potevo oppormi allo strangolamento che il mio stesso peso stava provocando. Non so per quanto tempo rimasi appeso alla corda ad agitarmi, ma a un certo punto esaurii l'aria e le forze, e tutto finì. La prima cosa che ricordo fu un dolore pulsante sul retro del collo. Prima di aprire gli occhi, istintivamente cercai di portare una mano alla nuca per massaggiarmi ma mi accorsi di avere i polsi legati dietro alla schiena. Solo allora capii che aveva veramente funzionato. Aprii gli occhi. Era più buio rispetto a prima. Dovevo aver dormito per qualche ora. Il corpo di Cat era davanti a me, inerte, la faccia viola congestionata dalla morte. Mi formicolava la gamba destra costretta in una posizione innaturale dalla corda che legava la mia caviglia alla sua. Ricordavo dove avevo messo il coltello, mi spostai e lo presi, poi lo usai per liberarmi le mani e la caviglia. Nausea. Mi girava tremendamente la testa e sentii l'impulso di vomitare. Mi trattenni. Non dovevo perdere tempo. Lasciai Cat dove si trovava. Feci sparire le corde con le quali mi ero legato e riposi il coltello al suo posto. Presi il martello e inchiodai la barra di ferro che mi ero portato in un punto del muro dove effettivamente c'era stato uno spostamento delle travi.
39 La forza nel braccio di Vik mi stupì. Tutto stava andando per il meglio. Presi alcune monete d'argento dal borsellino di Cat e lasciai le altre al loro posto. Volevo che chi l'avesse trovata pensasse a un suicidio e la presenza di denaro lì vicino avrebbe certamente escluso l'azione di un ladro. Ero pronto per andarmene. Mi avvicinai a Cat per l'ultima volta, le presi la mano e la baciai: «Addio Cat, riposa in pace». Mi avviai verso la casa del fabbro, chiudendo la porta dietro di me. La nuca mi faceva un male del diavolo e la nausea mi tormentava al punto che presto mi sarei dovuto fermare per vomitare, ma non sapevo come contenere la mia gioia. Ero vivo. Ero vivo, giovane, forte, bello e quando avessi recuperato l'argento che avevo sotterrato sarei stato anche piuttosto ricco. Ma soprattutto ero immortale. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
L'antiquario ..................................................................................... 4 379 D.C. Il venditore d'olio ............................................................ 7 447 D.C. Il guerriero ..................................................................... 13 489 D.C. La vedova ...................................................................... 34 489 D.C. Il fabbro ......................................................................... 40 534 D.C. Il mercante ..................................................................... 74 592 D.C. Nessuno ......................................................................... 98 652 D.C. Il mandarino ................................................................ 116 690 D.C. Il dignitario .................................................................. 154 745 D.C. Il capitano .................................................................... 179 Postfazione .................................................................................. 214
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.