Le auore di Sant'Alba, Fabrizio Paglia

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FABRIZIO PAGLIA

LE AURORE DI SANT’ALBA

ZeroUnoUndici Edizioni


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LE AUTORE DI SANT’ALBA Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-508-0 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Novembre 2021


A mia moglie Mariana, a mio fratello Maurizio a mio padre Giacomo, all’amico Massimo e ai miei angeli: Giuliana, Alba e Sandro.



PARTE PRIMA

COSE DI QUESTO MONDO



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CAPITOLO 1 – UN PRIMO CONTATTO ONIRICO

Stava dormendo, era chiaro. Lo sapeva che era un incubo, e che i cancelli infernali cigolano solo all’interno di una mente troppo oppressa o eccitata. Lo sapeva eppure era lì. Intrappolato nella semi-coscienza del suo incubo, in un improvviso inferno; dovuto forse alla mal digestione, o a pessimi film. Comunque in un personale deserto onirico, costellato di corpi sepolti fino al mento. La cosa peggiore? I loro volti mummificati in espressioni di malsana estasi che sbucavano dal nulla, con capelli simili a fili di verdura. Rimase in attesa del suono della sveglia a salvarlo, ma non udì nulla. Quant’era grande quel posto? Passi e ancora passi. Rumore di sonagli saltellanti. Pungiglioni nascosti nella sabbia, pronti a stillare convulsioni. Torri livide in cui i teschi si mischiavano ai mattoni, e gli infissi d’osso ricurvi erano pronti a ghigliottinare gli incauti e i ficcanaso. Perché non vedeva più? Che fine aveva fatto l’orto di spettri? La notte era scesa come una mannaia, o tutto si era spento come la cordicella tirata di una abat-jour? Lo sapeva che era in un sogno cattivo, ma era tardi e troppo profondo. Allora il buio gli scese in gola. Boccata di catrame. Filtrando come un vento radioattivo, raggiunse gli organi interni e li affogò sotto un sudario corvino, corrosivo come uno stomaco nell’atto di digerire fotoni. Sapeva di essere in cerca di qualcosa, e si sentiva inseguito. Sì, ma in cerca di cosa? Inseguito da chi? Rischiarato da una fulminea supernova, dovette strizzare le palpebre per non essere inghiottito. Così adesso galleggiava in una stanza con le pareti di galassie e una stella morta per lampadario. Poteva percepire il lieve pizzicore dei neutroni attraversare il suo corpo di niente. «Tu chi sei?» chiese all’ombra colossale, che dopo aver bussato, gli veniva incontro. Prima di ricevere risposta, si accorse di fondersi alle sabbie mobili di un buco nero.


8 Precipitò tra strati del multiverso, forse per eoni, attraverso chimiche inconcepibili che lo scomposero trilioni di volte. Era pioggia, quella? La pioggia stilla purpurea dall’aria? E ascende a un cielo d’oceano? Forse la ricomposizione non era avvenuta correttamente, perché a quanto pareva anche il fuoco ignorava la fisica. Ancora ombre, ma questa volta di ghiaccio che conteneva soli che contenevano ghiaccio. «Che volete? Che volete dalla mia notte?» Un demone apparso dal vuoto delle loro scie gli sputò in faccia un umore. Forse era sangue. Forse trasudazioni da tombe ultrasensoriali. «Perché?» Il suo cranio ad alveare seguitava a partorire insetti mucosi da ogni esagono. Anche i tessuti semi carbonizzati del corpo lasciavano intravedere una fitta trama alveolare. Gli spuntoni umidi di una pinna caudale percorrevano tutte le vertebre fino al biforcamento della coda, e nelle orbite due biglie di ghiaccio e sangue risplendevano di luce propria. «Perché?» Solo un ghigno di gengive viola scuro. Poi fu la volta di una schiera di beati dagli occhi di giada; con le aureole infuocate che turbinavano tra corna splendenti. Avvicinandosi, ballavano come ubriachi suonando tamburi con pelli dai tratti umani. Loro lo circondarono, lo derisero, lo schiaffeggiarono. Fauci d’avorio si scoprirono, pronte a dilaniare le vene. A quel punto lui piegò appena il collo e si fece un segno della croce a caso. Forse partendo dal “patibulum”. “Avanti! Calamita per calamità”, pensò con una certa spavalderia. Niente di nuovo. Resilienza. Scorza. A esserne capace avrebbe anche pregato. Per loro, certo. “Padre mostro, che sei nei ciechi…” Invece, quando terminò la carneficina dei santi vampiri, ricoperto dai loro umori benedetti, bestemmiò un Dio senza più templi, giorni e peccati. Più e più volte. Con la stessa disperazione di un infante che viene marchiato a fuoco da un sole uterino. Ma quelle rughe e quel buio, piccolo mostro, torneranno prima di quanto credi, non temere! Amen! E a quell’incantesimo al contrario, si schiuse ai suoi occhi il soffitto in penombra di una camera da letto. La sua. La sveglia suonò una salvezza da quattro soldi. Per un attimo un’ultima creatura riuscì ad allungare gli artigli da


9 dietro le palpebre fino a questo mondo, quasi al lampadario. Poi ritrasse l’arto bruciacchiato. Un soffio tra le tende. L’odore del caffè. E un sospiro di sollievo tragicamente privo di chiaroveggenza.


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CAPITOLO 2 – SPESA VELOCE AL MINI-MARKET “Il nostro posto è qui. Il nostro pasto è qui.” Hug-Toth, durante le omelie di richiamo.

Un sudario lattiginoso ammantava il crepuscolo. «Se mi fai parlare… posso? Posso almeno parlare?» Giuliano era così teso da far fatica a deglutire. Era stanco e la notte prima aveva dormito orrendamente. «Grazie. Allora, te lo ripeto per l’ultima volta: in giro c’è quella specie d’influenza, come si chiama… sei tu l’esperta! Comunque qui sono tutti malati e l’ufficio è vuoto. Pensa che oggi non si è visto nemmeno Lupi.» Come accadeva sempre più spesso, era uscito dal lavoro di malumore e in ritardo di parecchi minuti. «Sai benissimo che non dipende da me!» Si frugò in tasca. «Ecco, tieni.» Diede degli spicci a un senzatetto, che da qualche giorno si era sistemato da quelle parti, e continuò a parlare al telefono. «Cosa? No, non faccio il filantropo, sei tu che sei tirchia! Sì, sì, ti ascolto.» C’era il rischio concreto che il supermercato vicino a casa avesse già chiuso, cosa che come minimo sarebbe equivalsa a una serata di scorrette rappresaglie da parte di Monica. Pensare di farla ragionare quando si metteva qualcosa in testa, era da escludere a priori. «Ma si può sapere perché non sei passata tu a comprarlo, il fottuto latte? Oggi ho dovuto lavorare per quattro, sono a pezzi. E poi guarda che roba…» C’era ancora parecchia foschia e lui detestava guidare; soprattutto in quelle condizioni. Tuttavia il telefono gracchiava con sempre maggiore intensità. «E certo che provo a passare! Ho altra scelta?» Dopo dieci minuti arrivò sotto al giallo tisico di un parcheggio desolato. Monica, con la scusa della prudenza, aveva continuato a massacrarlo in


11 vivavoce per tutto il tragitto. Quando s’innervosiva, era così: diventava logorroica. A volte offensiva. Saltò giù dalla macchina e, fendendo l’aria umida, si precipitò oltre le porte scorrevoli, che grazie al cielo ancora funzionavano. Giuliano recuperò in fretta e furia il latte a lunga conservazione che a quanto pareva, per quella sera, era d’importanza vitale per l’instabile serenità di Monica, e si diresse di corsa verso l’unica cassa ancora aperta. «Ok, ce l’ho. Sicura non ti serva altro?» continuò a dire al telefono, tuttavia si pentì subito di quella frase. Era ancora in quello stato di servilismo forzato indispensabile alla sopravvivenza in ufficio. Difatti dal telefono arrivarono nuovi, perentori ordini. «Ok, mi ricordo. Adesso però fammi chiudere, altrimenti non ce la faccio.» Così dovette comprare anche un pacco di zucchero, uova, pane a fette, dei cotton fioc e degli assorbenti sottili con la confezione viola chiaro. Prese anche due barrette di cioccolata e le pagò assieme al cartone di latte, sul quale una mucca stilizzata gli sorrideva bonariamente, l’esatto opposto della cassiera che, con fare scocciato, gli stava battendo i prodotti. Aveva due labbra da pesce e le guance scavate dall’acne, simili al suolo di un pianeta senza atmosfera. «Come mai siete ancora aperti? Non chiudevate alle otto e mezza?» «E adesso invece ci fanno chiudere alle nove» rispose quella, senza neanche alzare lo sguardo. «Ah, ecco…» «E l’anno prossimo alle dieci.» Giuliano si limitò a un accenno di sorriso. Pur solidarizzando, non aveva tempo per affrontare una discussione sullo sfruttamento dei lavoratori da parte del sistema neo-liberista. «Se non ci avranno già tutti licenziati.» In quel caso inarcò le sopracciglia. L’ultimo scontrino fu infine stampato. “Arrivederci e grazie” c’era scritto in grassetto. Uno dei motti preferiti proprio da quel sistema: arrivederci e grazie. Che sia giusto o meno. Qualunque cosa tu abbia dato. «La saluto.» «’Sera…» biascicò la cassiera appena prima di gonfiare un palloncino di gomma rosa. Uscendo in tutta fretta, Giuliano si scontrò con un cliente ancora più in ritardo di lui: un vecchietto distinto imbacuccato in un cappotto nero. Aveva qualcosa di vagamente rabbinico. «Oh, mi scusi. Non l’ho proprio vista» disse con il tono di voce che si


12 riserva ai duri d’orecchio. L’anziano signore lo squadrò con aria piuttosto seria. Era almeno sulla novantina. «Non si è fatto male, vero?» Nessuna risposta. L’uomo si limitò a risistemarsi le lenti tonde sul naso. Strizzò solo un po’ le palpebre, come se avesse appena dovuto sopportare un rumore fastidioso. Allora Giuliano abbassò la voce fin quasi a un sussurro. A quanto pareva ci sentiva benissimo. «Credo che stiano chiudendo, non so se riuscirà a comprare qualcosa.» Niente. Solo lo sguardo fisso nei suoi occhi. «Se sta bene, adesso dovrei proprio scappare. Scusi ancora.» A quel punto la cassiera si degnò di alzare lo sguardo e seguì Giuliano fin quando non scomparve oltre le porte di vetro. «Dove andremo a finire» disse poi a un collega. Quello scosse la testa e con fatica continuò a trascinare il bancale di merendine, che per l’indomani andavano caricate sugli scaffali delle super offerte: “Più mangi, più risparmi!”.


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CAPITOLO 3 – FRIBURGO

«Accidenti!» esclamò Herman agitando i piedi. «Guarda che mi fai fare, mi sono inzuppato tutte le scarpe. Mio padre mi prenderà a calci nel sedere.» Kerstin invece rideva divertita. «Sai cosa dice la leggenda, Herman Blumenthal?» «Che cosa?» «Chi si bagna le scarpe in uno dei canali di Friburgo è destinato a sposare qualcuno del posto.» Anche il ragazzo sorrise. «Allora sopporterò i calci di mio padre…» «Come sei dolce» disse lei, rigirando l’indice attorno a una treccia color miele. Durante lo sdolcinato scambio di effusioni, il piccolo Josef sembrava il più annoiato del trio. Si guardava in giro ma erano quasi tutti più alti di lui e non riusciva a vedere un granché. Come al solito il mercato era zeppo. A sua sorella sarebbero servite un paio di ore per riuscire a sbrigare tutte le commissioni che mamma le aveva affidato. Anche di più, se quel cretino del figlio del birraio non la smetteva di fare lo scemo con Kerstin. «Ti va se vi accompagno per un po’? Prima di tornare in bottega ho ancora qualche minuto di pausa.» «Ma certo, così puoi darci una mano a portare le ceste.» Josef sorrise alla perfidia gentile della sorella. Così percorsero le stradine acciottolate tra gli odori di salsiccia arrosto, zuppa di patate e torte al formaggio. Fecero lo slalom tra gente seduta a tavoli di legno e serbatoi di rame che spillavano senza sosta. Accidenti… La guerra era finita per davvero! Era come se tutti volessero dimenticare. I cantieri ricostruivano gli edifici con più colori e stili possibile; dal bianco barocco al rosso gotico, fino al giallo rinascimentale. Solo la grande cattedrale aveva resistito ai bombardamenti, e dopo quattrocento gradini si poteva ancora vedere tutta Friburgo, fino alla foresta nera. «Mi dia anche quattro mele, per favore. Quelle rosse.» «Poi?» «Basta così, grazie.»


14 Mentre Kerstin prendeva gli spiccioli di resto dalla signora Dürrenmatt, la corpulenta fruttivendola di fiducia, l’attenzione del piccolo Josef fu attirata da una signora che non sembrava del posto. Anche la donna, tra il viavai, sembrava averlo notato e si era fermata. «Come sta tua madre?» chiese la signora Dürrenmatt a Kerstin. «Bene. Anzi, le manda i suoi saluti.» «Ringraziala. Lo sa dei mosconi che ti girano attorno?» chiese con ironia, mentre sistemava l’insalata. Hermann, scarpe in mano e nascosto dietro una bancarella lì vicino, fece finta di niente. «So come si tengono a bada i mosconi!» disse Kerstin a voce alta. «Brava, signorina! Sei sempre stata forte. Mi raccomando, continua ad aiutare tua madre. Non può fare tutto da sola…» Il padre non era mai tornato dalla guerra. Finito in mille pezzi sopra una mina. «Lo farò, signora Dürrenmatt.» Nel frattempo Josef si era avvicinato a quella strana donna dall’ancora più strano colore di pelle. «Ciao, piccolino.» Lui sorrise e la donna ebbe un fremito. «Come ti chiami?» «Sono Josef.» «Ah, che bel nome. Quanti anni hai, Josef?» «Dieci. Li ho fatti proprio una settimana fa.» «Allora tanti auguri, giovane ometto!» «Grazie.» «Io mi chiamo Soraya, piacere di conoscerti. Ho visto che ti piacciono le mie trecce.» «Sì. Sono diverse da quelle che si fanno mia madre e mia sorella.» «Sono africane! Se vuoi ti insegno come si fanno. Così poi lo spieghi alla tua mamma.» Chissà cosa avrebbe detto il Führer solo qualche anno prima… Josef sembrava perplesso. Diede uno sguardo a Herman e sua sorella, che ancora parlottava con la fruttivendola. «Farle non è per niente difficile» disse Soraya scuotendo la testa. «Va bene. Basta che non andiamo lontano e non ci mettiamo tanto.» Quelle perline colorate lo ipnotizzavano. «Ma certo che no. Vieni, sediamoci laggiù. Sembri un bambino intelligente, vedrai che imparerai subito.» Del piccolo Josef non si ebbe più traccia. La zona fu battuta palmo a palmo per giorni, settimane, mesi. Niente. Il


15 bambino sembrava svanito nel nulla. Polverizzato. Due anni dopo, per il rimorso, la povera Kirsten non ce la fece più: la trovarono che penzolava da un albero.


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CAPITOLO 4 – LA VOCE CHE SAPEVA TROPPO

Giuliano era stanco e sbadigliò. Anche se in molti si erano ammalati e l’ufficio così vuoto non si era mai visto, lui, anziché trarne beneficio, si sentiva uno straccio. Testa pesante, svogliatezza e ancora due pratiche da smaltire. La sera prima Monica lo aveva stremato con la differenza tra i colori rosa e viola chiaro, e si era ritrovato a farsi strillare in faccia fino all’una di notte. “La prossima volta che se li comprasse da sola i fottuti nuovi assorbenti dell’ultima pubblicità del cazzo” rimuginava assonnato ma furioso. “Mi sta facendo esaurire!”. Inoltre aveva ancora in testa alcune immagini dell’incubo avuto un paio di notti prima. Non gli era mai capitato di averne uno così assurdo e vivido. I sogni non se li ricordava quasi mai. Invece quel delirio di sepolti fino al collo e risse in universi paralleli… Sulla scrivania il telefono fisso squillò come uno schiaffo. Succedeva sempre più di rado. «Assicurazioni Lupi, buongiorno. In cosa posso aiutarla?» «Signor Santalba?» «Sì?» «Giuliano Santalba?» D’istinto guardò la scadenza delle pratiche. «Sì, sono io. Ma chi parla, scusi?» «Non importa.» «Come?» «Ho detto che non ha importanza. Non mi sente bene? Ma certo che lei mi sente! E tra non molto ci incontreremo. E questa è una notizia meravigliosa!» «Eh? Cos’è, uno scherzo? Tony, sei tu?» «Non sono il suo caro amico. Io non saprei dove mettere le mani con quegli aggeggi.» «Dai, smettila di cazzeggiare. Sono al lavoro.» Pochi istanti dopo passò una nana dai capelli rossi e tailleur grigio. Una donna molto, molto pericolosa. Di quelle che per la carriera farebbe di tutto. «Sappiamo molto bene dove si trova, la stiamo vedendo proprio adesso.


17 Lupi Assicurazioni, Via Parini 38, quarto piano, seconda scrivania a destra, quella con il primo cassetto bloccato. E come dice la sua signora, quella fantasia beige non le dona un granché.» Giuliano si allentò la cravatta e si guardò in giro. Si trattava di sicuro di un collega. «Ah, sì, eh? Ma che bravo!» poi brandì il dito medio in aria. «Questo invece lo vedi?» e riagganciò. Quello non era un giorno in cui gli andava di essere preso per il culo. Aprì il file della prima pratica ma dopo pochi minuti il telefono squillò di nuovo. «Non si tratta di bravura» continuò la voce. «Ancora?» «Soltanto la vediamo come lei vede noi, e la sentiamo come lei ci sente. Interagiamo! D’altronde, questa stessa telefonata lo dimostra in modo chiaro, non trova? Siamo in grado di entrare in contatto.» Come tutte le volte in cui s’innervosiva, le narici di Giuliano cominciarono a dilatarsi, simili alle froge di un cavallo. «Ho capito bene? Vuoi entrare in contatto con me?» «Siamo già in cont…» «Ma chi sei, una specie di degenerato sessuale? Uno stalker? Sai che a me piacciono le donne?» «Non s’innervosisca subito.» «No, io invece mi innervosisco eccome, e sai perché? Perché mi stai facendo perdere tempo!» «Vedrà che imparerà a trascorrerlo meglio, il tempo.» «Ascolta, Eraclito… Sei solo uno psicopatico, ecco cosa sei! Non so chi ti abbia dato questo numero ma adesso devi lasciare la linea libera. Ho già abbastanza casini. Ci mancava solo lo squilibrato enigmatico. Direi proprio che ho fatto Bingo!» «Non si preoccupi, ci vuole un po’ di tempo per digerire l’idea. È normale. E poi, nonostante il linguaggio colorito, lei ci sembra una persona piuttosto piacevole. Vedrà che si troverà bene.» «Cosa? Cos’è che dovrei digerire? Vuoi spaventarmi? Senti, lo sai cosa non mando giù, io? I poveri stronzi come te! Quelli che passano la vita a infastidire gli altri.» «Così diventa tutto rosso, si calmi.» «No, tu non vedi proprio un cazzo. Fatti curare, malato di mente.» «Oh, caro signor Santalba, lei adesso è un cumulo di nervi, ma se le cose andranno per il verso giusto potrebbe essere lei a curare noi. Aspettiamo solo la conferma biologica.» «La conferma biologica?» «Esattamente.»


18 «Tu sei veramente un pazzo.» «Cosa vuole sapere?» «Ma piantala, sbruffone!» «A questo punto mi vedo costretto a ricordarle che il viola chiaro è ben diverso dal rosa fucsia.» Un’ondata di calore investì Giuliano fin quasi a paralizzarlo. «Mi prendi per il culo?» «Inoltre, dovrebbe davvero far vedere i freni dell’auto di Monica.» «Come cazzo fai a…» «Non mi dica che si sta chiedendo come facciamo a saperlo.» «È impossibile. Me lo ha detto solo stamattina a colazione.» «Già, le colazioni di Monica… Puah! Quella maledetta fissa per uova e bacon, non è vero? Secondo la più becera retorica statunitense. Sarà colpa di tutte quelle serie TV con cui la tedia ogni santissima sera!» «Ma si può sapere chi cazzo sei? Ci stai spiando? Come sai queste cose? Cosa vuoi da mia moglie?» «Non siete sposati.» «Questo lo sanno in parecchi.» «E a essere sinceri conosciamo anche i dubbi che nutre a proposito della cara compagna. Ma non si preoccupi, sistemeranno tutto, vedrà.» A quel punto Giuliano era piuttosto spaventato. Poi s’impose un respiro profondo e partì al contrattacco: «Oddio, sai che c’è? Tu devi farti aiutare. Dal timbro non mi sembri neanche più un ragazzino ma forse sei ancora in tempo. Provaci! E complimenti per gli effetti sulla voce. Cos’è un phaser con un pizzico di delay?» «Bravo, le servirà un po’ di sana ironia. Se sapesse! Avrà delle sorprese, vedrà.» «Sì, eh? Bene, pagliaccio, adesso scusami ma devo proprio mandarti a fare in culo. Ti auguro tanto dolore, ok?» «Saluti.» Soddisfatto da quell’insolito sangue freddo, Giuliano riabbassò la cornetta facendo finta di non vedere il tremore della sua mano. «Mondo di pazzi scatenati. Tutte a me. Tutte a me devono capitare!» Continuò a lavorare sugli arretrati, ma la sensazione di disagio lasciata da quelle telefonate cominciò a crescere da subito. La sua mente aveva bisogno di capire, di comprendere. Ogni pensiero saltava le scartoffie e convergeva a specifiche domande: “Come diavolo faceva a sapere tutte quelle cose? Mettiamo anche che sia un vicino che l’ha sentita urlare. Va bene, Monica ormai è isterica e tra stanotte e questa mattina ha veramente dato i numeri. Questo copre il litigio per gli assorbenti e forse la questione dei freni. Ma come faceva a sapere del resto? Della colazione che butto giù solo per non litigare, o dei miei sospetti…


19 Quelli me li sono sempre tenuti per me”. Una mano gli calò sulla spalla. «Oh!» «Ma come siamo nervosi quest’oggi» disse Ponzio, dell’ufficio reclami. «Ciao. No, è solo che…» balbettò lui, che in effetti era saltato sulla sedia. «Sono un po’ preso, e…» Poi, per ancora un attimo, si perse nel flusso di pensieri appena interrotto. “Quella voce aveva qualcosa di troppo insolito”. «Giuliano?» “Neutra come quella di un eremita che ti parla dallo spazio”. «Ehi, ma ci sei?» «Sì, sì, scusa.» «Sei strano, oggi. Senti, io mi prendo un caffè di là con Barbarella e Calvi. Che fai, vieni? Fai parte anche tu dei “sopravvissuti”? Oh, tutti malati!» «Ma certo. Tanto oggi non ho testa. Dammi solo un attimo.» «Cosa sono?» chiese poi Ponzio indicando la scrivania. «Cosa sono cosa?» «Quei disegni.» «Oh! Be’, sono… Sono solo dei…» «Sicuro di stare bene?» «Ma sì.» «Diciamo che hai un certo talento nell’ambito dell’astrattismo.» Giuliano fissò i disegni sul block notes, che nella maniera più assoluta non ricordava di aver fatto: spirali precise e guglie, stilizzazioni di felini e pachidermi. Poi dei numeri. Lumache. Finestre. Violini. «Ok, Picasso, allora noi siamo in sala pausa. Però datti una mossa che tra un po’ torna il dottor Lupi, e non credo sia interessato alle tue espressioni artistiche.» «Arrivo.» Giuliano rimase a pensare a quegli strani avvenimenti fino a fine giornata, perso in un limbo improvviso, incurante della pratiche arretrate e del povero Ponzio, che lo aveva aspettato per più di mezz’ora mentre Barbara e Calvi flirtavano in maniera spudorata.


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CAPITOLO 5 – VECCHIO IMPERTINENTE

Appena uscito chiamò Monica per avvisarla che sarebbe passato al Pub. «Ma stasera è venerdì, non mercoledì. Che c’è, ne hai combinata qualcuna?» Lui odiava quel tono nella voce di Monica. Era quello di una maestrina che parla a un bambino ritardato. «Ho solo avuto una giornata pesante e preferirei rilassarmi un poco prima di tornare a casa, non ti preoccupare. Come sta Samuel?» «Samuel è in camera sua, perché? Da quando t’interessa di Samuel?» «Dai, Monica. Lo sai che ho poco tempo. Faccio di tutto per stargli vicino.» «Oh, grazie! Grazie, signor Santalba, adesso qui siamo tutti più tranquilli.» «Ma possibile che deve sempre finire così? Bevo qualcosa con i ragazzi e arrivo.» «Ma ti senti quando parli? Con i ragazzi? Avete tutti quasi quarant’anni. Comunque, vai. Vai a fare baldoria con i… ragazzi! Io vado a dire a Samuel che hai poco tempo.» Niente di nuovo. Ormai i rapporti tra loro erano quelli: lui sempre stanco, lei sempre insoddisfatta. Parcheggiò l’auto e abbandonò il suo guscio riscaldato per correre dall’altra parte della strada. Spinse la porta dalla vetrofania gotica, e in un attimo fu all’interno di un altro scrigno di tepore. Si guardò intorno: le solite luci soffuse, gli spartani bancali di legno incisi da generazioni di ubriachi, il tintinnio dei bicchieri. Si addentrò tra l’odiata folla del weekend. Il vecchio Carlo stava ricurvo dietro il bancone e asciugava i bicchieri. Non ce la faceva più. Suo nipote, invece, colui che si diceva dilapidasse ogni introito proveniente da quel posto, stava facendo il gradasso con una biondina tutta tette e starnazzi. «Signori.» «Oh, guarda un po’ chi c’è, Giuliano Santalba! Che ci fai qui di venerdì?» gli chiese Tony, piegando la pinta per evitare che la schiuma dell’ennesima rossa finisse sul tavolo. «La tua dolce metà è caduta in coma?» Giuliano scivolò dietro la panca e si slacciò il soprabito. Dalla vetrina la strada umida riverberava il rosso dell’insegna sui loro volti.


21 «Avevo bisogno di rilassarmi un po’. Vi giuro che questa è stata una settimana infernale!» «Be’, sai che novità. Il solito.» «No. A lavoro sono tutti influenzati e mi stanno massacrando. Sono distrutto. Peggio del solito! Il solito è Monica che mi dà il tormento su tutto, o Samuel che mi ignora quando non mi tratta come un coglione.» «La routine di un uomo sposato» fu la sentenza. «Potete dirlo: la routine che uccide! Solo che non sono sposato…» Giuliano fece segno alla cameriera di portargli il solito White Russian. Ne prese un altro anche Claudio. «E ho pure mal di denti. Ne ho piene le palle di vivere così!» «A me lo dici… Ti ho detto che non ho ancora risolto la faccenda con il preside? Ormai è un semestre che s’inventa di tutto piuttosto di darmi retta.» «Per l’anticipo sul TFR che gli avevi chiesto?» «Per quello e per le modifiche al programma.» «Mettiti l’anima in pace. I tuoi metodi d’insegnamento non gli andranno mai giù.» «Vero. È un bacchettone che renderebbe noiosa anche la finale dei mondiali di calcio di nudismo femminile.» «Ah, ne conosco parecchi anch’io.» «La filosofia potrebbe essere così avvincente, così utile in un mondo come questo, e invece… ma quello che mi preoccupa di più è l’anticipo. Sandra mi vuole spolpare.» «Non sembrava ci fosse così acredine tra di voi.» «Non sembrava ma c’è. Sì, ma mi sto organizzando ben bene per la guerra, fidatevi. Vedrete che sorpresa!» «Quale sorpresa?» «Vedrete, vedrete…» «Comunque, scusate» s’intromise Tony «ma sai che hai una faccia che fa davvero schifo? Sicuro che è tutto a posto?» «Sì, sì, tutto bene.» A Giuliano venne ancora in mente la telefonata ma aveva deciso di non parlarne. «Sono solo stanco.» «Be’, con una con il carattere di Monica…» Da sotto al tavolo Claudio diede un calcio sullo stinco di Tony. «No, Tony ha ragione. Non so quanto resisterò con lei. La situazione è sempre più grave. Se vi raccontassi per cosa si è incazzata ieri! Eppure non era così. È cambiata.» «Le persone non cambiano, si rivelano» disse il professore di filosofia. «Forse hai ragione.»


22 «Sì, ma almeno è un gran bel pezzo di donna! Hai presente la quasi ex mogliettina di Claudio? Godzilla?» «Lascia stare quella stronza, Tony! Per favore» lo pregò Claudio. «Goditi l’unica cosa giusta che hai fatto in vita tua: non esserti sposato, soprattutto non con una come Sandra!» «Puoi dirlo forte, professore. Salute!» In quel momento entrò nel locale un uomo molto anziano e distinto, il genere di persona che di certo non si vedeva là dentro a quell’ora. Con fatica si fece largo sino al bancone e ordinò un bicchiere d’acqua frizzante con una fettina di limone. Il vecchio Carlo, un po’ incredulo, glielo porse senza proferire parola. Poi l’uomo si sedette a un tavolo lì vicino, trovato incredibilmente libero, incrociò le gambe sotto al cappotto, e attraverso la folla cominciò a guardare i tre con insistenza. Tony era già troppo ubriaco per accorgersene, Claudio stava sulla buona strada, così fu solo Giuliano, dopo qualche minuto, a rendersi conto di essere fissato con tanta intensità. Ebbe l’impressione di un volto familiare. «Adesso che vuole questo? Non sarà mica lui?» «Lui chi?» chiese Claudio, mentre agguantava con impazienza i due White Russian senza aspettare che la procace cameriera li prendesse dal vassoio. Mosse gli occhi verso l’anziano stalker, ma a Claudio scivolò un bicchiere e… «Oh cazzo, no! Guarda che casino, tutto sui pantaloni.» «Sembra che ti sei pisciato addosso» biascicò Tony, ridendo. «Passami i fazzoletti, idiota!» Quando Giuliano, distratto dalla goffaggine dell’amico, riguardò in direzione di quell’uomo inquietante, il tavolo era occupato da altri. Non c’era neanche il bicchiere d’acqua che trenta secondi prima stringeva con il pugno rinsecchito, quasi a volerlo stritolare. «Cos’è che dovevo vedere?» gli chiese d’un tratto Claudio, ancora in piedi a tamponarsi i pantaloni di velluto. Giuliano buttò giù il drink tutto in un sorso. Poi scosse la testa. «Niente. Be’, ragazzi… io vado.» «Ma se sei appena arrivato? Che cavolo hai visto?» «Ma che ne so… mi è sembrato che uno seduto lì… Boh, dai, lasciamo stare!» «Sia scomparso?» chiese Tony. «L’hai visto anche tu?» «No, ma credo si tratti di buchi nel tessuto della Matrix, o un’equazione biologica difettosa…» «Fottuto ubriacone.»


23 L’informatico gli schioccò un bacio. «Sono a pezzi, davvero. E poi sapete che per me il venerdì c’è troppa gente. Volevo solo salutarvi.» «Come vuoi. In effetti hai la guancia un po’ gonfia. Forse hai un ascesso. Fossi in te chiederei alla mogliettina i soldini per un dentista» rincarò Tony. «Vaffanculo, non è proprio serata, eh?» «Stai calmo, bello. Scherzavo. Riposati!» «Ci vediamo presto.» Appena fuori dal Pub, Giuliano si accese una sigaretta che fumò con una certa avidità fin quando non arrivò all’auto, poi buttò il mozzicone a terra e scomparve nella notte grigia. Non se ne accorse, ma il rosso dei fanali posteriori illuminò i tratti rugosi di un vecchio, che con fatica si era chinato a raccogliere la sigaretta quasi spenta.


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CAPITOLO 6 – LA PARTENZA DI CARLOS FLORIMON

La stanza era un forno. Persino le pareti sembravano sul punto di sciogliersi, e le mosche volavano stordite sulla frutta matura. «Ti dico che Carlos ha qualcosa che non va! Ieri l’ho visto parlare di nuovo da solo.» «Smettila, mamma! Tanto lo so che non ti è mai piaciuto.» «Ascoltami, non si tratta di questo. Non solo…» «E di cosa, allora? Ho visto anch’io che ultimamente è un po’ strano, cosa credi? Ma tu questa la chiami vita?» «Ma ti giuro che ieri stava nella stalla a strillare di andarsene a un…» la donna scosse la testa. «A un forcone! A un forcone, capisci? C’è qualcosa che non funziona nella testa di quell’uomo.» Tecla lanciò il coltello con cui stava affettando la verdura. «Ti ho detto di smetterla, mamma!» «No, Tecla, non la smetto. Non se gli spiriti maligni insidiano la mia bambina!» Lei si asciugò il sudore con l’avambraccio e sorrise con amarezza. Quattro pale sgangherate giravano stanche dal soffitto. «Gli spiriti… forse gli spiriti hanno deciso di ascoltarti! E tra un po’ non ti darà più fastidio.» Sua madre si stava alzando dalla sedia con le tazzine vuote, ma si rimise subito a sedere. «Che vuoi dire?» Tecla andò a sedersi accanto a lei, prendendole le mani deformate dal lavoro. «Ha deciso di andare.» «Davvero? Te l’ha detto lui?» «Sì.» «E vuole passare da Sonora?» «Credo di sì. Dal deserto…» «Be’, il fisico e la testardaggine non gli mancano. Potrebbe anche farcela.» «L’America non ci vuole, mamma!» «E che alternativa avete? Prima l’hai detto tu che questa non è vita, e sai che sono d’accordo con te.»


25 «Sì, ma…» «Che ne sai che non riesca a trovarsi un impiego in California, o in Texas, e farti vivere più dignitosamente?» In quel momento Carlos entrò nella stanza. Come sempre sapeva di benzina. Il sole era a picco e lui aveva bisogno di un po’ d’ombra. «Signor Florimon, buongiorno.» Carlos non la salutò. Fece solo un cenno alla moglie. «La pompa è deserta.» «Prima di sera qualcun altro passerà, vedrai.» Tecla gli versò dell’horchata che tracannò d’un fiato, bagnandosi la camicia e i baffi alla mongola. «Te l’ha già detto?» chiese alla suocera con voce dura. «Ne stavamo parlando.» «Ma che sia chiara una cosa» disse alzando l’indice annerito. «Se tutto dovesse andare bene… porto via solo Tecla!» La donna sollevò i palmi appoggiati sul tavolo, e fece di sì con la testa. «Che sia chiaro» ribadì lui. Per qualche istante un paio di mosche svolazzarono tra l’incrocio al vetriolo dei due sguardi. Solo per miracolo non rimasero incenerite. «Ne vuoi ancora?» chiese Tecla al marito. «No. Sono a posto così.» Poi Carlos si alzò dalla sedia di paglia sulla quale si era stravaccato, si sciolse la lunga coda, nera come il petrolio, e come sua abitudine andò a immergere la testa in una bacinella d’acqua e insetti. Dopodiché tornò, grondante, alla pompa di benzina. Però a Tecla e sua madre era sfuggita una cosa: non era dell’America che parlava Carlos. Quella strana gente che vedeva solo lui ormai, lo aveva convinto. Lui sarebbe partito per Sant’Alba.


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CAPITOLO 7 – ROUTINE ASSASSINA (DI UN UOMO NON SPOSATO)

Monica aveva appena finito di sparecchiare e stava asciugando i piatti in cucina. L’acqua era troppo calda e la fronte cominciava a diventarle lucida. C’era chi avrebbe fatto follie per quella fronte madida, Giuliano lo sapeva bene. «Questo maledetto miscelatore non si riesce a regolare! Vedrai che altra sberla ci arriva il mese prossimo!» strillò. Giuliano era sul divano della sala con il telefono in mano e quasi non rispose. Si limitò a mugugnare qualcosa. «Ma si può sapere che diavolo stai facendo?» «Niente.» «Hai portato giù il vetro?» «Adesso lo porto.» «Stai attento che c’è un bicchiere rotto. Non vorrei che ti facessi un taglietto, così poi svieni.» «Ok.» «E vedi di non fare il solito casino. Appoggialo. Capito? Cerca di non svegliare tutto il condominio.» «Sì…» Monica storse la bocca. Tutta quella passività la insospettì. Quando cominciava a punzecchiarlo a quel modo, qualche risposta stizzita se la prendeva sempre, ma quella sera sembrava che Giuliano avesse davvero qualcosa che non andava. Inoltre conosceva la sua avversione per la tecnologia, in particolare per i cellulari, e vederlo cincischiare tutta sera con il suo non era una cosa per niente ovvia. Anzi, per un periodo aveva persino cercato di educare Samuel a un uso cosciente di quegli aggeggi, però poi… lui non finiva mai niente! «Tutto bene al lavoro? Hai combinato qualche altro danno?» «Cosa? Sì, tranquilla…» «Sì?» «Cioè, no!» «Ma ti senti bene? Ieri ti sei lamentato tutta notte. La solita acidità di stomaco? Ancora l’ascesso? Mal di testa?» chiese lei con gli occhi verso l’orizzonte tra piastrelle e muro. «Ho fatto un brutto sogno.»


27 «Poverino.» «Non ti preoccupare.» «Mmh…» Decise il tutto per tutto: «E scommetto che l’occasione per chiedere gli arretrati non l’hai avuta manco oggi, giusto? Con quale scusa ti hanno liquidato questa volta?» «Troppo lavoro, oggi. Non ne ho avuto il tempo.» «Eh, già» disse sarcastica. «Tanto ci sono i soldi di mio padre, giusto?» «Giusto.» «Come giusto? Mi stai prendendo in giro?» «Ma no, che dici… arrivo subito» rispose lui, prendendo le chiavi del portone. «La lampadina dell’anticamera è saltata. Rimarremo così per un anno?» Silenzio. Solo la porta che si chiudeva. A quel punto ne era sicura. Quella distanza, in Giuliano, non l’aveva mai vista. Con sollievo chiuse l’acqua, si sfilò i guanti e si asciugò la fronte con l’avambraccio. Forse era solo stanco, pensò, ma lo aveva visto stanco altre volte. No, non poteva essere quello. Era successo qualcosa. Sicuro. Erano già dieci anni che si sopportavano, e quando tirava fuori la storia dell’eredità di suo padre, il suo ego aveva sempre avuto una qualche reazione. Di solito acciuffava uno dei suoi libri e si barricava in bagno. O strimpellava la chitarra. O prendeva la macchina e andava a farsi un giro per sbollire. Non restava impassibile come aveva fatto quella sera. Tra l’altro lui odiava andare nel cubicolo eletto dagli inquilini a pattumiera condominiale. E in effetti non ne aveva tutti i torti. Monica pensò agli scarafaggi con un brivido. Una finestrella microscopica e un ventilatore così ingiallito da sfumare al marrone, erano l’unico contrasto ai miasmi spigionati dai rifiuti e dalle pozze sul cemento grezzo. Ci riuscivano solo quando c’era un po’ di vento, o la ruggine del supporto rotante faceva in modo che l’aria delle pale ti accarezzasse fugacemente. Per non parlare dell’estate e delle mosche! «Mah.» Quella sera non toccava neanche a lui scendere, eppure… Decise che nei giorni a venire lo avrebbe tenuto d’occhio, e mentre ci pensava tese l’orecchio. Niente. Giuliano aveva davvero appoggiato il sacchetto con il vetro senza svegliare tutto il vicinato. C’era qualcosa che non tornava.


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CAPITOLO 8 – LA PROVA BIOLOGICA

Rispetto a qualche giorno prima, la situazione in ufficio era parecchio migliorata. Molti erano rientrati, ed entro i limiti di certe dinamiche aziendali, il lavoro era distribuito meglio. Tuttavia, Giuliano continuava a pensare che quell’intrico di moquette “sporc’azzurra” disseminato da distributori di scadente caffè, fosse uno dei luoghi più tristi sulla faccia della Terra. Lo odiava. Tra le scrivanie tutte uguali, circondate da pannelli claustrofobici, l’arrivismo, l’ipocrisia e l’immeritocrazia la facevano da padroni; così tanto che solo lo sfiorare il discorso equivaleva a un’offesa mortale al supremo Dio del profitto. Ma la storia è sempre quella: a fine mese arrivavano le bollette. Guinzagli cartacei. «Oh, signor Santalba!» «Salve, dottor Lupi.» «Come andiamo?» «Con la questione dell’influenza c’è stato parecchio lavoro in più, ma tutto sommato…» «Tutto sommato lei non ha fatto altro che il suo dovere, dico bene?» “Figlio di troia” pensò Giuliano. «Sì… immagino di sì» invece disse. «Bene! Allora non perdiamo altro tempo, forza! A lavoro!» Odiava quel grassone arrogante. Lo detestava con tutte le forze. Che cazzo aveva da battere le mani? Ormai lavorava in quel buco da quasi quattro anni e, a parte la sicurezza di uno stipendio sicuro, non era riuscito a trovare altri lati positivi. Prima di essere assunto – oltre ogni aspettativa – alla “Lupi Assicurazioni S.r.l.” aveva tentato con un negozio di sigarette elettroniche, ma dalla sera alla mattina il “libero mercato” aveva deciso di raddoppiare le tasse sui prodotti e, morale della favola, più del cinquanta per cento di chi aveva investito in quell’attività finì gambe all’aria. In più lui aveva avuto Monica. Che lo aveva letteralmente massacrato. Si era preso dello sprovveduto, del credulone, del povero illuso. Poi un giorno lei gli fa notare l’annuncio di una compagnia assicurativa su un sito online. Lui, scoglionatissimo, chiama, fa tutti i colloqui e infine eccolo lì, nel suo bel “cubicolo alienante”. Con il peso di doverla pure ringraziare. Nel frattempo Monica era cambiata. L’aveva vista allontanarsi. E poi


29 inacidirsi. E lui? Cosa aveva fatto lui? Si stava arrendendo? Si era già arreso da un pezzo? Non aveva tempo per pensarci. Doveva lavorare. Verso le tre del pomeriggio rispose al telefono. «Assicurazioni Lupi, buongiorno. Come posso aiutarla?» «Buongiorno signor Santalba!» Per un istante i nervi di Giuliano si cristallizzarono. «Cazzo, ancora tu? Ok, adesso chiamo i carabinieri.» «No, no, non si scaldi così. La chiamavo solo per avvisarla che abbiamo la prova biologica. Lei è dei nostri!» «Ancora con queste stronzate? Scommetto che l’altra sera quello al Pub eri tu, vero? Ma certo. Chi cazzo sei, una specie di mummia nazista fuori di testa scappata dall’ospizio? Ti giuro che appena esco di qua ti faccio internare ancora, vecchio psicopatico!» «Allora riattacco subito. Volevo solo dirle questo. A presto e… faccia attenzione.» «A cosa? Vaffanculo!» Appena mise giù vide un’ombra suina alle sue spalle. «Santalba!» Saltò sulla sedia. «Chi accidenti era?» «Oh, non si preoccupi, dottore. Non era un cliente.» «Voglio ben sperarlo! E a chi si rivolgeva con quel tono, usando il telefono aziendale?» «Qualcuno deve aver rimediato il numero interno e da un paio di giorni si diverte. Davvero, non si preoccupi.» Mentre Giuliano spiegava le sue ragioni, Lupi fu chiaramente distratto dal fondoschiena della nuova stagista. «Va bene, va bene, mi faccia sapere…» “Cosa? Cosa cazzo è che ti devo fare sapere? E i miei arretrati?”. «Ma certo, dottore.» Il capo supremo di quel cesso aveva gli occhietti strabuzzati e gli sarebbero mancate solo delle gocce di saliva, per ricordare in tutto e per tutto un orco da favola di serie B dal triplo mento ballonzolante. Giuliano ebbe acidità di stomaco fino a sera: senza rendersene conto aveva di nuovo riempito il suo bloc-notes di spirali, sfere e altri strani simboli.


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CAPITOLO 9 – VITA SEGRETA DI UN PROFESSORE DI FILOSOFIA

Una voce che sembrava gracchiare da Marte, li invitò a salire ma l’ascensore era rotto, quindi Giuliano e Tony dovettero farsi tre piani a piedi. Finalmente Claudio li aveva invitati nella casa da neo single, e aveva parlato anche di una sorpresa. In realtà si era già trasferito lì da tre mesi, ma fra i vari impegni quella era la prima volta che riuscivano a incontrarsi in santa pace. «Ciao, ragazzi. Entrate, entrate.» «Cavolo, Cla’. Devo farti i complimenti» disse Giuliano ancora con il fiatone. Poi barcollò fino al divano. «È tutto così ordinato. Se io vivessi solo…» «Lo sai come sono fatto. Sono un tipo preciso, e poi di necessità virtù!» «Chi ti ha aiutato a portare tutti i libri?» chiese Tony, ispezionando l’ambiente. «Un po’ alla volta.» «Se me lo chiedevi ti davo una mano.» «Ma figurati!» «E pensare che potresti averli tutti in un reader grande così.» «Lo so, lo so. Leggere non mi dispiace neanche in quel modo. Ma vuoi mettere la carta? Il fruscìo, il profumo…» «Simuleranno anche quello.» Un gattino sbucò dal bagno. «E questo? Ti sei preso anche un micio?» «Macché. È un randagio che gira nel palazzo e ogni tanto gli do un po’ di latte. Portatevelo a casa voi.» «Scherzi? Monica odia i gatti! Una volta ne ho trovato uno ancora più piccolo e sembrava avessi portato a casa il Cerbero. No grazie.» «Ci beviamo qualcosa?» «Volentieri.» Bevvero le loro birre chiacchierando del più e del meno. In sottofondo Zappa, Morricone, Jamiroquai. Giuliano era ancora dell’avviso di non parlare delle assurde telefonate che aveva ricevuto nei giorni precedenti. Lo avrebbero preso per pazzo. Quindi si limitò ad ascoltare gli aneddoti di Tony su quanto fossero ignoranti i suoi clienti e di quali casini fossero in grado di combinare


31 sui propri dispositivi. Dal canto suo, Claudio partì con una delle sue invettive contro quello che chiamava “lessico del potere”, tipo i preti che chiamano Satana il “competitor” di Dio, o i soldati che fanno “peacekeeping”, o tutti gli altri inglesismi che servono solo a edulcorare le porcherie dei nostri tempi. Gli abbattimenti che sono “restyling”, i licenziamenti cambi di “asset”, la passamaneria “business”. «Ma sentilo, Carlo Marx» disse Tony dopo un rutto. «Il capitalismo ha innegabilmente migliorato la tua vita, e tu stai a sputargli sopra da mattina a sera. La realtà è che tu odi l’umanità, sei antisistema.» «A parte che essere antisistema non vuol dire odiare l’umanità, anzi. Ma quello che vorrei farti entrare in quel testone tutto dati e niente ascesi, è che io non sono antisistema; diciamo solo che accolgo con soddisfazione ogni cosa che ridimensiona l’umanità e ne mette in risalto la piccolezza. L’uomo ha bisogno di continui schiaffoni per non montarsi la testa. E spesso non bastano manco quelli.» «Godi nel vedere il fallimento di un uomo, sei un bastardo misantropo, antisistema» continuò Tony, provocatorio. «Va be’… credo sia arrivato il momento di presentarvi il pezzo forte della nuova tana.» «La sorpresa di cui parlavi?» «Già. Devo presentarvi le mie amichette.» «In che senso?» chiese Tony. «Prostituzione?» «Ti piacerebbe…» «E allora cosa?» «Venite» disse Claudio, prendendo un mazzo di chiavi da sotto il ritratto di Emil Cioran, un suo mito assoluto. «Dobbiamo andare in cantina.» Discesero dei gradini quasi sbriciolati e aprirono una porticina di alluminio chiusa con giri e giri di pesanti catene dentro a tubi di plastica colorata. Poi Claudio si guardò in giro, e quando fu sicuro che nei paraggi non ci fosse nessuno, spinse la porta con la spalla. Un potente bagliore violetto li investì. «Che ne dite? Non sono bellissime?» Davanti a loro c’erano una trentina di vasi contenenti giovani piantine di Marijuana. «Allora?» chiese di nuovo. «Oh, sì. Sono bellissime» rispose Giuliano, quasi commosso «ma non saranno un po’ troppe? Mi risulta che ne vengano tollerate solo tre o quattro.» «In effetti sì. Il fatto è che queste sono auto fiorenti.» «Cioè? Si annaffiano da sole?» chiese Tony acido e piuttosto deluso.


32 «Sono piante incrociate con specie nordiche, abituate a crescere e fiorire in un solo paio di mesi. Tuttavia restano più piccole e hanno una resa inferiore. Però se calcolate anche l’essiccazione, terrei in piedi questa “compromettente serretta” solo per una novantina di giorni e poi sarei a posto per tutto l’anno.» «Non fa una piega. Ma come farai per l’odore?» Claudio indicò due aspiratori ai lati dell’alloggio. Attaccate al soffitto penzolavano due lampade a led dall’intensità solare, il tutto collegato a un silenziosissimo generatore monofase a benzina. Poi taniche, annaffiatoi, palette, timer, prodotti per la crescita. «Così il vostro caro professore, senza morire di fame, potrà continuare a non impazzire. Questa è una medicina.» Tony era scandalizzato. «Cioè, è questa la sorpresa che dovevi farci? Che a quarant’anni ti sei messo a coltivare Marijuana? Non ti bastava fumartene un po’ nel fine settimana?» «Medicina! Io ci sopporto la vita con un po’ di questa. E poi mica ho intenzione di spacciarla.» «E vorrei anche vedere! Sarete sempre dei fattoni immaturi. Infatti le vostre mogli…» «Ma sentilo, l’alcolizzato che non scopa mai! Fai la morale al tuo fegato cirrotico.» Avevano già affrontato quel discorso decine di volte. «Non vedo l’ora di provarne un po’» disse Giuliano. «Torniamo su, che ieri ho recuperato nientepopodimeno che dal peruviano.» «Ma non era sparito?» borbottava Tony. «Da non credere. Avrà settant’anni ormai. E tu? A quarant’anni nei parchetti malfamati a recuperare il fumo. Ti ci vedo… è grottesco.» «Con tutti gli alimenti da pagare a Sandra, questa è l’unica soluzione che ho trovato. Sai, le ripetizioni su Kant o Spinoza hanno meno richiesta.» «La filosofia è entusiasmante, la filosofia è utile…» lo scimmiottò Tony. «Infatti è così. Ma ormai, bello mio, ci hanno tutti trasformati in una specie di cyborg biologici. Proprio come te e il mio direttore scolastico. Di scavare nell’animo umano non frega più un accidenti a nessuno.» «Tanto scava, ci trovi solo merda.» Claudio accusò il colpo. «Sembra che Sandra abbia iscritto mio figlio a ogni tipo di sport!» «Samuel invece passa tutto il giorno davanti alla Playstation o ad ascoltare musica di merda.» «Meno costoso, Giuliano. E poi, scusa se te lo dico, ma non essendo


33 figlio tuo tu non avresti neanche nessun obbligo nei suoi confronti.» Anche quel discorso era già stato affrontato parecchie volte. «Sì, ma mi sento comunque responsabile. Anche se mi detesta, anche se ha qualcosa di… e poi lo spieghi tu a Monica?» «A chi? No, no. Come vedi ho già i miei bei problemi. Ehi? Ti senti bene?» Giuliano si era appoggiato al muro dopo aver avuto un forte giramento di testa. «Sì, tranquilli.» «Sei sicuro? Sei diventato pallido di botto.» «Sì, sì. È solo che mi è sembrato…» «Cosa? Cosa, ti è sembrato? Hai detto Monica e sei sbiancato…» chiese Tony con sarcasmo. «Niente, lasciate perdere. Sto già meglio. Sarà la stanchezza.» In realtà aveva avuto una specie di allucinazione. Anche abbastanza demenziale, a dire il vero: gli era sembrato che le foglie di Marijuana si fossero trasformate in una miriade di manine verdi. Con tanto di falangi che si sgranchivano le giunture. Risalirono a casa e dopo che Giuliano ebbe sgranocchiato un pacchetto di cracker per riprendersi, provarono l’erba. «Buona. Molto buona. Anche troppo.» «Dai, però hai ripreso colorito.» «Comunque… nonostante il passare degli anni, devo dire che il peruviano tiene botta!» «Vero, eh? Il peruviano è un cazzo di professionista!» Risero. «E pensa che questa è la stessa qualità delle signorine giù in cantina: Killer Kush.» «Vedi solo di non farti beccare» disse Tony che si era appena bruciato la camicia di flanella con la sigaretta. «Che c’è, l’alcol ti rende goffo, ciccione?» «Ho perso tre chili.» «Sì, di cervello.» «Fanculo. Farai una brutta fine.» Claudio, come faceva spesso, rispose con una citazione: «Nessuno è mai uscito vivo da questo mondo.» «Sì, sì, vedrai: ti faccio fare dieci anni dentro, occhio. Così Schopenhauer te lo impari a memoria mentre t’inculano gli amici del peruviano!» I tre amici rimasero in totale relax per ancora qualche oretta, poi Giuliano guardò il telefono ed ebbe un sussulto. «Cazzo! Devo andare, subito! Ho detto a Monica che avevo la visita


34 aziendale. È tardissimo. Ci vediamo al Pub.» «Monica fa la visita al Pub?» Gli altri due cominciavano a fondersi con il divano ed ebbero qualche difficoltà a comprendere il senso delle concitate parole che venivano rivolte loro. «Ma cosa… io scappo!» «Quando esci accompagna il portone, che se sbatte fa un casino pazzesco.» «Sembri Monica con il vetro. Come cacchio si apre qui?» «Non te lo prendi il gatto?» chiese Claudio, alzandosi a fatica. «E basta. No!» Giuliano si precipitò giù per le scale, ma appena mise il naso fuori dal palazzo ebbe un altro colpo al cuore. “Questa non è un’allucinazione. Allora è lui…”. Dall’altra parte della strada un uomo molto anziano in un cappotto nero lo osservava. Aveva dei libri sottobraccio. Era lo stesso con cui si era scontrato nel mini market e che aveva intravisto al Pub. Adesso ne era sicuro. Stessi occhialini tondi dalla montatura dorata. “E se fosse uno sbirro?”. Prese il telefono per avvisare Claudio. “Ma certo, lo hanno già beccato. Lo sta pedinando. Però è un po’ troppo vecchio per…”. Nel frattempo passò un grosso camion e subito dopo di quell’uomo non c’era più traccia. Solo foglie umide sul marciapiede. Giuliano aveva sempre pensato che in certi film i camion sfreccianti servissero solo a far scomparire la gente… e adesso gli era successo davvero! “Forse ho bisogno di aiuto” pensò, mentre un’ondata di acidità gli risaliva lo stomaco. Arrivò a casa agitato e con i capillari esplosi. E Monica non perse occasione…


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CAPITOLO 10 – CATTEDRALE DI FUMO

All’inizio sentì i gabbiani. Il loro verso ostinato. Lo stesso che sentiva al mare quand’era piccolo. Vide l’acqua azzurra e la spiaggia puntellata di ombrelloni a spicchi bianchi e rossi. Era quando la gente ancora si sopportava. Respirò iodio e creme solari, contò onde e aerei promozionali. Poi il cielo si oscurò e tutto cominciò a cambiare. Se lo aspettava. Il gelo calò come una secchiata e i gommoni si cristallizzarono assieme alle loro scie. Adesso sul bagnasciuga di rifiuti c’era solo un vecchio fatto di stracci e capelli arrugginiti che gli zoppicava incontro, aprendo le braccia da spaventapasseri. Ma scomparvero anche lui e il suo sorriso marcio. Le immagini scorrevano a una velocità disumana. Vide piante e petali seguire il loro ciclo fino a marcire. O il giorno e la notte alternarsi come un disco rotto, e le piramidi sgretolarsi. Vide persino la carcassa di un elefante riempirsi di vermi per poi esplodere in una nuvola di mosche. Quella giostra impazzita d’immagini smise di vorticare ma solo per aprire una voragine. Senza neanche capire come, si ritrovò nel mezzo di un vortice d’acqua a precipitare come in un pozzo artesiano. Mentre cadeva, riusciva a scorgere gli imponenti muri di spuma che lo circondavano. Ruotavano, mastodontici e fragorosi, come fossero arginati da dighe invisibili. Si sentì piccolo, microscopico, indifeso. Chiuse gli occhi e quando li riaprì era in una chiesa, anzi, dall’eco della sua meraviglia, in una cattedrale. Ma non ebbe il tempo di provare altro: guardò meglio. Quel prete… Ondeggiava su dei trampoli da dietro un altare dall’alone purpureo, e la sua tunica si muoveva come fosse immersa in qualche liquido. Le pupille sembravano due chicchi di uvetta secca: sporgenti e grinzose, inespressive e disidratate, servite sull’ampio vassoio di sclera bianca a cui erano fissate per mezzo di spilli. Eppure non riusciva a definirlo bene. Sembrava inconsistente. Anche tutto il resto aveva una densità eterea: le immani colonne salivano fluttuanti fino a costellazioni sconosciute, gli archi a sesto acuto


36 davano l’impressione di capovolgersi in un ghigno dissennato, persino il marmo del pavimento, lasciando intravedere le cime di montagne innevate, non rispettava la fisica di questo universo. Eppure Giuliano lo stava percorrendo. Camminava lungo la navata centrale nonostante l’assenza della carne, del sangue, delle ossa. La pietra era nuvola. Le parole vento. Tentò di comprendere qualcosa dell’oscura litania che gli veniva salmodiata attorno, ma non ebbe successo. Ognuno di quegli echi aveva il potere di risvegliare in lui una paura. Ognuno di quei gorgoglii discendeva in meandri della psiche di cui neanche sospettava l’esistenza. Quando fu abbastanza vicino, percepì un’entità fatta dalla medesima sostanza che compone gli incubi. Il vescovo luciferino emanava qualcosa di crudele, di magnetico e crudele. Appena fuori l’abito talare, le sue estremità sfumavano senza contorni e le dita, quando s’intravedevano, erano come tentacoli pronti a strangolare tutto ciò che non fosse caos. E i fedeli… I fedeli inginocchiati davanti a lui trasmettevano ancor più spavento: sembravano il risultato di una biologia impazzita, del tutto ignara del funzionamento di un corpo e del dove posizionare un cuore o delle vene. I loro volti disumani mutavano alla luce di ceri conficcati in tranci di cosce e avambracci; affettati chirurgicamente e ben svuotati da femori e omeri. Quando l’angoscia permise a Giuliano di urlare, ognuna di quelle pupille senza forma si fissò su di lui. Cessarono persino le oscure parabole del papa infernale. Adesso il silenzio pesava come un macigno, opprimeva la schiena, il respiro. Da un confessionale una coppia oscena e deforme scostò la tendina. Poi vide qualcuno di quei corpi a casaccio liquefarsi e lentamente formare pozzanghere torbide che ribollivano verso di lui. Si voltò per fuggire da quell’ennesimo delirio, ma al posto del portone, c’era un muro senza fine sul quale campeggiavano affreschi immondi, fatti di uomini torturati, impalati, decapitati. E ognuno di quegli uomini aveva il suo volto. C’erano anche i gabbiani, ma in quei dipinti volavano senza testa. Allora urlò più forte, così forte che tutto cominciò a tremare. Le volte a crociera creparono, i pinnacoli esterni collassarono, il liquido nelle acquasantiere ribollì e lo spavento fu tale che finalmente Giuliano si svegliò in un bagno di sudore, uova e pancetta.


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CAPITOLO 11 – DELIRIO VELOCE AL MINI-MARKET

Il giorno seguente, si presentò in ufficio con occhiaie profonde e quasi barcollante. «Ecco il nostro Santalba. Vedo che abbiamo fatto le ore piccole.» Come sempre il tono di Lupi era sarcastico e condito da un velo di, neanche troppo sottile, disprezzo. «Buongiorno, dottore. Lei invece è sempre bello riposato, vedo» fu l’altrettanto sprezzante risposta. Giuliano si stupì di come gli erano uscite le parole. Si rese conto che per la prima volta in vita sua era riuscito a parlare a quel ciccione pieno di sé nel modo che meritava. Bollette o non bollette. Che gli stava succedendo? Lupi lo stava ancora fissando, come a cercare di riconoscere sotto a quei tratti a lui profondamente antipatici, l’usuale sottomissione dei suoi dipendenti. Poi affondò la sua lingua tagliente. «Mi hanno detto in amministrazione che ne ha combinata un’altra delle sue. Con la pratica…» inforcò gli occhiali e consultò una tabella «numero 1939.» Si tolse gli occhiali e li rimise nel taschino. «Faccia attenzione, Santalba. La nostra non è una compagnia no-profit. E non vorrei che per coprire i buchi delle sue mancanze dovessi andare a cercar denari nei meandri del suo “più che lauto” stipendio.» A quelle parole Giuliano capì che era meglio lasciar perdere. Era chiaro che Lupi lo stava provocando, e a lui il “più che lauto stipendio” bastava appena a non farsi sbranare da Monica. Si andò a rinchiudere nel suo cubicolo e cominciò a fare calcoli, compilare moduli e scorrere prospetti. Data la lavata di testa del mattino cercò di fare attenzione, ma nonostante questo crollava dal sonno e aveva la sensazione di dimenticare qualcosa. La giornata stava passando monotona quando sul display del telefono comparve un numero sconosciuto. Era come se sapesse di chi si trattava e decise di non rispondere. Non ce l’avrebbe fatta a sostenere l’ennesimo dialogo surreale. Inoltre, se si trattava di uno scherzo tanto meglio. Il divertimento era finito. Abbassò la testa sulle pratiche, cercando di tenere le palpebre aperte e non fare cazzate. Poco prima dell’uscita, però, ricevette anche un messaggio che vibrando lo fece sobbalzare. Giuliano non resistette e lo lesse.


38 “Siamo noi, signor Santalba. Ci scusi ma siamo in ritardo. Non dimentichi di prepararsi. Tra non molto toccherà a lei”. Per un attimo si accasciò sulla scrivania con le mani tra i capelli, perché cominciava davvero a sentirsi in un incubo, simile a quelli che da qualche notte gli fottevano il sonno. “Ma che vuole questo pazzo da me?”. In preda all’ira richiamò il numero ma ottenne solo avvisi di utenze inesistenti, poi, quando tornò al messaggio, lesse: “Sono Loi, signor Santalba. Mi scusi ma sono in ritardo. Non dimentichi di fermarsi. Tra non molto toccherà a lei.” Per un momento non capì se sorridere o sputarsi in faccia. Ecco cos’era che non riusciva a ricordare. Il dottor Augusto Maria Loi era il medico aziendale che avrebbe dovuto effettuare la sua visita annuale. Era in ritardo, e sapendo che l’ufficio avrebbe chiuso solo quindici minuti dopo, lo aveva avvisato con un messaggio. “Devo mantenere la calma” si ripeteva Giuliano. “Calmo. Stai calmo. Era solo il medico! E l’utenza inesistente può essere… ma sì, può essere il numero criptato di qualche call center che vende abbonamenti telefonici. Calmo. Sei solo stressato”. In effetti il dottor Loi gli trovò un po’ di tachicardia e la pressione bassa. Per il resto Giuliano Santalba aveva tutte le carte in regola per almeno altri vent’anni di sfruttamento intensivo. Compreso il fatto che la mezz’ora in più passata in ufficio per i ritardi nelle visite non gli sarebbe stata pagata. Normale gestione. Lo stipendio che Lupi gli elargiva era già abbastanza “lauto”, pensò mordendosi il labbro. Uscì che era già buio pesto. L’unica cosa positiva era che a quell’ora c’era meno traffico. Per il resto, continuava a essere accompagnato da una fredda sensazione di angoscia, come sormontato da una cappa il cui peso lo comprimeva al suolo. Corse verso la macchina. Appena salito avvisò Monica del ritardo e riattaccò con lei che ancora gli impartiva ordini. Buttò il collo all’indietro e dopo aver emesso un lamento gutturale mise in moto. “Calmo…”. Dato che alla sua dolce metà la normale acqua di un rubinetto risultava da sempre imbevibile, avrebbe dovuto fermarsi a comprarne almeno una confezione di quella “leggermente frizzante”. Aveva cercato di spiegarle che a quell’ora il mini market sarebbe stato chiuso di sicuro, ma la sua insistenza era arrivata al punto da convincerlo a mandarle una foto della serranda abbassata. Guidò fino al parcheggio del supermercato, cercando di non pensare a niente. Era l’unico modo per non incasinarsi ulteriormente. Solo i


39 Radiohead – che Tony e Claudio odiavano ma che a lui rilassavano tantissimo – in sottofondo. “È aperto?” si domandò con stupore sulle note finali di “Hail, hail”. “Ma com’è possibile che sia aperto? Allora le cose vanno peggio di quello che diceva la cassiera”. Scese dall’auto con una circospezione che fino a qualche giorno prima non avrebbe mai pensato di dover usare. Ormai la piega che stava prendendo la sua psiche cominciava a preoccuparlo sul serio. Qualcosa non andava. “È come quando scopri che un dente ti fa male” rimuginava. “La lingua capisce subito dove non andare a sbattere, e tu cambi abitudini e cominci a masticare dall’altra parte. Il dolore è l’insegnante dai corsi più intensivi”. Si sentiva in un vortice; un vortice dal quale venne momentaneamente strappato dal suono di un clacson. «Guarda prima di attraversare, imbecille!» gli stava urlando il conducente di un camioncino bianco. Giuliano chiese scusa ma quello lo mandò ancora al diavolo e accelerò scomparendo nella foschia serale. “Ok, per oggi basta! Adesso prendo questa dannata acqua e filo a casa”. Niente di più lontano dalla verità. Le porte scorrevoli si schiusero sul candore quasi accecante dei neon, e lui si chiese subito perché avessero aumentato l’illuminazione in quel modo. Dava fastidio agli occhi. Il suono soffuso ma leggermente sinistro di un pianoforte si diffondeva in tutto l’ambiente, grazie a casse nascoste dietro a foglie di plastica. “Ci sarà qualche promozione” pensò. “La serata del cliente o una stronzata simile. E la machiavellica Monica lo sapeva…”. Imboccò la corsia delle acque minerali. «Salve. Non chiudevate alle nove?» La cassiera con le labbra da pesce, che in quel momento stava tirando a lucido i vetri dei freezer, lo guardò con malcelato sdegno, dopodiché continuò a strofinare con svogliatezza e masticare la sua gomma rosata. Anche un altro commesso, che trascinava un muletto scrostato, gli riservò le stesse occhiate. Seccatissimo si affrettò a recuperare la pesante confezione di “leggermente frizzante” e finirla pure con quella giornata. “Dai, dai, dai!”. Ma in cassa aveva davanti addirittura due persone: una signora molto incinta con il carrello incredibilmente pieno di alcolici e dolciumi, e un ragazzotto ciondolante, vestito come Samuel, con una bottiglia di vino


40 in mano e mezzo culo di fuori. Mentre la signora posizionava della vodka sul rullo della cassa, Giuliano la vide impallidire e cominciare a tenersi la pancia. «Signora, va tutto bene? Si sente male?» «Si faccia gli affari suoi!» fu la rabbiosa risposta della donna. Per un momento rimase interdetto, poi la donna crollò sul pavimento. «Chiama l’ambulanza!» urlò alla cassiera che guardava la scena come fosse la cosa più normale del mondo. Ma anche quella gli rispose con cattiveria. «Non ha capito cosa le ha detto la signora? Deve farsi i fatti suoi, impiccione!» «Che cosa?» «Ha capito benissimo! Impiccione! Ficcanaso!» Anche il ragazzotto ciondolante lo guardava con disprezzo. Poi scoreggiò platealmente, facendo ridere tutti e si accese una sigaretta. Buttò il fumo verso la partoriente che ne fu avvolta completamente. Quando la nuvola si diradò, la donna era invecchiata di almeno cinquant’anni e apriva le gambe flosce con tutta l’aria di voler partorire. «Ma non può essere, sta avendo un…» «Taccia!» gli fu urlato da quello che doveva essere il direttore del market, un uomo sopraggiunto di corsa, molto alto e ingobbito. La vecchia cominciò a bestemmiare senza che nessuno facesse niente. La guardavano e basta. Come se tutti si aspettassero quel parto surreale. Poi Giuliano cominciò a vedere un cranio sbucare dalla vagina ben più che dilatata. «Oh, Cristo Santo!» Domò un conato ma senza riuscire a distogliere lo sguardo. Quella testa non finiva mai. Era stretta e allungata e non c’era indizio di tratti umani. Niente occhi, niente naso, niente bocca. Solo un cranio oblungo ricoperto da quelli che sembravano capelli e invece erano… tenie? Scolopendre? La cassiera, il direttore e il ragazzotto continuavano ad assistere senza dare nessun segno di disagio. Le luci del market si accendevano e spegnevano come se fuori ci fosse un temporale violentissimo, e si erano avvicinati anche altri clienti. I loro occhi erano strani, dilatati. I denti fluorescenti scoperti in sorrisi di malvagia attesa. Quei volti si stavano tramutando in qualcosa di mostruoso. «Oh, Cristo Santissimo!» Con un balzo Giuliano oltrepassò la partoriente ma un tentacolo gli si attorcigliò alla gamba proprio quando stava per lanciarsi fuori dalle porte scorrevoli con la sua confezione di acqua non pagata. Guardò dietro di sé e vide che pure quell’abominio usciva dalla vagina infernale: era lucido, cosparso di ventose ed emanava un odore nauseante. A quel punto cominciò a urlare e a colpire il tentacolo


41 sempre più stretto con la confezione di acqua. Quello trasudava come una spugna un disgustoso inchiostro verdastro. «Lasciatemi andare!» Ma quella gente era tutta presa dalla mostruosità di un parto senza fine, e non gli prestava la benché minima attenzione. «Lasciatemi!» D’improvviso il tentacolo mollò la presa. «Setta di fottuti psicopatici!» Dalla folla emerse il suo persecutore, che a differenza degli altri guardava lui. Solo lui. L’uomo parlò e Giuliano riconobbe anche la voce. «Che vuoi da me?» «Vogliamo lei, signor Santalba. Ormai le dovrebbe essere chiaro. Noi vogliamo lei! Ci deve qualcosa. Tutta la sua famiglia ci deve qualcosa.» «Ma io neanche ti conosco!» «Ne avrà modo.» Una sostanza elastica e verdastra, simile al liquido corporeo di qualche insetto schiacciato, ricopriva le porte scorrevoli, impedendone l’apertura. Giuliano se ne imbrattò mentre con tutte le forze cercava di uscire dal delirio che lo circondava. «No! Questo non è reale…» «Tra non molto toccherà a lei, si prepari.» La vibrazione di un messaggio risuonò sul suo cellulare, facendolo sobbalzare. Alla fine riuscì a sfondare la membrana viscida e si ritrovò in un corridoio senza fine, tappezzato da moquette e carta da parati rosse. «Dov’è finito il parcheggio?» Cominciò a correre. Dal soffitto penzolavano decine di funi sfilacciate, e legata a ognuna c’era una mano mozzata. Alcune mummificate, alcune sgocciolanti, altre in uno stadio intermedio. Intanto la testa senza fine si era fusa con il tentacolo, e cominciava a strisciare lungo il corridoio come una serpe a caccia, perdendo grumi della sostanza infernale che lo componeva. «Cazzo, cazzo, cazzo!» Notò una grata arrugginita alla sua destra e provò ad aprirla. «Apriti!» Divenne incandescente e dovette ritirare le mani ustionate. Cadde a terra, scoprendo con disgusto che la moquette era disseminata di insetti lucidi che si calpestavano a vicenda. «Qualcuno mi aiuti!» gridava alla sua eco, ma ormai decine di quegli esseri gli si erano già arrampicati su per le gambe, le braccia, il collo e sentiva le zampette frenetiche percorrere la pelle anche sotto i vestiti. Si lanciò di nuovo contro la grata, e dopo qualche disperato tentativo


42 riuscì a scardinarla, ma solo per rotolare lungo una rampa di scale infinita. Sbatté la testa contro i muri e gli spigoli più e più volte. Con terribile violenza. Così anche i gomiti, la schiena, le ginocchia. Sentiva gli squarci e le fratture ma non riusciva a svenire. Anzi, si risvegliò. In macchina. Nel parcheggio davanti all’ufficio. Con il collo steso all’indietro e sudato come un maiale. Eppure non aveva neanche fatto in tempo ad accendere i riscaldamenti, era crollato prima di poter girare la chiave e l’abitacolo era gelido. Però aveva ancora in mano il cellulare con cui, circa un’ora prima, aveva parlato con Monica che lo istruiva sul da farsi. Oppure no? “Oddio, un altro incubo” pensò mentre sfregava i palmi umidi sulle cosce. “Un altro fottuto incubo. Sto davvero andando fuori di testa”. Ma dallo specchietto retrovisore vide la confezione di acqua…


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CAPITOLO 12 – TUTTA LA VERITÀ

Come spesso accadeva, all’ora di cena la cucina di casa Santalba era satura di tensione, stanchezza e risentimento. Non era un bel periodo. Giuliano era convinto di essere malato, e anche dal punto di vista economico le cose non andavano meglio. Tra l’altro in cucina si era fulminata l’ennesima lampadina, quindi l’ambiente risultava ancora più tetro. Samuel mangiava con il volume delle cuffie quasi al massimo, e Monica tartassava Giuliano sul fatto che non fosse in grado di farsi valere neanche da un quattordicenne. Persino la caffettiera borbottava in maniera fastidiosa. «Guarda che ti sta suonando il telefono! Adesso sei pure sordo?» Una sedia strisciò sul pavimento. Cosa che mandava Monica su tutte le furie. «E alza il culo!» «Io alzo il culo ma sarà tuo figlio a diventare sordo» ringhiò Giuliano, mentre andava a prendere il telefono nella tasca della giacca. «Questa cazzo di trap…» Lei era quasi sollevata dalle usuali rispostacce del compagno; significava che andava tutto bene, l’apatia di qualche giorno prima era scomparsa, e lei avrebbe potuto mantenere il controllo con i soliti metodi. In realtà Giuliano aveva capito di essere un sorvegliato speciale, e aveva cercato in tutti i modi di stare fuori casa o simulare la solita vita. Voleva gestire quella cosa da solo, per non farsi stressare ulteriormente. Non era facile ma sembrava ci stesse riuscendo. Almeno fino a quella sera. Dopo quasi mezz’ora, Monica lo trovò sul divano con la faccia pallida, stravolta, quasi in stato di trance. «Ma che hai? Ti senti bene? Chi era al telefono?» «Forse non ho digerito.» «Ma se hai finito di mangiare da neanche un’ora. Chi era al telefono?» «Nessuno. Vado a farmi una doccia.» «Giuliano dimmi chi era a quel dannato telefono!» urlò Monica. «In che accidenti di casini ti sei andato a cacciare, eh?» «Io…»


44 Giuliano stringeva lo smartphone con forza. Come se fosse pronto a scagliarlo contro il muro. Poi deglutì e sembrò recuperare la calma. «Allora?» domandò ancora Monica. «Allora cosa?» «Chi era?» «Senti, è una cosa assurda. Non mi crederesti mai, e neanche io ci credo. Monica, forse non sto bene. Forse sono troppo stanco e ho un po’ di esaurimento.» La donna sembrò capire l’antifona. «Ti stai spianando la strada per una bella settimana di malattia? Cos’è questa, una nuova tecnica? Di solito i depressi non frequentano i Pub.» «No, amore, ascoltami.» «Sono tutta orecchie… amore!» Giuliano si asciugò la fronte. «È un paio di settimane che continuano ad arrivarmi queste telefonate…» «Ah, sì? E cosa dicono queste telefonate?» Anche Samuel, capendo che quella sera stava capitando qualcosa di diverso, si tolse le cuffie e si avvicinò in silenzio alla porta della sala. «Dicono che…» «Dicono che?» «Che verranno a prendermi. Che verranno a prendermi perché loro hanno bisogno di me. Perché sono… la cura, l’erede… cose di questo tipo!» Monica rimase in silenzio per un attimo, poi disse: «Ah, sì? E l’erede di che? Chi sarebbero loro? Non ti sarai mica indebitato con qualche strozzino? Che fai, giochi? Scommetti?» «Piantala, per favore. Ma quali scommesse! Devi credermi. Io non ho idea di chi siano. Volevo andare alla polizia, denunciare la cosa. È solo che…» Samuel tese il collo. «Dai, Giuliano, forza!» sbottò Monica. «Voglio proprio sentire come va a finire questa storia. Non farti tirare fuori le parole di bocca, sai che lo odio.» «Non mi credi, vero?» «Va’ avanti! È solo che?» «Che sanno cose di me, di noi, molto personali.» «Ad esempio?» «Be’, cose nostre. Sai la litigata dell’altro giorno per il colore degli assorbenti?» «Come potrei dimenticarla? Ho dormito per una notte con un pannolone! E allora?» «Loro lo sanno. Conoscono le nostre abitudini casalinghe. Quello che


45 fai prima di andare a dormire o quello che faccio appena sveglio, e anche tutto il resto.» Monica scosse il visino d’angioletto e ringhiò come un demone: «Che ingenuo che sei. L’avrai raccontato a qualcuno, è chiaro!» scoppiò in una risata di scherno. «Tu e la tua linguaccia! Adesso ti stanno facendo uno scherzo. Sei davvero un cretino, altro che erede. Raccontare i nostri affari in giro. Che vergogna!» «Ma ti giuro che io non…» «Ma stai zitto! Sarà di sicuro quell’imbecille del tuo amico. Come accidenti si chiama?» «No, non è Tony, te lo assicuro.» «E allora sarà l’altro, il filosofo fallito. Ma tu sei sempre un cretino che va in giro a raccontare chissà cosa! Poi ti lamenti che Samuel non ti rispetta. E come potrebbe?» A quel punto la rabbia di Giuliano ebbe il sopravvento sulla paura. Ormai Monica si permetteva d’insultarlo in modo sempre più pesante. Cominciava a essere troppo anche per uno paziente come lui, così decise di aggredirla con la verità. Le parlò degli incubi, degli strani disegni che non ricordava di fare, del vecchio con il pastrano nero e di come al telefono quella voce cavernosa gli risultasse ipnotica. Come al suo solito, Monica rimase in piedi a braccia conserte. Indossava una gonna di jeans che le metteva in risalto le lunghe gambe. «Ma tu credi davvero di potermi dare a bere tutte queste baggianate? Ma quand’è che cresci, eh? Cos’è uno scherzo adolescenziale?» Giuliano le chiese che differenza ci fosse fra l’essere maturo e il farsi addomesticare, ma era stanco di ricevere risposte fumose a domande elementari come quella. Quindi prese atto che la sua era una guerra persa. Monica, e in parte anche lui, non era il tipo di persona da poter credere a cose del genere a cuor leggero. Poi cercò di riprendere in considerazione l’ipotesi dello scherzo, anche se in cuor suo sapeva che alcune cose non le aveva mai dette a nessuno. Si fece una doccia e andò a letto, ma come si aspettava non chiuse occhio. Verso le tre sorprese Monica in cucina ad armeggiare con il suo telefono. «Cosa stai facendo con il mio cellulare?» «Niente, il mio è scarico e mi serviva la torcia.» «Ah…» «Ehi, mica mi stavo facendo gli affari tuoi! Capirai. Comunque non so se l’hai notato, ma anche la lampadina nel corridoio è fulminata. E chissà quanto passerà prima che qualcuno si degni di sostituirla…» «Io lavoro tutto il giorno. Magari qualcuno che sta a casa e ha un sacco di tempo potrebbe lanciarsi in una nuova, elettrizzante esperienza.


46 Forse si annoierebbe di meno.» «Ah, alle tre e un quarto del mattino mi ci voleva proprio il tuo sarcasmo.» Giuliano bevve dell’acqua direttamente dalla bottiglia di plastica, come gesto di sfida. Monica non sopportava neanche quello. «Bravo. Complimenti.» «’Notte. Dopo rimettilo dove l’hai trovato. E comunque si vede abbastanza…» rincarò lui dal corridoio.


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CAPITOLO 13 – IL DOTTOR FRANGIPANE

Come sempre la farmacia era vuota. Dominavano il bianco lucido, l’aria condizionata e i colori delle scatolette dei medicinali. C’era stato un po’ di movimento giusto la mattina ma per il resto, deserto. La droghiera che lavorava qualche piazza più in là, spinse la porta opacizzata da una pellicola bianca ed entrò. Il dottore non ne fu così contento, tra loro non correva buon sangue. Sperò solo che quella vecchia pettegola si sbrigasse a recuperare ciò di cui aveva bisogno e non lo ammorbasse con le sue stupidaggini. Probabilmente sua nipote Lisa si era di nuovo sbucciata un ginocchio. Mentre la teneva d’occhio, fingendo di controllare la cassa, squillò il telefono. L’insopportabile droghiera infatti già stava girando il blister dei preservativi, guardandolo come se vendesse riviste pornografiche. «Farmacia Frangipane, buongiorno.» Gli occhi si spalancarono sotto le spesse lenti. «Oh, buongiorno, signora Monica. Che sorpresa. Come posso aiutarla?» Ascoltò in silenzio per qualche secondo. «Ah… e da quanto tempo?» Rimase ancora in ascolto. Attentissimo. «Ne è sicura?» D’un tratto dovette allontanare il ricevitore dall’orecchio. «Capisco, signora. Ma non si alteri così. L’unica cosa da fare è portare il suo compagno qui. Per poterlo visitare.» La droghiera allungava l’orecchio ma non riusciva a sentire bene. «Certo, certo. Capisco. La sento male, la linea è molto disturbata. Comunque per lei ci sono sempre, signora Monica. Mi faccia giusto uno squillo prima di passare. In modo da potermi organizzare. E non si preoccupi, magari non è così grave…» Il telefono si allontanò di nuovo dal suo orecchio. «Allora a presto. Buona giornata.» L’espressione del farmacista era cambiata. Estrasse un fazzoletto e si asciugò la fronte spaziosa. «Prendo anche queste» disse la vecchia, posando la garza e le pastiglie per il mal di testa sul bancone. Non ricevendo risposta tossì. «Ho un po’ di fretta.»


48 “Grazie al cielo!”. «Basta così?» «Vede qualcos’altro?» Frangipane le diede il resto, con lo sguardo perso chissà dove.


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CAPITOLO 14 – UNA BRUTTA SERATA

I giorni seguenti passarono tranquilli. Nessuna telefonata, nessun incontro strano, nessun incubo. Giuliano era pronto a catalogare quel che era successo come il risultato di un periodo troppo stressante. Forse la sua mente gli aveva davvero tirato un brutto scherzo. Pazienza, pensava. Ne aveva già passate tante. Avrebbe superato anche quello. Persino Monica sembrava essere meno tesa. Forse dopo quello che le aveva detto, si era calmata. Tutto quello che voleva era un po’ di normalità, e sembrava che le cose stessero tornando alla solita routine, quella che una volta lo spaventava e della quale ora aveva quasi nostalgia. Quel fugace periodo di calma terminò un paio di giorni dopo, mentre, leggermente alticcio, usciva dal Pub dopo una piacevole serata con i suoi amici. Appena fuori si rese conto che, pur avendo smesso di piovere, la temperatura era scesa di parecchio e per un attimo ebbe l’impressione che la condensa del suo respiro si disperdesse nella notte seguendo invisibili correnti a spirale. Sperò solo di aver bevuto troppo. La strada era deserta. A giudicare dall’odore nell’aria qualcuno stava bruciando dei copertoni. Fosse stato qualche giorno prima, Giuliano avrebbe pensato a un tumore al cervello. A passo svelto si diresse verso la macchina, e con le mani intirizzite girò la chiave il più in fretta possibile. «Oh, Cristo! E tu chi cazzo sei?» domandò spaventato, guardando oltre il parabrezza. I fari illuminarono la sagoma di un uomo molto alto, con del muco che gli appiccicava la barba, e gli abiti ricoperti di sudiciume e foglie fradice. Stava in piedi tra il cofano e il muretto del parcheggio, e i suoi occhi erano così infiammati da lacrimare. Le luci dell’auto lo rischiaravano dal basso e gli conferivano un aspetto satanico. Sollevò un dito distorto e cominciò a indicare Giuliano. «Tu. Tu. Tu» ripeteva, muovendo quelle sciabole nere. Poi strisciò sul cofano, verso il parabrezza, e scoprì i denti. Erano accavallati in un ghigno marrone fango e verde diarrea. «Tu, tu, tu ci vedi! E anche la grande cattedrale di fumo…» disse allargando in aria le lunghissime braccia. «E l’osceno in persona: Hug-


50 Toth! Vedi persino lui.» Gli schizzi di saliva raggiunsero il vetro come quelli di una pozzanghera. «Fanculo, spostati!» gli urlò Giuliano già in retromarcia. Urtò qualcosa ma non se ne preoccupò. Il barbone era ancora lì, a indicarlo mentre cercava di rialzarsi. Una folata di vento gli scompigliò ancor di più le lunghe ciocche. Giuliano invece aveva il cuore in gola. Aveva bisogno di urlare e quando fu a debita distanza lo fece. «Ma che cazzo sta succedendo? Quello era lo straccione vicino all’ufficio! Come faceva a sapere che ero qui e cosa sogno?» Batteva i palmi sul volante, colpendo di tanto in tanto il clacson e facendo innervosire un bestione in un suv davanti a lui. Giuliano se la svignò agevolmente ma a quel punto aveva il magone. Dopo qualche isolato dovette fermarsi a un semaforo. Stava ricominciando a piovere. Dallo specchietto vide svoltare una macchina, che grazie al cielo non era quella del bestione. L’auto lo affiancò e un finestrino oscurato si abbassò con il canonico suono elettrico. Appena Giuliano realizzò di chi si trattava, schiacciò a fondo il pedale dell’acceleratore e solo per puro miracolo fu schivato da un’ambulanza. Intravide che il vecchio era sceso dalla macchina e allargava le braccia. Come qualcuno piantato in asso. «No, non può essere, non può essere!» Guidò come un folle fino a casa e non spense il motore prima di altri dieci minuti. Niente. Nessuna traccia di quel maledetto. Subito dopo aver spento la macchina il telefono vibrò. Anche i nervi di Giuliano ebbero un fremito. Bip. «Per l’ultima volta: cosa vuoi da me?» «Signor Santalba, lei deve fare attenzione, ci serve vivo. Mica si vorrà ammazzare proprio adesso che l’abbiamo trovata! Se dovesse capitare, le assicuro che non potremmo impedirlo neanche noi…» «Allora, te lo ripeto: chi sei e cosa vuoi da me?» chiese di nuovo, scandendo bene ogni parola. «Vogliamo che torni a casa. La sua vera casa.» «Scommetto che fai parte di una setta, non è così? Vi sarete informati sul mio conto e adesso tentate di spillarmi qualche quattrino, ho indovinato? Scelta impeccabile, non c’è che dire!» «No, qui nessuno truffa nessuno.» «E allora?» La voce tacque per qualche secondo. «Vuole sapere chi sono? No, non sono un prodotto della sua mente, stia tranquillo. Mi presento meglio:


51 io sono il professor Joseph Laher, la cui missione, gliela faccio breve, è scovare gente come lei.» «Come me?» ripeté senza emozioni. «Come lei. Mi permetta di spiegarle brevemente…» «Sono tutte orecchie.» «Lei è un discendente diretto di Ludovico Santalba, fondatore di Sant’Alba, scritto con l’apostrofo, il luogo dove la aspettiamo con tanta impazienza.» «Ma che bella sceneggiatura di serie B! Peccato che non ho nemmeno conosciuto mio padre. Quindi mi viene difficile credere che lei…» Laher lo interruppe: «Non si preoccupi, lo conoscevo io. Intravidi persino suo nonno. Ma nessuno di loro conosceva me.» «Sì, eh?» «Discendenti ma non eletti. Non potevano vedermi.» «Quante cazzate che spari.» «Mi spiace che la pensi così.» «E io invece sarei l’eletto? Perché ti vedo? Ma non farmi ridere!» «Lei è solo un candidato. Con buone possibilità, certo, ma con ancora molto da dimostrare. Ah, a proposito, ho saputo che ha fatto la conoscenza di Meliet. Non si preoccupi: si lava poco ma è un gran violinista.» Giuliano mise a fuoco il particolare sfuggito del violino ma non sopportava più quel tono enigmatico. «Senti, te lo dico per l’ultima volta: lascia stare me, lascia stare la mia famiglia e sopratutto lascia stare le droghe.» L’uomo rise. «Sempre spiritoso, lei. Bene! Ma vedrà ben più degli effetti lisergici di una qualche sostanza sintetica, glielo assicuro.» «Ok, basta. La prossima volta che ti vedo, ti spacco la faccia. E adesso vaffanculo!» «Signore, vedo che ha preso l’abitudine di concludere ogni nostra conversazione in questo modo.» «Vaffanculo, sì, vaffanculo!» «Cerchi di calmarsi. La saluto allora e… faccia attenzione!» «Come? A cosa?» Bip. Giuliano ebbe il déjà-vu dell’ombra suina del dottor Lupi in ufficio. Il suv del bestione parcheggiò proprio davanti a lui. «Accidenti!» disse scivolando lungo il sedile. Quello scese tutto barcollante ma s’incamminò verso il palazzone di fronte, senza prestargli la minima attenzione. Gli caddero anche le chiavi in mezzo alla strada e quasi scivolò nel tentativo di raccoglierle. «Questo coglione abita davanti casa mia, e quel vecchiaccio malefico lo


52 sapeva. Di sicuro è qui intorno a spiarmi.» Provò a richiamare quel numero, ma come sempre risultava inesistente. Non poteva tornare a casa in quello stato. Era spaventato e doveva calmarsi. Decise di aspettare lì. Avvisò Monica che sarebbe rientrato mezz’ora dopo, ma tutto ciò che ottenne fu un altro diluvio d’insulti. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

PARTE PRIMA: COSE DI QUESTO MONDO....................... 5 CAPITOLO 1 – UN PRIMO CONTATTO ONIRICO ......... 7 CAPITOLO 2 – SPESA VELOCE AL MINI-MARKET .. 10 CAPITOLO 3 – FRIBURGO .............................................. 13 CAPITOLO 4 – LA VOCE CHE SAPEVA TROPPO ........ 16 CAPITOLO 5 – VECCHIO IMPERTINENTE .................. 20 CAPITOLO 6 – LA PARTENZA DI CARLOS FLORIMON ............................................................................................. 24 CAPITOLO 7 – ROUTINE ASSASSINA (DI UN UOMO NON SPOSATO) ................................................................ 26 CAPITOLO 8 – LA PROVA BIOLOGICA ........................ 28 CAPITOLO 9 – VITA SEGRETA DI UN PROFESSORE DI FILOSOFIA ........................................................................ 30 CAPITOLO 10 – CATTEDRALE DI FUMO .................... 35 CAPITOLO 11 – DELIRIO VELOCE AL MINI-MARKET ............................................................................................. 37 CAPITOLO 12 – TUTTA LA VERITÀ .............................. 43 CAPITOLO 13 – IL DOTTOR FRANGIPANE ................. 47 CAPITOLO 14 – UNA BRUTTA SERATA ....................... 49 CAPITOLO 15 – STORIA DI IRMA ................................. 53 CAPITOLO 16 – LA METAMORFOSI DI MONICA...... 56 CAPITOLO 17 – RIVOLUZIONE NON GENTILE ......... 61 CAPITOLO 18 – STORIA DI IRMA 2 .............................. 64 CAPITOLO 19 – FOGLIETTI VOLANTI MALEDETTI . 66 CAPITOLO 20 – SORPRESE FUNEBRI .......................... 68 CAPITOLO 21 – ENNESIMO INFERNO ONIRICO ....... 71 CAPITOLO 22 – DISSOLVENZE VARIE......................... 73 CAPITOLO 23 – PUZZLE ESOTERICO .......................... 77


CAPITOLO 24 – LA MANSARDA DI TONY .................. 78 CAPITOLO 25 – BIGLIETTERIA NOTTURNA .............. 80 CAPITOLO 26 – QUALCHE DOMANDA DI RITO ........ 83 CAPITOLO 27 – IL VECCHIO DEI CAMPI .................... 87 CAPITOLO 28 – PERFEZIONISMO DI UN SENZATETTO.................................................................... 90 CAPITOLO 29 – VIAGGIO LISERGICO? ....................... 92 PARTE SECONDA: COSE DELL’ALTRO MONDO ........... 97 CAPITOLO 1 – LISA E LA NONNA ................................ 99 CAPITOLO 2 – PRIMAVERA/ESTATE A SANT’ALBA ........................................................................................... 102 CAPITOLO 3 – VIVO O MORTO ................................... 106 CAPITOLO 4 – INCOMPRENSIONI D’AUTUNNO ..... 108 CAPITOLO 5 – IN ALLERTA ......................................... 116 CAPITOLO 6 – INVERNO A SANT’ALBA ................... 118 CAPITOLO 7 – I DUBBI DI IRMA ................................ 126 CAPITOLO 8 – FINALMENTE UN LETTO .................. 128 CAPITOLO 9 – INCUBI SANTALBESI ......................... 131 CAPITOLO 10 – LA MOGLIE DELL’OSTE .................. 133 CAPITOLO 11 – I CONSANGUINEI.............................. 134 CAPITOLO 12 – LO SCETTICISMO DI CARLOS FLORIMON ...................................................................... 141 CAPITOLO 13 – CENA DI FAMIGLIA .......................... 143 CAPITOLO 14 – LA NONNA E LISA ............................ 152 CAPITOLO 15 – FUGA NEL BUIO ................................ 156 CAPITOLO 16 – LA FORTUNA DI CLAUDIO ............. 162 CAPITOLO 17 – IL CANTO DEL GENERALE ............. 165 CAPITOLO 18 – I QUADRI DI VIRGINIA LAVINIA ... 167 CAPITOLO 19 – CENA DI FAMIGLIA 2 ....................... 172 CAPITOLO 20 – LA CREATURA ................................... 174 CAPITOLO 21 – FUGA NEL SOLE................................ 176 CAPITOLO 22 – JEWEL ................................................. 181 CAPITOLO 23 – INTUIZIONI ONIRICHE .................... 184


CAPITOLO 24 – CENA DI FAMIGLIA 3 ....................... 191 CAPITOLO 25 – IL NUOVO AMORE DI GRETA ........ 196 CAPITOLO 26 – LA NOTTE DEL SOSTRATO ............. 198 CAPITOLO 27 – L’ANSIA DI RIUKA............................ 202 CAPITOLO 28 – RISCHIO D’IMPRESA ....................... 204 CAPITOLO 29 – RIVELAZIONI .................................... 206 CAPITOLO 30 – A MALI ESTREMI… .......................... 212 CAPITOLO 31 – GLI INGREDIENTI ............................. 214 CAPITOLO 32 – IMPREVISTI DI UN AGENTE IMMOBILIARE................................................................ 220 CAPITOLO 33 – FINO A VALENZIO............................. 222 CAPITOLO 34 – I GATTI ................................................ 228 CAPITOLO 35 – QUEL CHE UNO STOMACO SA ..... 229 CAPITOLO 36 – LA SFERA MERCURIALE................. 232 CAPITOLO 37 – RISVEGLI POLIGLOTTI ................... 240 CAPITOLO 38 – L’EDIZIONE DELLE VENTI ............. 242



AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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