Le bianche scogliere di Dover

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WALTER SERRA

LE BIANCHE SCOGLIERE DI DOVER

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LE BIANCHE SCOGLIERE DI DOVER

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-574-8 Copertina: Immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Luglio 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova

Ogni riferimento a luoghi, persone o situazioni riscontrabili nella realtà è da ritenersi puramente casuale, essendo questo scritto pura invenzione della fantasia dell’autore


Questo romanzo è dedicato a Raffaele Olivieri, ottimo scrittore, valente pianista e compositore. Ci siamo incontrati per caso ma capiti al volo. È nata così la nostra collaborazione, che dura da diversi anni. Lavoriamo sui rispettivi lavori, scoprendo nuove possibilità narrative, affinando le tecniche, falciando refusi e situazioni instabili. Talvolta scriviamo a quattro mani. Il tutto con una serenità e una compartecipazione che non ho mai trovato altrove. Ma, su tutto, è nata la nostra amicizia, un legame che trascende quanto di buono riusciamo e riusciremo a fare assieme.



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Introduzione

Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo, non sapevo nemmeno io dove la storia mi avrebbe portato. Avevo il personaggio principale, una fotografia per la copertina, appena il titolo. Forse molto è dipeso dal punto di vista che ho scelto, la prima persona interna e l’utilizzo del tempo presente. Tutto è diventato relativamente più facile e immediato. L’autore e il lettore si possono immedesimare con la voce narrante, che coincide col protagonista. Lo sentiamo parlare, vediamo attraverso i suoi occhi, percepiamo i suoi pensieri e i sentimenti che via via lo fanno agire. Certo, anche gli altri personaggi sono importanti, ma loro sono più liberi, possono arrivare, andare via, sparire, morire. Lui no, lui deve restare, soffrire, cercare, rincorrere, vedere e pensare, fino alla fine, è tutto per noi. È un romanzo d’amore e azione, che ha come scenari la costa inglese, il tratto di scogliera che guarda verso Calais attraverso il ventoso tratto della Manica, si sposta per qualche battuta sul suolo francese e approda nella magica Venezia, da cui è stato difficile staccarsi per la conclusione della storia. Amore e azione, dicevo, con un pizzico di malizia, ambientazioni ricercate e tanto sentimento. Perché è l’amore che governa tutto, per qualcuno o per qualcosa, nel bene o nel male. L’autore


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Ho tagliato di netto per campi e proprietà private, i padroni mi scuseranno. È che non ne posso più di aspettare, cercare la strada, un sentiero, la pista che da un tracciato normale porta alla falesia che dà sull’oceano. Mi sono divorato con gli occhi il panorama fin dalla prua del traghetto, che da Calais mi ha portato a Dover. Dapprima era solo un solco bianco all’orizzonte, come una condensa di nebbia o nuvole basse, quasi una bava di lumaca spennellata sullo sfondo. Pian piano s’era sollevata una cresta immacolata, infine il porto di Dover e un po’ sulla destra il faro di South Foreland, che ho appena superato in questa affannosa camminata. Non che quell’antica torre mi fosse particolarmente cara, giusto un punto di riferimento verso il quale dirigere la moto e di lì ripartire. Per che cosa, proprio non lo so. È successo tutto un paio di mesi fa. Me ne stavo sdraiato in veranda a godermi il primo sole autunnale al tramonto, filtrato dal leggero velo d’una tenda. Quel tanto per tenerne a bada i raggi troppo violenti, quel poco per percepire ancora il calore della vita. Leggevo un bel romanzo, d’amore e morte, quando mi è cascato di mano. Un tonfo secco sul pavimento di cotto e lì è rimasto. E io, io non lo so come son rimasto. Da quel momento ogni cosa mi è sembrata vuota, priva di senso e d’interesse. Salvo quel nuovo languore che sentivo salirmi dal petto. Il cuore pulsava più forte, vittima di una qualche emozione a me sconosciuta e nei giorni successivi sempre più forte ho percepito la malia della nostalgia, il dolore del rimpianto. E una rabbia sconosciuta. Ancora una volta, senza comprendere verso chi o verso cosa.


8 Non ne ho parlato con nessuno, per non sollevare ancora mai sopite preoccupazioni. Sto bene, è tutto normale, meglio così rappresentare. Genitori, amici, la ragazza. Mentivo agli altri ma, soprattutto, mentivo a me stesso. Che dire bugie è facile e riesce bene, ma mentire senza sapere perché bisogna essere dannatamente bravi o disperati. Il conflitto che si stava impadronendo di me mi ha portato a cambiare d’umore, in pochi giorni. Dal tranquillo all’irato, dal felice al malinconico. I primi a farne le spese sono stati i miei genitori, increduli di fronte alle crude parole e ai miei atteggiamenti irrispettosi. Il secondo caduto nella personale guerra contro il mondo, in ordine di apparizione, è stato Printemps, il mio cane, cacciato a calci nel posteriore dalla mia stanza, nella quale viveva in pratica da circa tre anni. Questo ha davvero scatenato il panico e l’andirivieni di dottori e professori. Di qui la terza e ultima vittima, nella personale e cortissima lista degli affetti più cari: la mia ragazza Christine. Ci conosciamo dai tempi del liceo e stiamo insieme da quattro anni, eppure non ho avuto il minimo pudore a darle della puttana in quanto d’accordo con i miei familiari nel chiamare contro la mia volontà medici e strizzacervelli di cui non avevo - evidentemente - alcun bisogno. In ordine strettamente temporale, direi che tutto questo è accaduto, nelle forme più accese e definitive, ieri. Mi sono svegliato che mi sentivo un po’ giù di corda e sono andato a letto che di corda ne avevo anche troppa, tutta arrotolata attorno al collo. Anche se il letto non era più lo stesso. Stanco di sentirmi tutti addosso, me la sono svignata. Appena uno zaino riempito con abiti di ricambio, un bel giubbotto antivento, sciarpa e occhiali da sole sotto il casco integrale. Ho girovagato per il resto del pomeriggio verso la costa, per dimenticare Amiens, il baretto dei miei in piazza della Cattedrale, il cuore infranto di Christine e il resto.


9 Già dopo dieci minuti stavo meglio, dopo dieci ore di sonno in una pensione qualunque, fra Outreau e Boulogne-sur Mér, mi ero dimenticato di tutto. La strada mi ha portato nei pressi di Calais e lì è accaduto il secondo scontro col cuore. Nuovamente ho perso il controllo delle sue pulsazioni e mi sono dovuto fermare. Là, oltre quel braccio d’oceano che ci si ostina a chiamare semplicemente il canale, s’intravedeva la costa inglese. Nello scorgere quel tratto bianco ho perfino sorriso al ricordo di quel vecchio film, tutto stucchi melensi sull’amore eterno, Le bianche scogliere di Dover, alla faccia del mio che di eterno aveva ormai solo l’addio. Pure, sono rimasto bloccato su quello scorcio, mentre il cuore non si decideva a rientrare nei ranghi. Avevo parcheggiato la moto quasi contro un cartello segnaletico, che indicava il porto di Calais a tre chilometri. Percorrerli, chiedere informazioni e saltare sul traghetto con la moto sotto il culo era stata questione di venti minuti, poco meno della traversata. Il cuore s’era tacitato, gli occhi sempre più pieni di quel che a tutti gli effetti mi sembrava l’inutile rappresentazione di sé di un popolo da sempre avverso, capace di circondarsi di una scogliera fatta di fragile gesso. Ora ci sono sopra. Lasciato il casco nel baule della moto, ho camminato dieci minuti fra prati e campi incolti, fin quasi sulla sommità friabile della costa. Un vento salmastro e gelato mi taglia la faccia. Ogni tanto mi coglie la frustata di una folata di pioggia, ma non riesco a distaccare gli occhi dalla parte del canale che ora guarda verso Calais e casa mia. Se prima avevo lasciato una situazione insostenibile, adesso è ancora peggio; giù è in atto un temporale pauroso. Le nuvole si sono chiuse sull’orizzonte, scure, tempestose. Per quanto spinga lo sguardo in lontananza, vedo solo il nero della burrasca, fulmini solcare il cielo e abbattersi sul mare e sulla costa. Ma non sono scappato in tempo, quel nubifragio riuscirà a valicare il canale e a raggiungermi, qui, sul


10 promontorio desolato d’una terra straniera. E io non ho la forza di sottrarmi. All’improvviso non so più dove andare, e soprattutto mi chiedo cosa faccio qui. Il cuore decide per me, nuovamente inizia a pulsare all’impazzata, quasi voglia scapparmi dal petto. Dipenderà forse dal fatto che da due giorni ho smesso di assumere regolarmente le cure prescritte dal medico? Istintivamente mi scosto dalla scogliera, mi sembra di essere colto da una vertigine, mi manca il respiro e non oso un passo oltre. Il vento sibila alle orecchie e confonde i sensi col suo mormorio gelato, pure credo di aver percepito distintamente un respiro alle mie spalle. Un respiro! Come mai si potrebbe cogliere l’attimo in cui aria e vapore escono da polmoni scarsamente sollecitati, per dar scambio d’ossigeno al nostro sangue silenzioso? Pure, quell’alito è stato per me come il fischio del traghetto all’approssimarsi al porto di Dover. Una staffilata capace di fermarmi il cuore, proprio come mi sta accadendo ora. Mi giro con una lentezza che solo la lunga esposizione a questo vento malevolo può avere causato. Scorgo una ragazza carina, stretta in un maglione di lana che a stento trattiene l’impetuosità del vento fra gli intrecci di motivi floreali, i lunghi capelli lisci e neri in balia degli elementi, due occhi indagatori, mentre la bocca è stretta, attenta a non far entrare aria fredda e dannosa, altrettanto accorta a non far uscire sentimenti. Il cuore, dal canto suo, passa da centocinquanta pulsazioni a zero in un battito delle sue ciglia. Forse non proprio a zero, perché la ragazza mi parla e io ho ancora cuore e calore per starla a sentire.


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«È uno spettacolo devastante, non trovi?» mi chiede senza più guardarmi. «Eppure non mi sembri proprio una brutta ragazza, a parte i capelli…» Devo avere detto proprio una battutaccia, perché se ne va via. «Aspetta!» Quella, niente, proprio non mi sta più a sentire. Il cuore ha come un tonfo, tanto da strapparmi un gemito soffocato. «Eveleen…» Cado in ginocchio, nuovamente ho i battiti fortissimi. Dovrei spaventarmi, sdraiarmi e chiamare aiuto; mi sento invece calmissimo, mentre il cuore è agitato come a un primo appuntamento d’amore. La sento correre fra i cespugli d’erba secca, pestare i piedi sul sentiero sconnesso, fermarsi accanto a me. Mi prende per le spalle. «Come mi hai chiamato?» Ha quasi urlato, ignorando che forse sto per morire. «Eveleen. Non mi chiedere perché, non so risponderti.» La guardo negli occhi. Sono spaventati, dilatati, sgomenti. «Cosa credi di fare, stupido d’un francese? Prenderti gioco di me?» «Senti, ho fatto tanta strada per arrivare fin qui. E non sono nelle mie condizioni migliori. Inoltre…» faccio una pausa per rifiatare «Davvero ti chiami Eveleen?» Non mi risponde. Siede dandomi le spalle, fissa il canale ormai cancellato dalla tempesta incombente. I fulmini iniziano a squassare l’aria e il vento solleva i flutti contro la scogliera qua sotto, il cui rifrangersi genera onde sonore che ci martellano il petto. La pioggia sembra tardare, ma ogni tanto si abbattono veloci raffiche su di noi.


12 «Che ne dici di andare a prendere una cioccolata calda da qualche parte, prima che un fulmine c’incenerisca sul posto? Così potremo chiarirci su come uno stupido francese arrivi su questa costa desolata per incontrare una sconosciuta che chiama Eveleen senza averla mai veduta prima» le propongo. La ragazza continua a contemplare la furia degli elementi. Pare estasiata, distaccata da tutto, particolarmente dalle mie parole. Il mio senso di stordimento sembra essersi placato, anche se il vento mi sta raggelando naso, mani e orecchie. Sto per insistere, lei parla all’improvviso. «C’è stata un’epoca in cui venivo spesso qui. Non da sola. Talvolta era di notte, a far l’amore sotto le stelle, altre era d’estate, ad attendere temporali come questo. Ma oggi, oggi era proprio l’ultimo dei miei pensieri, di arrivare fin quaggiù a fissare un mare e un luogo che ormai odio.» Gira il volto. Mi sorride, glaciale. «Spero che la cioccolata sia bollente, nell’anima ho tanto gelo da sciogliere.» conclude. Le allungo la mano per aiutarla a rialzarsi. Lei la ignora, si stringe i lembi del maglione che oramai si stanno slabbrando per via del vento, della pioggia e della salsedine. Prendiamo per i campi, in silenzio, in fila indiana. Due sconosciuti che camminano uno sulle orme dell’altro, per confondersi a se stessi. «Senti, io… non cerco niente. Sono venuto e basta. Prendiamo qualcosa assieme, ci raccontiamo di quanto sia bella la vita, quella degli altri, poi ce ne torniamo a casa. D’accordo?» La sua risata mi fa trasalire. Parte bassa, poi si eleva fino a che le manca il fiato. «Mia nonna diceva di non fidarsi dei francesi. E lei lo diceva con cognizione di causa, avendone sposato uno. Gente bugiarda, permalosa, farfallona. Tu devi avere dei geni inglesi, nel sangue, oppure scandinavi. Sei freddo, distaccato, sprezzante.»


13 Sto per replicare, ma un muro di pioggia si abbatte su di noi. Siamo in mezzo a una campagna incolta e senza ripari. «Da quella parte. Ho la mia moto!» La tiro per una mano. Corriamo con l’acqua che ci sbatte sulla faccia. Il mio scooter è parcheggiato lungo una carraia, accanto al cancello chiuso da una robusta catena. Sollevo la rete divelta lì accanto e faccio passare Eveleen. Apro la sella e prendo due caschi. Uno è per me, l’altro era di Christine. Ce li infiliamo, almeno la testa sarà al riparo. Aiuto Eveleen a indossare un leggero giubbotto antipioggia e metto in moto. «Da che parte?» chiedo prima di abbassare la visiera. «Prosegui fino a quel bosco laggiù. A destra c’è casa mia.» Mi avvio, attento a schivare le buche ora piene d’acqua melmosa. Eveleen mi tiene per i fianchi, la testa appoggiata alle mie spalle, il corpo aderente al mio. Mi sembra di sentire del calore, ma è solo un brivido di freddo che mi dà quella sensazione. Deve assolutamente essere così. La pioggia ci sferza, il vento pare volerci sbattere a terra. Io tengo duro, seguo il ritmo del cuore, che sembra battere all’unisono con quello della ragazza. Davvero uno strano incontro. Accosto alla casa indicata e fermo la moto sul cavalletto, sotto un piccolo porticato. Lei scende e apre la porta sul retro. Si ferma sull’uscio per assicurarsi che io la segua. Chiude il portoncino a vetri e si toglie le scarpe da tennis. Avanza con le calze sul pavimento di legno scuro, poi scompare oltre una porta. Io non mi perdo uno solo dei suoi movimenti. La sento trafficare fra cassetti e sportelli, infine riappare con un paio di asciugamani. «Hai della biancheria di ricambio?» mi chiede. Faccio di sì con la testa. «Meglio che la tenga da parte per cambiarmi all’albergo, altrimenti dovrò restare a letto per un paio di giorni, nell’attesa che asciughi» le dico.


14 «Dove sei alloggiato?» intanto si sta frizionando i capelli. «Pensavo di fermarmi al The Swingate Inn, è qui vicino. Poi domani me ne torno a casa.» «Uno sciocco francese disorganizzato. Vieni in Inghilterra senza motivo, con una moto, d’inverno, senza meta né ricovero, senza curarti che farà pioggia per tutta la settimana, però conosci il mio nome e mi vieni a dire che non sai perché. Ciò impone un’accurata indagine. O sei un impostore che s’è inventato tutto, ma non lo credo possibile, oppure il destino s’è rimesso nuovamente in movimento. Se prometti di non creare problemi, puoi restare qui questa notte. Io abito sola. Ma non ho bisogno di nessuno che mi scaldi il letto» precisa con orgoglio. «Dovresti dar retta a tua nonna. Magari, se è ancora viva, me la farai conoscere.» «Mia nonna è morta da tanti anni. È morta di crepacuore, per via dei continui tradimenti di suo marito. E delle bugie che le propinava ogni volta che la lasciava senza soldi.» Si mette a trafficare col caminetto. Ha già il fornello carico di legna, su cui passa un qualche liquido che puzza di petrolio. Le fiamme avvampano e crepitano. «Vado a cambiarmi, poi preparo la cioccolata, che non si dica che difetto di ospitalità. Dopo parliamo. Cambiati anche tu.» Si chiude la porta di prima alle spalle. Raccolgo lo zaino che ho preso dal bauletto della moto e inizio a spogliarmi. Appendo gli abiti zuppi a sedie e termosifoni ancora spenti. Quando lei torna, mi trova vestito spaiato e scoppia a ridere. «Ok, la gita mordi e fuggi ha i suoi limiti. Raccogli gli abiti e mettili in asciugatrice, scegli il programma di venti minuti e falla partire. Quanto zucchero vuoi nella cioccolata?» Mi prendo del tempo, prima di rispondere.


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«Tre cucchiai e uno di miele, se ne hai, per favore.» La vedo armeggiare con barattoli colorati, poi prende a rigirare dentro alla tazza. Mi siedo accanto al camino, ho bisogno di calore. Eveleen mi porge una tazza stracolma, bollente e fumante. Identica alla sua. «Prima beviamo. Intanto, pensa bene alle parole che mi dirai.» Soffia sul liquido e solleva una leggera condensa che spinge nella mia direzione. È un vapore impalpabile, ma pare un muro di diffidenza verso di me che tarda a dissiparsi. Una nonna è un’istituzione, ce ne vuole per darle contro, specie quando si tratta dei sentimenti di una nonna morta. Odio, amore, sospetto, curiosità… hanno tutti origine da una qualche necessità che vogliamo soddisfare a ogni costo. Anzi, che dobbiamo. Per ognuno di essi si sono sprecati fiumi di pensieri, di libri, soggetti teatrali. Film e intere colonne di cronaca nera. E che dire dei proverbi? La cioccolata è finita e io stento a mettere in fila una parola dietro l’altra. Se non proprio buio totale, almeno è penombra, come questa stanza rischiarata solo dal riverbero delle fiamme. «Hai presente quando si fanno cose senza convinzione? Cose che si dicono, o che si pensano. Subito dopo ti chiedi il perché, e non lo sai. Subito dopo hai il rimorso di avere detto o fatto, ma non ti dai alcuna colpa. Non ero io, potresti dire, ma nessuno ti crederebbe. Solo tu e te stesso, quale testimone. E allora, piuttosto che reggere una situazione insostenibile, o peggiorarla, ammesso che sia ancora possibile, che fai? Molli tutto e scappi via. Provi a prendere le distanze da quel malessere, speri che se ne rimanga impregnato alla casa mentre tu corri via a cento


16 miglia di distanza. Poi ti fermi, tiri il fiato, e capisci che ti sei perso, non hai più punti di riferimento, ti fissi su mille cose e su nessuna. Se prima ti sentivi straniero nella corte di casa tua, ora sei uno straniero e basta, eccentrico, forse pazzo, magari indovino. Bevi una tazza di cioccolata e sai che devi fare un discorso, presentare il riassunto della tua vita a un ospite, nonostante non abbia più una vita da raccontare, nonostante su tutto emerga solo un nome, che non è una risposta, ma un grosso punto di domanda.» «Eveleen…» «Già, proprio così. A dispetto di tutte le mete e le persone che avrei potuto scegliere e incontrare, sei stata tu a scegliermi, e io ho indovinato il tuo nome. Solo per questo adesso sono qui e non sto invece a grondare al The Swingate Inn.» «Io credo che ci sia ben altro da svelare, che non un nome mormorato sulla cima di una scogliera fra raffiche di vento e scrosci di pioggia. Io, come te, ho sentito come un richiamo, una voglia di andare fin là. E non pensavo di trovare un francesino spaesato e forse un po’ pazzo, tanto strano da sapere il mio nome. Perché tu lo sapevi, non lo hai banalmente indovinato. E io voglio capire perché questa giornata doveva farci incontrare. Tu non mi hai detto granché, allora ti svelerò la mia pena affinché faccia da apripista alla tua. Questa era la casa di mia nonna. I miei genitori me l’hanno donata come regalo di nozze. Qui avrei voluto vivere con il mio uomo, crescere i miei figli, invecchiare e morire. Sentendo il rombo del mare che frantuma la scogliera, coi capelli ispidi per la salsedine, sempre scompigliati per la brezza che non cessa mai…» «Ma?» «Il mio ragazzo è caduto dalla scogliera una sera d’ottobre. Mancavano due mesi alle nozze. Stava per abbattersi un temporale e c’eravamo dati appuntamento là. Era una scusa per vederci e stare un poco da soli. I nostri genitori ci stavano togliendo il fiato con i preparativi e stare quella mezz’ora in pace ci risollevava. Lui veniva da Folkestone, dove lavorava alla biblioteca comunale, che chiudeva alle cinque. Io nel


17 pomeriggio ero libera e contavo le ore fino a quel momento. Sono arrivata con quasi mezz’ora di ritardo, ma spesso tardava anche Sean, per via del traffico o un lavoro da finire. Avevo avuto la prova dell’abito di nozze, e la sarta non la finiva più di mettere su spilli. Ero arrivata sulla scogliera e mi guardavo attorno per cercarlo. Non c’era. Ho bighellonato per qualche minuto, poi ho trovato le chiavi della sua auto fra l’erba bassa di un cespuglio. M’è preso un colpo. Ho chiamato forte, ma non ci sono ripari in quella zona, ci sono solo campi e…» Si ferma, sofferente. «La scogliera» dico per lei. «Il sentiero in quel punto corre abbastanza vicino al crinale, c’erano stati anche dei crolli nell’estate. Sono corsa verso ogni rientranza della scogliera, per cercare punti di osservazione dai quali controllare la costa sottostante. L’ho visto quasi subito. Aveva il maglione rosso che gli avevo regalato per il compleanno e stava disteso lungo la stretta spiaggia sottostante. Non si muoveva. Ho chiamato i soccorsi, poi mi sono gettata giù per la rupe, seguendo un declivio che mi pareva sostenibile. Sono scivolata di culo per trenta metri, mi sono rotta un braccio ruzzolando gli ultimi dieci e sono arrivata accanto a lui pesta e sanguinante. Lui stava molto peggio. Si era rotto braccia e gambe e perdeva sangue dal naso. Respirava ancora ma non mi ha detto nemmeno una parola, probabilmente era già in coma. Della corsa all’ospedale, tramite un gommone della guardia costiera, il pronto soccorso, le mie medicazioni, il dolore, la paura, non saprei raccontare. Non ricordo se ho chiesto di lui e cosa mi hanno detto, non ricordo più nulla. Al risveglio, appena aperti gli occhi nel letto d’ospedale, ho incrociato quelli di mia madre. Piangeva, e io ho preso a piangere assieme a lei. Non c’è stato bisogno di aggiungere parole. Sean era morto nella notte senza riprendere conoscenza.» Le concedo qualche istante per recuperare. Ha la voce roca, le cola il naso e gli occhi le brillano, ma forse sono le fiamme del caminetto che vi baluginano dentro.


18 «I genitori di Sean hanno consentito la donazione degli organi?» le chiedo a bruciapelo. Eveleen mi guarda, con occhi sospettosi. «Sì. Cornee, reni, fegato…» «E il cuore? Hanno donato anche il cuore?» Ho quasi urlato e sono scattato in piedi. Eveleen si spaventa. «Perché me lo chiedi con questa enfasi?» Per tutta risposta, mi tolgo la felpa leggera che indosso. Sono certo che Eveleen in un’altra occasione avrebbe potuto apprezzare la muscolatura che ancora conservo, dovuta ai pesanti allenamenti da titolare del ParisSan-Germain, oppure il tatuaggio sul bicipite destro che ritrae una Marilyn Monroe bella e ammiccante. E probabilmente si sarebbe soffermata sulla mia pelle, liscia e glabra, che tanto piace alle ragazzine secondo una moda assurda che costringe i ragazzi a depilarsi. Ma non mi ero sbagliato. Lei allunga un dito, tentenna, poi lo fa scivolare lungo la cicatrice che mi solca lo sterno. Il contatto mi fa salire i battiti a mille, il frinire silenzioso di pelle su pelle mi mette i brividi. Ma quando Eveleen appoggia le labbra su quella ferita e bacia la mia pelle saliva, lacrime e muco assieme - ho finalmente la conferma, la prova soave e terribile di tutti i miei pensieri. Non sono impazzito, non sono io ad avere gettato a mare i miei affetti e amori, ma Sean. O perlomeno il suo cuore, che so ormai per certo battere nel mio petto e non più nel suo, prematuramente chiuso in un freddo sepolcro. Abbraccio Eveleen e la lascio sfogare. Ci vorrà del tempo.


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Sono parecchi minuti che siamo distesi sul divano, in silenzio, ma paiono ore. Il fuoco nel camino s’è spento e la pioggia ha cessato di opprimerci. Eveleen è abbracciata a me, il viso contro il mio petto nudo, ascolta quel cuore che un tempo batteva solo per lei, e ora batte anche per me. Forse ripensa a quando aveva un uomo diverso fra le braccia, che le sussurrava parole d’amore e promesse eterne. Io non ne sono capace. Anche ora che ho fatto pace con me stesso e ho ritrovato quel poco di equilibrio interiore che credevo di avere perduto, non mi sento di fare discorsi, di pensare al dopo. Non che sentissi la necessità di incontrare questa gente, di essere loro grato per aver, nella loro profonda disgrazia, offerto a me la possibilità di continuare a vivere. Forse sono stato egoista, ma credo che non ero ancora pronto, e che era Sean a non volerlo. Chissà dov’è ora, se è dentro di me o se il suo cuore conserva solamente barlumi di coscienza destinati a evaporare nel giro di qualche giorno o qualche mese ancora. Invece sono preoccupato per Eveleen, per come potrebbe reagire al nuovo inevitabile distacco da me. Anzi, dal cuore di Sean. Sento che dovrò dirle qualcosa, fra poco, fare uno sforzo, spezzare questo incantesimo da belli addormentati. Le carezzo una ciocca di capelli, aspiro piano l’aroma della sua capigliatura arruffata. Se chiudo gli occhi potrei far finta di essere contento di essere qui; ho una bella ragazza fra le braccia, nessuno che assedia la mia fragile esistenza, zero problemi da affrontare. Ora che mi si è svelato l’arcano, mi sento come appagato, svuotato di energie e pensieri. Ora siamo solo Eveleen e io. Un unico cuore.


20 Arriva qualcuno, si sentono voci nel piazzale, una di queste chiama la ragazza con voce flautata. Un’ombra si affaccia alla finestra, scruta all’interno, le mani chiuse attorno al volto per evitare il riflesso del vetro. Il tipo ha come un sussulto, deve averci scorti nella penombra, probabilmente a causa della mia pelle bianchiccia. Bofonchia parole incomprensibili, poi batte il palmo sul vetro e il tono s’incupisce. «E così non hai perso tempo, eh? Potevi almeno dirmelo, che ti facevi un francesino di merda, che io non t’interessavo. Mi rispondi, puttana?» Faccio per alzarmi, ma Eveleen mi trattiene. «Non andare. È Steve, un mio amico, mi sta dietro da quando è successa la disgrazia. Lascialo sfogare. Non capirebbe. Gli parlerò domani.» «Non ti fai vedere, eh? Con che faccia ti mostreresti, d’altronde? Sono mesi che ti coccolo, soddisfo desideri, lenisco dolori e sfoghi. Così, vengo ripagato. Grazie! Salutami il tuo francesino, meglio che se ne torni a casa, qui tira una brutta aria per lui!» Si sentono rumori di plastica e lamiera rovesciati a terra. La mia moto! Eveleen si stringe forte a me, non mi lascerebbe alzare nemmeno andasse a fuoco la casa. Si sente un motore imballarsi e il raspare di ruote sul selciato. Torna il silenzio, appena qualche battito in più del cuore. Non riesco a definirlo mio, non ancora. Forse dipende dal fatto che non mi ha consentito di amare, di riprendere una vita normale, quella che avevo prima e che non avrò più. E pastiglie contro il rigetto, contro la coagulazione, contro la pressione alta, contro… contro la mia volontà. Certo, non volevo morire, ma affrontare l’intervento, il decorso post operatorio, la riabilitazione, cure, psicologo, il disastro in famiglia… e ora questa nuova, strana e imbarazzante situazione, non è come morire? Perdere tutto per non perdere la vita. Non so cosa sia peggio. Eveleen si rilassa, emette un gran sospiro e infine si distacca un poco da me. «Ti chiedo scusa, Pierre. Avevo bisogno di riprendermi. Ho abusato di te.»


21 Facciamo un passo indietro. No, non è che Eveleen sa il mio nome, gliel’ho detto qualche momento fa, nel percorso dal camino al divano, quando s’è disciolta su di me e mi chiamava Sean, Sean a tutti i costi. “Pierre, non Sean” le avevo detto, e lei s’era calmata. «È una situazione a dir poco surreale per tutti e due. Ci dobbiamo fare l’abitudine. Io sono Pierre, ho il cuore di Sean nel petto, tu amavi Sean e non ami me né quel simpaticone che mi ha distrutto la moto. Cosa accadrà quando il cuore di Sean verrà via con me?» Lei mi sorride. «Non ci ho capito molto, ti mangi metà delle parole con la tua pronuncia impossibile. Ma sta tranquillo, un cuore non fa una persona. Sean è morto, sono contenta che abbia dato la possibilità a te di sopravvivere. Punto.» Ecco, il più è fatto. Io ho il mio cuore e lei una buona ragione per andare avanti. E invece no, accade qualcosa che non mi aspettavo. Mi chino su di lei e la bacio. La sua bocca sa di amaro, la lingua è arida e ha le labbra screpolate, pure quel bacio sa di quel calore che non sentivo più da mesi e mesi. Le carezzo il collo, la spalla, sfioro col dito la rotondità di un seno. Lei ha come un brivido, si sottrae, poi si lascia andare. Il suo brivido diventa mio, ora spetta a me espiare qualcosa di sconosciuto. E lo faccio nella maniera più infantile, mettendomi a piangere. Il cuore, invece, ritma il suo battito regolare e sembra cantare. «E questo, perché?» chiede con voce roca. «Per Sean. So che avrebbe voluto farlo, se fosse stato al posto mio. Tocca a me chiedere scusa?» «Sean baciava così, toccandomi leggermente. Era il suo modo di chiamarmi all’amore, a donarmi a lui. Ho paura…» “Pensa io” vorrei dirle. Sto assumendo atteggiamenti del morto. Corro qui invece che altrove nel mondo, conosco Eveleen senza averla mai incontrata, scateno in lei il sentimento dell’amore e potrei prenderla qui, su questo vecchio divano senza problemi. Nulla mi porta a spiegazioni razionali. Un uomo è il suo cuore?


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Ci stacchiamo dopo un tempo che mi è parso infinito. Mi rivesto e ritorno Pierre, e Pierre si ricorda della moto. La ritrovo ribaltata sul fianco, con tutta la benzina sparsa sul selciato. «Maledizione!» sbuffo, alquanto contrariato. «Quando lo piglio, a Steve, gli cavo gli occhi! Che stronzo!» sbotta Eveleen alla vista dello scempio. Raddrizzo la moto. In realtà pare non avere un graffio. «Dove posso trovare un distributore? Meglio che faccia il pieno subito.» «Segui l’Upper Road fino a incrociare la A2. Sali verso nord e troverai il distributore Total sulla Jubilee. Non è distante. Poi però, torna…» «Già. Che si mangia per cena?» «Io sono una pessima cuoca, mi spendo meglio per la colazione.» «M’inventerò qualcosa. Tu, mangi di tutto?» «Tranne che i bocconi amari. Quelli non li sopporto più.» Mi sfilo il casco che mi ero appena sistemato e la bacio sulla fronte. «Non serbare solo i ricordi negativi della vita. Per restare a galla nelle difficoltà occorre affidarsi a dei salvagente, non alle ancore. Dobbiamo essere più forti delle avversità.» «E il tempo lenisce il dolore e smorza il ricordo della persona amata e persa, non è vero?» Sento che sta per scoppiare. «La persona amata avrebbe da ridire se chi gli è sopravvissuto fa di tutto per non seguirlo nella tomba? Pensaci; se ti amassi, vorrei per te solo il bene. Siamo noi che ci abbandoniamo allo struggimento. Per quanto comprensibile, non dobbiamo lasciarci sopraffare.»


23 «Sono per me parole vuote, non ho più voglia di ascoltarle. Forse a me non interessa più vivere. Più che altro sto sopravvivendo, con poca convinzione.» «E allora ricerca nuovi stimoli, riagguanta la tua vita, datti da fare. Pensa a quanto di bello c’è ancora nel mondo, in una stella cadente, oppure in un fiore mosso dal vento. Pensa che è per te, che la stella cadrà comunque e il fiore appassirà anche senza che tu t’interesserai a lui. Però sarebbe un peccato.» Sorride. «Bevi del vino?» «Vuoi ubriacarmi?» «Ci proverò. A più tardi.» Metto in moto e vado via, la testa piena di pensieri e di progetti. La spia della benzina, però, li fa sparire tutti come in un incantesimo malvagio. Devo stare attento e non rimanere a secco. Un rumore cupo mi si piazza dietro. Controllo dagli specchietti, è un grosso fuoristrada. Accelero un po’, quello mi tiene dietro. Rilascio, quello rallenta. Steve… Già, potrebbe essere lui che mi tallona, cercando un punto buono dal quale scaraventarmi in un fosso. Oppure è un tipo qualunque che va per i fatti suoi. La strada svolta, prendo un bivio, poi un altro. Quello è sempre dietro. Vedo all’ultimo la stazione di servizio, giusto perché è dipinta di rosso e sbuca con violenza dai giardinetti e il boschetto sullo sfondo. Accosto e mi fermo alla pompa. Un ometto con cappellino e tuta della compagnia si avvicina. «Il pieno, per favore.» Tolgo il tappo del serbatoio e preparo la carta di credito, non credo che accettino euro. Quello guarda dietro di me, poi rimette via la pompa. Alle mie spalle c’è Steve che mi osserva dal finestrino aperto. Ha fermato il fuoristrada poco distante e deve avere scambiato qualche cenno d’intesa col gestore.


24 «Che succede?» «Mi dispiace. Ho un guasto e non posso darle benzina. Provi più tardi oppure da un altro gestore.» Fa per andarsene. Steve sogghigna compiaciuto. «Senta, sono a secco e vorrei tornare a casa. Non mi faccia storie.» «Non ho altro da aggiungere. Se ne vada.» «Lei non può trattarmi così. Ha forse paura di quel tipo? Non ha le palle per cacciare via lui, invece di me?» «Quel tipo è un buon cliente, oltre che un buon picchiatore. Lei non è nessuno. Vada via. È un consiglio.» Non mi pare convintissimo, ma io non posso perdere tempo, né ho intenzione di rimanere a piedi in terra straniera. Afferro la pompa e inizio a farmi il pieno da solo. «Ehi, cosa crede di fare?» L’ometto torna, ma gli piazzo un dito davanti alla faccia. «Preferisce prendere solo i soldi, o anche un bel papagno sul naso? Visto che sta a sentire solo i bulletti, mi sto comportando di conseguenza!» «Io chiamo la polizia!» sbotta. «Mi troveranno qui con la carta di credito che voglio pagare. S’inventi una scusa plausibile, per averli disturbati.» Uno sportello sbatte. Steve viene verso di noi. «Mi pare che il gestore ti abbia detto di andartene!» piglia a dire. «Infatti. Se aspetti un attimo, pago e vado. Problemi?» È alto come me, che non sono proprio un piccoletto. Anche se è ben più piazzato non mi fa paura. Però il cuore inizia a picchiare con forza. «Tu hai dei problemi. Vedi di fare in fretta e di prendere il prossimo traghetto, se non vuoi farti il ritorno a nuoto e con lo scooter legato al collo.» «Tu sei capace solo di prendertela coi più deboli. Va per la tua strada, io andrò per la mia.» Stacco la pistola e la riposiziono. Con la coda dell’occhio lo vedo arrivarmi addosso e riesco a malapena a schivare il colpo, che mi


25 prende di striscio alla tempia. Sbatto contro la pompa e mi appoggio alla colonnina per non cadere. Quel dannato mi prende per un braccio e cerca di buttarmi a terra. Lo afferro a mia volta e mi lascio cadere deliberatamente, trascinandolo giù. Nel contempo, sfrutto il mio peso per squilibrarlo. Alla fine, è lui che finisce pancia a terra e col braccio bloccato dietro la schiena. «Io non ti ho fatto niente, per cui stammi lontano dalle palle. E se Eveleen la pensa alla stessa maniera, vedi di lasciarla in pace, d’accordo?» Gli torco il braccio con forza per dare maggiore vigore alle mie parole. Steve grugnisce, lo prendo per un sì a denti stretti. Mi scosto e lo lascio rialzare, pronto alla difensiva. Ma non ce n’è bisogno, va direttamente al suo mezzo. Quando sbatte lo sportello e mi affronta dal vetro abbassato, non gli dò la soddisfazione della replica. «Te la sei cercata. Se rimani nel mio territorio te la faremo pagare!» Parte con una sgommata. Il gestore non ha fiatato ed è rimasto a opportuna distanza. «Venga, pago e vado via. Non voglio causarle altri problemi.» Inaspettatamente quello mi sorride. «È tanto tempo che aspetto qualcuno che gli dia una lezione. A volte è troppo… diciamo così, esuberante, ma prima o poi farà del male a qualcuno sul serio.» Pago e mi dirigo verso il centro di Dover. M’imbatto nel Carlton Shop Center e mi ricordo delle promesse per la cena. Mi guardo attorno sperando di non vedere la brutta faccia di Steve. Parcheggio vicino all’ingresso. Pochi minuti e sono di ritorno. Eveleen avrà di che essere contenta.


26

6

Faccio appena in tempo a scendere dalla moto che lei mi si avvinghia al collo. È scossa da forti singhiozzi. «Cos’è successo?» le chiedo. Non sembra avere dei lividi, però è molto spaventata. «Steve… mi ha telefonato e minacciato. Poi s’è presentato qui e pretendeva di entrare. Non so come ho fatto a tener chiusa la porta. Se n’è andato da poco…» «Mi dispiace. È colpa mia. Abbiamo avuto uno screzio alla pompa di benzina e se l’è presa con te. È proprio un vigliacco. Dobbiamo avvisare la polizia.» «No, lasciamo perdere! Suo padre è un poliziotto, potrebbe creare delle grane. Soprattutto a te, che sei straniero.» «Ah, ma allora questo spiega tutto! Lui può fare lo stronzo in giro, tanto c’è paparino che lo copre. La prossima volta…» Eveleen caccia uno strillo e mi fa trasalire. «Ma tu sanguini!» Allunga la mano e mi tocca la tempia. Sono poche gocce raggrumate, ma ha ragione. «Deve essere stato un regalo di quel bamboccio. Ha cercato di colpirmi, mi ha preso solo di striscio.» «Non lasciare lo scooter di fuori. Potrebbe tornare e danneggiarlo.» Mi aiuta a spostarlo nella rimessa, poi rientriamo. Chiude la porta a tre mandate, infine corre in cerca del disinfettante. Intanto appoggio la spesa sul piano del lavello. Bistecca e una bottiglia di vino. Non ne avevano dei nostri, ne ho scelto uno quasi a caso. «Siediti e non frignare!» intima.


27 Sembra avere scordato lo spavento, soverchiato dalla foga da crocerossina. Passa e ripassa il cotone inzuppato di una qualche sostanza che puzza come cherosene, brucia come alcol, disidrata la pelle come ghiaccio secco. Alla fine, tutta soddisfatta, fa due passi indietro e rimira il suo capolavoro. «Hai un bernoccolo niente male, spero che quel gradasso si sia perlomeno rotto un polso!» «L’ho sbattuto a terra, se lo ricorderà la prossima volta che c’incontriamo.» «Vedrai, domani se ne sarà dimenticato.» «Tu credi? Io penso che non mollerà facilmente. Vuole te e ha trovato me in mezzo. Cosa pensi che farà? Che si siederà tranquillamente sulla banchina ad aspettare che riprenda il traghetto?» «Cosa ne puoi sapere, tu? Nemmeno lo conosci!» Mi prendo un paio di secondi prima di rispondere. Quel che dico fa più impressione a me, che a lei. «Me lo dice il cuore.» Sbianca, deve appoggiarsi a una sedia. «Mi fai paura. Guardo te e vedo Pierre. Ma sento che dentro c’è Sean. Sto impazzendo?» «Siediti. Credo che la pensiamo alla stessa maniera. In qualche modo, parte della coscienza e dei sentimenti del tuo ragazzo sono stati trasferiti a me attraverso il suo cuore. Sembra impossibile, ma è l’unica spiegazione che mi so dare.» «Non è facile da accettare, per tutti e due. E nemmeno sarà facile convivere con questo pensiero.» «Non ci pensiamo allora, Eveleen. Viviamo come viene, liberi. Se abbiamo voglia di frequentarci, facciamolo, se vogliamo fare altrimenti…» «Tu non capisci. Io sono attratta da te perché sei parte di ciò che più ho amato al mondo. Tu sei attratto da me perché te lo ordina il cuore.


28 Saremo mai obiettivi e liberi di decidere? E se domani te ne vorrai tornare a casa, che farò io tutta sola?» Annuisco in silenzio. Nel frattempo mi aggiro per la cucina. Trovo un cavatappi centenario e apro la bottiglia. «Beviamoci sopra. Magari troveremo la soluzione fra i fumi di una bella sbornia!» Eveleen mi guarda con sospetto, poi scoppia a ridere. «Sean beveva solo birra. In questo non gli assomigli.» «Anche a me piace la birra, solo che con la bistecca è più indicato un buon vino corposo.» «E come pensi di cuocerla?» Mi avvicino a un centimetro da lei. Le prendo il mento con una mano e la bacio sulla punta del naso. «A fuoco lento, ma chére. Molto lento…» Eveleen arrossisce e abbassa lo sguardo. Capisco che da quando è morto Sean non ha fatto più l’amore con nessuno. Spero che non si sia offesa per la mia battuta un po’ spinta. «Però dovrai offrirmi di più d’un vecchio tostapane, per cuocere la bistecca. Hai una griglia?» Scuote la testa. «Solo padelle. E se la facessimo al forno?» «Meglio mangiarla cruda, allora. Ho visto che fuori hai delle lastre di pietra. Che roba è?» «Mah, credo siano resti della copertura del tetto, che hanno sistemato in primavera.» «Andiamo a vedere.» La prendo per mano e usciamo. Mi guardo attorno, ma non c’è nessuno in vista. Le lastre sono molto grandi e spesse. Ne seleziono una di un paio di centimetri, la riduco di dimensioni e la porto in casa. «Che pensi di fare?» chiede, curiosa. «Fammi da assistente e vedrai. Olio.» «Sei pazzo!»


29 Però ride e mi passa la bottiglia. Pulisco per bene la lastra con un panno umido, la ungo e la metto sul fornello acceso. «Sale grosso.» «Pronto!» Eveleen mi guarda di sottecchi. Ha gli occhi che brillano, la bocca aperta in una smorfia compiaciuta. Mi sembra serena, colta nel momento in cui il suo uomo cucina per lei e lei non ha nessun problema al mondo. «Rosmarino.» «Manca!» «Aglio.» «Bleah!» «Bistecca.» «Enorme!» «Adesso dobbiamo lasciare scaldare la pietra. Ci vorrà un po’.» «Non si spaccherà?» «Spero proprio di no. Servono due bicchieri.» «Giochiamo alla moglie ubriaca?» «Ti preferisco sobria.» Mi piace quando s’incanta a guardarmi. Mi spia, osserva i miei gesti, pesa le mie parole. Non so se è per scorgere quanto di Sean ci sia effettivamente dentro di me, oppure quanto sono o non sono interessante per lei. Porta due calici e verso il vino. Spengo la luce e sediamo sul divano. Il liquido ambrato brilla al riverbero del giorno che muore. Si sente la pioggia picchiettare sul tetto, il soffiare del gas che avvampa sotto la pietra, la lastra che ticchetta per la dilatazione. Eveleen raccoglie le gambe sul divano e si appoggia alla mia spalla. «Sai, io e Sean restavamo spesso così, al buio. A volte c’era il camino acceso, altre solo la luce della luna o delle stelle. Eravamo ombre confuse, anime appiccicate una all’altra. Un respiro solo. Per mesi mi sono chiesta quanto avevo perso, se mai sarei riuscita a superare la sua


30 mancanza, se avrei mai potuto guardare un altro uomo negli occhi. Mi sono sempre detta di no. E tu non è che sei diverso o che sei particolarmente bello, interessante, intelligente, eccitante più di lui. Né sei lui. Sei l’anello di congiunzione fra l’amore che ho perso e uno nuovo che potrei accettare. È come se Sean mi consegnasse a te. Capisci cosa intendo dire?» Poso il bicchiere a terra e le cingo le spalle. Lei poggia la testa sul mio petto. «Ci sono volontà che sono molto forti. Io sono stato quasi costretto a venire da te. E tu non mi hai cacciato via. Siamo liberi di pensare o agire oppure siamo indotti a stare assieme?» «Perché, ci siamo già messi assieme?» dice con voce canzonante. «Se preferisci, te lo chiedo: vuoi metterti assieme a me? Provare a vedere che succede fra di noi? Un giorno, un mese, un anno. Prendiamoci del tempo. Una doppia disgrazia ci ha messi in difficoltà, un qualche impulso mi ha portato qui, ora siamo su un divano, appiccicati come antichi amanti, eppure ci conosciamo da poche ore. Io non sento di doverti amare, mi piaci. Mi sembra una situazione naturale. Sei una bella ragazza, io sono libero. Che ne dici?» «Versami dell’altro vino. Se devo mettermi assieme a uno sconosciuto, allora voglio almeno una scusa per salvare almeno l’onore, domattina…» Beve, butta il bicchiere in un angolo del divano poi schiaccia le sue labbra contro le mie. Nel buio la pioggia picchietta sul tetto, il gas avvampa sotto la pietra e la stanza ci avvolge nel suo abbraccio protettivo.


31

7

Mi sveglio di soprassalto, quasi senza fiato. Eveleen mi dorme addosso, ha il respiro regolare. Eppure qualcosa deve avere turbato il mio sonno, avermi espulso dall’estasi del torpore, ricacciato al presente fatto di buio e dell’azzurra fiammella del gas che da ore tiene rovente la lastra di pietra. Tac! Eveleen spalanca gli occhi e scatta seduta. Vedo il bianco dei suoi occhi roteare attorno, alla ricerca di quella fonte di rumore. “Steve!” «Quello non ha capito niente!» sbotto. Mi rivesto al volo, poi afferro un attizzatoio e cerco la via più breve per il portoncino a vetri dell’ingresso. Tac! È proprio quel bamboccio. Tira sassolini ai vetri, se ne sta appoggiato al suo furgone e ogni tanto tracanna da una bottiglia di birra. A terra ce ne saranno una decina, ormai desolatamente vuote. Non vuole spaccare la porta, solo provocare. E io, se voglio campare e campare bene da queste parti, non posso nascondere la faccia. Apro la porta e cammino verso di lui. «Che succede Steve, non hai un altro posto dove andare?» «Avevi detto che te ne saresti andato!» sbotta. Non mi sembra arrabbiato, ma forse dipende dall’alcol che ha in corpo e che gli ottenebra la mente. «Siamo in un paese libero. Voi avete scelto di avere una regina, io di passare la notte in questa casa. È la democrazia.» Steve ride e butta indietro la testa.


32 «Sei anche spiritoso. Allora proprio non vuoi ascoltare il mio consiglio? Tu fai fagotto, te ne torni a casa senza problemi, riprendi la tua cazzo di vita di prima e io la mia. Mi sembra semplice da fare e da capire. Ma perché ho la consapevolezza che tu adesso mi dirai che non sei d’accordo e io m’incazzerò come una pantera?» «Hai una bella macchina, Steve. Un fanale costerà una fortuna!» «Trecento sterline l’uno, roba che voi francesi vi sognate, per le vostre automobiline!» Bam! L’attizzatoio fischia nell’aria, poi si abbatte sul fanale, a pochi centimetri dalla coscia del ragazzo. Non ci ho pensato nemmeno per un attimo, questione di dominio. Lui mi ha sfidato, o mi batto o sono fuori. «Be’, pare che qualcuno ti abbia rotto un fanale. Pare che da certe parti è meglio che non ti presenti, a tirare sassi alle finestre altrui.» Lo vedo diventare paonazzo dalla rabbia. Guarda me, poi guarda l’attizzatoio. Comprende che la sua testa vale più di trecento sterline. «Sta attento a dove porti il culo, francese di merda. Dalle nostre parti, chi rompe il cazzo al sottoscritto prima o poi finisce male!» Non muovo un muscolo, non batto un ciglio. Quando giocavo a pallone mi capitava spesso di trovarmi nei pasticci, e allora era meglio ostentare sicurezza che mostrare i talloni. Questo Steve è uno tosto, di quelli che ti attaccano alle spalle. Scorretto, pericoloso. «Ti è rimasto un fanale sano, vedi di conservartelo. Dalle nostre parti, uno che rompe il cazzo gli spacchiamo la testa subito, così non torna a rompere una seconda volta. La prossima occasione che ci farà incontrare è meglio che sia per farci una birra assieme.» «La prossima volta tu sarai morto!» sibila, poi scatta verso la portiera. Il cuore mi dà un tonfo, ma al battito seguente sono alla gola di Steve, l’attizzatoio schiacciato sulla sua carotide, una presa con la mano ai suoi capelli. Faccia contro faccia. «Penso sia il caso di smetterla con le minacce. Fattene una ragione, Steve. Se Eveleen non ti fila, lasciala in pace. D’accordo?»


33 Il ragazzo gorgoglia qualcosa, poi fa l’atto di sputarmi in volto. Spingo ancora un poco alla gola e lo strattono ai capelli. «D’accordo?» gli urlo addosso, poi lo lascio andare. Si affloscia come un sacco vuoto. Eveleen esce di corsa e mi tira indietro. «Smettetela tutti e due! Vi state comportando come due adolescenti.» «Ok, me ne vado!» rantola fra i colpi di tosse «Guardatevi le spalle…» Mette in moto e sgomma, ci schizza addosso il ghiaino del selciato. Sento che saranno rogne. Ho provato con le buone, con le cattive, niente. Forse ho usato più le cattive che le buone, ma probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Steve è accecato dalla gelosia, vede me fra lui ed Eveleen. Per lui sono il telo rosso per il toro nell’arena. «Non è una bella situazione. Davvero non vuoi fare denuncia? Sarebbe opportuno che la polizia sapesse delle sue intrusioni nella tua vita.» «Stiamo a vedere un paio di giorni. Se si ripresenta in giro, allora siamo d’accordo, lo denunciamo.» «Mmm, sono le due di notte. Tardi, per quella bistecca?» le chiedo per sdrammatizzare. Eveleen si accartoccia contro il mio petto. Sembra bisognosa di un pieno di energia, di un abbraccio rassicurante. «Non voglio più svegliarmi nel cuore della notte, vestirmi di nascosto e uscire a separarvi. Ho ancora i brividi. Sentivo le vostre urla, le minacce, i colpi. Io ho già dato, quanto a dolore e sofferenza. Non ce la faccio a vivere con la paura di qualcosa che si agita alle mie spalle. Sì, mangiamo la bistecca, beviamo il vino, fingiamo che tutto sia a posto, che siamo felici, che domani sarà una giornata grandiosa!» Scoppia a piangere. All’improvviso non sono più tanto sicuro di avere agito bene con Steve. Ogni screzio aumenta il suo odio verso di me e il suo risentimento verso Eveleen. La stringo, affondo la bocca fra i suoi capelli, cerco le sue labbra e lei mi accoglie in un bacio disperato. «Non mi lasciare, ti prego! Non mi lasciare anche tu…» «Ti piacerebbe visitare l’Italia? Ho un amico che abita sulla costa adriatica. Ha un piccolo appartamento che affitta d’estate ai turisti. In


34 questo periodo è tutto chiuso, abbiamo chilometri di spiaggia deserta e possiamo mettere migliaia di chilometri fra noi e quello zotico di Steve. Che mi dici?» «Mi va bene tutto, pur di stare tranquilla. Avviserò i miei.» La bistecca fuma quando la posiziono sulla lastra rovente. Eveleen accende delle candele e le sparge a terra. Tira le tende, chiude coi catenacci. La spio mentre accende il caminetto, la fiamma piccola ne illumina i contorni, poi la legna avvampa e scaglia la sua ombra lontano contro le pareti. Demone irrequieto, demone inafferrabile. Non m’importa se la bistecca sfrigola, corro verso di lei a passi veloci. La sollevo e la porto sul divano. Ancora conserva l’impronta dei nostri corpi accaldati. Lei mi lascia fare, ansima su di me, vibra alle mie carezze, poi scappa via, seminuda, ridendo. La inseguo, fingo di ghermirla, la lascio fuggire, gestire una schermaglia che non fa altro che accrescere il desiderio dell’altro. Ora ci divide la tavola. Lei afferra la bottiglia di vino e ne beve un lungo sorso. Ha gli occhi che luccicano nella penombra, la bocca aperta, i denti in vista. Afferro il forchettone e giro la bistecca. «Due minuti…» le mormoro mentre mi avvicino a lei. «Due minuti e sono cotta…» dice sibillina mentre le afferro un seno. Quando si fa l’amore, il tempo si dilata fino a perdere i contorni. Gli spazi si aprono alla deriva, il sentimento smorza le percezioni e la nebbia della passione sale attorno agli amanti e li trasporta altrove, in un mondo tutto loro. E così i problemi si acquietano, i pensieri vagano fuori da ogni raziocinio, resta solo il calore dell’alcova, l’impellenza del reciproco, sale il respiro, si comprime il sé, si dilata il noi. Alla fine, appagata la passione, resta l’osmosi del contatto fra i corpi, le parole si fanno vapore, le movenze appannano. Se scocca un sorriso, non sarà per caso; se sale una voce, sarà grata, ma è più facile che sopra di essi cada un torpore buono, e in quell’oblio si affievolisca la malia del desiderio, fino a perderne il ricordo e il sapore, sì che la volta seguente tutto riprenda con egual slancio, essi si aprano al


35 fascino della seduzione, salga l’impeto a eccitare i cuori, incuranti della tormenta che si appresta al loro talamo ormai indifeso. Nulla risulta più crudele di una gioia spezzata, niente rinsavisce il coccio infranto, nessuno sopravvive allo schianto di folgore che vibra nell’aria incupita. State attenti, giovani amanti, a non perdervi… Sento che sto per perdere conoscenza. In testa vaghe reminiscenze di un qualche pistolotto filosofico sull’amore, di come tutto si sospenda, quando si fa l’amore. Spero valga altrettanto per la bistecca… )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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