Le colazioni sul Lago di X

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In uscita il 29/9/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine settembre e inizio ottobre 2017 (3,99 euro)

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TITO MALINVERNO

LE COLAZIONI SUL LAGO DI X

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LE COLAZIONI SUL LAGO DI X Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-129-7 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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LATO A

«Quando il Legnone mette il cappello…». Il Cogozzi lascia la domanda in sospeso, appoggia la lama del rasoio sulla mia gola e un ghigno di attesa gli fa ballare l’occhio. Non so se mi preoccupa di più la lama o il filo di saliva che si sta formando sulle labbra del tagliagole in fremente attesa e che rischia di colarmi sulla giacca. Ci sono clienti che fanno la fila il sabato mattina, oltre ai pensionati che hanno scambiato il negozio per un bar e ci passano le giornate tra frizzi e lazzi senili. Apprezzo il tentativo del barbiere di farmi sentire accolto, da alieno legale che sono. Adesso è il mio turno. «…metti via la falce e prendi il rastrello» e glielo dico in dialetto locale, con l’accento giusto. Significa che se la cima del monte Legnone è avvolta dalle nuvole, fai conto che a breve son rovesci sui campi e sulle nostre povere teste. Il Cogozzi gongola sotto i baffi e rivolge alla combriccola del fiasco un cenno in cerca di consenso. Dalla platea sembrano soddisfatti perché fioccano sguardi d’intesa che esprimono sincera approvazione. Sentire risuonare la mia voce nel negozio fa strano anche a me, a volte non ne ricordo affatto il suono e l'inflessione. Da circa un mese per la gente del posto io sono il cliente silenzioso, il paltino, il convitato muto, il punto di domanda che cammina. E va bene così. Del resto, non può essere altrimenti. Non ho nessun’altra possibilità. Ci devo convivere e, credimi, è già grasso che cola.


4 Io sono Tito Malinverno, detto “Male” e, a volte, maledetto. Vivo, o meglio, sono esiliato qui da circa tre anni. L’ho combinata grossa e se sono vivo è solo perché l’uomo che ero sapeva saettare tra i paletti del fato, non avendo fatto altro per tutta la vita. Mi sono mosso più veloce di loro e in quel settore la velocità è tutto. Ma te lo racconto dopo perché il Cogozzi ha finito di esercitare su di me la sua arte e adesso devo pagare e salutare come si conviene a chi è ospite in una nuova comunità. Esco sbarbato e rilassato. Piazza Paracchini e Dongo mi accolgono con una strizzata d’occhio. Il lago oggi invece si disinteressa di me, come è giusto che sia, e continua il suo distaccato dialogo con se stesso. L’orologio della piazza dice che è quasi mezzogiorno e io ho un appuntamento al bar dell’angolo con l’unico amico che mi è concesso di frequentare, il commendator Negroni. Mi imbuco al bar e ne ordino uno al barista indaffarato, che mi fa capire di aver capito da dietro una cortina di mani e teste che si sporgono verso di lui in maniera telescopica, ansiose di consumare o di pagare e smammare. Mi siedo fuori ad aspettare l’amico Negroni. È sabato mattina e tutto scorre. Il lago che lussureggia da una parte, la gente che genteggia dall’altra. E il Malinverno in mezzo a godersi l’uno e gli altri. Spettacolo, categoria. Non è sempre stato così. Non dovrebbe esserlo nemmeno adesso, a dire il vero, proprio per niente, ma di recente il fiume della mia vita ha rivelato un’altra ansa e qualcosa nel panorama è cambiato. Continuo ad avere problemi nella testa e se mi esprimo a volte in modo bizzarro e sopra le righe devi darmi la tara. Purtroppo e per fortuna è così, non posso farci niente. Io sono pazzo. La prima volta che sono venuto qui ero in condizioni pietose e mi guardavo le spalle di continuo, ero messo proprio da manicomio. Guardavo il lago di gennaio e lo vedevo oscuro e perplesso, pieno


5 di anfratti tanto cupi quanto per me invitanti. Ero qui perché l’appuntato Menelli una volta mi disse: «Malinverno, il lago conosce ogni segreto. Il lago è il custode dei vivi e dei morti, conosce i segreti di tutti e se li tiene per sé». E proprio questo io cercavo. Il tizio dell’agenzia immobiliare, un esordiente totale nella parte del bravo giovine volenteroso, mi ha fatto visitare appartamenti e casette di varie metrature e tutti dannatamente pittoreschi, vista lacustre inclusa nel prezzo. Sorico, Gera Lario, Domaso, Gravedona… la collana di perle sul filo del lago che sgranavo con gli occhi sembrava non avere fine, ma non risuonavo con nessun luogo. Poi ho capito che ero io quello che stonava col paesaggio. Troppo spazio aperto per uno che cercava una tana in cui nascondersi. Più che altro per disperazione, l’agente mi ha infine portato a Dongo per vedere una casa a mezza collina, poco prima di Stazzona. Adesso mi era chiaro perché non voleva venirci. Sin dalle prime case, Dongo mostrava una faccia meno pittata e sorridente dei gioielli del lago che avevo appena visitato. L’aria turistica e vacanziera che si respirava poco prima era sparita del tutto. Qui sembrava ci fosse meno da sorridere. Dopo una svolta a destra, l’auto del tizio aveva preso a salire verso la collina e, mentre cercava di imbonirmi per piazzarmi il moderno e accessoriato appartamento di Domaso che mi aveva mostrato per primo, ho visto la luce. L’enorme carcassa dell’ex acciaieria Falck riposava austera a un lato della strada, come una bianca Moby Dick spiaggiata. Dall’altro lato, uno scorcio della tipica architettura popolare degli anni 70 reclamava la mia attenzione con ampi cenni di intonaco grezzo e serramenti di legno dipinti di verde. Case popolari, operai, ferro, lavoro. Ho sentito esplodere nella testa tutto Live at


6 Leeds degli Who. «Dove siamo qui, tizio dell’agenzia immobiliare?» mi uscì d’istinto. «Questo è il villaggio Falck, ospitava impiegati e operai quando l’acciaieria era ai massimi livelli. È una località un po’… ehmm… come dire… di livello un po' basso. È pure fuori dal centro, un po’… ehmm… appartata», e intanto spingeva sul gas per lasciare la zona. «Hai qualche appartamento disponibile in zona? C’è qualcosa per me?». «Oddio, ho due appartamenti ammobiliati al Villaggio, ma non credo, non penso facciano per lei». «Alle volte non credere e non pensare fanno il miracolo. Me li mostri?». Avevo fretta perché mi sentivo elettrico. Il secondo che ho visitato era quello giusto. Piccolo, ma adatto a me. L’appartamento, al secondo piano di una palazzina di due, dava su una strada assai stretta percorribile solo in un senso. Niente negozi, né attività. Ogni abitazione distava qualche metro dalla precedente e dalla successiva. Era chiaro che se non abitavi qui non avevi motivo alcuno di passarci. Un piccolo giardino su un lato offriva riparo dalla strada. Il piano terra era disabitato per questioni di eredità irrisolte e garantiva solitudine totale. Perfetto. «Lo prendo, è mio» gli dissi entusiasta. «Ma… non si vede nemmeno il lago!» sembrava stupito e incredulo. «E lui non vede me» lo inchiodai da dietro i miei pensieri. Che erano ricordi. Hinterland milanese tra i settanta e gli ottanta, gli sbirri e la mala, la Breda, Metanopoli, le notti in solitudine seduto sul cofano dell’auto a guardare lo show dell’immensa centrale termoelettrica, architettura e luci da astronave interstellare, con la bottiglia e il pacchetto di sigarette che


7 facevano a gara a chi si svuotava per primo. Cinesi, guapparia, trafficanti, puttane, tossici, allibratori, colleghi corrotti, bettole, notti e pioggia. La Blade Runner de noantri. Hai presente quando King Kong arriva a New York e non ci si raccapezza, poi vede l'Empire State Building che gli ricorda le cime delle sue montagne? Erba di casa mia, rassicuranti abitudini, malinconia e speranza. Vengo dal cemento e dalla notte, dalle case di ringhiera e dal profumo di minestrone sulla rampa delle scale. Novello scimmione, ho colto la visione nei suoi occhi quando ha guardato il profilo dell'Empire stagliarsi dal fondale della notte americana. Voglio nascondermi lì, deve aver pensato il vecchio Kong. Ecco: Cameriere, lo stesso! E, infatti, il cameriere mi porta finalmente l’amico Negroni col quale inizio subito a scambiare confidenze. Lui mi racconta di quando ha litigato con l’acqua e da allora non la frequenta più e io non posso che essere dalla sua parte. Come noi la pensano altri avventori che stanno misurando quel che resta nel bicchiere per capire quando chiedere il bis. So di essere troppo su di giri, ma non ho pressoché alcun controllo sulla gestione dei miei pensieri e ho rinunciato da tempo a questioni di censura. Il mio umore, come il clima del lago, tende al variabile ventoso. Provo a rallentare, a rallentarmi. Accendo una sigaretta. Aspiro, inalo, mando giù e lentamente mi calmo. Fumo -dentro, troppo su di giri -fuori. È così da oltre due anni, sarà così ancora per… non lo so. Ma davvero, non è un semplice modo di dire. Perché io sono stato cancellato, e adesso ho bisogno che qualcun altro mi ridisegni, io non posso farlo da me, nessuno può farlo da solo. Mi sa che a questo punto ti devo qualche spiegazione, mica che poi ti perdi. Perdona lo stile, io non sono uno scrittore.


8 Ho fatto il poliziotto per ventinove anni tra Mobile e Investigativa e non ero neanche male. Di gente schifosa ne ho conosciuta a mazzi e ne ho spedita in galera altrettanta. Poi l’ho fatta fuori dal vaso, con il contributo spontaneo di Nostra Signora della Sfiga, mia controvoglia patrona. Ho atteso per anni l’occasione di avere la soffiata che fa saltare il banco e quando si è presentata mi ci sono buttato a capofitto investendo ogni risorsa personale in termini di tempo, soldi e fatica, senza farmi mancare il solito condimento di rogne, imprevisti, spostamenti e appostamenti. Una bella gita. Nella mia personale graduatoria, quell’operazione avrebbe dovuto essere la mia Notte degli Oscar, la mia incoronazione a reginetta di Miss Italia. E non potevo che condurla da solo perché coinvolgere altre persone avrebbe aumentato a dismisura il rischio di insospettire qualcuno del giro, e il giro non era grosso, era il Godzilla dei giri. Il Mammasantissima e il Ministro in un incontro privato, in un luogo sicuro e segreto, per tutti tranne che per il Malinverno, il quale sapeva per certo che questa volta non avrebbero partecipato luogotenenti e tirapiedi, né da una parte né dall’altra. Quando le orecchie sono solo quattro, vuol dire che le parole che ascoltano pesano come le tue palpebre dopo due ore di conferenza serale sul tema dell’alitosi nelle galline del Borneo. Quando gli uomini delle rispettive scorte hanno accerchiato, bonificato e messo in sicurezza l’ambiente, io li ho fregati perché ero già lì dalla notte prima, nell’intercapedine del muro, col mio fedele apparato da intercettazione audiovisiva di fattura lillipuziana, che necessita solo di un forellino nel muro approntato per la bisogna. Va bene, avevo fatto male i conti e soffocavo per la polvere e la poca aria, per giunta stantia, le gambe sembravano due insaccati da banco e i piedi le zampe palmate di una papera, ma non


9 pensavo fino a quel punto. Eccoli i due provvidi esemplari della razza scelta, le creme. Avidi e impavidi si impossessano della stanza che sembrano a casa loro. Io, ingenuo, potenzio le cornee e amplifico i padiglioni, bello pronto per il tappeto rosso della notte degli Oscar. Tutto mi aspettavo fuorché di filmare e registrare un incontro di lancia in resta e chiappe all’aria tra i due fieri scudieri di Stato e Anti-Stato. E che torneo, che cavalcate, che sciabolare di spade nella roccia! Si aiutano pure con le polveri e le boccette, fino a sfidarsi brandendo spade di lattice e altri oggetti atti a offendere solo le coscienze dei più. Sudavo da far schifo ai plantari di un maratoneta. Volevo essere da un’altra parte. Tutto inutile e pure peggio. Adesso dovevo pure pensare a cosa farne di quel che sapevo e del materiale audiovisivo. Non ne potevo più, aria, presto! Quando i due nobili cavalieri d’arme e di amori hanno abbandonato stremati il campo di gara, avrei dovuto attendere almeno cinque minuti di orologio, ma non potevo resistere un secondo di più in quella bara di muri e polvere e sono uscito dalla botola che la sera prima mi aveva gentilmente concesso di entrare dopo averla sedotta con un elegante grimaldello. Credevo che aver conosciuto e intervistato l’architetto progettista dell’edificio mi avrebbe garantito vantaggi inusuali nell’accesso e nella fuga, ma mi ero scordato che c'è un architetto più grande che fa progetti su di noi incurante delle nostre preferenze personali. Mentre mi sto dando dal retro e svicolo nel vicolo per mescolarmi ai passanti, le auto dei virtuosi messeri e della scorta mi sfrecciano davanti e un lacchè getta un mozzicone dal finestrino. È un attimo e gli sguardi si incontrano. Io lo riconosco subito. È un ex pugile fallito passato a più redditizie frequentazioni che quattro anni fa ho fatto arrestare per minacce e violenza privata,


10 tu traduci con “pizzo”. Il bue aggrotta le sopracciglia e capisco che ha colto qualcosa in me, ma non mi ha riconosciuto. So che è solo questione di tempo e so anche che per me è finita. La bestia umana dirà al Mammasantissima che uno sbirro era lì, il Ministro verrà avvertito subito dopo. Insieme faranno due più due. Cosa si diranno è facile intuirlo. La mia testa e il materiale filmato finiranno sulla tavola imbandita dei gagliardi amanti, i quali poi festeggeranno da par loro. In pratica è: Malinverno contro lo Stato e la Mala per l’occasione uniti in matrimonio. Dai retta a un cretino, cioè a me medesimo, giocati anche l’ultimo centesimo sul mio avversario, lo farei anch’io se potessi. Veloce, veloce! Il cellulare finisce nel cassonetto. Subito al bancomat dove prelevo il massimo giornaliero, poi al garage di Sandrino il Molle che mi deve un grosso favore, dove ritiro un trabiccolo che risulta ufficialmente demolito e al quale avvito due targhe false, perché puoi dire tutto del Sandrino meno che non sia attrezzato. Ex tossicone e piccolo spacciatore, ma tenero fino al midollo, siamo cresciuti insieme in orfanotrofio e da adulto ho reso omaggio alla nostra infanzia avvertendolo in tempo utile di un’irruzione a casa sua. Non è corretto, lo so, ma al Sandrino volevo troppo bene. Passo sotto casa mia, ma è inutile, riconosco le auto del giro giusto e i ceffi che presidiano gli ingressi della via. Sgommo. Da adesso non ho più rifugio, nessun quartiere. Sono bruciato, lo so bene. D’ora in poi chi mi si accompagna è perduto. Ci sarà un fuggi-fuggi generale e mi eviteranno persino i parenti che non ho. Avessi assistito a uno scambio di informazioni o di mazzette non sarei messo così male, ma il sesso, le perversioni, l’onore e il nome sul manifesto devono stare rigorosamente ai rispettivi quattro angoli del mondo e possibilmente non incontrarsi mai. Devo sparire! Dove sparire?


11 Solo una massima nella mia mente, ricordo di un libro, o di un film o di una canzone: Nessun luogo è sicuro. Ecco la mia salvezza. Ho scelto di andare proprio lì, a Nessun Luogo. Mi sono infilato in autostrada e non ne sono più uscito per due mesi. Ho percorso l’Italia su e giù vedendo solo asfalto e sorpassi, cavalcavia e mezzerie. Mi fermavo unicamente negli autogrill per mangiare quando ero allo stremo e, quando riuscivo a prendere sonno, per dormire nella piazzola di un altro a 300 chilometri di distanza dal primo. Mi lavavo nei cessi delle piazzole di sosta e cercavo di fare lo stesso con gli abiti che indossavo, ma essendo partito senza alcun ricambio, dopo un po' sembravo vestito di fetidi abiti di cartone. Guidavo, bevevo, fumavo e pensavo tutto il giorno e gran parte della notte, l’auto e la mente macinavano chilometri e vaneggiamenti. Sempre solo, nessun contatto umano. Ogni persona che scorgevo dietro al finestrino dell’auto che mi sorpassava, ogni individuo fermo alla stazione di rifornimento e ogni ingoiatore di panini Camogli che mi stava accanto nella fila alla cassa per lo scontrino poteva essere il mio assassino. Converrai, non un bel viatico per la sanità mentale. Con la mia fuga non avevo lasciato affetti, visto che gli orfani già di per sé son messi male e la vita che conducevo non si prestava a costruire relazioni importanti. A dirla tutta, conoscevo più gentaglia che brava gente, ammesso che ce ne sia. Delle donne avevo l'identica opinione condivisa da ogni uomo e mi ero sempre tenuto alla larga da ogni relazione che faceva presagire anche una pur vaga forma di impegno. Nessuno quindi mi avrebbe cercato perché a nessuno sarei mancato e in quel momento il concetto di solitudine prese per me nuove e bizzarre forme di cui neanche immaginavo l’esistenza.


12 Ho festeggiato il Natale sfrecciando accanto a una piazzola di sosta tra Massa Carrara e Lucca e il capodanno transitando sotto un enorme autogrill a Roncobilaccio, proprio nel momento in cui alla radio il bravo presentatore si lanciava nel classico 3,2,1, auguri! Ascoltavo di continuo i notiziari alla radio e mi sembrava che l’annunciatore si rivolgesse direttamente a me. La polizia ha condotto una brillante operazione e dopo mesi di ricerche e indagini ha infine arrestato il colpevole del delitto della Metropolitana. Ci siamo quasi, Malinverno, ti siamo appresso. Una volta ho anche ascoltato un’intervista al mio ministro, il D’Artagnan del materasso. Parlava di sviluppo e infrastrutture. Io sentivo: “intercapedini”. Diceva che questo inverno sarebbe arrivata la ripresa. Io capivo: “ti prenderemo, Malinverno”. Converrai, non un bel viatico per la lucidità di pensiero. Dopo due mesi di quella specie di vita ero ridotto a un ammasso di nervi scoperti, parlavo da solo intavolando animate discussioni con alcuni individui che sembravano alternarsi al posto del passeggero e mi ponevano spesso domande alle quali però non sapevo rispondere. Ero magro come uno stelo di un fiore vizzo e contorto e il volto allo specchietto retrovisore era di un’evanescenza spettrale. Qualcuno lassù deve avere guardato quaggiù perché un giorno finalmente sono impazzito del tutto. Break psicotico in soggetto dalle condizioni psico-fisiche precarie, hanno detto al Pronto Soccorso di quel piccolo presidio di provincia, dove mi sono risvegliato con le braccia trafitte da flebo, non ricordo nemmeno a che punto del giorno o della notte. Sì, era notte perché quando sono scappato strappandomi le cannule e lanciandomi dalla finestra, nel vicolo ho calpestato inavvertitamente la luna che dormiva in una pozzanghera, questo lo ricordo bene.


13 Prima, il dottorone mi ha spiegato l’accaduto. Sono piombato a tutta velocità nel parcheggio di un grill prima di Avellino, ho inchiodato e sono uscito strappandomi i vestiti. Urlavo contro qualcuno e lo sfidavo alla resa dei conti finale. Quando un buon samaritano ha cercato di avvicinarsi l’ho aggredito e poi sono fuggito urlando e ho attraversato entrambe le corsie dell’autostrada senza che nessun veicolo mi centrasse. Mi sono infilato nella boscaglia al lato della strada e mi hanno ritrovato qualche ora dopo mentre giacevo svenuto sulla sponda di un torrente. Qui ci sono i suoi effetti, dice compunto il medicastro, e mi mostra quel che resta dei miei abiti, le chiavi dell’auto (col cavolo che la riprendo) e la valigetta col materiale audiovisivo. Non abbiamo trovato i suoi documenti, come si chiama? Resterà ricoverato qualche giorno, chi dobbiamo avvertire? Oltre alla polizia, doc? Cinque minuti dopo ero fuori. La follia mi aveva acceso la mente. Adesso sapevo cosa dovevo fare. Non avevo alcuna garanzia di successo, ma sapevo con certezza che o quello o morte. Così conciato com’ero sono salito sul primo treno della notte, riuscendo persino a mimetizzarmi tra la folla di fuori di cranio che viaggiava verso le discoteche agghindata in maniera tale che io sembravo un lord, con una giacchetta di tela aperta sul torso nudo e i pantaloni che ho fregato a un infermiere più basso di me. Ai piedi le ciabatte del mio generoso vicino di letto, generoso a sua insaputa. Mentre il treno sferragliava nel buio, ho avuto tutto il tempo di riflettere sulla mia nuova condizione mentale. A dispetto dell’aspetto (questa segnatela) che era quello di un profugo da barcone affondato, mi sentivo pieno di una folle energia, di un franco buonumore totalmente fuori luogo. Ogni cosa, ogni fatto sembrava assumere un’importanza del tutto relativa che ne


14 sminuiva portata e conseguenze. Come se tutto fosse inspiegabilmente più semplice e anche i lati più strani dell’esistenza, sagomati pezzi di puzzle presi a casaccio, si incastravano benone l’uno nell’altro, come se ogni cosa fosse miracolosamente al suo posto. Sentivo una e una sola esigenza: vivere. Ed era una pulsione forte, qualcosa che non avevo mai provato in precedenza. Felice solo di essere vivo, ecco. Ah, e una nuova presenza, una Voce nella testa che si faceva sentire quando voleva lei. Non è che ci potessi parlare, erano più dei commenti, delle brevi frasi che suonavano tanto incisive quanto a volte incomprensibili. Per esempio, ricordo che nel momento preciso in cui tre sparvieri della notte mi fissavano incuriositi e vagamente desiderosi di soldi facili, li ho guardati sentendo che il mio sorriso si dilatava a dismisura come quello del Joker e che i miei occhi baluginavano. Hanno subito abbassato lo sguardo e la Voce ha detto: “È tutto già scritto, Tito”, e mi sembrava lo dicesse sorridendo. Quando dico queste cose, devi prendermi con le pinze. Io sono pazzo. Prendimi come sono, oppure matame, fai tu. Arrivato alla stazione della città ho preso l’autobus verso il paese e poi la corriera per il paesino. Non ti rivelo il luogo e dovresti ringraziarmi, meno sai e meglio è per te. Ti dico solo che era in alta collina, alle pendici di un bosco che mi accingevo ad attraversare a torso nudo e in ciabatte. Andavo dal Bellini. Onorio Belloni, detto Bellini per via di un’insana passione per l’omonimo cocktail e per la pasta alla Norma, si è fatto tredici anni di carcere per merito del sottoscritto, questo a causa dei suo molteplici vizietti, dai cavalli alla coca, dai ragazzi di vita al bottiglione, che una notte l’hanno portato a esagerare e a far fuori uno spacciatore insieme ad altri due balordi del quartiere. Lui materialmente non aveva ucciso nessuno e non ne sarebbe


15 nemmeno stato capace, ma aveva tenuto per le spalle lo spaccia mentre il socio idiota, fuori come un balcone, gli tagliava la carotide quando avrebbe dovuto solo sprimacciarlo il giusto, almeno quella era l’intenzione della spedizione punitiva. Ma il socio da idiota si era fatto furbo e insieme all’altro hanno fatto comunella per scaricare il grosso della colpa sul Bellini. Che era uomo di altri tempi, di altre regole d’onore. Veniva dalla Bovisa e nel quartiere milanese era benvoluto perché quando era ciucco o in coca, cioè spesso, oppure quando vinceva ai cavalli, cioè di rado, piovevano regali per tutti. Un signore omosessuale trinciato dai tempi che cambiano veloci, masticato dal progresso vorace. Quando è entrato in gabbia aveva sessantatré anni e immagino che per un omosessuale tendente alla checca l’ambiente del carcere non sia stato esattamente Gardaland. Fatto sta che, negli anni, prima ha contratto l’aids poi è stato massacrato nella doccia da tre energumeni armati di spranghe di ferro, che gli hanno spezzato la spina dorsale destinandolo alla carrozzina, prima di ricevere la decisiva coltellata nel petto. La lama si è spezzata contro una costola e un frammento si è fermato a pochi millimetri dal cuore. Inoperabile, ogni singolo giorno per il Bellini poteva essere l’ultimo, bastava che il frammento sbadigliasse. A quel punto aveva settantasei anni. Saputo del fatto, mi sono interessato al suo caso, sono andato a parlargli in carcere e ho visto quello che dovevo vedere. Allora ho giocato i crediti che vantavo per servizio e ho mosso le persone giuste. Tempo quattro mesi e il Bellini era fuori. Si è poi trasferito al paesino natio dalla sua seconda mamma, la vicina di ringhiera che lo aveva cresciuto dai sei anni in poi dopo la morte della vera madre, una ultranovantenne che aveva deciso di trascorrere il finale di partita in una casetta nel bosco. Paralizzato e condannato alla roulette russa ogni singolo giorno, era sparito dal mondo.


16 Un anno dopo ho ricevuto una cartolina da quel paesino. C’era un panorama di una verde vallata attraversata dalla lingua blu di un fiume, con alle spalle un monte scuro. Una freccia disegnata a mano indicava un punto preciso tra il bosco e il fiume. Guardando l’immagine sentivo al contempo pace e malinconia. L’unica parola del testo era: “Grazie”, firmato Onorio Belloni e sotto, con un ghirigoro artistico, “il Bellini”. Da allora erano trascorsi nove anni, come facevo a sapere che era ancora vivo? Io non lo sapevo, me lo aveva detto la Voce quando ero in Ospedale. “Vai dal Bellini”. Così. Punto e basta. Che ne sapeva lei del Bellini? Mah… Ho trovato la baita che era oramai l’imbrunire. Adesso sentivo il freddo, ma era più un prenderne atto che un soffrirlo. Le ciabatte si era disintegrate nella salita attraverso il bosco e i piedi erano feriti, ma non sentivo dolore. Che faccio, busso? La porta si apre da sola e dietro non c’è nessuno. Domotica. Qui? Entro e mi guardo attorno. Il Bellini è in fondo alla stanza accanto a un grande tavolo interamente ingombro di monitor, computer, tastiere, accrocchi vari e cotillon. Capisco che la paralisi e il frammento nel cuore hanno cambiato le sue abitudini e adesso deve essere diventato un tecnosotutto. Vedo in uno dei monitor l’esterno della casa e capisco che mi ha visto arrivare da lontano. In mano ha una specie di telecomando e sulle gambe un fucile. Sul volto un sorriso largo così. «Il Male! Il Male! Non sono mai stato così contento di trovarmi davanti il male. Tito Malinverno! So già che questo sarà un giorno da ricordare nella mia non so per quanto ancora vivida esistenza. Ti ho visto tre volte in tutta la mia vita: quando mi hai arrestato, quando mi hai tirato fuori da quell’inferno e adesso. Tu significhi cambiamento, mio malefico Tituccio».


17 «Ciao Bellini, ti trovo in forma smagliante». È anche vero. Sarà il sorriso, il vezzo del foulard sgargiante al collo oppure il panciotto ben abbottonato oppure ancora che ne so, ma l’Onorio sembra a suo agio nei suoi panni e nella sua età. Gli vado incontro e ci abbracciamo. Due uomini che condividono una realtà impossibile. «Dai, rivelami il mio prossimo cambiamento, Tito, cosa ti porta qui in culo ai lupi da una vecchia checca paralitica?». «Sono un uomo cancellato, Bellini. Io non esisto più. Mi danno la caccia gli sbirri e la mala. Non ho più nessuno e non posso contare su nessuno. Ah, nel frattempo sono anche impazzito». Fa due occhi così e allora gli racconto tutto, ma proprio tutto perché so che deve essere così. Gli mostro anche il video e lo vedo trasfigurarsi dalle risate, ho persino paura che si senta male. Gli spiego il folle piano. Ci sta subito, non aspetta nemmeno che io abbia terminato con lo sproloquio. Proprio come due matti, stiliamo punto per punto gli accordi, i codici, le tempistiche e uno straccio di piano B perché non si sa mai. Anzi, no, si sa, si sa… Mi consegna un accrocchio GPS e mi istruisce. Io ti vedo dal mio monitor. Tienilo spento. Due volte al giorno lo accendi per un minuto, lo spegni e lo riaccendi per un altro minuto. Io so che sei vivo. Qualsiasi altra variazione alla procedura significa che ti hanno beccato e ti stanno estorcendo il codice: io procedo col piano concordato e pongo fine alla questione. Grande Bellini, la mia assicurazione sulla vita. Speriamo il premio da corrispondere non sia troppo alto. Mi fermo tre giorni da lui per riprendermi e il Bellini mi fa un bel maternage. Ci scambiamo ricordi degli uomini che eravamo e ci raccontiamo una vita che non c’è più e che non tornerà. Il posto qui è assolutamente sicuro. La baita è intestata alla figlia della deceduta la quale vive al sud con marito e figli. Non è possibile


18 collegare questa residenza al Bellini. Quando arrivano dal paese una volta al giorno a portargli viveri e saluti, io mi nascondo nella botola dello sgabuzzino e penso che il Bellini qualcuno con cui parlare, qualcuno che pensa a lui ce l’ha. Non sono così certo di avere mai provato questa sensazione. Il quarto giorno ci salutiamo. Mi offre spontaneamente soldi, abiti, consigli e il calore della sua amicizia. «Malinverno, mi hai esteso la vita. Non allungata, quello dipende da Lui, ma allargata sì. Hai dato un senso a oggi e domani, beninteso se ci sarà. Credevo non ci fosse più nulla per me, credevo mi sarei spento come un candelino. Strana la vita, Tito». «Grazie di cuore Bellini, grazie per tutto. Stai bene, mi raccomando». «E ti conviene che io stia bene, Male!» sorride e si sporge verso di me. Mi chino sulla carrozzina e ci abbracciamo forte. Facciamo fatica a staccarci perché sappiamo entrambi che sarà l’ultima volta. Non ci vedremo mai più. Resteremo legati a un filo di niente dal valore immenso fino a che l’uno o l’altro non si spegnerà. Non so esattamente dare un nome a quello che provo in quel momento, forse perché sono pazzo, perdonami se puoi. Mi muovo con i mezzi fino all’amico treno che fa ciuf-ciuf, lo afferro al volo e vado in una città lontana da lì, dove poi mi troveranno. Dalla stazione faccio finalmente la chiamata. Ho il numero per la linea diretta. «Sì?». «Malinverno, capo». «Abbiamo un problema con te, Tito». «Se è per questo, state per averne uno più grande». «Io non sto da nessuna parte, non mettermi nel mazzo». «Del mazzo tu sei carta, capo, e con te si giocano la mano».


19 «Hai combinato un bel casino e mi stanno addosso quanto a te. Il ministro chiama ogni giorno, mai visto un interesse simile. Cosa hai in mano?». «Il Santo Graal della politica». «Dove cazzo sei?». «A Genova, stazione Brignole», come faccio a essere così tranquillo? «Fammi venire a prendere, ma prima chiama Roma e fai presente di far conto che ho addosso una bomba. Se mi toccano io esplodo, ma saltano per aria loro. Digli così, capiranno. Digli che voglio un incontro a tre. Io e due papaveri belli alti, di quelli che poi riferiscono al Re Sole e trattano per lui». «Ti sento diverso, Tito». «Ah già, digli anche che sono pazzo, ma davvero, certificato dalla sanità pubblica. E questo rende più eccitante il tutto, non dovrebbero annoiarsi, diglielo». Aggancio e vado al bar. Sprofondo nel sorseggio di un Manhattan intanto che aspetto la volante. Intorno persone che sembrano vive. Si affaccendano e parlano, lasciano un’impronta veloce nell’aria e cambiano di aspetto restando immutate nella sostanza. Io non so come sono messo, né come appaio ai loro occhi, ma va bene così. Sento che tutto scorre, il fiume va e io mi lascio portare dalla corrente. È piacevole e noioso al contempo. Mi sa che dovrò abituarmi al minestrone delle mie emozioni, qualunque verdura ci troverò dentro. I due colleghi che mi fanno salire sulla volante sono giovani e capisco che ci prendono poco. Non gli hanno detto chi sono, devono solo assolvere un ordine di servizio un po' strano. Ma uno dei due è più sveglio. «Lei è Malinverno?» butta lì, ma conosce la risposta. “Detto ‘Male’, per gli amici”, e gli allungo la mano. Me la stringe


20 consapevole che avrà qualcosa da raccontare per i prossimi anni. In fin dei conti la polizia di tutta Italia mi cerca con discrezione da mesi e mi ha trovato lui stesso medesimo. Da Genova mi trasferiscono a Milano su un cellulare e con mia sorpresa mi portano a casa mia. Mi sorprende meno trovarla abitata. Due uomini molto diversi, uno lungo e secco con un soprabito scuro e uno bello in carne che scoppia dentro un Armani grigio classico, mi attendono in piedi in mezzo al soggiorno. Non sorridono, non fanno alcun cenno. Mi guardano e basta. Uno rappresenta il Re Sole, l’altro il Solo Re. Siccome a parte la vita non ho nulla da perdere, la butto in arroganza. «Ma dai… Stanlio e Ollio, ma guarda, ma pensa…Facciamo che adesso vi sedete e prendete nota delle condizioni, tempo due ore voglio una risposta». Essere pazzi ti garantisce quel certo non so che di sfrontatezza, un vago senso di essere altro da te misto al gongolare per il fatto che non sarai tu a prenderti colpe e insulti. Il pancione vorrebbe intervenire ma l’ombra scura seduta al suo fianco lo fredda con uno sguardo. «Sentiamo cosa ha da dire, Malinverno». Abituato alle stanze di potere, il Morticio. «Il materiale è in mano a uno dei 55 milioni di cittadini italiani. Ogni giorno a determinati orari, se sono in salute, io invio un codice al mio socio. Lui sa che io sono vivo e nulla accade. Se l’amico Fritz non riceve il segnale procede come segue. Posta il video su quindici siti porno più visitati al mondo, oltre che su di un sito da lui creato appositamente per l’occasione. Contemporaneamente invia una mail a tutte le testate giornalistiche internazionali con il link del video. Tempo due minuti e sarà una bella festa. Nel caso mi torturaste per avere il


21 codice e le modalità di segnalazione, io vi fornirò sì dei dati, ma per validarli dovrete usarli e se non lo sono, il mio socio capisce l’antifona e procede alla pubblicazione. Sotto tortura potrei anche rivelarvi l’identità del socio e il luogo dove si trova, ma impieghereste comunque ore per raggiungerlo e se in quelle ore non riceve il segnale… bravi, avete capito… pubblica. Cosa chiedo: di essere lasciato in vita e di avere di che vivere, ovvero trovate il modo di mettermi in un programma di protezione, di prepensionarmi o inventatevi un trucco per sostentarmi fino a che trovate il mio socio e il materiale. A quel punto naturalmente mi ucciderete. Fine. Punto». «Non sono sufficienti due ore per decidere» afferma deciso il cupo Stanlio. «Peccato, perché» e faccio il gesto di guardare un inesistente orologio al polso, «tra due ore devo inviare il codice e se non lo faccio rimettiamo i giochi nelle scatole, ci salutiamo tutti quanti e andiamo a casa dalla mamma». I due noti comici del bianco e nero si scambiano una sola occhiata. Uomini di mondo, militare a Cuneo nel curriculum, di sicuro. Ollio non mi ha tolto gli occhi di dosso un istante e se potesse mi farebbe all’ascolana farcendomi di botte e piombo. Ma non può, non ora. «Tra due ore. Aspetti qui. L’appartamento è sorvegliato». È Stanlio che comanda. Escono in silenzio senza voltarsi. Casa dolce casa. In ogni casa da sogno, un incubo. Avevano perquisito duro, ma con classe: la distruzione dell’appartamento era tutto sommato accettabile e avevano portato via solo cose ovvie, come il portatile e gli archivi. Nell’appartamento tutto era al contempo famigliare ed estraneo. Io per primo ero noto e alieno a me stesso. Vedevo negli oggetti di casa la vita dell’uomo


22 che ero e accettavo il fatto che dovevo inventarmene una nuova basata su presupposti completamente diversi, primo su tutti la precarietà. Di me restava l’involucro esterno, ma il software era una versione sperimentale e bizzarra dalle conseguenze ignote. Guardavo i miei amati libri, i dischi, gli oggetti che mi ricordavano la mia vecchia identità e provavo per loro un affetto distaccato, come guardare i volti dei compagni di scuola nella foto di classe delle medie. Dovevo abituarmi a quello che ero diventato, che era ancora in divenire. Sentivo di essere ancora io, ma le coordinate del mio pensiero erano settate per portarmi in luoghi mentali differenti. Prima della follia non sarei mai riuscito ad aspettare quelle due ore seduto immobile sul divano, lo sguardo fisso sulla porta e un sorriso glaciale a raffreddare l’ambiente. Eccoli. Parla sempre Stanlio perché a Ollio fumano troppo le balle e le cervella. «Al confino. Paesino in area depressa. Lei non si muove da lì per nessun motivo. Sotto controllo quotidiano. Nessun contatto umano, nessun rapporto con alcuno se non il necessario per l’assolvimento del quotidiano. Niente linea fissa, telefono cellulare, tablet, internet. Ha tempo un giorno per andarsene. Dal prossimo mese lei verrà pre-pensionato per motivi di servizio. Noi continueremo incessantemente a cercare il materiale e lo troveremo. Nessun uomo è un’isola e ognuno lascia tracce e segni del suo passaggio, collegamenti, indizi. Quando lo troveremo, lei e il suo socio morirete». Lo dice con così pacata freddezza che deve avere la candeggina al posto del sangue. Deposita sul tavolo un biglietto da visita. «Questo è un contatto». Ignoro completamente il biglietto e mi inchino plaudente al duo comico come l’attore sul palco quando viene giù il teatro dagli


23 applausi. «Voi invece non potete trovarmi, perché io non ci sono già più». Ollio è poco afferrato in metafore perché era malato quando le hanno spiegate a scuola. Capisce solo il livello materiale della vita e la panza è lì a farne imperituro monumento. «Otto secondi, Malinverno. Sono entrato nella stanza di quell’ospedale otto secondi dopo che eri scappato dalla finestra. Non c’eri più e io ti ho cercato tanto, sai?». Trattiene l’ira e il desiderio di trucidarmi, ma si vede benissimo lo sforzo perché sbuffa come un mantice. «Malinverno, questa è la seconda volta che ci incontriamo e non c’è due senza tre. Ecco, io non vedo l’ora di incontrarti la prossima volta» e ghigna famelico come ho visto fare alle iene nei documentari alla tv in certe notti insonni. «Guai ai vinti!» esclamo sprezzante alzando al cielo l’indice altrettanto fiero. Comincio ad apprezzare quanto utile mi sia questa nuova e insperata follia, e vado di rima. Escono accompagnati dalle mie risate. Ho la febbre, mi sento scottare ovunque nel corpo. Il biglietto da visita è quello di un’azienda di pulizie. Quanto mai appropriato. Ho fatto la valigia, una sola, e ci ho messo unicamente abiti e biancheria. Non ho avuto la tentazione di portare con me né cd, né libri, perché la cosa che sto diventando non ne sente alcun bisogno. E questo è davvero strano, ma tant’è. Posso solo prendere atto di me stesso. Forse avrei bisogno di cure mediche e psichiatriche, anzi, senza il forse, ma a quanto sembra, a una parte di me va invece bene così e l’altra non ha la forza di opporre una resistenza degna di questo nome. Ho messo la valigia accanto all’uscio e sono andato a dormire. Anche il mio letto sembrava non riconoscermi. Lo sentivo mutare forma sotto il mio


24 corpo, desideroso di adattarsi a quello che di diverso sentiva in me per favorire il mio sonno. Grazie lo stesso, amico letto, tanto non dormo. Al mattino vado in banca a ritirare un po' di carta che vale, sempre seguito da almeno tre zebrù a differenti distanze, piccolo, medio e grande raggio. Eccomi pronto alla partenza. Prima la zona, poi la casa, ho pensato. E la Voce nella testa ha detto, lapidaria: «Menelli». La frase sul lago che conosce ogni segreto e se lo tiene per sé, ricordi? Il lago di Como, per un milanese, è così vicino-così lontano. I chilometri son pochi, la distanza umana molta. Si vivono vite molto diverse tra grattacieli e asfalto e tra acqua e rocce, sembrano proprio avere dimensioni differenti e una pare la cucciola dell’altra. L’Alto Lario è la parte più a nord, che chiacchiera con la Svizzera e sgomita con la Valtellina. Ci ero stato una sola volta, mi ci aveva portato una ragazza patita del fuori porta a mangiare il pesce (lo so, è orribile, ma giuro che nel secolo scorso si diceva così). Della giornata lacustre ricordavo solo un grande spazio aperto azzurro riempito di luce, lo sciabordio dell’acqua sul molo e l’intimo della ragazza. Forse poco, ma mi doveva bastare. Così ho chiamato le agenzie della zona e il resto più o meno lo sai. Ho rispettato i patti e loro li hanno rispettati, c’era troppa carne al fuoco per tentare il colpo gobbo e tutti abbiamo fatto la nostra parte. Loro versano pensione e controllano, io sto a Dongo. Nessun contatto umano, nessun rapporto con chicchessia. Parlo solo con i baristi/e e le commesse/commessi dei negozi dove mi servo. Stop. Il primo anno tre persone mi controllavano dandosi il cambio ogni otto ore. Un enorme apparato rivelatosi del tutto inutile, visto che ho trascorso pressoché tutto l’anno in casa, sul divano con la bottiglia in mano e la tv accesa giorno e notte,


25 sintonizzata su un nulla di volta in volta differente. La lucidità mentale era un lontano ricordo e a volte era piacevole lasciarsi trasportare da quella corrente di pensieri che si inseguivano come criceti sulla ruota senza mai realmente approdare in alcun luogo. Mi ritrovavo a essere il campo di battaglia sul quale si sfidavano la mia vecchia identità con tutte le sue convinzioni e abitudini, e quella che mi sembrava un sentire folle e irragionevole che pareva fregarsene della gravità della mia condizione. Il risultato di questo scontro era assai spesso un nulla di fatto, zero a zero. Non approdavo nemmeno sulla classica isola del naufragio. I pensieri nella testa non corrispondevano ai comportamenti che seguivano e mi capitava di riflettere su quello che avevo appena fatto per cercare di comprenderne il senso. L’assenza di qualsivoglia contatto umano popolava la fantasia di identità diverse che interagivano come attori sul palcoscenico del mio cervello. Quando parlavo ad alta voce, non mi sembrava la mia. Nella mente avevo un arcipelago e in ogni isola c’era un naufrago condannato all’oblio. La parola che descrive quell’anno, infatti, è proprio: nulla. Almeno è quello che ricordo. Il secondo anno i controllori si sono ridotti a due. Appurato che la mia pericolosità sociale era sotto lo zero, che del Malinverno che conoscevano non era rimasto alcunché, hanno allentato le briglie. Tanto il somaro non andava da nessuna parte. Quando ero moccioso, sul muro fuori dalla mia vecchia scuola qualcuno aveva scritto che se una cosa non ti uccide, ti rende più forte. Io non so se ero più forte, anzi avevo i miei dubbi, ma di sicuro questa cosa nella testa non mi aveva ucciso. Ero quindi condannato, ma guarda tu, ad andare avanti. Quell’anno ho cominciato a uscire di casa. La prima volta perché era inverno, faceva tanto freddo e io avevo la febbre altissima, nessun rimedio in casa e il frigorifero desolatamente vuoto. Mi


26 sono guardato allo specchio e quello che ho visto mi ha fatto paura e pena. La mia parte folle invece sembrava divertita e faceva le linguacce a quel volto barbuto e imbolsito dall’alcol. Mi sono aggiustato per quanto potevo e ho indossato un abito vero come non facevo da tempo. Poi mi sono fatto forza e sono uscito nella fredda aria di dicembre. Tra colpi di tosse e brividi nelle ossa mi sono trascinato fino alla farmacia in piazza, fermandomi di tanto in tanto per sedermi quando le cannonate che la tosse sparava nella gola sembravano sfondarmi i polmoni. C’era del ghiaccio sulle aiuole del lungolago che gentilmente scintillava per indicarmi la strada. Ho comprato quello che mi serviva nella farmacia in piazza e sono uscito in fretta per tornarmene a casa. Ma ho vacillato e mi sono dovuto appoggiare a un palo della luce perché ero troppo debole. Allora sono entrato in un bar. Ero a disagio. Dovevo avere un aspetto terribile e i clienti un po' mi scrutavano, un po' distoglievano lo sguardo. Ho ordinato caffè, brioche e un bicchiere d’acqua per assumere i farmaci. Il locale era ben riscaldato e accogliente, e dannazione se ne avevo bisogno. Mi sono seduto e all’improvviso ho percepito le persone attorno a me. Devo dirti la verità, ho provato ansia. Fossi stato in forze me la sarei data a gambe. Ma poi. Si dice sempre coì, ma poi. Ed è vero. E poi è successo che ho visto. È difficile da spiegare, guardare non è vedere. All’improvviso mi sono trovato spettatore in platea e sul palcoscenico c’era il momento presente, dove tutti erano primi attori e comparse al contempo. È successo che adesso vedevo le persone, il caffè, il barista, l’atmosfera del locale come non li avevo mai visti prima e percepivo le mie reazioni alla loro vista. L’ho chiamata la Visione. Era come ricollegarsi alle cose semplici rilevate dai sensi e intuire che il ponte era di nuovo percorribile. C'erano paesaggi


27 umani e ambientali dai quali lasciarsi affascinare. Così sono rimasto lì per un po' ad assaporare questa nuova sensazione, poi la Voce ha detto: “Esci, Tito. Vai fuori”. Non la sentivo da mesi e ne sono rimasto un po' sorpreso. Fuori c’era il Tutto. Oggetti fermi, cose in movimento, uomini, animali, colori, suoni, luci e, soprattutto, il lago. Mi sono seduto su una panchina, ho guardato e ho visto. E vedere era tutto. Non vedevo le cose, comprendevo i loro concetti, ascoltavo i loro discorsi. Bruciavo di febbre e di vita e ogni cosa mi parlava in un bailamme sovrapposto e caotico. Dovevo essere io a fare ordine in quella cacofonia psichedelica di suoni e visioni. Era come con la musica. Dovevo isolare un singolo strumento e seguirlo nella sua trama sonora all’interno del brano. Decisi di dedicarmi ad affinare questa facoltà e per tutto il giorno mi esercitai a mettere in primo piano di volta in volta il lago, i gabbiani, i monti, le nuvole e a lasciare il resto sullo sfondo, per comprendere meglio il senso del discorso di ogni singolo elemento del panorama visivo e sonoro nel quale ero immerso. Da allora ogni giorno il camminante che ero cercava nuovi lembi di terra dai quali osservare lo stesso panorama, gli stessi concetti, da altri punti di vista. Il lago di notte, in particolare, aveva certe parole da dire che ti lascerebbero interdetto se le ascoltassi raccontate da un amico. E una notte che guardavo dentro il mistero del lago, lui ha guardato dentro il mio. Forse ho lasciato aperta la porta, non so, ma a un tratto mi sono accorto di essere osservato ed era lui. Cercava qualcosa e ho sentito che mi irrigidivo, come durante una perquisizione. Quando ha rinvenuto lo scorrere lento in fondo a me ha pensato bene di verificarne di persona il divenire adagiandocisi dentro. Avendo trovato quel che andava cercando, il lago si è ritirato soddisfatto e mi ha lasciato vuoto e pieno al contempo. Credevo fosse una specie di svolta, un


28 qualcosa che mi portasse chiarezza e stabilità. Quando ho capito che era solo la pazzia, ho provato insieme delusione e sollievo. Credimi, riuscivo a sentirli in stereo, ognuno sul suo bel canale. Per i miei vigilantes deve essere stato un anno da incubo. Controllare una specie di squinternato monaco zen che poteva rimanere immobile delle ore a guardare il lago deve essere stato abbastanza snervante. Posso solo immaginare i report pieni di nulla che inviavano regolarmente a Stanlio e Ollio o a chi per loro. Forse è per questo che il terzo anno è rimasto solo quello che io chiamo Virgilio ad accompagnare me, il sommo vater. Quando per strada o al bar incrociamo lo sguardo intravedo in lui la noia e la rabbia che sgomitano per vincere la gara dell'odiarmi. Ogni tanto, se per caso o necessità siamo vicini di tavolo al bar, mi lancia una frecciata, ma o ha la mira sbilenca, o io sono diventato insensibile. Cose così. Il terzo anno mi ha visto portare in giro la nuova identità che si stava organizzando a mia insaputa. Questa girottava volentieri per il paese. Ho dovuto quindi mio malgrado aumentare le interazioni con le realtà locali. Vivacchiando in paese è inevitabile che prima o poi la barista, il fruttivendolo o il panettiere ti chiedano qualcosa di personale, e allora io ho imparato a rispondere che ho cinquant’anni, faccio il correttore di bozze e sono single, sono scappato da Milano perché la città è diventata troppo stressante e voglio trascorrere un certo periodo al lago, tanto posso lavorare da casa con internet. Il correttore di bozze è una copertura perfetta. Nessuno fa domande su questa professione, anche perché te le immagini le risposte? A chi può interessare quante “a” e quante “e” hai trovato scambiate in sole sei righe del romanzo di quel pirla o quali refusi hai scovato nel manuale d’uso di un tostapane? Nemmeno il Cogozzi, del quale sono cliente da un mesetto, mi ha mai fatto domande sul mio lavoro,


29 lui che conosce anche il numero del contatore del gas dei suoi clienti. Perfetto, bravo Mr. Titus Long Cold Winter. Ho imparato ad ascoltare, visto che parlare mi è vietato. Ho imparato a riconoscere i modi e le coordinate sociali del posto e i primi tempi non ti nego di aver provato un certo sconcerto nell’ascoltare al bar discorsi come questo: «Ieri in Cooperativa ho incontrato il Robba, lo conosci, no?». «No». «Ma siiiiiii, il Robba, il figlio della Teresina, quello che abitava a Musso con la Dory prima che lo lasciasse per il Merga, che poi si è messo con la figlia del Matteri e sono andati a vivere in casa della zia del Fontini! Hai capito adesso?». «No». «Ma daiii, il Robba, il cugino del Carlino Quadrelli, quello che stava con la figlia del Goretti che poi ha trovato lavoro nel negozio del Poncia di Sorico che prima era dello zio del Canaponi!». «No». «Ma sì, il nipote del Cesarino Gozzini…». E via così, ad libitum. In un’unica frase vengono ricordate tre generazioni di persone, così svelando legami invisibili, ma solidissimi, tra la gente del luogo. Dopo un po' è diventato persino piacevole lasciarsi andare e farsi travolgere da quello tsunami di nomi, soprattutto con un Vodka-Martini in mano, per trovarmi poi a ondeggiare nella mente come un galleggiante del molo lì appresso. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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