In uscita il 31/3/2016 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2016 ( ,99 euro)
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LUCA ATTRATTIVO
LE FOTO DI DAMIAN
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LE FOTO DI DAMIAN Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-974-6 Copertina: immagine Shutteratock.com
Prima edizione Marzo 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Per evitare ogni equivoco, dichiaro formalmente che i luoghi, i personaggi e i fatti di questo romanzo, appartengono al mondo della mera fantasia. L’Autore
A Vittoria e Massimo, la meraviglia della vita che sboccia.
Chi si guarda nel cuore, sa bene quello che vuole, e prende quello che c'è. (Ivano Fossati)
PARTE PRIMA DA RAGAZZI
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LA DOMANDA
Doveva esserci qualcosa. Doveva esserci qualcosa che fosse molto più del dato visibile, di una casa bianca, di uno scosceso polveroso e brullo, di un bosco freddo di larici, delle mani usurate di un uomo, di un sorriso morbido di ragazza, di un battito d’ali, di un colore rosso, nudo, puro; di un abbandono, di un abbraccio, di una notte d’estate, di un azzurro incommensurabile. Doveva esserci qualcosa, qualcosa di più, qualcosa oltre la bellezza. Qualcosa che si era nascosto, che in un tempo primordiale si era celato per sempre alla limitata esattezza della percezione umana e che comunque era rimasto; spostato, ma in qualche modo ancora intuibile. Era così convinto che quel mistero esistesse, e che fosse ancora afferrabile, che gli avrebbe dedicato gran parte della propria vita e delle proprie energie; la quasi totalità di ogni sua personale risorsa. Era consapevole di quanto la sua fosse una ricerca pressoché infinita, ma lo stesso avrebbe assoggettato all’indagine perpetua, allo sviluppo del metodo conoscitivo, alla scoperta delle regole sulla composizione dei materiali, sul comportamento delle sorgenti luminose, sulla capacità riflettente delle superfici e sulla formazione dei contrasti cromatici, tutta quanta la sua esistenza. E l’avrebbe catturato quel mistero.
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LA FESTA
19 Giugno 1999 - Una serata davvero sopra le righe. Normalmente era come gli altri. Come Mirco, o come Alessio: una settimana di studio rarefatto, le prime birre la sera al bar, gli allenamenti di calcio, la macchina nuova come massima ambizione. Solo, a differenza di Mirco e di Alessio, certe volte Damian scompariva; letteralmente svaniva. Non era una di quelle persone che vanno a periodi, quei lunatici che per via di certi problemi personali (che sembrano sempre più grandi e complessi di quelli altrui) cambiano di punto in bianco il giro delle frequentazioni, i rapporti personali, perfino il modo di salutare. Damian c’era sempre per gli amici, e c’era esattamente nello stesso modo in cui in caso di bisogno sarebbero stati presenti per lui Mirco o Alessio. Eppure in certe situazioni, in certi definiti scampoli di vita insieme, si dissolveva completamente. Era successo la volta della festa di Nico: un party organizzato per i suoi diciotto anni; l’intero “Stradivarium” prenotato per gli invitati. E non che fossero pochi a spassarsela nello stupendo parco con piscina della nota discoteca. La famiglia di Nico se la passava bene. Suo padre, primario in cardiochirurgia, per i diciotto anni del figlio non aveva badato a spese. E poi Nico i numeri per riempire una discoteca intera li aveva. Si circondava infatti di un folto plotone di amici e simpatizzanti a vario genere, più o meno tutti presenti per vantaggio personale piuttosto che per affetto sincero verso il festeggiato. Ne derivava comunque che quella sera lo Stradivarium fosse pressoché saturo di diciottenni incamiciati e alticci, e che in quella moltitudine di giovani cuori sfavillanti, prodigiosi figli del mondo nati nei primi anni ottanta, ci fossero anche loro tre: Mirco, Alessio e Damian. Diciotto anni nel 1999, quando il nuovo millennio appena si puliva i piedi sullo zerbino. Telefoni cellulari grossi come cabine armadio che solo pochi eletti possedevano, quaranta minuti - ad andare bene - per scaricare una canzone tramite “Napster”, le due torri lucenti di New York ancora belle in piedi e un baco -
11 un “bug” - che avrebbe dovuto essere, lui sì, la grande minaccia del nuovo millennio. Così quella sera di giugno del 1999 la generazione a farla da padrona nel grande parco dello Stradivarium era la loro, e a testimoniare al piccolo grande evento c’erano tutti quelli che contavano. C’era Massimo Tarcisi, re indiscusso dei picchiatori della provincia, accompagnato dalla banda di tirapiedi al gran completo. Personaggi spregevoli, minorati mentali più che altro, stupidotti gonfi di muscoli e di compiacenza per una qualche ultima spavalderia da raccontare al bar. Pestatori seriali, gente dai pugni pesanti come angurie; feccia. C’era Paola Smerigliani, la bellissima Paola Smerigliani, la divina Smerigliani. Così divina che non filò nessuno nemmeno di striscio, nessuno che non avesse i muscoli animaleschi di Tarcisi ovviamente. C’era anche la più abbordabile, molto più abbordabile, forse un po’ troppo abbordabile Simona Lupetti che anche in quell’occasione, come in ogni festa, nel buio del parco - oltre i bagni degli uomini, in fondo sulla destra - distribuì quasi indistintamente abbondanti concessioni a qualunque maschio ne volesse. E poi c’erano loro. Alessio indossava una maglia sintetica viola, una bruttura attillata oltre il sopportabile, che ne evidenziava il fisico asciutto ma ancora immaturo. Il busto affusolato, poggiato su magrissime gambe lunghe. L’aspetto complessivo di un longilineo, senza peraltro essere particolarmente alto. Da tempo si era convinto che la festa di Nico avrebbe rappresentato lo spartiacque per quanto riguardava i suoi rapporti col sesso femminile, fino ad allora drammatici, ma già in partenza di serata era piuttosto evidente che le cose non sarebbero andate secondo le sue aspettative. Infatti, per quanto fosse tutto sommato di bell’aspetto, non ci sapeva proprio fare con le donne. Nel corso delle prime ore della festa poi, da perfetto dilettante, aveva cercato nell’alcol tutto l’ottimismo necessario per uno slancio di conquista vincente. Approfittando del servizio bar completamente gratuito, si era sparato certe tinozze di coca e rum in un tempo irrisorio. Una dose impressionante, buttata giù senza considerare minimamente gli effetti. Mezz’ora dopo se ne stava spalmato su uno dei divanetti di pelle blu del locale, tanto perso e disabitato da lasciarsi sfuggire l’unica gioia: quella di essere finalmente approdato in quello spazio così chiuso ed esclusivo che era lo Stradivarium, luogo in cui fino a quel momento lui e i suoi amici non erano mai riusciti a entrare. Erano una specie di professionisti del “rimbalzo” i tre, e venivano puntualmente respinti all’ingresso di ogni locale dai vari energumeni, gli addetti alla
12 sicurezza, i maledetti “buttafuori” che quasi sempre sbarravano loro la strada per la gloria. Eppure quella sera era diverso, perché la pseudo amicizia con Nico garantiva loro un ingresso certo, un ancoraggio sicuro che prescindeva dalla loro abituale sfortuna e dalle improbabili maglie aderenti di Alessio. Comunque Mirco, per non sfidare troppo la sorte, si era impacchettato meglio che alla prima comunione. Non era un bel diciottenne, tutt’altro, era pienotto e vagamente impacciato di natura. Non era di certo uno di quelli che fanno colpo; lo fosse stato, Paola Smerigliani quella sera gli avrebbe concesso qualcosa di più che un pietoso “Ciao Marco” detto senza nemmeno guardarlo negli occhi. Non le aveva nemmeno fatto notare l’errore Mirco, perché Paola Smerigliani rappresentava per lui un sentimento assoluto, perpetuo, immutabile, e mai si sarebbe permesso di contrariala. Si limitò a essere “Marco” per tutta la sera della festa; e lo sarebbe stato volentieri per tutti i mesi e gli anni successivi se solo lei glielo avesse comandato. Per tutta la vita, senza obiezioni, umilmente servo suo. Per lo sforzo di ammirarla i suoi occhi avrebbero potuto persino lacrimare quella sera. La ragazza dal canto suo ballava senza stravolgimenti; le spalle bianche prive di ogni impurità, il corpo snello perfettamente avvolto dal vestitino giallo fluoro-luminescente, una cosina da nulla, una sciocchezza per non voler troppo apparire. Il seno ben presente, meraviglioso, fiero; e quegli occhi neri Paola, come un gatto selvatico, come una pantera, o più banalmente come i fuseaux sotto al vestitino. Gialla e nera Paola. Sembrava un’ape. Un’ape regina. Proprio a causa di tanta bellezza Mirco si dimenticò abbastanza in fretta di Alessio, o meglio di quel corpo inerte scaricato sui divanetti di pelle blu elettrico disposti intorno al bar. Trascorse infatti la prima parte di serata solo con Damian, scalpitando forsennatamente con lui sulle note sintetizzate dei successi dance di quegli anni. Ballarono come pazzi e risero grassamente per lo stato di mummificazione ormai irrecuperabile in cui Alessio era piombato, per il culo gigantesco di una di quarta ragioneria, per Fabio Lucani, incredibilmente agghindato della seconda maglia dell’Inter - rigorosamente tarocca - eppure così fiero di quel nome “Ronaldo” stampato sulla schiena da indicarlo con entrambi i pollici a tempo di musica. Liberi e divertiti, certamente impossibilitati nel prevedere la portata che quella notte eccezionale avrebbe avuto sulla loro vita.
13 Sulla vita di Damian soprattutto. Fu proprio in quello stato di deliziosa ebbrezza che a un certo punto Mirco notò Matilde Terzani, una compagna di classe con la quale Alessio aveva spesso accesi diverbi nelle assemblee, che si avvicinava con le amiche utilizzando il tipico accostamento da pista da ballo: un ondeggiamento fintamente casuale che a tempo di musica le collocò proprio nel centro della scena. La ragazza prese a ballargli davanti, sensuale come lui mai avrebbe pensato potesse essere. Senza dubbio per Mirco fu spiacevole accantonare la contemplazione di Paola Smerigliani ma, guidato dall’inarrestabile spinta ormonale e dal freddo calcolo delle probabilità, sposò comunque la causa Terzani con la massima dedizione. Lei dal canto suo in principio non fece che rafforzare quel cambio di mire, e premiò tutti gli sforzi ballerini da lui compiuti con strofinamenti dapprima timidi e leggeri come spolverate di zucchero a velo, poi decisamente più grezzi e invadenti; a un tratto francamente pornografici. Lui, carico come una molla, sudava copiosamente. Annusava la Terzani e sentiva odore di sesso puro, sfrenato, acerbo ma impetuoso. Sesso purissimo. Non è che lei - Matilde - fosse realmente attraente, sia chiaro. Aveva mani piccole e grassocce, con dita paffute che sembravano piccoli wurstel bavaresi. Eppure lo stesso Mirco fremeva all’idea di come avrebbero potuto toccarlo quelle mani se si fosse ben comportato, se solo fosse riuscito nella delicata operazione, e si lanciò nell’impresa col furore di un assalto all’arma bianca. Perse perciò la cognizione di Damian, e i tre amici si ritrovarono così completamente separati. Nella pista da ballo, Mirco stette al gioco della ragazza facendo solo gradualmente trapelare le proprie oscene intenzioni. Pian piano, un ondeggiamento un po’ più spinto, un’occhiata più sicura, qualche parola sussurrata nell’orecchio di lei, il ragazzo cominciò davvero a credere che ci sarebbe riuscito, che avrebbe trionfato anche lui per una volta. Tuttavia quando decise finalmente di lanciarsi, quando si impose di sferrare il colpo della vittoria e tentò di concludere, la signorina Matilde Terzani amplificò in maniera così malvagiamente voluta il suo rifiuto, che Mirco non poté fare a meno di sprofondare nella vergogna più assoluta. Fosse successo ad Alessio, almeno lui sì che le avrebbe rigirato un bel “Ma vaffanculo va!”. Ma lui no, Mirco non ne sarebbe mai stato capace.
14 Così, ricollocato nella posizione dell’inconcludente deriso che comunque gli apparteneva, giusto il tempo di normalizzare la naturale impennata ormonale, Mirco si accorse che Damian era sparito. Si era letteralmente volatilizzato, scomparso nella frazione di tempo in cui aveva perso la testa sui particolari anatomici di Matilde. Cercò così di scovarne la forma sottile ispezionando la pista da ballo. Scrutò tra i corpi in movimento e tra i sussulti delle luci inseguendo l’idea di Damian, provando a intravederne la figura snella, la magrezza tesa di lui coperta dalla t-shirt giallo ocra che indossava; ma non lo trovò. Si mosse allora cercando di coprire tutta l’area dove si era ammassata più gente ma, fallita l’impresa, si diresse verso Alessio sperando di trovare se non una risposta almeno un indizio. Non che fosse realmente preoccupato. Anche se certe volte con Damian c’era da avere una concentrazione di fondo particolare, come quando si ha a che fare con uno un po’ matto o con un bambino piccolo, erano comunque confinati all’interno di una discoteca. Vero è che quel suo amico era da sempre circondato da un alone di imprevedibilità, ma non c’era nemmeno da pensare che avrebbe potuto abbandonarli nel bel mezzo della festa. Eppure Mirco considerava strano che prima di muoversi Damian non avesse avvisato. Era per altro difficile pensare che avesse avuto più fortuna di lui e che magari fosse in compagnia di una ragazza. Damian in quel campo era messo peggio di tutti, peggio persino di Fabio Lucani (quello con la maglia di Ronaldo). Non l’avevano mai visto insieme a una ragazza e nemmeno sembrava che si ponesse il problema. Per quella sua indifferenza al sesso femminile, certi idioti come Massimo Tarcisi lo apostrofavano con nomignoli tipo “finocchio” o “ricchione”, ma a Damian chiaramente non fregava nulla. Non era omosessuale, o forse lo era; non era dato di saperlo. La cosa riguardava solamente lui. Alessio, una mattina scesi dal pullman, aveva lo stesso voluto sincerarsi. «Damian ma sei frocio?» gli aveva domandato sfacciato. «Fottiti» aveva replicato Damian. «Ah OK, meno male. Non ti azzardare eh!» aveva sentenziato così riappacificandosi Alessio. ...più o meno era andata così. Comunque, gay o meno, Damian non si trovava più e per questo Mirco affrettò il suo avvicinamento ad Alessio schivando diverse coppie avvinghiate in centro pista.
15 Giunse al relitto dell’amico con addosso ancora tutta la frustrazione per il “picche” appena ricevuto. «Dovevi per forza conciarti così?» esordì infatti infastidito. Ma Alessio non diede nessun peso a tanta contrarietà «Adesso mi alzo e me la faccio quella» rispose infatti indicando la barista più incredibilmente bella che avessero mai visto. «Ma per favore! Piuttosto dov’è Damian? L’hai visto? Non lo trovo!» «Sì che l’ho visto! Era con te!» «E ti pare che se fosse stato con me venivo a chiederti dov’era?» «Eh?» «Lasciamo stare! Ale tirati insieme, dobbiamo cercarlo! Come torniamo a casa senza Damian? Chi lo dice a sua madre che ci siamo persi il figlio?» «Tu l’hai perso! E comunque non è perso! Non è mica un accendino che l’abbiamo perso! Sta tranquillo sarà andato in bagno!» Così ubriaco Alessio sembrava quasi rassicurante nella morbidezza del parlare lento e del muoversi oscillando leggermente col busto. «Lasciagli fare le sue cose! Lo sai com’è fatto! Cosa vuoi che gli succeda?» ribadì. E alla fine Mirco si tranquillizzò. A dire il vero cercò lo stesso per qualche minuto di convincere l’altro ad alzarsi per mettersi sulle tracce di Damian, ma Alessio proprio non ne voleva sapere di schiodarsi dai divanetti. Restarono allora lì, scivolando su quelle stoffe blu come sui discorsi pseudo esistenziali che a diciotto anni si fanno solo se si è marchiati dentro; solo se si è tra quelli a cui la serata gira quasi sempre a vuoto. «Secondo te la quinta sarà come la quarta o peggio?» pose la questione Alessio già avvilito. Aveva fin dai primi anni un rendimento scolastico misero, e si era indissolubilmente legato alla faticosa consuetudine di superare le varie classi ogni volta al fotofinish, per il rotto della cuffia. «Boh, mio cugino dice che basta farsi ammettere alla maturità e con un calcio si esce. Non segano più nessuno alla maturità, dai!» provò a consolarlo Mirco. «Quella troia della Minecco mi fa segare, vedrai!» «Ma va! Se avesse avuto il potere di farti segare quella l’avrebbe già fatto quest’anno!» «‘Sta puttana! Come se nella mia vita fosse indispensabile sapere di Cartesio e dei suoi cazzo di diagrammi!» «Capito Ale, nemmeno a me è piaciuta filosofia quest’anno, ma non puoi fare tutte queste storie. Studiati Cartesio, prenditi la maledetta sufficienza, e quando avrai il pezzo di carta dimenticati tutto! Chi se ne frega!»
16 «Mirco anche te con la favola del pezzo di carta! E poi? Cioè voglio dire, dopo il diploma che faccio? Io non sono mica come te che hai un’idea da quando eri piccolo. Tu quello vuoi fare, stai facendo il liceo per arrivare a quello, hai sempre desiderato fare quello!» «E allora? Mica è un colpa!» «Non sto dicendo che è una colpa! Dico solo che io non so fare un cazzo, e che non mi piace neanche un po’ l’idea di studiare fino a quarantamila anni come farai tu. D’altra parte piuttosto che iscrivermi alla disperata, tipo scienze politiche, lascio perdere e vado a lavorare con zio Beppe!» «Ale anche tu però; non dovevi fare il liceo allora.» «Riecco ‘sta storia del non dovevo fare il liceo! Chi lo sapeva? Chi lo sapeva di Cartesio? E chi lo sapeva di rosa - rosae - rosam? E Dante? E Manzoni? E Platone? E Seneca? Chi andava a sapere che c’era ‘sta gente qua?» «Be’, si sa che si studia filosofia al liceo!» «OK, OK, ma in che misura? È praticamente tutta mummie e polvere la nostra scuola! Liceo Scientifico si chiama! Dov’è la scienza? Uno si aspetta di imparare a fare cose, cose scientifiche magari! Provette, e formule, e cose del genere no? Soprattutto a quattordici anni, quando ti fanno decidere tutto! Uno sceglie anche un po’ per il nome no? “Scientifico”… ci si fa delle idee…» «Bah…» fece perplesso Mirco, ma lo lasciò continuare ancora un po’. Per quanto non fossero assolutamente dei bevitori abituali, Mirco aveva capito da un po’ che Alessio prendeva una piega assolutamente polemica quando alzava il gomito. Si arrabbiava con tutti e con tutto, ma più di ogni cosa si scagliava in lunghe oratorie sproporzionate, monologhi che non conducevano mai a nulla, parole incattivite al vento insomma, come un cane che abbaia senza alcun motivo. Frequentavano tutti e tre il liceo scientifico statale: Mirco Alessio e Damian. Damian era il classico genio senza sforzo apparente; e non avrebbe potuto essere altrimenti vista la natura così schiva, la naturale vocazione a porre domande, l’aspetto fisico così irrilevante tipico di alcuni cervelli sopraffini come il suo. Era spiritoso Damian, e sapeva il fatto suo. Non si lasciava sopraffare, né potevi fregarlo. Però se gli eri amico sul serio una mano te la dava di sicuro. Alessio, una volta preso quel benedetto diploma, in pratica avrebbe dovuto cointestarglielo. Alessio si poteva ben dire che fosse finito tra i banchi del liceo solo per non dividersi da Mirco e Damian. Erano amici dalle scuole elementari i tre, o da prima ancora.
17 Aveva una smania lui di terminare la tortura scolastica, che ogni tanto per sfuggire a quella morsa parlava di andare via, loro tre, di vivere un’avventura una volta buona, di aprire un bar in una spiaggia in Messico, o che ne so, di cose come “vivere per davvero”. Senza però mai spiegare né dove né come. Mirco era il classico studente di cui i professori si dimenticano nel giro di un anno. Una media accettabile, qualche insufficienza sempre recuperata, pochi gesti eclatanti e un obiettivo ben preciso: diventare un giorno un bravo medico. La vita insomma andava benissimo per tutti e tre, e quello di lamentarsi, un po’ sbronzi e un po’ incerti, era un lusso più che concedibile a diciotto anni. Stavano proprio parlando di quel genere di nulla Mirco e Alessio, quando Nico, il festeggiato, venne a chiamarli di corsa. «Ecco dove siete! Ma ve lo volete portare via? Quello lo ammazza, lo capite o no che lo ammazza? Mi state rovinando la festa cazzo!» urlò loro tutto trafelato. Dapprima i due non capirono un granché. «Cos’è che vuoi?» chiese Alessio già infastidito dall’insinuazione sul rovinare la festa. Nico tuttavia replicò ansimando. «È andato a mettersi nei casini con Tarcisi, e lo sapete che quello è pazzo! Ha appena preso un ceffone secco ed è ancora lì che provoca. Io non rispondo di come lo concia Massimo! Se non ve lo portate via, io lo faccio buttare fuori di nuovo. Altrimenti quello lo sfigura!» Parlava di Damian, Nico, e il codardo l’aveva già fatto allontanare dal locale una prima volta. Aveva fatto buttare fuori Damian, mica Tarcisi l’energumeno. «Ma cosa ha fatto Damian?» chiese Alessio. «Non lo so! Non lo so! Massimo ha detto che lo guardava in un modo strano!» rispose Nico, e non era mai stato così legato al picchiatore da chiamarlo per nome, ma anzi l’aveva invitato per pura e semplice paura. Mirco, sentendo la concitazione di quelle parole, pensò subito alle mani enormi di Massimo Tarcisi e si angosciò completamente. Giravano voci terribili sul conto di quel bullo. Dicevano che aveva massacrato di botte due zingari e, un’altra volta, mandato all’ospedale uno di quarant’anni colpevole solo di avergli tagliato la strada. Solo all’idea di averlo davanti, Mirco era già come pietrificato. Alessio no, nemmeno un po’, e nel mentre che l’altro pensava al peggio era già partito alla difesa di Damian.
18 Giunti sulla scena capirono che non era successo poi nulla di grave. Damian, con Alessio finalmente al suo fianco, fissava deciso l’insolenza di Massimo Tarcisi: venti centimetri buoni più di lui, maglietta nera con croce celtica in bianco attillata su muscoli tirati come corde d’acciaio, pantaloni militari tagliati sulle cosce veloci e anfibi stringati bianchi ai piedi. Non si vedevano segni evidenti sul volto di Damian, forse la pelle più tesa sulla guancia sinistra, ma nulla più. Semplicemente, nel minuscolo capannello che si era formato davanti alle enormi casse di diffusione che sembravano vere e proprie pareti di suono, primeggiava Tarcisi, con Nico non lontano e l’intera corte di servi e di sciocchine insignificanti che lo circondavano immancabilmente. Il bestione sbraitò subito qualcosa pure contro Mirco e Alessio non appena li vide arrivare. «Poveri sfigati froci che si difendono tra loro!» disse con disprezzo. Mirco ovviamente, docile, finse di non cogliere; Alessio invece arrossì in un misto tra l’imbarazzo e la rabbia. Fu tuttavia proprio Mirco il primo ad agire. Cercò di recuperare l’amico sperando che il fatto si minimizzasse abbastanza per non passare davanti agli occhi di tutti come un codardo. Ma non riuscì perché proprio Damian complicò ulteriormente la faccenda. Guardava il suo aggressore con sprezzo e non faceva che mormorare: «stupido… stupido… stupido… stupido…» Detto a denti stretti, con ossessione, come piccoli sbuffi d’odio. Era come in trance, scomparso chissà dove, completamente distaccato dal mondo. I due contendenti di fatto erano già divisi da diversi personaggi ficcanaso e attaccabrighe che a loro volta si schieravano come finti pacificatori nell’attesa che decollasse davvero una scazzottata. Ma non c’era poi troppo da temere. Era sempre così, in tutte quelle zuffe si partiva da un battibecco tra due persone e si scatenava una pantomima di proporzioni più grosse. Una grande sceneggiata nella quale però non succedeva quasi mai nulla di realmente grave. A coronare la scena ridicola per di più vi era la presenza di un immenso buttafuori calvo, un “Mastrolindo” con pizzetto e tatuaggi a non finire che, invece di sedare quel principio di scontro, osservava compiaciuto le difficoltà di Damian, rivedendosi affettuosamente nel giovane mastodontico Tarcisi. «Dai andiamo! Lascialo perdere quello!» provò di nuovo con tenacia Mirco Ma Damian, così esile, lo sorprese per la forza con la quale si divincolò dalla presa.
19 «Mirco mollami! Quello stronzo mi ha tirato uno schiaffo solo perché lo guardavo!» «Tu mi guardavi perché sei un frocio bastardo! Ecco perché… vero finocchio?» mise il carico Tarcisi ormai visibilmente diretto verso una nuova perdita di controllo. «Dai andiamocene! E smettila di guardalo se gli dà fastidio! Che ti costa? Dai Damian è una bellissima festa non roviniamocela!» fu l’ultimo tentativo di Mirco. Ma Damian non ne voleva sapere. «È solo, assolutamente, infinitamente, stupido! È già così morto nella sua stupidità che nemmeno se ne accorge!» gli urlò di nuovo. Allora Massimo Tarcisi si proiettò verso di lui sganciandosi, come un missile in partenza, dalla piccola platea che lo circondava, e lo colpì di nuovo, ma non bene, perché rimase ostacolato dalla presenza fisica delle troppe persone tra lui e il bersaglio. In ogni caso Damian indietreggiò, pallido e assolutamente impreparato alla lotta. Mirco, privo di ogni concretezza, provò lo stesso a interporsi tra i due, ma quel misero tentativo di supporto non servì a nulla perché, con una velocità quasi doppia rispetto ai gesti dell’aggressore e tripla rispetto a chiunque altro sulla scena, Alessio strappò dalle mani di un altro ragazzo una bottiglia di birra e la infranse violentemente sulla testa di Massimo Tarcisi. Rumore del vetro che si rompe - birra che si sparge sul pavimento - sangue. Seguì un secondo di incomprensibile silenzio, poi l’energumeno che urla con le mani alla testa e il suo sangue che cola cospicuamente. Alessio disse solo: «Correte!» ...e già erano sulla “Fiat uno” amaranto che la madre di Alessio condivideva col figlio neo-patentato. Sfuggiti senza nemmeno rendersene conto alle urla di Tarcisi, alle botte dei suoi tirapiedi e alle sevizie di buttafuori giganti, calvi e non. «L’hai ammazzato! Alessio l’hai ammazzato!» esordì tremolante dalla solitudine dei sedili posteriori Mirco mentre l’autore del gesto folle manovrava per sfuggire dal parcheggio. Era esagerato, quel bestione non sarebbe certo morto per un bottigliata, ma lo stesso si sentiva coinvolto in un evento di dimensioni tragicamente più grandi della loro ordinaria routine da diciottenni liceali. Avevano rotto una bottiglia in testa a uno come Tarcisi, cioè Alessio gli aveva rotto un bottiglia in testa per dirla tutta, ma per Mirco era come se tutti fossero coinvolti allo stesso livello e già temeva per le conseguenze.
20 Damian intanto, di nuovo completamente dissociato dal mondo, continuava a tormentare il nastro della musicassetta inserita nel vecchio stereo della “Fiat uno”, cercando chi sa quale atmosfera. Finché, assolutamente impassibile, si bloccò ed esclamò serio: «Alessio sei ubriaco, non dovresti guidare.» Alessio rise così sonoramente che la tensione nei tratti del suo viso, fin lì come posseduto da una forza sconosciuta e terrificante, si sciolse completamente. «Hai ragione» rispose pacato. Guidò lo stesso per una decina di minuti ancora, dopodiché si fermarono in un parcheggio fuori mano del paese, il solito loro posto, e scesero dalla macchina. Damian estrasse dalla tasca l’unico pacchetto di sigarette in possesso per la serata. Era buio, ma quel buio non definitivo delle serate estive. Il parcheggio dove si erano fermati, circondato da brutte case a schiera, si trovava più o meno equidistante da ognuna delle rispettive abitazioni. Era stato da poco ripavimentato con dei nuovissimi blocchetti di porfido grigio ed erano state tracciate delle belle righe chiare per delimitare i posteggi. Ma la presenza solo di un lampione su tutto il perimetro, situato in un angolo poi, annaffiava ancora quel luogo di una scialba luce giallognola da area dismessa. Non si sentivano rumori, qualche ghiro isolato e qualche automobile ancora più isolata, nulla più, ma Mirco lo stesso scrutava la strada provinciale con la massima allerta. «Ma vuoi calmarti cazzo?» lo ammonì perciò Alessio. Mirco allora tirò con forza dal filtro della sigaretta, e il fumo fece così velocemente il giro dei suoi polmoni che finalmente gli lasciò una sensazione di svuotamento, di tranquillità. «Lo sapete che ce la farà pagare vero? Oltretutto la voce girerà in fretta e Tarcisi si sentirà immediatamente in obbligo di restituire la bottigliata con gli interessi. Mica può farsi picchiare da tre sfigati come noi! Quello ci distrugge sul serio!» sospirò infine sconsolato. «Ma di che ti preoccupi? Al massimo se la prenderà con me! Che ti importa? Non devi sentirti in obbligo di affrontare Tarcisi! Non te lo chiedo e non me lo aspetto!» replicò Alessio. Damian, con il capo leggermente inclinato e con una strana piega di espressione sul bordo destro del labbro superiore, fumava taciturno. «Perché l’hai fatto? Ale potevi far succeder un casino davvero! In qualche modo ne saremmo venuti fuori se evitavi di spaccare la testa a quello. Forse non ne saremmo usciti in modo tanto eclatante, ma almeno ora non dovrei
21 girare col terrore di incrociare Tarcisi o uno dei suoi!» riprese Mirco di nuovo angosciato. «Mirco smettila. Tu sei un codardo del cazzo e io ti odio quando fai così. Io non mi faccio trattare come un rifiuto da quel deficiente. Non so come l’ho fatto, come ci sono riuscito, ma se lo meritava. Adesso, ogni volta che verrà di nuovo ad attaccare, io sarò pronto. Lo giuro!» «Finisci all’obitorio allora!» «Meglio morto che vigliacco come te!» «Vaffanculo Alessio! Se mi offendi non ti parlo nemmeno!» «Vaffanculo tu fifone!» Ma Damian li interruppe subito e, risalita la china dei pensieri, aggirò quel loro piccolo battibecco con una delle sue perle visionarie. «Mirco hai un gran coraggio a mostrare tutta quanta la tua paura!» Mirco allora rimase di stucco, forse in parte compiaciuto dell’idea di sentirlo schierato dalla sua, ma senza realmente capire cosa Damian andava blaterando. Alessio non ebbe però la stessa calma, e sbuffò contrariato il fumo bianco della sua sigaretta facendolo uscire lateralmente rispetto alle labbra sottili. Assunse poi quella sua posa di disapprovazione, la stessa di quando veniva interrogato dalla professoressa Maria Grazia Minecco. «Damian, ma puttana la miseria, quando cazzo la smetterai di dire ‘ste cazzate?» ribatté infine seccato. Damian, pacato, lo mandò a quel paese. «Damian, ma Tarcisi perché ti ha attaccato? Per quale motivo si è sentito così minacciato da picchiarti? Come lo guardavi?» domandò poi però Mirco. «Perché è stupido!» rispose laconico Damian. «Sì ho capito! Ma tu perché lo guardavi?» aggiunse più deciso Mirco. Damian scivolò allora di nuovo in una sua riflessione. «Avreste dovuto vederlo. C’era tutta la stupidità del genere umano in quegli occhi. Lo guardavo, lo fissavo, e vedevo tutto quanto l’orgoglio di sottomettere, di reprimere, di abusare, di dominare. Per certi versi era esemplare, era il paradigma di qualcosa, lui era quel qualcosa, e se solo avessi potuto mostrarvelo ora capireste di che sto parlando!» disse quasi estasiato. Alessio trattene la risata giusto per qualche secondo, poi proprio non ce la fece e scoppiò. «Ma vaffanculo Damian! Ma come cazzo parli? Dominare? Abusare? Paradigma? Ma che cazzo hai visto, “Super Quark”? E pensare che nemmeno ti fai le canne!» esclamò divertito. Così Damian capì di essere scivolato oltre, e sul suo viso appuntito si allargò un piccolo sorriso che normalizzò la discussione.
22 Mirco, più incline di Alessio nel cogliere il senso delle parole, provò comunque per un secondo a riflettere su quanto detto da Damian riguardo agli occhi di Massimo Tarcisi. Ma non capiva, e si stava facendo tardi; non si era ancora tranquillizzato del tutto eppure cominciava ad avere sonno. Per di più Alessio ruppe quelle sue riflessioni domandando: «Vi devo portare a casa?» E dopo aver rifiutato il passaggio, i tre si salutarono. Nelle settimane successive alla festa di Nico, Massimo Tarcisi affrontò diverse volte Alessio. Il bullo le prese sempre, sistematicamente, e l’incredibile novità di una nullità come Alessio che picchiava immancabilmente quel diavolaccio muscoloso trasferì di rimando anche a Mirco e Damian una sorta di rispetto acquisito. A Mirco quella sembrò proprio una piccola rivincita personale. Circa alla metà di quell’estate, spendendo tutti i suoi risparmi Damian comprò una macchina fotografica. «Una “Voigtlander Bessa T” con telemetro non accoppiato al mirino e innesto ottico “Leica M”!» tenne a precisare non appena la mostrò agli altri due. E da quel giorno cominciò così a dar la caccia alle sue bislacche idee, a braccare le sue stravaganti visioni, a catturare ciò di quanto più profondo vedeva nelle cose; intrinsecamente nelle cose. Grazie alla fotografia sarebbe iniziata una nuova vita per lui. E quello strano ragazzo, così magro e pallido, da lì in poi si sarebbe totalmente speso nell’affannosa ricerca di quelle immagini invisibili - di quei “paradigmi”, come li chiamava lui - che avrebbe immortalato ed esibito ai due inseparabili amici dapprima, al mondo intero poi.
23
DAMIAN
23 dicembre 1981 - in circostanze davvero singolari sembrerebbe. Non si può certo dire che la sua vita non fosse tutta un po’ scombinata fin dalla partenza, dalle origini, dai genitori. Aveva un bel da raccontarne di frottole il padre: il signor Felice Calcagni. Tutte storie completamente assurde, vere e proprie favole, piccole e grandi imprese compiute in mondi lontani e fantastici; incredibili bugie. Erano allora gli anni lieti, quando in casa Calcagni regnava ancora la serenità. Mirco e Alessio ci stavano delle ore da piccoli nella bottega del padre di Damian: parrucchiere da uomo, “barbiere” più semplicemente. La madre soffriva già di quel suo disturbo, ma la cosa non aveva comunque inquinato l’animo buono del padre, che se li teneva volentieri in mezzo ai piedi i tre ragazzini. Stavano da lui per pomeriggi interi, e si divertivano come pazzi a ficcanasare nelle pile di riviste consumate e ad ascoltare il signor Felice svaccati sulle poltroncine consunte di vitello marrone che arredavano il salone. Non che ci fosse gran passaggio di clientela; si può ben dire che la bottega stava ancora in piedi per miracolo, sostenuta a malapena dai soliti noti clienti, maschi attempati, quasi sempre ultra settantenni molto soli. E solo era papà Felice che a ben vedere, considerata poi la situazione della moglie, non aveva che quei tre bambini con cui scambiare qualche parola nelle lunghe giornate vuote. Aggiustava chiome come se riordinasse vecchie stanze il signor Felice, stanze che conosceva tutte da anni, teste incanutite o comunque sfinite dal tempo. Ma lo faceva lo stesso con diligenza e serietà, e nel mentre di quel suo lavorare deliziava il proprio piccolo, familiare, pubblico. Tagliava capelli e inscenava grandi narrazioni, come una specie di cantastorie antico, e Dio sa quanto si divertiva lui stesso raccontando con gusto di paesaggi distanti e irreali, di inesplorate terre del nord, di grandi foreste di conifere dove regnano i mastodontici abeti rossi e i più bassi pini silvestri. C’erano nani, e folletti dei boschi, e streghe dai poteri temibili nei suoi racconti; e le descrizioni appassionate dell’uomo ricalcavano quasi sempre le strutture tradizionali della mitologia nordica classica.
24 Solo che certe volte l’entusiasmo gli prendeva la mano e allora quelle che dovevano essere semplici favole assumevano una connotazione più sinistra. Diventavano qualcosa di più. Perché poteva succedere che - proprio nel mezzo di un taglio, o alle prese con una rasatura - l’uomo regalasse ai presenti, con massimo realismo e patos vero, un qualche resoconto di fatti accaduti e non più di leggende indefinite e lontane. Un pomeriggio aveva giurato ai tre ragazzini incantati che una volta aveva bevuto una pozione fatta apposta per lui da una maga per curare una brutta malattia che s’era preso allo stomaco. Sosteneva di aver vomitato per tre giorni interi, e di essere però poi guarito. Un’altra volta aveva visto un folletto correre a nascondersi nel fogliame fitto al bordo di una strada isolata. E sosteneva di averci addirittura parlato con quel coso, e che quello lo aveva pure pregato di non svelare il segreto della loro esistenza, pena il rischio di estinzione per tutta la loro specie. Di vero in tutte quelle cataste di racconti c’era ben poco. Che aveva lavorato in Svezia per qualche anno come garzone ceramista, ad esempio. Poco più che adolescente, era emigrato con degli zii ed era stato assunto in una piccola azienda tirata avanti da operai specializzati quasi tutti italiani. Una piccola fabbrica situata in una zona rurale, lontana da centri abitati e praticamente ai margini di una grossa foresta ancora incontaminata. Il resto, erano tutte grosse balle. I clienti, bonari, abituati da tempo a quel bizzarro teatrino, sorridevano amabili. Ma i tre bambini no, ed erano così completamente conquistati dalle stravaganti narrazioni da attenderle con desiderio, aspettando il momento buono in cui il padre di Damian partisse, come se attendessero un piccolo regalo quotidiano. Tra i tre solo Alessio qualche volta derideva l’uomo; poi rimproverava a Damian “Te sei matto perché anche tuo papà è matto!” convinto sul serio che padre il padre avesse trasmesso al figlio un tarlo genetico. Il padre di Damian del resto non faceva nulla per sconfessare certe opinioni. Uomo di bassa statura, corpulento, portava due folti baffi neri sempre perfettamente pettinati che lo rendevano senza dubbio eccentrico all’aspetto. Non bastasse, viveva completamente scalzo. Col normale trascorrere degli anni, quella bislacca consuetudine gli aveva conferito dei piedi duri e rossastri, come fosse un indiano Sioux, o un aborigeno, o un qualsiasi selvaggio indio. Ora, se anche la gente che frequentava la bottega forse nemmeno dava più tanto peso alla cosa, chi lo avesse visto la prima volta si sarebbe trovato di
25 certo nell’imbarazzo più autentico (se non nel disgusto) osservando quell’uomo piccolo camminare completante scalzo sulle brutte piastrelle di marmiglia disseminate di ciuffi appena tagliati. Non era certo un bello spettacolo a vedersi, ma lui se ne fregava beatamente di quello che stava bene o meno agli altri, e giustificava quella sua scelta di vita di calpestare il mondo con la propria nuda pelle sostenendo che il suo fosse un tentativo di ritorno alle energie della terra. Era una speciale New Age spontanea la sua, ragionata da sé, perché nel paesello - cinquemila anime a malapena - di New Age si sapeva ben poco. Non era nemmeno un Hippy invecchiato il Signor Felice, perché credeva nella proprietà, nel lavoro, e soprattutto nella famiglia; ma aveva quella stravagante percezione che il mondo fosse dominato da “energie invisibili” con le quali sarebbe stato meglio “vivere in armonia” prima di “ricongiungersi al flusso”. Chissà dove diavolo se le era create certe convinzioni, sta di fatto che le metteva un po’ dappertutto quelle sue idee, quasi vere e proprie visioni, che non aveva preoccupazione di enunciare neppure a tre ragazzetti di nemmeno dieci anni. Alessio in effetti aveva ragione di pensare che certe stranezze il padre le avesse trasmesse anche a Damian, ma i tre rimanevano volentieri sospesi a lungo nello stupore per quei racconti così incredibili. Certo col passare di tanti inverni il piccolo gruppo di ascoltatori si andò lentamente abituando all’assurdità di certe vicende, ma nessuno poteva immaginare che quella piccola, innocente consuetudine di ascoltare l’uomo e le sue stramberie un giorno si sarebbe interrotta di colpo. Era un giorno di febbraio del 1994, l’uomo stava riordinando delle vecchie scatole con dentro chissà cosa. Il negozio era vuoto e fuori dalla porta a vetri d’ingresso; dietro alle veneziane ingiallite che avrebbero avuto bisogno di una bella ripulita, un fiacco sole invernale si apprestava ad abbandonare la scena. Proprio in giornate come quelle poteva essere che il padrone di bottega decidesse di tagliare o pettinare i capelli di uno tra i tre suoi ragazzi, ma quella volta gli era sembrato più urgente riordinare senza nessuna logica vecchi scatoloni contenenti nulla di importante. D’estate non succedeva; con i ragazzi lontani chissà dove, nemmeno ci si metteva a riordinare le sue scatole misteriose. Se in negozio non c’era nessuno, il Signor Felice d’estate chiudeva la saracinesca smaltata di bianco che difendeva il suo regno e si andava fare un bella passeggiata per le vie del paese, magari cercando qualcuno con cui parlottare un po’di foreste e di nani svedesi, camminando a piedi nudi ovviamente.
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Ma non era estate, e mentre finiva di sigillare un grosso pacco marrone con una scritta rossa sul fianco esordì: «Vi ho mai detto ragazzi delle cose incredibili che sono capitate quando è nato Damian?» Sul momento nessuno osò commentare. Un conto erano le farneticazioni sulla Svezia e sul passato, sui nani e sulle streghe; lì poteva pure essere che il giovane pubblico mugugnasse un po’ sulle prime battute. Ma in quel caso era diverso, e quella prometteva di essere una storia forte. Che riguardava la nascita di Damian per di più. «Faceva un caldo inspiegabile quel giorno. Tanto caldo che appena sveglio avevo subito capito che sarebbe stata volta buona che arrivavi, Damian. Pure tua madre ne era sicura, e aveva aspettato con una calma che non crederesti che le si rompessero le acque. Era rimasta sdraiata quasi tutta la mattina sulla grande poltrona che abbiamo ancora su in casa. Nel primo pomeriggio, quando avevi dato i primi segnali di volerti presentare, mi aveva telefonato in negozio e mi aveva chiesto di raggiungerla di sopra; che c’era da “farti nascere”.» Sulle prime il racconto aveva suscitato una normale ilarità per dei tredicenni all’ascolto; ma l’uomo, una voce straordinariamente ricca di sfumature e una naturale abilità nel saper raccontare, non si era fermato. «Io ero volato su in casa tutto preoccupato, agitato come un demonio. Poi, con tua madre che cercava di tranquillizzarmi, avevamo tirato su tutte le cose necessarie per recarci il più velocemente possibile verso l’ospedale. Be’ ragazzi non ci crederete, ma lì sul pianerottolo avevo guardato Maria e mi ero accorto per la prima volta che uno dei suoi occhi aveva cambiato colore!» La madre di Damian aveva gli occhi di colore diverso. Quello era un fatto. Non erano tuttavia due colori divergenti in modo definito: uno blu e uno marrone per dire. Erano due occhi chiari, indefinibili, discordanti solo di qualche minima gradazione tra loro. Dopo parecchi anni di medicina Mirco si sarebbe convinto che la madre di Damian fosse probabilmente affetta dalla ciclite di Fuchs, una infiammazione oculare piuttosto rara e comunque capace di dare certi segni caratteristici, ma quel giorno rimase del tutto incantato dall’affermazione del padre di Damian e, avendo ben presente lo sguardo della donna, credette all’uomo senza dubbio alcuno. Alessio al contrario cominciò a disturbarsi per la piega che stava prendendo il racconto ed emise un primo sbuffo impaziente.
27 L’uomo dai piedi nudi tuttavia continuò «Per strada non si trovava nessuno. Nonostante fosse l’ultimo mercoledì prima di Natale e i negozi fossero tutti aperti, non c’era in giro anima viva. Tua mamma mi chiedeva di abbassare i finestrini per il gran caldo che aveva, ma io non volevo; avevo paura di, che ne so, danneggiarti in qualche modo!» «Danneggiarmi papà?» chiese allora Damian sorpreso. «Era il 23 di dicembre! Eri il primo figlio! Che ne sapevo che non ti beccavi un colpo d’aria già prima di nascere?» «Ma… papà!» sorrise Damian. «Arrivati nel parcheggio, l’orologio grande che sporge dalla prima palazzina, quello col termometro luminoso rosso, segnava ventidue gradi! No, dico, li avete mai visti ventidue gradi a dicembre voi?» Era soprattutto quello, quel perenne tentativo di coinvolgerli nelle sue narrazioni, che piaceva molto a Mirco. Lo faceva sentire protagonista e in qualche modo lo trasportava nel mondo dei grandi. Era così assorbito dai racconti del signor Calcagni che gli pareva di esserci dentro, e commentava sonoramente ogni variazione di intensità della voce del narratore, e rispondeva ossequiosamente a tutte le domande che l’uomo retoricamente poneva. Per quello esclamò sbalordito: «Ventidue gradi? Tantissimi!» Damian ascoltava invece la storia della sua nascita con rispettoso silenzio, senza scomporsi mai ma comunque con curiosità, accogliendo le parole del padre come se si trattasse di fatti accertati, per i quali non era necessario porsi domande di attendibilità. Al contrario di Alessio, che a quel punto smise di sorridere, completamente irritato da quella cosa del “termometro soprannaturale”. «Poi, finalmente, arrivati in sala parto, sei nato! E non hai pianto nemmeno un secondo, neanche un mugugno! Il medico si è perfino preoccupato, perché piangere dovrebbe essere una reazione naturale per un neonato sano. Ma tu eri bello vispo e sveglio, eppure non piangevi! È stato in quel momento che si è sentita la musica!» Mirco allora domandò curioso: «Che musica signor Felice?» E gli occhi del Signor Felice Calcagni si fecero di colpo più grandi e convincenti, neanche fosse un capo scout che raccontava storie dell’orrore alle tre giovani reclute intorno a un falò. Più che di una vera e propria musica, parlò di un suono singolo e monotonale.
28 «Una specie di nota di flauto, con un timbro meravigliosamente limpido, ripetuto a distanze molto ravvicinate» precisò. Aggiunse anche che tutto il personale presente si fermò chiedendosi da dove venisse quel suono che proprio non aveva ragione di essere udito lì dentro. «Fìììììì fìììììì fììììì… be’, non era proprio così!» tentò una riproduzione che a Mirco e Damian risultò goffa ma comunque spiritosa, mentre ad Alessio sembrò francamente ridicola. «Sì ma signor Felice, magari quel suono veniva da fuori, dalla strada!» obiettò timidamente Mirco. Ma l’uomo con naturalezza precisò che nella sala parto dell’ospedale non c’erano finestre, che si trovava un piano sotto terra e che nessuno, neanche il primario, capiva da dove venisse quel suono. «Magari era un macchinario che fischiava!» tentò di nuovo Mirco sempre con il massimo rispetto. Ma il padre di Damian continuò specificando che quella specie di rumore continuo improvvisamente aveva virato in una serie di note articolate, una sequenza che non ricordava più e che mai avrebbe saputo intonare, ma che giurò essere assolutamente deliziosa. «Poi la melodia si arrestò di un colpo. E Damian urlò a tutti i presenti, emettendo un pianto sonoro, che era arrivato su questa terra!» terminò con soddisfazione il racconto. Damian finito di ascoltare rimase zitto, nemmeno troppo incredulo, anzi come se in realtà avesse da sempre sospettato di certe particolarità nella sua esistenza. Mirco ridacchiò un po’ per quel matto del papà di Damian che ne aveva raccontata un’altra delle sue e che comunque era così simpatico certe volte. Alessio no, non si trattenne. «Ma che cavolata è mai questa? Signor Felice ma perché deve sempre dire certe cazzate? Non siamo mica più bambini che ci deve raccontare tutte queste palle!» eruttò con violenza. Il padre di Damian non si scompose, anche se mostrò un certo rammarico per i toni di quel ragazzino che da tanti anni ospitava quasi tutti i giorni nel proprio salone. «Alessio, modera le parole…» sospirò un morbido rimprovero. «Le parole niente! Le parole un cazzo!» ruggì però di nuovo Alessio, e Mirco si vergognò per lui, perché non c’era proprio ragione per una sceneggiata del genere. Non capiva perché se la prendesse tanto male. Damian non disse nulla, ma comprese che stava per rompersi qualcosa, perché la sua faccia si fece come rassegnata quando sospirò un “Ecco” inequivocabile.
29 «Io mi sono rotto i coglioni di starmene qui a farmi raccontare certe cazzate da un matto senza scarpe! Me ne vado! E qui non ci metto più piede! Non vengo più a farmi riempire la testa di cazzate da uno che predica tutte queste assurdità, poi si comporta come si comporta…» esplose definitivamente Alessio prima di fuggire lasciandosi dietro la porta aperta per evitare di sbatterla e fracassarla in mille pezzi. Aveva solo tredici anni. Il padre di Damian rimase quindi immobile davanti alla porta spalancata, colpito, ferito duramente dalla ferocia di quel ragazzino che aveva visto crescere. Non disse nient’altro, ma immaginò certamente qualcosa. Poi un alito freddo proveniente dalla strada fece velocemente la conquista della bottega, l’uomo chiuse la porta e riprese a spostare scatole senza aggiungere nulla. Mirco e Damian rimasero di gesso. Trascorsero allora cinque minuti di silenzio denso come marmo; cinque minuti di immobilità assoluta che il signor Felice spezzò dicendo «Mirco vai a casa anche tu che è buio ormai.» E quello, bravo ragazzino per davvero, ubbidì. Di quella litigata Damian e Alessio non parlarono mai. Non serviva, perché Alessio era da sempre una testa calda e nessuno avrebbe potuto farlo ragionare, ma soprattutto perché Damian preferì evitare nuove, pericolose, inutili discussioni. Alessio non rimise più piede nel negozio e col passare del tempo, con l’arrivo della travolgente adolescenza, anche Mirco smise di andarci. Cambiò persino parrucchiere per stare più alla moda coi tempi, anche se gli sembrò in qualche modo di essere un traditore. Un giorno di aprile del 2003 Mirco seppe da sua madre che avevano ricoverato il signor Felice per un grosso tumore allo stomaco. Era malato da mesi e stava messo proprio male: era al capolinea. Damian non aveva mai detto nulla al riguardo. Il padre di Damian, Felice Calcagni, l’uomo perennemente scalzo, morì pochi giorni dopo lasciando Damian da solo con la madre disabile. Al funerale Damian non pianse. Nemmeno parve troppo addolorato a dire il vero, o almeno non nel modo feroce che uno si aspetterebbe di vedere per un lutto del genere. Mirco rimase affranto per giorni. Alessio non poté fisicamente partecipare all’ultimo saluto, e se anche ne avesse avuto la possibilità non ci sarebbe andato.
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AGOSTO 2000
Estate - Giorni davvero indimenticabili. Nell’estate del 2000 arrivò finalmente il giorno in cui maturarono. Andarono a consultare il tabellone insieme, sempre a bordo della “Fiat uno” amaranto divenuta mezzo ufficiale del gruppo. Lo fecero di mattina presto, di slancio, coi finestrini completamente abbassati e l’abitacolo interamente concesso al piacevole tepore delle mattine di luglio. In sottofondo, l’odore catramoso dal portacenere colmo all’inverosimile. Alessio in effetti fumò senza sosta per tutti i diciotto minuti di strada; che un turco si sarebbe risentito. Mentre Alessio guidava e fumava, fumava e guidava, Damian si divincolava dalla solitudine dei sedili posteriori con scatti bruschi e rapidi per riemergere impazzito tra Mirco e l’autista. La macchinetta nera in mano, sembrava un giornalista d’assalto; o un giapponese a Roma. Scattava su Alessio e balbettava Clik «Ansia…» Clik «Frenesia...» Clik «Inquietudine...» Poi verso Mirco Clik «Aspettative...» Clik «Paura di fallire…» Premere sul pulsante di scatto generava un “Clik” metallico, un codice morse frenetico e appuntito, francamente irritante. «Damian o la finisci o te la ficco in culo quella macchina!» sbottò infatti Alessio. Da quando aveva acquistato l’oggetto, Damian ne era rimasto così stregato da rendere la sua “Voigtlander Bessa T” una vera e propria estensione di sé. Faceva foto di tutto, e faceva tutte foto strane.
31 Ne aveva fatte un sacco a sua madre, quasi nessuna al padre, moltissime ad Alessio, molte meno a Mirco. Più che di intere fotografie si trattava di immagini parziali: dettagli di un viso, minuzie di un vestito, particolari di un modo di fare o semplicemente aspetti assolutamente trascurabili delle persone; un colore di capelli, la forma di un orecchio, l’angolatura di un sorriso. Una volta aveva scattato una fotografia delle nocche della mano destra di Alessio. Bianco e nero. I particolari della mano nitidi e duri; le ombre tra le dita definite perfettamente. L’aveva chiamata “la via di fuga”, e gliel’aveva regalata. Alessio, non capendo, gli aveva mollato una scoppola in testa «Ma vaffanculo matto che non sei altro.» Però poi se l’era tenuta. In ogni caso quella cosa di scrivere i titoli dietro alle immagini, Alessio la trovava davvero assurda. Damian usava sempre lo stesso piccolo pennarello rosso a punta fine, un bisturi di colore col quale tracciava sulla carta fotografica, di per sé poco adatta alla scrittura, i titoli delle sue immagini. Anche Mirco custodiva gelosamente una fotografia scattata da lui. Anche lui possedeva una foto di Damian. L’aveva ritagliata a dire il vero, riducendola di dimensione fino al punto in cui potesse stargli dentro al portafogli (insieme alla sua più preziosa reliquia: la figurina di Roberto Baggio finalmente all’Inter). La foto di Damian che possedeva Mirco era parecchio stramba. Lo ritraeva da dietro, mentre camminava chissà in quale circostanza. Non si vedeva altro che lui, Mirco, il suo corpo per essere precisi, e nemmeno un angolo di sfondo oltre una normalissima strada asfaltata. Mirco non capiva come Damian avesse fatto in modo che la sua figura in controluce si fondesse perfettamente con l’ombra; non afferrava con quale angolazione vi fosse riuscito. Ma tutto risultava estremamente allungato, esteso, proiettato, e a Mirco quell’effetto piaceva moltissimo. Damian aveva scritto sul retro: “Mirco cresce” e gliel’aveva regalata. A ogni modo era infine giunto il giorno dei temuti esiti scolastici. Arrivati a scuola salirono velocemente la rampa di scale verso i tabelloni. Alessio corse più di tutti, ormai sprofondato nell’incontrollabile necessità di sapere se fosse atterrato al di là o al di qua del baratro. Damian nemmeno lo guardò il suo punteggio; si mise leggermente defilato a fare fotografie. Si ha un bell’imbarazzo nell’avere un amico che, manco fosse Henri CartierBresson, anziché controllare i propri esiti scolastici scatta foto di liceali che consultano i loro.
32 Ma Alessio non si accorse subito di quello che stava combinando Damian, perciò non disse nulla. Strabuzzò leggermente gli occhi cercando il proprio nome sul tabellone bianco e lesse: Bincirolli - 72… Castellini - 84… Ciriolo - 67… Clementi… Finalmente proruppe in un liberatorio: «Sessanta! Sì cazzo!» «Potevano darmi almeno un sessantuno però. Così, almeno di bellezza!» aggiunse poi voltandosi verso Damian. E proprio in quel momento si accorse che l’amico si era concentrato su di lui con i suoi scatti. «Ma che cazzo fai? Ma ti ripigli o no? Davvero te la spacco in testa adesso quella cosa!» esclamò allora sorridendo, già completamente ubriaco d’euforia per aver superato l’ostacolo più grande. Mirco nel mentre in cui sbirciò la sua posizione verificò anche che Alessio non avesse mentito, e scovando pure il voto di Damian confermò ogni sua ipotesi. «Cento secco!» si rivolse infatti all’amico come se avesse vinto una qualche scommessa. «E tu? E tu?» chiese Alessio già ben distante dai tabelloni e dalla scuola. «Settantacinque…» rispose Mirco, contento ma anche abituato all’idea di aver ottenuto il solito risultato insipido ma rassicurante. Damian non si scompose per i cento centesimi ottenuti all’esame di Stato, ma ne fu certo orgoglioso. Avendo una media da campione olimpico, considerava quel numero come naturale conseguenza per la sua dedizione costante e metodica verso le materie di insegnamento. Amava studiare Damian, e anche se non era uno che avrebbe venduto i reni per un buon voto, teneva ben presente quali fossero i suoi obiettivi scolastici. Ottenne anche una cospicua borsa di studio; e l’esenzione totale delle tasse universitarie. Certamente fu anche per tutta quella serie di agevolazioni che suo padre acconsentì a mandarlo in vacanza. Del resto, un secondo dopo essersi saputo promosso, Alessio ricominciò con la storia del viaggio; che da lì in poi ognuno prendeva la sua strada, che prima di dividersi dovevano fare quel viaggio, che quelle esperienze lì vanno vissute almeno una volta nella vita, e che se non ora quando. La solita fissa di Alessio: il viaggio, la fuga.
33 Ottenuto il maledettissimo diploma, andare in vacanza con i due amici di sempre gli era parso un sogno decisamente più raggiungibile che aprire un bar in una qualunque spiaggia del Messico. «Grecia arriviamo!» esclamò perciò eccitato. Aveva scelto la Grecia, non si sa perché. Nel frattempo Damian continuava a scattare le sue fotografie. Ne scattò un paio a due ragazze di quinta C; una biondina con fare supponente che si mostrò infastidita dagli scatti, e un’altra, più timida e bruttina, che perlomeno sorrise e abbozzò pure una timida posa che Damian ovviamente non considerò per nulla. Ne scattò una al rappresentante degli studenti, uno spilungone che si presentò all’appuntamento degli esiti dell’esame di stato in camicia e cravattino, manco fosse un senatore nel giorno di elezioni. Ne scattò più di una pure a uno della quinta D; un tizio di cui non conosceva il cognome, ma aveva chissà perché adocchiato. Quello, manco a farlo apposta, scopertosi segato, aveva massacrato mano e polso sferrando un violento pugno contro uno dei pilastri di cemento armato all’ingresso del Liceo. Bocciatura e frattura completa di radio e ulna in un colpo solo. Damian, tempismo perfetto, colse il piccolo dramma con uno scatto a dir poco spassoso. Dopo la scena del pugno, Alessio prese a metter fretta agli altri due perché ritornassero alla macchina. «Dai, dai, andiamo che qui c’è chi da di matto!» «Avessero segato te, tiravi giù il Liceo! Altro che» ironizzò Mirco. Alessio allora rise sonoramente, perché la paura era passata e lui non faceva parte dei respinti, dei reietti, dei disadattati come quel tizio lì; ma anzi era un neo diplomato del liceo e bisognava festeggiare «Andiamo al fiume!» sentenziò perciò con solennità. Scorreva un torrente non lontano dal Liceo. Poco più di un rivolo a dirla tutta, ma non privo di fascino. Il torrente scendeva ripido dalla montagnola arrotondata che sovrastava tutta la zona; una specie di grosso broccolo verde che dominava l’orizzonte. Ai piedi del piccolo rilievo, una fila di paesini tutti uguali che si erano sviluppati in serie ai tempi del boom industriale, creando un’anonima periferia a nord della pianura Padana. I ragazzi si potevano perciò considerare fortunati. Erano nati in una zona ancora di aria buona, ed era sufficiente risalire qualche curva del “broccolo” per intercettare le acque limpide del torrente prima che, entrando a valle, ve-
34 nissero comunque inesorabilmente contaminate dai vari scarichi industriali e civili. Mirco, sentita l’idea di Alessio, si allarmò lo stesso. Quelle acque, che si facevano strada a cascatelle tra grossi massi bianchi creando pozze balneabili, erano certo limpide, ma assolutamente ghiacciate. Era estate d’accordo, ma erano anche le nove e venti del mattino, non avevano né i costumi né gli asciugamani, in quel tratto del fiume il sole non batteva che per poche ore nel tardo pomeriggio e avevano fatto colazione da poco. Fosse stato per lui non ci sarebbe mai andato su al fiume. Damian tuttavia disse «OK andiamoci!» E pochi minuti dopo erano immersi fino al collo nell’acqua gelida, trafitti da mille spilli. Condirono tutta l’estate con gesti irragionevoli come quello. Proprio come naturalmente dovrebbe accadere a quell’età. Mirco, Alessio, Damian. Tre caratteri agli antipodi, perfettamente fusi nel desiderio di vivere quel periodo al massimo della leggerezza. In autunno ci sarebbe stata un’avventura nuova dal nome Università ad aspettarli, ma dal giorno stesso in cui terminò il liceo si sentirono liberi, finalmente liberi. Alessio non litigò con nessuno per tutta l’estate, ma anzi visse un periodo così serenamente pacato che arrivò quasi a convincersi che Damian non fosse poi troppo pazzo; anche con la grossa macchina nera perennemente appesa al collo, anche con tutti i titoli scritti in pennarello indelebile rosso, anche con le perenni occhiate curiose verso le cose e le persone. Pure Mirco, che proprio non brillava per iniziativa e che da bambino desiderava già d’essere adulto per levarsi l’imbarazzo di dover crescere, cominciò a considerare un diritto vivere la sua ultima estate da adolescente puro: al massimo dei giri. Una volta tanto i suoi genitori perdonarono quasi tutto. Le sere a rientrar tardi, qualche piccola sbronza mal nascosta, l’assoluto rifiuto di compiere la qualsiasi minima commissione per conto loro. Siglarono un tacito accordo insomma: con l’inizio dell’università lui sarebbe tornato lo studente coscienzioso e privo di frivolezze che era sempre stato e loro (la madre soprattutto) per tutta la durata dell’estate l’avrebbero lasciato fare. Così ad agosto partirono per la Grecia.
35 Bisognerebbe non crescere mai e avere sempre vent’anni. Che a vent’anni non si sa nulla della vita e si è felici di non sapere. Che dopo, con gli anni, a trenta, a quaranta, a cinquanta, si crede di saperne qualcosa, ma ne si sa meno di prima. Atterrarono all’aeroporto internazionale di Rodi nel tardo pomeriggio di sabato e, assistendovi dagli oblò, il loro sembrò quasi più un ammaraggio che un atterraggio in piena regola viste le dimensioni della pista a picco sul mare. Ovviamente Mirco fu l’unico a preoccuparsi realmente della cosa, ma non lo fece nemmeno poi troppo visto che l’eccitazione per quel primo grande viaggio con gli amici, la soddisfazione di prendere un aereo da solo e la prospettiva di essere completamente sciolto da qualsiasi obbligo per una settimana intera non lasciavano troppo spazio a quel genere di ansie. Un pullman blu, del tipo che si usano per le linee cittadine, li condusse dopo mezz’oretta buona all’albergo. Si trattava di un piccolo villaggio di casette a schiera sparse con una geometria impeccabile appena al di sopra della costa. La struttura era di recente costruzione, ben verniciata, vestita dalle sfumature cromatiche del giallo chiaro. Il parcheggio di ghiaia grigia era ordinato, le aiuole fiorite dei giardini all’ingresso erano perfettamente innaffiate, il personale di servizio che li accolse aveva delle soddisfacenti divise azzurre e blu. Quasi tutto insomma stonava con l’idea di vacanza “on the road” che prospettava Alessio. E questo perché, pur acconsentendo al loro viaggio, la madre di Mirco era riuscita nell’intento di convincere anche la madre di Alessio e il padre di Damian che tre ragazzini come loro sarebbero stati meglio in un contesto definito e sicuro come quell’albergo piuttosto che dispersi sul territorio Greco come viaggiatori erranti. Alessio non aveva certo preso bene l’intrusione, ma per forza di cose aveva dovuto acconsentire, ben sapendo che la madre di Mirco non sarebbe arretrata di un centimetro sulla questione. La donna anzi aveva dato il meglio di sé, e come si era indaffarata nell’organizzare tutto: la scelta dell’isola - del volo - della struttura alberghiera. Alessio capì quindi in breve che tanto valeva prendere quello che veniva. E ne venne comunque qualcosa di straordinario. Bastò uscire dalla scatola placcata d’oro, ritornarci solo per il necessario; bastò ridurre le proprie pretese per il vitto e noleggiare dei motorini che li conducessero lontano dagli angoli noti per accarezzare di nuovo l’idea dell’avventura senza limiti.
36 L’isola era sorprendente, e ogni giorno cavalcarono l’assenza di attrito dell’asfalto sciolto dal sole per chilometri e chilometri, alla ricerca di un anfratto più suggestivo, di un mare più blu, di una spiaggia più incontaminata. Per tutta la settimana incontrarono nicchie incredibili, come la collinetta di sassi e sterpaglie bruciate dall’aria e dal sole dove da un lato soffiava una tramontana assurda che cessava incomprensibilmente non appena girato l’angolo. O come quella spiaggia incantata, un’insenatura scavata nella roccia dove la vegetazione scura avvolgeva tutto formando una conca verde. Un paradiso che negli anni settanta un attore di Hollywood s’era comprato cercando di farci, per fortuna senza riuscirvi, una serie di alberghi. Una mattina si tuffarono da un’altissima parete rocciosa alla quale si accedeva grazie a una specie di scala naturale scavata dalla base al vertice da chissà quale agente atmosferico. Tutti e tre trovarono senza indugi il coraggio di lasciarsi cadere nel vuoto del mare sotto. Alessio azzardò anche spettacolari tuffi di testa per cui ricevette applausi dagli altri presenti. Un pomeriggio si addentrarono in una pineta dove trovarono un piccolo torrente. Lì farfalle in numero incalcolabile venivano attirate dal profumo di resina e dalla frescura data dalle piante. Creavano una tormenta d’ali quei piccoli esserini presenti a migliaia, una nevicata di sfumature dal nero al marrone chiaro. Impossibile non scomparire nella meraviglia. Pure Alessio, che certo non aveva chissà quale vocazione poetica verso la natura, esclamò ipnotizzato dallo spettacolo: «Ragazzi è incredibile!» «Damian dai tira fuori la macchina! Adesso si che ci vuole una far foto!» aggiunse. «Non ho la macchina, l’ho lasciata in camera» svelò placido Damian. Ora, poteva succedere a qualsiasi essere umano di dimenticarsi la macchina fotografica in stanza, ma non a Damian. In effetti già dalla partenza Damian aveva avuto come un calo del desiderio nel portarsi appresso la sua amata “Voigtlander Bessa T”. Alessio rimase dunque esterrefatto «No, ma dico io; rompi le palle tutti i giorni con sta roba dei paradigmi. Fai foto ai semafori, ai muri, pure alla merda se ti capita, e adesso che ci sono un miliardo di farfalle e noi ci stiamo in mezzo non ce l’hai?» Non aveva nemmeno tutti i torti. Probabilmente Damian - nonostante in vacanza non fosse molto fiducioso di poter fare scatti aventi per lui un senso se non avesse temuto per il sole, per la sabbia o che gli venisse sottratto in qualche modo l’oggetto tanto vitale per lui, la macchina l’avrebbe pure por-
37 tata con sé. Ma c’era troppo da perdere e poco da guadagnare e per quello rispose stizzito: «Alessio tranquillo! Ne puoi trovare un miliardo di foto di questo posto.» «Sì abbiamo capito Dam! Ma visto tutte le foto che fai, potevamo averne una nostra di questo posto no?» cercò di spiegare meglio Mirco. Ma Damian allora disarmante replicò «Oh ragazzi che vi devo dire? C’è tanto bello qua che avete ragione a volerne portare via un po’. Ma che ne so, è un genere di cose che boh… non mi interessa fotografare.» Alessio detestava il modo di esprimersi che assumeva Damian in certi particolari momenti. Tanto bello che avete ragione a volerne un po’...? Che cavolo voleva dire? Certe volte Damian gli sembrava proprio un drogato. «Damian ma vaffanculo! Ma perché dobbiamo sopportare ‘ste puttanate? Una volta che serve la macchina fotografica non ce l’hai! Ecco tutto!» gracchiò di nuovo. «OK, OK, che sarà mai! Se proprio vuoi la tua foto con le farfalline, domani torniamo qui e te la faccio!» rispose allora Damian ricevendo qualche decina di insulti pacificatori dagli altri due. Non tornarono più in nel paradiso di farfalle. Nei pomeriggi successivi solcarono litorali molto più commerciali rispetto ai primi scenari da loro esplorati. Approdarono su lunghe distese sabbiose, lingue squadrate con file di sdraio e lettini schierati con ordine, divisi dai colori a seconda del bagno di proprietà. E nel sovraffollamento di quelle spiagge roventi, invase dalle rotondità adipose di turisti nord europei, tedeschi e inglesi, capelli rossastri e pelli rese violacee dal vento e dal sole greco, conobbero finalmente anche tre ragazze. Le tre presenze che mancavano perché quella vacanza divenisse perfetta. Furono proprio le donne ad avvicinarsi per prime. «Ragazzi ci fate una foto?» domandò una di loro. Sulle prime ad Alessio parve molto normale prendersi carico della cosa, scattare, e riconsegnare le tre fanciulle alla propria vacanza; poi un barlume di scaltrezza gli attraversò la testa. «Cavoli ragazze! Che scemo!» disse richiamando le tre che già si allontanavano ridacchiando per quei tre imbranati che non erano stati capaci di trattenerle. «Abbiamo qui un futuro fotografo e mi metto io a scattare!» aggiunse indicando Damian. Le tre si incuriosirono immediatamente, un po’ perché covavano dall’inizio della vacanza una naturale tendenza a “incuriosirsi” per dei ragazzi, e un po’
38 perché Damian a vedersi era uno così strano che veniva naturale chiedersi che tipo fosse. Alessio cominciò a spiegare di quel suo amico, pallido pure sotto il solleone d’agosto, magro come un’acciuga, certe volte così lontano dal mondo da sembrare un cavolo di alieno o un robot. Specificò che era un vero e proprio esperto di fotografia artistica, e che sicuramente sarebbe stato destinato a un grande successo in campo internazionale. Damian, con tutte le perplessità del caso, si prestò alla cosa e nel pomeriggio, avuto in pieno il benestare delle tre catturate ragazze, consumò loro l’intero rullino. Scattò con diletto, scegliendo angolazioni leggermente più spregiudicate e inquadrando i tre soggetti certo con mestiere, senza mai tuttavia ricercare una qualche reale forma di espressione artistica appartenente al suo genere. Fece solo fotografie di posa Damian, nonostante avesse confidato non gli interessasse più, nonostante si sentisse egli stesso un pochino a disagio per quel piccolo piacere di ogni scatto fatto. Ma c’era uno scopo più nobile a giustificare le sue azioni e non ebbe il minimo dubbio quando capì che quella sua prestazione d’opera aveva concesso ad Alessio e Mirco di conoscere i loro primi rispettivi amori estivi. Letizia, Maura e Angelica erano tre acerbe neo maturande uscite dal liceo classico di un paesino in provincia di Novara. In comune coi ragazzi appena conosciuti sulla spiaggia avevano percorsi scolastici del tutto sovrapponibili, con professori meschini (come poteva esserlo la Minecco per Alessio) o insegnati amabili e carismatici, del tipo che Mirco non esitava a seguire come veri e propri esempi di vita. Anche le tre ragazze avevano attraversato i fondamentali cinque anni di vita scolastica superiore barcamenandosi tra le spregiudicatezze per scappare da scuola e le ridicolaggini per copiare, i trionfi per i successi, per aver studiato perfettamente un argomento, e gli sgomenti per la paura di un brutto voto. Cinque anni di scuola, un’eternità di amicizie nate e distrutte, di rapporti futili, di convenienze, o di legami solidi pronti a durare tutta una vita. Ansie e ripicche, novità da scoprire, e modificazioni del corpo in crescita, e trasmutazioni del mondo di pensare e del modo di muoversi. Erano stati gli anni delle gioie sciocche e dei pianti incomprensibili, degli amori inconfessabili e delle grandi domande sul futuro. Cos’ero prima e cosa sarà dopo? Cos’è il bene e cosa non lo è? Come dovrebbe essere il mondo? Cosa voglio lasciare di mio a questo mondo?
39 Tra Voltaire e Kant, tra le insufficienze e le falsificazioni, tra la rivoluzione russa e Dante, tra gli intervalli allungati e gli scioperi studenteschi, tra Platone e le guerre mondiali, tra gli innamoramenti e le dichiarate o meno antipatie, tra la termodinamica e le disequazioni di secondo grado, tra i libri mai letti e i lunghi pomeriggi di studio forzato, tra tutte queste cose e mille più ancora, ognuno di loro almeno una volta si era posto certe domande. Ciascuno nel proprio modo, si intende. Letizia aveva gli occhi verdi, verdi in un tono qualsiasi, nulla di travolgente. Lo stesso a Mirco sembrarono straordinariamente verdi quando si accorse che già nei primi timidi discorsi i sorrisi di lei erano perlopiù diretti a lui. Era una ragazza sensibile che, pur così giovane, aveva amato sul serio Baudelaire e i poeti maledetti. La faceva sognare la musica immortale di Cobain e pensava che nel mondo vi fossero troppe ingiustizie che bisognava in qualche modo combattere. Una volta, in gita, guardando un quadro di Caravaggio, non sapeva perché ma le era venuto uno strano magone, un senso di attrazione misto ad angoscia per quella figura dipinta. Da quell’episodio aveva una paura terribile dei quadri, ma era un segreto che custodiva gelosamente, temendo di essere presa in giro. Sembrava così matura e strutturata nei propri pensieri che Mirco, incapace di comprendere certe sensibilità e completamente dopato dalla bellezza delle tette rotonde di lei, sulle prime se ne stette zitto tutto il tempo pur di non dire una qualche cavolata e rovinare tutto. Maura, la ragazza evidentemente più bella tra le tre, si sentiva una vera attivista guerriera e rivoluzionaria. Certe volte aveva pensato della propria palese bellezza che fosse una scomodità, e che i ragazzi da lei non volessero che “quella cosa”. In realtà non le dispiaceva sentirsi apprezzata, ma era certa di esser destinata a molto di più e di certo lei come priorità nella vita, prima di ogni godimento fisico, avrebbe messo le idee, le idee per le quali certi grandi uomini si erano battuti ed erano morti. Avrebbe fatto carte false pur di poter vivere gli anni della rivoluzione studentesca; lei sì che l’avrebbe vissuto in pieno il sessantotto. In quella vacanza, sotto l’ombrellone, aveva provato (senza minimamente riuscirci) a leggere “Il Capitale” di Karl Marx. Glielo avevano consigliato ragazzi più grandi che frequentavano la facoltà di filosofia, e lei davvero pensava che finito il libro sarebbe stata una persona illuminata. Tuttavia, vuoi il caldo, vuoi il mare bellissimo, posticipò l’illuminazione al rientro dalle vacanze. Alessio, finito il liceo, come massimo sforzo in materia di letture si era dato anima ma soprattutto corpo al “Postalmarket” ricevuto per posta regolarmente dalla madre. Cinque/sei pagine di catalogo dedicate ai completi intimi
40 femminili, roba da diventarci cieco per davvero. Tuttavia quando inevitabilmente toccarono l’argomento socio-politico (per Maura certe discussioni erano imprescindibili pure sulla spiaggia Rodi, pure con tre ragazzi appena conosciuti e pure sotto trentadue gradi) ascoltò tutte le agitazioni della bella e combattiva ragazza annuendo sistematicamente. Lui, che era nero come il duce, ma all’occorrenza anche anarchico; e polemico per natura, e ateo alle volte, e sicuramente bestemmiatore, e lo stesso cattolico in direzione esclusivamente anti mussulmana quando capitava. Appoggiò perciò ogni frenesia della contestatrice: che il sessantotto andava rifatto dalla loro generazione, che prima era fallito perché i tempi non erano maturi, e che lei era pronta a manifestare con tutta la sua forza, a dare la vita pur di fermare la dannata globalizzazione che avrebbe di certo distrutto il mondo prima o poi. Non ce la fece Maura a fermare il mondo globale, ma lo stesso infervorò tutta la piccola platea nel comizio di quel pomeriggio, sotto un sole assassino, coi corpi ammassati sui teli mare posati sul bagnasciuga manco fossero un branco di otarie sudamericane. Non era certo luogo da agitazioni politiche quello, ma la decisione che emanava la voce sottile di Maura catturò tanto Damian che a un certo punto si rammaricò di non aver con sé la macchina fotografica per poterne congelare l’espressione. Avrebbe potuto esserne anche attratto fisicamente, ma aveva colto fin da subito quanto Alessio vantasse una specie di diritto di prelazione verso lei, e non avrebbe mai disturbato quell’ardore dell’amico. Infatti, nonostante non fosse mai stato un playboy, l’altro si era immediatamente convinto che la splendida ragazzina sarebbe presto crollata ai suoi piedi. In fin dei conti lui era quello che aveva pestato Massimo Tarcisi. Trascorsero tutto il resto della vacanza in compagnia delle ragazze. D’improvviso era come essere fidanzati, e né Mirco né Alessio (figuriamoci Damian) lo erano mai stati. Per tutti i giorni a venire, ogni mattina, dopo l’assurda colazione continentale in hotel i tre avrebbero inforcato i motorini a nolo e via, subito a prelevare le ragazze dal loro villaggio. E anche loro, le ragazze, per tutti i giorni a venire prima della partenza li avrebbero aspettati già inguainate nei loro completi da spiaggia minimali, felici di averli incontrati, fedeli come mogli per la durata di quel breve sodalizio. L’isola incontaminata, il mare quasi sempre calmo e più azzurro del cielo, i lidi ancora da esplorare, le lunghe discussioni sulla spiaggia con Maura, i
41 riflessi ramati dei capelli ribelli di Letizia, i silenzi di consenso di Angelica, avrebbero reso quella vacanza la più bella della loro vita. Senza indossare mai il casco, con le narici spalancate verso l’aria calda e sabbiosa dell’isola e con Letizia seduta dietro lui che si stringeva forte per non volar via. Per tutta quella libertà, per tutto quel potere, Mirco si sentì un Dio. “Chissà quanto urlerebbe mamma se mi vedesse senza casco...” Damian riprese a usare la macchina fotografica e consumò dio sa quanti rullini. Per quanto è certo probabile che dietro alla nuova frenesia di scattare ci fosse senza dubbio una traccia di vanto personale, un legittimo desiderio di mostrarsi, non ricominciò a scattare foto col fine di rendersi in qualche modo attraente. Non era come Alessio, che pur di catturare l’attenzione di Maura si sarebbe fatto esplodere. Semplicemente il contatto col genere femminile, circostanza alla quale Damian proprio non era abituato, generò in lui nuove forme di interesse e smosse nell’animo artistico di lui inusitate brezze creative. Tuttavia, pur non avendolo realmente cercato, già nel terzo pomeriggio trascorso insieme Maura, la travolgente contestatrice di estrema sinistra, la guerrigliera armata di un seno immenso e sodo, emigrò dallo scooter di Alessio verso il sedile del pallido e timido fotografo. Damian ne fu ovviamente felice, ma più per una questione di interesse, di genuina curiosità verso quello splendido esemplare di “essere femminile” piuttosto che per una reale attrazione sessuale. Alessio fu tentato di attaccarlo al muro una volta rientrati in albergo, ma poi fu sufficientemente intelligente da capire che Damian non aveva colpe, e che il potere di scegliere lo hanno solo le donne. «Trattamela bene!» disse lo stesso serio e impostato, manco cedesse davvero del suo. Passarono implacabili i giorni. Ci furono discussioni appassionate e chiacchiere più leggere; scanzonati bagni in mare e corse folli su motorini spremuti al massimo. Ci furono battute piacevoli e qualche piccola stonatura, piccoli innocenti bluff dei ragazzi e qualche maliziosa presa di tempo da parte delle ragazze. La consistenza secca dell’aria che levigava le pelli abbronzate, i tramonti mozzafiato sul mare con un sole rosso di come se ne vedono solo a est del mondo.
42 L’isola di Rodi fu l’est oscuro e bizantino della loro adolescenza, e loro, nel modo in cui in fondo avevano sempre sognato, si ritrovarono proprio nel bel mezzo di un rito di passaggio. L’ultima sera cenarono in spiaggia. Quando fu del tutto buio, Damian volle fare una foto delle sue. Non scattò lui a dire il vero, chiese a Maura di farlo. La cosa suscitò in Alessio stupore autentico e un sottile fastidio, perché la sua “Voigtlander Bessa T” Damian non la lasciava toccare proprio a nessuno. «Ah be’, se si hanno quelle grosse cose davanti la macchina la fai usare eh?» insinuò. Ma a Maura bastò un’occhiata raggelante delle sue per uccidere ogni più piccola residua speranza di conquista e demolirgli l’autostima. Damian non si curò di Alessio, era già immerso in una delle sue assenze, e Mirco lo ascoltò raccomandarsi con Maura su dettagli super tecnici che non cercò nemmeno di comprendere «Tienici in posa per settanta, ottanta secondi.» «Il diaframma è a 2.8.» «Con temperatura pellicola 3300 K una lunghezza focale di 15 mm dovrebbe essere perfetta.» Nella preistoria delle macchine fotografiche analogiche, per Mirco come per chiunque altro, tutte quelle informazioni erano come degli intrugli segreti e inviolabili, delle formule oscure. Eppure chissà come mai Maura, che non aveva precedenti nella fotografia professionale, comprese perfettamente tutte le istruzioni. Di fatti rispose solo “OK fidati!” con la sicurezza di chi sa cosa fare. Poi Damian andò a mettersi in posa e passò nelle mani dei due amici delle torce elettriche che chissà come e dove e quando aveva recuperato. Alessio spaesato si imbizzarrì un secondo. «No ma che roba è? Io ‘sta cosa non la faccio! No, no, io a fare ‘ste cavolate con le pile in mano non mi ci metto! Damian ma è possibile che devi sempre complicare tutto?» Ma Damian non lo lasciò fiatare oltre. «Taci un po’ e accendi la pila! Puntala al mento, da sotto.» Ed era così determinato quando si trattava delle sue foto che Alessio, da bravo soldatino, tacque e accese la pila. Ovviamente anche Mirco non esitò un secondo nell’assecondarlo. Maura si compiacque per la dimostrazione di forza di Damian e gli restituì un bel sorriso d’intesa.
43 Letizia pure osservò la scena divertita mentre l’altra, la ragazza di nome Angelica che nel passare dei giorni era stata classificata nella categoria “cosa insignificante che non parla mai”, giustamente se ne stette zitta e muta. «Non muovetevi finché non lo dico io, e guardate l’obiettivo, ma senza facce sceme mi raccomando» aggiunse Damian. A quel punto Maura scattò. Clik Trascorse un minuto abbondante che sembrò interminabile. Mirco avrebbe voluto ridere, ma non poteva perché Damian se la sarebbe presa sul serio, che quando si aveva a che fare con le sue foto, con le sue idee, era capace di incazzarsi per davvero, di tenere il muso per settimane. Alessio perse la posa e prese una boccata di fumo dalla sigaretta che aveva acceso. Mirco allora pensò che sarebbe successo un gran casino, ma non fu così. «Ancora meglio…» mormorò anzi Damian compiaciuto, e subito dopo liberò i due e se stesso dalla prigione di quella postura forzata. Dopo aver accontentato i desideri di Damian l’intero gruppo decise di trascorrere l’ultima notte in spiaggia (Angelica ovviamente si espresse per silenzio-assenso). L’indomani il volo di un aereo li avrebbe divisi, ma la notte che arrivava era carica di entusiasmo e aspettative, e a quel punto Alessio schiumava testosterone pure dagli occhi. Accesero anche il fuoco in spiaggia; un cult. Usarono la legna secca radunata da Alessio e dalla muta Angelica. Mirco si premurò di disporre dei grossi sassi in cerchio per formare un braciere spartano e ridurre al minimo ogni rischio di combinare qualche guaio con le fiamme, ma in ogni caso nessuno venne a sindacare sul loro falò e tutto filò liscio. Si sedettero poi in cerchio intono al fuoco e a Damian piacque moltissimo quel tepore non filtrato che le fiamme proiettarono sul suo viso. Maura, il volto arancione per i riflessi delle legna in combustione, disse sospirando: «Ragazzi ma chi se la scorda questa vacanza?» Il mare, appena qualche bagliore umano al largo, davanti a loro non era che uno spazio nero e vivo che scuoteva rumoroso strati di ciottoli senza colore. L’aria, calda di fuoco sui visi, inumidiva le loro schiene dando vita a piccoli brividi. Ascoltarono la legna sibilare e scoppiettare, ed era tutto così magicamente preciso, tutto così esattamente come nella più bella delle previsioni, che Mirco con uno slancio raro esclamò «Che spettacolo! Bisognerebbe fermare il tempo!»
44 Subiva infatti già di un piccolo dolore per la separazione che sarebbe arrivata. In breve tempo Alessio riuscì a defilarsi dal gruppo in compagnia della ragazza poco avvezza alla parola, Angelica, vero e proprio ripiego dopo la delusione con Maura. Mirco pure si staccò con Letizia; ci mise più tempo, ma riuscì ad dileguarsi dal falò. Damian e Maura invece rimasero lì, e quando le altre coppie ritornarono dai loro rispettivi allontanamenti li ritrovarono proprio nelle stesse posizioni, così intenti, così tuffati nelle discussioni sull’uomo, sulla sua natura, sulla sua anima e sui massimi sistemi, da sembrare non veri, grotteschi. Mirco e Letizia si allontanarono abbastanza perché potessero buttarsi su di un telo mare terribilmente impregnato di umido terriccio; poi presero a baciarsi con una voracità naturale, con un impeto che Mirco mai avrebbe pensato potesse appartenergli. Gli sembrò comunque tutto piuttosto semplice, intuitivo, e non fece nulla se non abbandonarsi completamente agli eventi senza pensare alle ripercussioni, senza badare alle conseguenze. Non si vergognò di mostrarsi completamente nudo davanti a lei; nemmeno se la pose la questione quando, scivolando col proprio corpo dentro a quello di lei, ebbe la sensazione di sprofondare in un caldo miele. Perse la verginità in quella spiaggia, una notte di agosto, a Rodi. Fu bellissimo, spontaneo, emozionante. Fu così perfetto che dopo quell’esperienza non si sarebbe mai dimenticato di Letizia, dei suoi occhi verdi assolutamente normali per chiunque meno che per lui. Non ci si dimentica mai della prima volta del resto. Fu la prima volta pure per Alessio, e fu un vero disastro. Combinò già in partenza un gran casino col preservativo. Lo scartò, lo girò, gli cadde, lo rigirò, quando finalmente gli riuscì di indossarlo, imbarazzato, si ritrovò col coso ammosciato come un polpo sbattuto sugli scogli a frollare. Ci volle tutta l’abilità di Angelica per risollevare la situazione, e Alessio analizzò come la bocca di lei certo non fosse buona per la comunicazione ma avesse in effetti altri spiccati talenti. Sicché riuscì a entrare, ma non durò due colpi che un orgasmo incontrollabile lo accartocciò come un limone spremuto. «Non fa niente dai…» si limitò a dispensare impassibile lei e lui, sprofondato nella vergogna, si consolò pensando che vista l’indole taciturna della partner non sarebbe venuto fuori nulla nel resto di serata. L’indomani Alessio avrebbe farcito tutto il viaggio di ritorno in aereo con dovizia di particolari riguardo alla sua notte con Angelica. Avrebbe spiegato
45 come l’aveva messa, come l’aveva girata, cosa le aveva fatto; e ne avrebbe sparate di davvero grosse pur di gonfiarsi davanti agli amici increduli. Damian invece non avrebbe confessato proprio nulla, nemmeno una singola immagine visiva riguardo al tempo trascorso in solitudine con la stupenda Maura. Quando Alessio lo canzonò dicendogli “Tu sei proprio frocio mi sa…” si limitò a un inappuntabile e laconico “Ma vaffanculo Alessio”. La vacanza più bella della loro vita finì dunque; con l’amarezza nella gola e lo sguardo rivolto fisso al mare, lui sì sempre blu ed eterno, impassibile nell’assistere alla scena di loro che risalgono la scaletta ripida del volo economico prenotato dalla madre di Mirco. Quando, poche ore prima del volo, era stato il momento dei saluti con le ragazze, si erano giurati di risentirsi e di rivedersi una volta tornati in Italia. Non le avrebbero più né viste né sentite. Nemmeno Damian con Maura, nemmeno Mirco con Letizia, nonostante le avesse detto, senza realmente capire la portata di quella affermazione, che l’amava. Prima che trascorresse settembre, Damian aveva già sviluppato tutte le sue foto della vacanza. Le portò con sé al solito parcheggio di ritrovo per poterle mostrare ai due compagni. Era un pomeriggio già fresco, di quelli che se non stai attento rischi di ammalarti. Sfogliandole, Mirco cercava Letizia e il suo sorriso, anche se ormai cominciava a mancargli in misura minore rispetto ai primi struggenti giorni. I ragazzi si divertivano nel rivedersi e nel ricordare i momenti legati a quelle immagini; era, quella di passarsi le foto di mano in mano, un’attività che li riportava indietro a momenti più piacevoli, una piccola possibilità di fuga, di riapprodo all’isola di Rodi. Capitò poi in mano a Mirco la foto della spiaggia. Sulle prime strabuzzò un po’ gli occhi, come se pensasse a un errore di sviluppo, come se si trattasse di un’immagine intrusa, poi realizzò. Davvero non si capacitava di come Damian fosse stato capace di rendere i loro corpi trasparenti. Le tre torce accese di fatti illuminavano sì i volti nel buio della spiaggia, ma senza che la luce riuscisse a dare profondità e materia ai corpi, senza che le facce ricevessero spessore e prospettiva. Chiaro che quel prodigio fosse figlio delle stramberie tecniche con le quali Damian aveva diretto lo scatto di Maura, ma lo stesso Mirco e Alessio rimasero completamente stupefatti da quell’effetto speciale.
46 «Cazzo che figata Damian! Sembro l’uomo invisibile!» esclamò eccitato Alessio. E Damian si solleticò di innocente vanità, tanto fu l’entusiasmo che percepì nei due amici. Era uno scatto molto bello, va ammesso, e la posa eterna alla quale Damian aveva costretto se stesso e gli altri due soggetti disegnava dei contrasti di consistenza tali da rendere la fotografia eterea, irreale. Le gambe erano palpabili, presenti, ma il busto e il viso - illuminati dal fascio di luce artificiale si erano smaterializzati ed erano percepibili solo nei sommi tratti, essendo però privi di ogni densità umana, divenuti aerei. La sigaretta fumata da Alessio disegnava una sottile linea luminescente che brillava rossa nella notte come fosse un raggio laser zigzagante mentre - partendo dalla luce al centro, tra i ciottoli bianchi che creavano l’accesso alla spiaggia - si estendeva dietro di loro, incurvata dall’obiettivo della macchina o da un campo di forze oscure, la strada e il promontorio di rocce nude e arbusti secchi. In alto lo straordinario coperchio della volta celeste, miliardi e miliardi di piccoli led accesi nel nero della notte, completava l’immagine. Fu in quell’episodio che Alessio per la prima volta si convinse che Damian era davvero dotato di un talento sopra alla media. Mirco lo pensava da tempo. Per sempre quell’immagine sarebbe stata l’icona della loro vacanza, di quell’agosto lontano, di quei tre giovani imbranati come pochi ma lo stesso completamente liberi di vivere quella meravigliosa isola. Per sempre i tre amici l’avrebbero ammirata con gioia e compiacimento, senza dubbio contaminati dal sottile dispiacere che i più bei ricordi sanno dare. Perché si guarda alle fotografie, a certe fotografie, con una strana invidia; perché loro rimangono, noi no. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD