Le gabbie

Page 1


In uscita il 31/10/2017 (1 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio dicembre 2017 (3,99 euro)

AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolaritĂ come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarĂ priva di queste anomalie.


VALERIA ACQUARONE

LE GABBIE

ZEROUNOUNDICI EDIZIONI


ZEROUNOUNDICI EDIZIONI WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it

www.facebook.com/groups/quellidized/

LE GABBIE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-139-6 Copertina: ecoline di Maddalena Franguelli

Prima edizione Ottobre 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Giorgio

«Gli uomini si trovano spesso nell’impossibilità di far qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile». Vincent van Gogh


Â


Molti dei fatti narrati nel libro sono veramente accaduti, così come molti personaggi sono reali. Però le loro azioni e le loro peculiarità sono state mescolate, come in un gioco di carte, dove si estraggono a caso figure che andranno a formare una storia, scaturita dalla casualità della scelta. Così non si possono riconoscere nel testo storie o persone definite e identificabili, al massimo qualche suggestione può rimandare a una sorta di reminiscenza. In particolare i due omicidi sono puro frutto di fantasia. Per quel che riguarda le parti in corsivo, lascio giudicare alla fantasia del lettore…


Â


7

PREFAZIONE

Basta già il titolo per prefigurare significati esistenziali quasi costretti dentro una possibile ineluttabilità dei destini. Al centro le persone, tante… Agata, Assunta, Gaetano, Marta… vengono introdotte dapprima come tali, descritte dentro il loro contesto (o gabbia?), con un’attenzione quasi nostalgica a oggetti, suppellettili utili a operazioni della cura del vivere quotidiano, attenzione oggi superata dalla tecnologia invadente e risolutiva di molte incombenze del quotidiano, ma forse arida, meccanica. Anche le stagioni, i paesaggi “intorno” alle cose e alle persone hanno un ruolo cadenzato che dà loro sostanza e vita. Dapprima le persone, gli oggetti e i gesti, le atmosfere del vivere… poi pian piano vanno formandosi le vicende, le scelte… i destini intesi come sbocchi finali, quasi annunciati, appunto, attraverso un coinvolgimento crescente di chi legge, che non può non immaginare o supporre o prefigurarsi l’esito degli incontri fra le persone. Questo coinvolgimento del prefigurare, partendo dalle premesse poste dalle persone stesse descritte nel modo che si diceva, lega il lettore e al tempo stesso lo coinvolge quasi come co-costruttore degli scenari che si vanno pian piano delineando… e lo scoprire alla fine la definizione ultima dei percorsi vitali assume il significato ben diverso dalla conclusione di un “giallo”, diventa la riflessione esemplificata della domanda di sempre: chi siamo, di quale libertà siamo titolari, quanto il nostro rassicurante vivere con altri, pur familiari, ci rende realmente capaci di essere nuovi, di uscire dalla gabbia, rinnovando così il mondo intorno a noi? Sono queste alcune delle tante suggestioni che la lettura di questo testo mi ha donato: il lavoro di Valeria credo sia pienamente degno di attenzione di molti lettori. Nulla di quello che narra è estraneo all’esperienza che ciascuno può riscoprire, nella propria storia e nella


8

propria vita: questo è il fine e l’effetto del narrare, della letteratura intesa come riflessione proposta attraverso personaggi, fatti, destini in cui ciascuno possa ritrovare un pezzo di sé. Francesco Cappelli


9

PREFAZIONE

Nell’oscurità si forgiavano le gabbie. Cascate di fuochi sulfurei incidevano con stridore di metallo acuminato come una spada il nero assoluto del sotterraneo, finché la forma finale era compiuta. Ne esistevano di ogni tipo, alcune orrende come antiche gogne, altre con riccioli artisticamente arcuati e morbidi motivi liberty lumeggiati d’oro. Ma sempre di sbarre si trattava, e tra le sbarre si apriva, anzi si chiudeva, una porta, e ognuna aveva la sua chiave. Piccola, grande, arrugginita, con tanti denti o un semplice scrocco: e ognuna apriva una sola porta, la sua. Quando il lavoro era terminato, l’ombra afferrava le chiavi e le gettava sul fondo di un rivolo fangoso che diveniva rapidamente torrente, per perdersi poi in vacuità lontane e sconosciute. Infine le gabbie partivano alla volta dei destinatari, padroni e vittime insieme. Una volta ricevute, la serratura sarebbe scattata per sempre, e la ricerca della chiave perduta avrebbe potuto essere il principio di un percorso iniziatico, ma per lo più chi viveva nelle gabbie ignorava addirittura che tale chiave esistesse.


Â


11

LONTANO

Le ragazze sedevano intente ai loro lavori, sotto la volta a crociera che svettava verso il cielo senza sostegno di malta o di travi, sfruttando il sottile equilibrio delle forze contrapposte che unite portavano alla fusione perfetta delle parti. Su levigate colonne di pietra alabastrina si aprivano come petali archi delicati, dal centro dei quali altri archi lievi sbocciavano, a reggere l’intera struttura, che nemmeno la più violenta tempesta avrebbe potuto scalfire. Il sole, filtrando dalle alte vetrate dai vividi colori, creava giochi d’ambra e di opale mutevoli e cangianti, trasformandoli in cerchi di armonia che si allargavano aumentando via via di diametro. C’era chi tesseva su grandi telai di pesante legno, con i contrappesi di terracotta forata vecchi di secoli, ritmicamente ondeggianti al termine delle lunghe funi di sostegno. C’era chi ricamava, infilando sottili fili strappati all’arcobaleno in crune d’ago quasi invisibili, a legare in maniera indissolubile qualcosa che non conoscevano, ma che sapevano dover essere unito. C’era chi lavorava davanti a grandi cuscini per il tombolo, con un numero incredibile di fuselli, di corallo bianco, consumato dal tempo, e facevano sbocciare fiori fantastici, dai petali sfrangiati e carnosi, con lunghi pistilli in cerca di luce. Tutte sedevano con la schiena dritta e le gambe incrociate. A volte cantavano, una nenia lieve e cadenzata, che dilatava le vibrazioni quasi impercettibili create dal loro lavoro. A volte tacevano, gli occhi persi in vicine lontananze mentre le mani si muovevano da sole continuando a intrecciare l’ordito e la trama del mondo. Un delicato profumo d’incenso mescolato al ritmico susseguirsi di ipnotiche cantilene proveniva da un ambiente adiacente: erano i monaci, che seduti in posizione simile a quella delle fanciulle, salmodiavano i loro indecifrabili mantra, le cui onde, allargandosi


12 concentriche, superavano barriere di tempo e di spazio, cercando di rendere il mondo come doveva essere. Kalòskagazòs, avrebbero detto gli antichi Greci, bello e buono.


13

IL LABIRINTO

Le foglie erano lucide e verdissime, rigide e con un’estremità appuntita, che somigliava vagamente alla spina di una rosa, o alla coda di uno scorpione. Formavano una siepe alta e compatta, che svettava verso il cielo, quasi a sostenerlo, là in cima, azzurro e lontano e del tutto indifferente. La siepe correva ai due lati del sentierino di ghiaietto bianco, immacolato, che pareva appena rastrellato e ordinato da un solerte guardiano. Almeno, fin nel tratto che si poteva vedere, perché la siepe piegava all’improvviso ad angolo retto, incrociando un nuovo viottolo, e svelandone, dopo pochi passi, anche un terzo, che si dirigeva dall’altra parte. Ma era assolutamente uguale ai precedenti, le foglie verdi lucide e puntute, i sassolini bianchi, puliti e rotondi, le svolte che tagliavano la vista e impedivano di scegliere la strada con un minimo di discernimento. Non per niente chiamavano quel percorso “labirinto” una selva di sentieri in apparenza identici che parevano non portare da nessuna parte e che condannavano il malcapitato viandante a infiniti giri alla ricerca dell’uscita o, per i più arditi, del centro e quindi della conoscenza. Ma l’uno e l’altra erano quasi impossibili da trovare.



Â

PRIMA PARTE

CORRENTI



17

CAPITOLO 1

1962 “Devo pensare bene a come muovermi” ragionò Assunta. “Anche se tutti sono convinti che sia una donnetta sprovveduta, incapace di secondi fini, ignara di discorsi finanziari e d’interesse, non sono mica stupida. Lo so bene che senza mio marito, che mi ha sempre accontentata in tutto e per tutto, finirò con il dipendere dai figli. Bravi ragazzi, per carità, li ho educati come si deve, e sanno qual è il loro dovere. Adesso son poco più che bambini, ma presto cresceranno e si sposeranno, e allora, te la raccomando, tra nuore e generi, io sarò solo un peso, con la mia pensioncina da ridere e tutto intestato a loro”. Pochi giorni prima, suo marito aveva sbandato sull’asfalto viscido di una sera nebbiosa, e aveva concluso così la sua esistenza, poco più che cinquantenne. Non aveva avuto una vita facile: dopo i lunghi anni della guerra, Grecia, Albania, ospedale militare per le ferite riportate, alla fine delle ostilità aveva dovuto ricominciare la sua attività da zero, ma aveva avuto fortuna, riuscendo in breve a far decollare la sua piccola azienda. Poi le cose avevano cominciato a dare segni di vulnerabilità e talvolta ad Assunta pareva di vedere il marito preoccupato. Ma continuava a passarle il solito settimanale per le necessità della casa e aveva persino comprato la macchina. A lei era parso di toccare il cielo con un dito e non si era curata d’altro. Poi la disgrazia, la decisione del socio di chiudere, perché gli affari non erano più quelli di un tempo, e lui non se la sentiva di continuare da solo, l’improvvisa e imprevista incertezza per il futuro. Le case, in città e in montagna, sarebbero andate ai figli, il capitale era stato quasi tutto investito nella ditta, che chiudendo, non avrebbe dato più alcun introito: e lei? Assunta ragionava, mentre la fronte le si increspava e lei inconsciamente si succhiava la bocca, come se bevesse da un’immaginaria bottiglia. Poi le labbra si distesero in un sorriso, e un


18 breve scintillio le illuminò gli occhi, di un pallido grigio che poteva diventare metallico, ma che spesso si velava di commozione e innocenza se voleva ottenere qualcosa. “Le firme, ma certo, come mai non ci ho pensato prima? In collegio una volta ci eravamo messe d’impegno a imitarle: era inverno, fuori non si poteva andare e noi avevamo scovato quel sedentario passatempo. Io ero stata bravissima, la più abile di tutte: sapevo riprodurre senza tremolii ricci, aste e pendenze e alla fine veniva una firma più bella dell’originale. Ma sarò ancora capace?” si domandò, poi scosse il capo, era difficile dimenticare le cose apprese da bambini, o almeno così aveva sentito alla televisione, da uno di quegli esperti che sanno sempre tutto. “Non voglio diventare un peso, dipendere dal buon cuore dei figli. Ci sarebbero troppe incognite e io voglio essere sicura di fare come ho sempre fatto”. Sospirò. “Ho ben visto cos’è successo alla mia amica Carla: suo marito non era mancato da nemmeno un anno, e suo figlio, anzi quella serpe di sua nuora, era già in giro a cercare una casa di riposo, e dai e dai c’è riuscita, gli uomini si lasciano far su come niente, bastano due moine al momento giusto… E poi io sono malata, il mio cuore fa sempre i capricci, ho bisogno di cure e di attenzioni: ma per averle, devo essere io la più forte, non come la povera Carla, che è finita in una specie di Bagina, anche se ha un nome più esotico, e per di più in una camera a due letti. Adesso cercano di accontentarmi e coccolarmi. Hanno paura di perdere anche me, ma aspetta qualche anno… non sapranno neppure più che esisto”. Assunta in collegio aveva anche imparato a scrivere a macchina. Prese la piccola Olivetti della figlia e inserì il foglio nel rullo. Regolò le spaziature e cominciò a scrivere: “Io sottoscritto… nel pieno possesso delle mie facoltà…”. La casa in città e la bella villa in collina divennero d’un colpo sue. Sfilò il foglio, firmò, infilò tutto in una lunga busta e la sigillò. Poi aprì il lungo scomparto segreto, dove c’erano l’oro e i gioielli, molti e di valore, perché la suocera era figlia di un gioielliere. Mise da parte i più preziosi, lasciando nello stipo catenine, medagliette, qualche spilla e alcuni bracciali più leggeri. Quindi richiuse il tutto. Era pronta.


19

CAPITOLO 2

Assunta aveva una sua visione della vita semplice e chiara. “Il mondo è cattivo, gli altri cercano solo di imbrogliarmi. Quel che io penso e faccio è giusto e sacrosanto, e nulla o nessuno mi farà mai cambiare idea”. Oltre a vivere secondo queste convinzioni, cercava di trasmetterle anche alla figlia, che aveva la testa fra le nuvole, e meno male che c’era lei a proteggerla… “Ricordati, il mondo è cattivo e se non starai più che all’erta gli altri se ne approfitteranno, dal primo all’ultimo”. Ogni occasione era buona per provare le sue tesi. «Hai visto il materasso? È molto più basso di prima. Certo il materassaio si sarà fatto un cuscino a mie spese… Hai visto che noce hanno piantato qui sotto? Tra un po’ ci porterà via tutta la vista, l’unica cosa bella che abbiamo… Buona la portinaia! Ha voluto la mancia perché mi ha portato un pacchetto: non la paghiamo già abbastanza? Guarda che carne ti hanno rifilato, tutto grasso, e un prezzo da filetto…». Elisa era ormai abituata a tutti quei discorsi e li ascoltava con un orecchio solo. Qualche volta tentava debolmente di obiettare: «Veramente a me le persone sembrano di solito piuttosto disponibili, magari se le cogli in un momento difficile possono sembrare scostanti, ma in fondo non credo che esista gente cattiva, o almeno, non penso di averne mai incontrata». «Beata innocenza, te ne accorgerai presto! Stai attenta soprattutto agli amici, sono i più pericolosi, ti sfruttano quando hanno bisogno di qualcosa e poi nemmeno ti salutano quando ti incontrano per strada… io di amiche non ne ho mai avute, per fortuna… e i parenti, vedi anche tu i tuoi zii e i tuoi cugini, sono capaci di farsi sempre gli affari loro. Quand’è l’ultima volta che li hai visti?».


20 «Ma lo zio c’è sempre stato quando abbiamo avuto bisogno, e il dottore viene ogni volta che lo chiami, anche se succede spesso, e di solito, per fortuna, non hai niente di grave». «Fai presto a parlare tu, che sei giovane e sana, ringraziando il Signore, naturalmente, te ne accorgerai quando la salute sarà solo un ricordo, e ti diranno, come a me, cosa pretende alla sua età? Io farei la firma. E tutto solo per lavarsene le mani». Elisa aveva ormai capito che la mamma non era così malata come aveva sempre fatto credere, anzi probabilmente sotto l’apparenza fragile e delicata si nascondeva una fibra di quelle toste. Era convinta di essere il centro dell’universo, intorno a cui tutto doveva ruotare, seguendo i suoi ritmi, e non vedeva i bisogni e tantomeno i semplici desideri degli altri, paga che fossero i suoi a essere esauditi. L’ultima novità era che faticava a sentire. «Hai sentito, mamma?» si sgolava invano la figlia e lei spalancava i grandi occhi innocenti rispondendo: «Che cosa?», quando non voleva affrontare l’argomento, finché la ragazza, sconfitta, non lo lasciava cadere. Elisa era l’unica persona che Assunta amasse all’infuori di se stessa, e cercava con tutte le sue forze di renderla simile a lei, quindi meno buona, meno ingenua, meno esposta alle insidie del mondo. Intanto se la teneva il più vicino possibile, per difenderla prima di tutto e poi, visto che era lì, per soddisfare le sue necessità, che erano molte e varie, e potevano cambiare radicalmente da un giorno all’altro. Così forse la ragazza avrebbe capito come va il mondo e avrebbe pensato a se stessa, dopo aver pensato alla sua mamma, naturalmente.


21

CAPITOLO 3

Primavera 1978 Elisa era arrivata al limite della sopportazione. Era stata una bambina docile e ubbidiente, di quelle che non fanno i capricci, ringraziano per le piccole cose e non sbuffano quando si chiede loro qualche favore o di fare una commissione. Giocava quando era l’ora, dopo aver finito tutti i compiti, e a scuola prendeva solo bei voti e nessuna nota di biasimo, perché stava attenta, non si distraeva, non chiacchierava di nascosto. Le era sempre parso giusto comportarsi così, ma con il passare degli anni aveva cominciato ad accorgersi che tutto sommato il proverbio “Due volte buono vuol dire stupido” non era del tutto sbagliato. Ora era adulta, aveva il suo diploma e un lavoro fisso. Ma in casa, per la mamma, era ancora la bambina con le trecce che diceva sempre di sì e non aveva desideri o aspettative sue. Le aspettative che poteva avere erano al massimo quelle che sua madre aveva per lei, e che non mancava di elencare, quando aveva finito con la tiritera dei torti che gli altri le avevano fatto, le stavano facendo, o le avrebbero presto fatto. Le diceva che avrebbe dovuto imparare a divertirsi un po’, ma appena programmava qualcosa ad Assunta o veniva il solito male al cuore, oppure scopriva all’improvviso che proprio quel giorno aveva una cosa irrinunciabile da fare: una visita medica, una rogna in banca, un improvviso arrivo di marziani dalla Luna. La spingeva ad andare in vacanza con le amiche, ma poi, quando i primi caldi le portavano in collina, cominciava a lamentarsi: «Cosa farò qui tutta l’estate da sola e senza macchina? Se poi starò male… ma tu non preoccuparti, divertiti finché puoi, io mi arrangerò in qualche modo…». Per molto tempo Elisa si era sentita ingrata e aveva passato le estati a far compagnia alla madre nel piccolo paese semideserto di cui conosceva ogni sasso, poi pian piano un’ondata di ribellione aveva


22 cominciato a premerle nel petto. Nonostante tutti i suoi sforzi per tenerla giù, alla fine era salita ribollendo in superficie, aprendosi dapprima piccoli varchi, ma finendo poi con l’abbattere la diga che sua madre aveva amorosamente cementato fin dalla nascita. Così quell’anno, quando Sara, la sua amica del cuore – perché lei ce l’aveva un’amica, nonostante i consigli materni, anzi un bel gruppo di amici, quelli con cui cantava in un coro e i colleghi a scuola, giovani per lo più come lei, e che non sembravano affatto avere secondi fini – le aveva detto: «Dove vai quest’estate? Io ho avuto un’idea bellissima, anzi una proposta: ti ricordi Enrico, il nostro compagno delle superiori che voleva farsi prete? Ebbene, non solo lo è diventato, ma è anche andato missionario in Brasile». «Veramente?» aveva domandato Elisa, incredula, ripensando alle esperienze con G. S., gioventù studentesca, punto di riferimento ai tempi della scuola, che organizzava incontri di preghiera, gite, esperienze di volontariato, tra cui, per i più coraggiosi, le vacanzelavoro nelle favelas delle città brasiliane. Lei naturalmente non ci era mai andata. Come avrebbe potuto del resto con la mamma? Sara intanto continuava a parlare: «Ha anche invitato noi del vecchio gruppo a raggiungerlo là per le vacanze, a dargli una mano, e a provare un tipo di vita diversa. Te lo immagini?». Sara era eccitatissima, ma Elisa fu assalita da mille dubbi. «E la mamma?» fu la sua prima obiezione. «Ma non è invalida, e tuo fratello comunque d’estate va sempre un po’ da lei. Poi non è sempre lei la prima a insistere perché tu vada in qualche bel posto, a divertirti?». «Lo dice, sì, ma salta sempre fuori qualche imprevisto, e nessuna delle due è tranquilla». «Storie. Pensi di restar giovane in eterno? E poi puoi metterlo sulla buona azione: non vai mica in una SPA di lusso, vai a lavorare per i poveri, trovarne di figlie così!». Elisa non chiedeva che di essere convinta e ben presto si lasciò contagiare dall’entusiasmo dell’amica, e decise che per una volta non sarebbe andata in collina, bensì in Brasile, addirittura in un altro continente. Ma come dirlo a sua madre? Decise di tacere: solo il giorno prima della partenza fece scoppiare la bomba, approfittando della presenza del fratello, giunto per la sua annuale razione di vacanza in famiglia. Il malcapitato quella sera stessa dovette accompagnare


23Â

Assunta al pronto soccorso, per un inatteso attacco di cuore. Ma quando la dimisero, il giorno successivo, Elisa era già in volo e stava attraversando l’oceano.


24

CAPITOLO 4

Agosto 1978 L’appartamento era in perfetto ordine. Gli ottoni brillavano e, anche se nessuno ormai lucidava più le maniglie, lei non mancava mai di farlo con il suo Sidol e la pezzuola bianca che serviva solo a quello. Anche i pavimenti erano lucidissimi, e il piano di marmo del tavolo, di un bel verde marezzato, sembrava un prato in primavera, mentre le foglie di cristallo del lampadario di Murano riflettevano il sole di fine estate, che sbirciava dalle imposte socchiuse. La casa di Assunta appariva sempre così, ordinatissima e senza un granello di polvere, ma quel giorno era, se possibile, ancor più scintillante, perché sarebbe tornata Elisa. “Vedrà come la sua mamma, anche se vecchia e malandata, sa cavarsela, pensa forse di essere indispensabile? Si sentirà in colpa, è il minimo che possa fare”. La figlia tardava, e così la donna cominciò a ripassare la lunga serie dei torti che la vita le aveva fatto, cosa che era solita ripetere a chiunque avesse la ventura di parlarle, ma non c’era nessuno, e allora fece una sorta di riassunto mentale. “Io certo divertirmi non mi sono mai divertita, mai andata a ballare, mai fatto viaggi, vacanze sempre in collina, in una bella casa, certo, ma a tenerla… e mio marito sempre a lavorare, giusto, doveva mantenere bene la sua famiglia, ma quel poco di tempo libero lo passava tutto a giocare a briscola, al bar dell’oratorio, per carità, non certo a soldi, ma insomma a casa veniva giusto per mangiare, e anche il mangiare non gli andava mai bene, troppo salato, troppo cotto, insomma, una soddisfazione…”. E intanto ripassava con il piumino il ripiano già lucido del buffet, mentre le rivendicazioni le si affollavano in testa come uno sciame di vespe arrabbiate. “Sì, certo avevo anche la donna, ma le donne non capiscono niente, dovevo spiegare per filo e per segno come si


25

facevano i lavori, che tanto valeva me li facessi io. Poi, quando avevano imparato qualcosa, se ne andavano, e mi toccava ricominciare da capo”. Guardò con occhio critico il pavimento, non c’erano aloni, e la cera lo faceva brillare come se fosse stato appena piombato. Poi tornò alle sue recriminazioni solitarie. “E la domenica, quando convincevo mio marito ad andare in centro, a guardare le vetrine, per vedere la moda nuova, com’era vestita la gente, bere magari qualcosa… alle 17.00, cascasse il mondo, bisognava tornare a casa per la sua partita… Pover’uomo, sono così tanti anni che è mancato. Per fortuna ho pensato in tempo a provvedere al mio futuro: ho le mie case, i miei gioielli, i risparmi, non devo dipendere da nessuno per le cose materiali… Certo che stare un po’ più vicino alla mamma non guasterebbe… Il Brasile: come si fa ad andare un’estate intera in Brasile? Ma adesso Elisa è qui e si darà una regolata. Tra le due in fondo è lei quella che ha più bisogno, con il suo stipendio di maestrina non può fare certo quel che le pare… Certo, quando non ci sarò più, e lo deciderà Domineddio, i miei figli avranno tutto quel che ho, ma spero che manchi ancora un bel po’ di tempo…”. Al pensiero Assunta sorrise: per adesso lei era la mamma, i figli le dovevano obbedienza e così sarebbe stato ancora per molto molto tempo. Il trillo del citofono la strappò dalle sue elucubrazioni: spalancò la porta con il suo sorriso più angelico stampato sulle labbra truccate con discrezione. «Mamma, ciao, sono tornata» le disse Elisa spingendo avanti un giovanotto. «Questo è Mateo, il mio fidanzato, starà ospite da noi finché non troveremo una casa». Poi si fermò, come se lo sforzo di quel discorso le avesse prosciugato ogni energia, ma Assunta non la guardava più e continuava a sorridere perché si era dimenticata di distendere le labbra, mentre i suoi occhi si allargavano molto più di quando voleva fare la vittima per ottenere qualcosa. La sua lingua, per una volta nella vita, non riusciva a spiccicare parole. Alto poco più della figlia, capelli a lunghe ciocche un po’ arruffate e un colorito color cappuccino, di cui non poteva essere responsabile neppure il sole dell’Equatore. «Buongiorno, señora!» le sorrise imperturbabile, tendendole la mano. Assunta vi si aggrappò, non per cortesia, ma temendo che se non l’avesse fatto sarebbe crollata a terra. Poi si scostò per far entrare la coppia.


26Â Â

Sotto gli archi di alabastro la ragazza sedeva, gambe incrociate, schiena diritta. Le sue dita sottili ma forti legavano in nodi perfetti il tappeto variopinto che stava intessendo. Aveva vicino le matasse appena staccate dall’arcobaleno, che luccicavano e parevano bagnate di rugiada. Strinse un nodo praticamente invisibile, se non a un occhio esperto. Nessuno là sulla terra sarebbe riuscito a scioglierlo.


27

CAPITOLO 5

Settembre 1982 Il bambino era grassottello, con una faccia rotonda e allegra, come nei disegni infantili, e una larga bocca sdentata gli si apriva di continuo in un sorriso radioso. Tendeva le manine grassocce verso di lei, gorgogliando parole incomprensibili, ma che per lui dovevano avere profondi significati. Assunta arretrò leggermente, e nessun sorriso le spuntò sulle labbra, mentre lo guardava con aria critica e sospettosa. Certo che da loro non aveva preso niente, del resto come sarebbe stato possibile? Era per metà di una qualche razza strana, di quelle che venivano da lontano, chissà da dove, e non avevano nessuna educazione. Le faceva venire in mente i nuovi vicini che avevano invaso il suo quartiere a mano a mano che i vecchi erano andati via, chi al cimitero, chi alla casa di riposo, e così su per l’androne aleggiava un odore persistente di aglio e di fritto rivoltante. Il bambino, ignaro, continuava a sorridere, e Assunta sospirò, esaminando la cosa che più la infastidiva: la pelle ambrata, che nessun sole avrebbe potuto colorare così, e pensare che loro in famiglia avevano avuto sempre una carnagione chiarissima, che al sole al massimo si arrossava, e si copriva di lentiggini, cosa che a lei aveva sempre dato fastidio, ma che adesso le pareva il massimo della distinzione. Eppure erano tutti in adorazione di quel bambino, che bello, che bravo, sembra un torello, hai visto che roba? Lei faceva un sorriso storto, si stringeva nelle spalle e sospirava. «Fanno tutto da soli, ma poi, se non ci fosse la mamma…». La mamma naturalmente era lei, e che cosa facesse poi non lo si poteva immaginare, visto che praticamente il piccolo non l’aveva mai preso in braccio. Il cuore, si sa, non le avrebbe mai permesso una tale fatica e, quanto ad altri tipi d’aiuto, be’, erano giovani, che se la sbrogliassero loro. Certo, quando lei si era sposata, suo marito l’aveva subito fatta


28 stare a casa dal lavoro, perché era la giusta aspirazione di ogni uomo che si rispettasse. Sua figlia, invece! Doveva darsi da fare e sgobbare tutto il giorno, perché il marito, anche se volonteroso (e meno male!) non aveva nessuna qualifica e si accontentava di quel che trovava. «E poi sempre con quel sorriso sulle labbra, credo bene, l’ha ben trovata lui l’America in Italia!». Assunta in geografia non era troppo ferrata, e non sapeva bene dove fossero gli States e dove fosse il Brasile. Elisa si affacciò alla porta con la sacca del nuoto sul braccio. «Mamma, noi andremmo in piscina… non è che puoi tenere Tomaso qui con te per un paio d’ore?» chiese esitante. Assunta assunse un’aria compunta, già erano ospiti nella sua casa in collina per le ferie estive, anche la baby sitter doveva fare? Non ci pensava neppure lontanamente. “Santa Elisabetta, chi se li fa se li lecca” pensò malignamente. «Mi piacerebbe proprio ma sai, col mio cuore non c’è da fidarsi… poi ricordatevi di non far tardi, dovete portarmi giù dalla parrucchiera che ho i capelli tutti in disordine, e devo fare qualche commissione, soprattutto le medicine, son quasi finite». Mateo si stava avvicinando, con il suo passo dinoccolato e l’eterno sorriso. Assunta si affrettò a elencargli le sue incombenze: «Tu ricordati che devi tagliare l’erba, guarda quella dei vicini com’è sempre curata». Gli dava del tu non per simpatia, ma per sottolineare una sorta di superiorità. «Certo» l’uomo annuì. «Poi devi dare un occhio alla porta della cantina, che si fa una fatica bestia a chiuderla, e accorcia anche quelle frasche, che loro…» e indicò con il mento la casa di fianco, «fanno apposta a farle venire dalla mia parte, mentre voi» e accennò di nuovo con il mento, stavolta rivolgendosi ai due, «non dite mai niente, e anzi parlate più volentieri con quelli lì che con me, che sono la mamma…». Mateo annuì di nuovo sempre sorridendo, mentre Elisa prese in braccio il bambino senza dir niente e tutti e tre salirono sulla macchinetta posteggiata lì sotto. E pensare che quei paesani cui lei aveva sempre dato i vestiti smessi e altre regalie che un tempo neanche si sognavano, adesso avevano certi macchinoni che arrivavano da qui a là; oltretutto in quel paese, con le strade strette e senza marciapiedi, facevano fatica


29

a passarci però facevano la loro bella figura, mentre sua figlia andava in giro con quel trappolino che faceva ridere solo a guardarlo. Per forza, ragionò per l’ennesima volta fra sé e sé: “ha voluto sposare un mezzo nero, spiantato e senza ambizioni. Povera figlia mia!”.


30

CAPITOLO 6

La gabbia era pulitissima e luccicava addirittura; non c’era un granello di polvere in nessuna giuntura, nemmeno una patina leggera oscurava il piccolo sportello la cui chiave era stata tolta e gettata giù in fondo, nel rigagnolo melmoso. Assunta non sapeva né che esistesse una chiave, né tanto meno di essere chiusa in una gabbia. Era il suo bozzolo protettivo, la sua difesa, la sua ragione di vita. La lucidava dalla mattina alla sera, impedendo a chiunque di entrarvi, ricorrendo a ogni mezzo per farlo, e per nulla al mondo ne sarebbe uscita. In realtà non sapeva nemmeno che un’uscita fosse possibile, era un pensiero che nel suo cervello non si era mai formato. O se l’aveva fatto, era successo come quando le bolle tentano di arrivare in superficie, ma si dissolvono prima di riuscirci, senza mai assumere una forma, seppur vaga ed evanescente. Assunta osservava critica il bambino, che agitava le braccine ridendo con la larga bocca sdentata. In mano stringeva qualcosa, pareva di metallo, luccicava. «Elisa!» sospirò con voce lamentosa. «Vieni a vedere tuo figlio, ha qualcosa in mano, guarda che non combini guai!». «No, mamma, non ha niente, stai tranquilla». «Eppure, l’ho visto brillare, un cucchiaino, no, mi pare una chiave… dove l’ha presa? È forse della porta sul giardino? O è quella del mio beauty-case? Guardaci tu, che non faccia un danno, mi righi qualche cosa, o peggio ancora me la perda». Che il piccolo potesse farsi male non le passò neppure per la mente. Tanto era sempre lei la vittima, quella che pagava per tutti. Ecco che cosa ci si guadagna a essere troppo buoni! Elisa salì le scale, lo faceva di continuo, perché Assunta si spostava da un piano all’altro solo se aveva una ragione precisa, che gli altri non dovevano conoscere, e per il resto era un continuo chiamare, per


31

qualcosa di urgente e indispensabile, dalle forbicine per la manicure agli occhiali per leggere, se aveva quelli da miope, o per vedere lontano, se stava leggendo. «No mamma, stai tranquilla, Tomaso non ha proprio niente in mano». La chiave era già tornata nei gorghi freddi e neri del fondo, finendo per incagliarsi sotto le asperità di un sasso, dove nessuno avrebbe più potuto estrarla, nemmeno le piccole dita affettuose di un bambino.


32

CAPITOLO 7

Estate 2000 Fuori il panorama era molto bello, pini altissimi cercavano di acchiappare le nuvole che galleggiavano pigre nel cielo velando per un attimo le cime delle montagne scoscese per poi allontanarsi e scoprirne la neve, che ancora ricopriva i picchi più alti benché fosse già maggio. Tomaso tirò su i pantaloni della tuta, arrotolando l’elastico: ugualmente quelli tesero a scendere, riempiendolo di gioia. Funzionava, stava dimagrendo davvero! La sua faccia rotonda, che pareva impastata di sole e di creta, si aprì in un largo sorriso, mentre si avviava al grande refettorio situato a pianterreno. Di grande c’era solo il salone, perché il resto era ridotto ai minimi termini: le porzioni erano risibili, da lager, gli venne da pensare, ricordando quante volte il dietologo di turno, in tono a volte scherzoso a volte sufficiente, gli aveva detto: «Dai campi di concentramento nessuno è uscito grasso». Certo, a lui piaceva sia mangiare, sia far da mangiare. Fin da piccolo, otto, nove anni, si era specializzato in due ottimi sughi, quello normale e quello delle feste, e spesso Elisa, quando tornava tardi dal lavoro, telefonava al figlio e gli diceva: «Tomaso, metti su un po’ di riso». E poi lui lo condiva bene, con tanto formaggio e olio. Ma verso i cinque anni aveva cominciato a ingrassare e avere un po’ di pancia, così la mamma l’aveva messo a stecchetto consultando una serie di medici che gli avevano scritto montagne di diete. Lui aveva cercato di seguirle abbastanza scrupolosamente, ma aveva avuto risultati nulli o al massimo transitori. Socchiuse gli occhi e tornò ai giorni della sua infanzia. «Guarda, Tomaso, oggi ti ho preparato una merenda speciale» gli aveva detto un giorno la mamma mettendogli nel sacchetto un melograno rosso e giallo, come il sole di sera sul mare.


33

«All’intervallo ti invidieranno tutti, altro che pizze e focacce, guarda qui che meraviglia!». In effetti allora quei frutti erano una rarità, di solito ne mettevano uno nei cesti natalizi, con qualche chicco d’uva, ad augurare abbondanza e prosperità. Così in classe tutti gli si erano fatti intorno, incuriositi. «Che bello, è buono? Me lo fai assaggiare? Anch’io, anch’io, danne un chicco anche a me!». Lui ci aveva pensato un po’ su, poi l’idea tipo lampadina nei fumetti che si accende all’improvviso. «Facciamo cambio» aveva detto deciso. Detto fatto, i compagni avevano fatto a gara nel cedergli quanto possedevano per pochi magici chicchi. Era stata la merenda più bella della sua vita. A casa la mamma gli aveva chiesto: «Allora? Ti è piaciuto?». Lui aveva annuito soddisfatto, chiedendo: «Me ne dai un altro per domani?». Ma la mamma aveva scosso il capo: «Non ne ho più». E la pacchia non si era ripetuta. Poco male, tanto lui si divertiva lo stesso: anche se era obeso, e oltretutto con la pelle un po’ più scura, aveva un bel gruppo di amici fedeli, e non era mai stato emarginato o bersaglio di scherzi. Si ricordava quando in prima media i nuovi compagni avevano provato a prenderlo in giro. Erano bastati un paio di pugni ben dati, e gli scherzi erano subito finiti, e tutti l’avevano rispettato. Certo, ai suoi coetanei piacevano cose un po’ diverse che a lui, come giocare al pallone: Tomaso proprio non capiva che gusto ci si provasse a correre dietro a una palla magari fangosa per quasi due ore, e certe volte non si riusciva nemmeno a fare un goal. Anche la sua mamma continuava a ripetergli: «Forza, vai giù a giocare a pallone con gli altri bambini». Ma lui preferiva starsene con la sua musica, o inforcare la bicicletta, e correre e fare impennate e scarti improvvisi. Gli piaceva anche immergersi nell’acqua: era capace di passare ore con il suo fucilino davanti alla tana del polipo che aveva visto infrattarsi tra le rocce e, quando quello si sentiva sicuro, zac, tirargli una fiocinata e conquistarlo. «Mamma, mamma, vieni, l’ho preso!» gridava con tutto il fiato che aveva. «Tiralo fuori, presto!». A lui faceva un po’ schifo toccare la sua preda e ancor più l’idea di mangiarla. Ma il papà gli aveva detto molto seriamente che si uccide un animale solo se è necessario per la propria sopravvivenza. Be’, non


34 sarebbe certo morto di fame se non lo avesse mangiato, però quel che è giusto è giusto. «Mamma, stasera lo cucini, vero?». E la mamma, santa donna, puliva, arrostiva e mangiava, con buona pace di tutta la famiglia. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.