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DANIELA LEONE
Ricordi di Ghyoron Libro I
Le ninfe di Alyari
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LE NINFE DI ALYARI Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Daniela Leone
ISBN: 978-88-6307-383-6 In copertina: Immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Settembre 2011 da Logo srl Borgoricco - Padova
A mio nonno, ancora e per sempre
1. Prologo
Il mio nome è Soral. Tuttavia non è importante che lo ricordiate. Potete scordarvene, come chiunque ha fatto. In questo libro io non ci sono; inutile cercarmi tra le pagine, perché non parlano di me. È pur vero che una parte l’ho avuta ed è certo che non ne vado fiero. Non ho intenzione di rivelare chi sono, o di chi sono figlio. I miei genitori sono fondamentali in questa storia, io e i miei fratelli non ne siamo ancora parte. Ho aiutato mio padre a scatenare una serie di eventi che gravi conseguenze ebbero sugli abitanti della terra di Ghyoron. Mi sono lasciato convincere poiché il mio orgoglio ha avuto la meglio. Fu per la mia bravura nel dominare i fulmini; erano trascorsi secoli dall’ultima volta in cui mi ero sentito utile. Perciò mio padre mi convinse, per quanto io sospetti che avrebbe anche potuto fare a meno del mio aiuto. Ma non è mia abitudine scatenare le tempeste, abbiate la bontà di ricordarlo, e certo non sono il solo a ricorrere all’elettricità quando occorre. Comunque sia, non è di questo che voglio parlare La storia che leggerete e le mani che la muovono hanno una sola (fondamentale) causa scatenante, antica perfino più di quanto lo sia io. Il potere. La sete di potere. Il bisogno viscerale di ottenerlo, esercitarlo. Non so se possa esistere qualcosa di più forte. Ignari di tutto ciò, sei bambini muovono i loro primi passi. Le loro età sono diverse, così come i loro destini. Li incontrerete in queste pagine, diretti verso azioni che non del tutto potranno controllare. Molto li unisce e molto li divide; di più non posso dire, non ancora. Solo uno di loro è nato sui monti, gli altri vengono dalle vallate. Le città delle vallate iniziano tutte per “S”; curioso, ma non ne conosco il perché. Anche in questo, però, esiste un legame, poiché il figlio dei monti ha nome Samir. Una coincidenza? Forse sì. O forse, come alcuni di voi già penseranno, i nomi dei personaggi non sono quelli reali; dato
che mi chiamo Soral, e che sono io a scrivere, potreste sospettare che abbia modificato le parole per diletto personale. Che sia così o meno, che Soral sia o meno il mio nome, non fa differenza alcuna. Non scriverò in prima persona, cosicché vi sia più facile dimenticarvi di me. Desideravo essere amato e ricordato, come tanti dei personaggi di questa storia. E come alcuni di loro, per questo motivo smarrii la strada. La fame di amore fa buon gioco alla sete di potere; tutto potete dire di mio padre, ma non che sia un ingenuo. Quando venni richiamato al mondo, i bambini di cui vi ho parlato erano tutti già nati. Fu dal maggiore di loro che ebbe origine la mia vergogna. Mia madre ancora non sa che sono qui, non oso rivelarle il mio ritorno, così come mio fratello e le mie sorelle. Ci nascondiamo, solo nostro padre sa come trovarci. Può bastare. È arrivato il momento che io inizi questa storia. I bambini sono cresciuti, adesso. Le loro infanzie e i segreti che racchiudono, però, non sono stati cancellati e grande peso avranno nei loro cammini. Perché narrare questa vicenda? Non saprei dirlo, so che mi sento in dovere di esserne testimone. Spero mi accorderete la clemenza di giungere alla fine del racconto. Addio dunque, e buona lettura. Sinceramente vostro, Soral
2. Le vallate, anche
Le piaceva farsi svegliare dalla luce, più che dal rumore. Lasciava che il sole del mattino filtrasse dalle finestre della sua camera. Viveva in una città luminosa, priva di alberi o superfici che potessero generare ombra, se non quelle costruite dagli umani, ma erano edifici a non più di un piano, a eccezione del castello. Serenella: la capitale delle vallate, la zona sud orientale della terra di Ghyoron. Reelia non era ostile alle terre al di fuori delle vallate. Però non le importava davvero, non ancora. Le piacevano la sua casa e la sua vita. Si svegliava di buon umore al mattino. Quasi sempre. Quel giorno si svegliò prima ancora che il sole sorgesse, spaventata e sudata. Quello strano incubo l’aveva già turbata più volte in passato. Ultimamente le capitava con una frequenza maggiore, ed era così vivo e nitido da svegliarla bruscamente. Vedeva una bambina, un palazzo in fiamme, sentiva urla e pianti. Poi compariva Tysen, la donna che l’aveva allevata e che le mancava ferocemente. Tysen correva, aveva paura, e nemmeno la dolcezza dei suoi occhi poteva nascondere il suo stato d’animo. Un rumore sordo, un sorriso cupo e forzato, una luce accecante. Il risveglio. Reelia cercò l’acqua sul comodino. Il suo bel viso dalla carnagione rosea era pallido e freddo. I corti capelli color miele le si erano appiccicati sulla fronte coprendole le morbide guance e le gote solitamente rosso acceso, adesso esangui. I grandi occhi neri ospitavano uno sguardo smarrito in ricordi che non riusciva ad afferrare. Rimase a letto accovacciata per qualche minuto. Lentamente cercò di tranquillizzarsi, di dirsi che era stato un brutto sogno, che adesso l’attendevano l’alba e il resto del giorno. Visto che era così presto, poteva veder sorgere il sole. Scese dal letto. Andò a sciacquarsi il volto, la mente le si schiariva e la lucidità tornava a farsi strada. Indossò un abito dalla gonna ampia e i colori vivaci, legò i capelli con un fiocco in tinta. L’effetto era decisamente femminile, le piaceva. Era quasi l’alba, si affacciò per vedere il sole. La luce le ridie-
de entusiasmo, e fu pronta per iniziare la mattinata. L’incubo era già un ricordo quando uscì. La sua casa era distante dal centro, poco lontana da quel che rimaneva delle antiche mura, ma camminare le piaceva. Spesso usciva dalla città e passeggiava per ore nelle vallate. Amava quel paesaggio. Grandi distese verdi, con dolci colline e piccoli fiori di ogni forma e colore. Nessun albero, solo cespugli, ma venivano coltivate differenti specie vegetali, ortaggi per lo più, soprattutto nelle zone più prossime al mare, separato dalla pianura da una spiaggia di sabbia finissima e bianca. Fino al mare, però, non si era mai spinta. Era già quasi a metà strada quando vide Oriveo cavalcare nella sua direzione. Il principe la raggiunse e si fermò. «Che fai da queste parti?» salutò lei. «Avevo voglia di una cavalcata prima della lezione.» Oriveo aveva una voce ferma e profonda, Reelia la trovava piacevole. Non amava eccessivamente i cavalli, invece. L’erede al trono scese dalla sella e proseguirono entrambi a piedi. Gli abitanti di Serenella erano abituati alla loro amicizia e nessuno si stupiva di vedere il principe a passeggio con la figlia adottiva di una sarta. Avevano entrambi una ventina d’anni, ma Reelia non raggiungeva il metro e mezzo d’altezza; Oriveo la superava di quasi trenta centimetri. Camminarono costeggiando il fiume, che in origine circondava la città per tre quarti prima di proseguire verso il mare. La capitale era stata costruita all’interno di una zona protetta e recintata dalle acque del Tavi, il piccolo fiume che partiva dal Vodi, il grande fiume che divideva la terra di Ghyoron. All’inizio Serenella non superava il suo confine naturale, ma col tempo era cresciuta e adesso il Tavi correva tra una casa e l’altra, solcato da ponti e dotato di un servizio di piccoli traghetti. I margini della città si confondevano con le vallate. Anche delle mura che difendevano il castello e la città dal lato senza fiume era rimasto ben poco, dopo che i nani le avevano attaccate.
JK Kelagar e Bryzal cavalcavano affiancate. Erano partite da Sevinia al tramonto e non si erano fermate per la notte. Bryzal non mostrava alcun segno di stanchezza, Kelagar si sentiva sul punto di svenire, anche se
probabilmente non era per la cavalcata in sé, ma per ciò che l’attendeva dopo. Erano le prime ore del mattino, la luce iniziava ad affacciarsi attraverso le foglie degli imponenti alberi. Non era mai stata nei boschi; dopo aver lasciato le vallate e attraversato il Vodi, lo scenario intorno a lei era di colpo cambiato. Si era trovata in un ambiente folto e verdeggiante, circondata da tronchi secolari. Pensava che i cavalli dovessero faticare a passare, intralciati dai rami e dal sottobosco rigoglioso di cespugli colorati e arbusti carichi di frutti. Eppure Bryzal non accennava a volersi fermare, o proseguire a piedi, sembrava non far caso neppure alla fredda nebbiolina azzurrognola che in alcuni tratti le avvolgeva. Kelagar non sapeva cosa fosse, le piaceva, la faceva sentire bene. Aveva chiesto spiegazioni alla compagna. Lei era stata vaga, aveva detto che era normale in quelle zone del bosco dove gli alberi sono più fitti, il terreno è solcato da piccoli torrenti e tra l’erba crescono piante selvatiche dalle proprietà mutevoli. Non che fosse una spiegazione, ma ammirava quella donna, cercava di non infastidirla, e sperava che lei non cambiasse opinione sul suo conto.
JK Era quasi il momento della lezione; Reelia e Oriveo raggiunsero la scuola nel centro della città. Le due ore successive passarono velocemente; l’argomento del giorno erano gli animali dell’habitat delle amazzoni, come i gatti del deserto, i bufali scarlatti e i piccoli raptor. Il maestro Agàn riteneva che tutti gli animali andassero conosciuti, anche quelli delle zone più remote, poiché la magia neutra poteva permettere ai più abili di comunicare con essi, però nessuno dei suoi studenti aveva mai visitato quelle zone e in parte dubitavano dell’esistenza di simili creature. Si diceva che da giovane Agàn avesse visitato ogni terra conosciuta di Ghyoron. Le colline e i monti, sopra le vallate, i boschi, verso ovest, e perfino le lontane terre deserte delle amazzoni, a nord dei boschi. In genere gli abitanti della città non erano inclini ai viaggi, e al massimo si erano spinti fino al mare, al confine est delle vallate, ma a lasciare le terre degli umani erano stati davvero in pochi. Agàn viveva a Serenella da una trentina di anni circa. Non aveva raccontato niente del suo passato, se non al defunto re Helif, che lo aveva
accolto e gli aveva affidato la cattedra di magia, che forse non era la più prestigiosa, ma era un lavoro sicuro che permetteva ad Agàn di non avere problemi e non doversi più spostare. Nessuno aveva messo in discussione questa decisione, e il docente aveva conservato il proprio ruolo anche dopo la distruzione della famiglia reale. Il suo corso, magia neutra, era rivolto agli adulti di Serenella che volessero parteciparvi. La scuola era obbligatoria solo fino ai quindici anni, dopo si poteva accedere ai corsi liberi. Gli argomenti spaziavano dall’agricoltura all’arte della guerra; in generale, si trattava di materie di carattere tecnico e pratico. Il corso di tenuto da Agàn era un’eccezione. Era stato collocato al mattino presto, per le persone che andavano a lezione prima di dedicarsi alle proprie attività. Quello non era però l’unico motivo per la scelta di un orario così mattiniero; dipendeva anche dal fatto che non erano numerosi gli studenti di magia, non nelle vallate almeno. Per lo più veniva confusa con la superstizione o ritenuta una realtà di poco conto, in parte perché accostata alla vita spirituale e religiosa, considerata marginale in una società basata sul lavoro e sulla ragione. Ciò nonostante quando Oriveo, il figlio del sovrano, aveva deciso di frequentare il corso di Agàn, quella scelta non era stata ostacolata dal padre. Re Roti pensava che la conoscenza fosse fondamentale, specialmente per un sovrano. Il principe aveva scoperto di non essere per nulla portato, ma quelle lezioni gli piacevano e aveva finito con l’appassionarsi, almeno alla teoria. Dopotutto, un paio di ore al mattino presto non toglievano nulla agli affari di stato.
JK Ryatolia sorgeva nella zona sud-occidentale della foresta, sprofondata nel folto dei boschi, invisibile fino al superamento dell’ultimo albero della fitta barriera che le si ergeva intorno. Kelagar e Bryzal avevano cavalcato per tre giorni, non fermandosi per dormire, senza mangiare. Kelagar non avrebbe saputo spiegare come le fosse stato possibile affrontare un simile viaggio. Si era aspettata di crollare da un momento all’altro per tutto il tempo, eppure si sentiva inspiegabilmente bene. Stanca, certamente, però non quanto avrebbe dovuto, non quanto si sarebbe aspettata di dover essere.
Bryzal era rilassata e fresca, non più severa e distante com’era stata fino ad allora, adesso sorrideva e si guardava attorno soddisfatta. Si rivolse a Kelagar. «Siamo arrivate, benvenuta a casa.» La ragazza si guardò intorno. Vedeva ancora alberi e alberi in ogni direzione, le sembrava che niente fosse cambiato. I cavalli ansimavano, solo lievemente, come se avessero galoppato per qualche ora appena. Bryzal si accorse dello stupore di Kelagar. «Cos’è che ti stupisce di più? Che i cavalli stiano bene? O che il viaggio non ti abbia lasciata stremata quanto avresti pensato se ti avessi detto che non avremmo dormito né mangiato?» chiese. La ragazza la fissò senza rispondere. Bryzal le rivolse uno sguardo divertito. «Sono i boschi. Le ninfe traggono benessere e potere da questi luoghi, e possono trasmettere questi benefici anche agli animali, se vogliono. Ricordi la nebbia che abbiamo incontrato? Compare nelle aree dove l’energia è maggiore, dove crescono le piante dagli effetti più intensi. In quelle zone diventiamo quasi invulnerabili, i nostri sensi si acuiscono. Adesso ti sembrerà tutto confuso, col tempo imparerai a conoscere e ad amare Ryatolia e la foresta.» Spronò il cavallo e fece cenno a Kelagar di seguirla. Bastò un suo cenno: gli alberi si aprirono come un sipario. Davanti ai loro occhi comparve un’immensa città, il cielo si tinse di rosa; una luce calda e avvolgente proveniva dall’alto, da un immenso e nitido arcobaleno. Kelagar vide strade e torrenti intrecciarsi e inseguirsi, avvolgersi intorno ai tronchi delle secolari querce che reggevano ponti di legno sospesi ad altezze vertiginose. Di legno erano anche le case e ogni edificio. Tutta la città era ricoperta di fiori dall’odore intenso e l’aspetto insolito. Kelagar non ne aveva mai visti di simili, erano più grandi e sfarzosi di quelli che aveva conosciuto nelle vallate. Non avrebbe saputo spiegarlo, ma in qualche modo le sembravano addirittura più vivi. Non erano solo per terra, notò. Alcuni si arrampicavano sugli alberi dalle radici alla cima e persino su ogni costruzione, lasciando libere solo porte e finestre e risalendo fino ai tetti. Una sentinella venne incontro alle due donne, scendendo in picchiata dalla quercia più vicina. Rallentò la caduta dolcemente, restando a levitare a mezz’aria per qualche secondo prima di atterrare con la leggerezza e la grazia di una piuma trasportata dal vento. «Bentornata Bryzal. Benvenuta Kelagar.»
3. Insegnamenti
Reelia tornò a scuola nel pomeriggio. Era strano ritrovarsi nello stesso edificio non come allieva ma come docente nella classe dei più piccoli! Era piuttosto emozionata, ma era preparata e aveva una traccia ben precisa che il re le aveva indicato. Avrebbe iniziato narrando ai bambini delle origini della terra di Ghyoron, dalla sua creazione per mano di Alyari e Tuoren fino al litigio delle due divinità. Conosceva bene quei racconti, Tysen glieli narrava spesso quando era piccola. Alyari era l’unica divinità riconosciuta dagli umani, ma era sempre maggiore il numero di quelli che avevano perso ogni interesse per la religione, o che diffidavano di lei in quanto custode della magia, anche bianca, e delle creature che la praticavano: le ninfe d’erba che risiedevano nei boschi, comunemente chiamate ‘streghe’ dagli abitanti delle vallate. Tutto ciò non contava per Reelia, sinceramente devota alla dea. Nessuno degli studenti era ancora rientrato dal pranzo, così la giovane maestra si diresse alla biblioteca ospitata nell’edificio, in cerca di un luogo silenzioso in cui raccogliere le idee e preparare quanto avrebbe detto in aula. Ripensò al suo incontro con Roti di qualche settimana prima, il giorno in cui aveva accettato quell’incarico. Si era preoccupata, quando aveva ricevuto una convocazione ufficiale al palazzo reale. Aveva temuto che la sua amicizia con Oriveo avesse infastidito il re; padre e figlio avevano un legame forte, sincero, ma pur sempre vincolato al loro titolo. Il re coinvolgeva il principe in ogni sua decisione, riponeva in lui la massima fiducia; non sapeva se il periodo di pace in cui vivevano sarebbe durato a lungo, così voleva che Oriveo fosse pronto a diventare re, in qualunque momento questo dovesse avvenire. Era salito al trono una quindicina di anni prima, quando O’rus, il re dei nani, aveva sterminato la precedente famiglia reale. I consiglieri del defunto re avevano chiesto a Roti, primo ufficiale dell’esercito, di salire al trono. Ma dopo quindici anni, tuttora viveva il proprio ruolo con disagio. Avrebbe desiderato avere ancora l’amata moglie al suo fianco, sottrattagli da una polmonite letale. Era convinto che lei, ovunque fosse, potesse
vederlo, così faceva ogni cosa pensando a lei, a non deluderla, a renderla orgogliosa di sé e di Oriveo. Metteva tutto l’impegno possibile per essere un buon re, e soprattutto sperava che il figlio ne sarebbe stato all’altezza, un giorno. L’esercito dei nani, nonostante il tempo trascorso, era ancora appostato sulle colline dove si era rifugiato dopo esser stato cacciato da Roti. Gli abitanti delle vallate non capivano quale fosse il motivo, si sarebbero aspettati di vederli tornare nella loro terra, la zona delle montagne. Quella vicinanza li innervosiva, prometteva un nuovo attacco da più di dieci anni. Così, Reelia immaginava che il sovrano volesse chiederle di non sottrarre a Oriveo tempo che avrebbe dovuto dedicare alla protezione di Serenella. Invece, ciò che il sovrano voleva dirle non aveva nulla a che fare con il principe. Il re l’aveva accolta nella sala del trono, dov’era solito concedere le sue udienze. Reelia si guardava attorno intimorita. Le guardie del palazzo l’avevano accompagnata in un ampio salone magnificamente decorato con arazzi e vetrate raffiguranti la terra delle vallate e la vita dei suoi abitanti. Il soffitto, altissimo, ospitava un affresco dai colori vivaci. La stanza era costeggiata da larghe colonne di marmo bianco finemente intarsiate. La parete opposta all’entrata era occupata, al centro, da un maestoso trono in oro massiccio, sul quale la giovane donna vide seduto Re Roti. Il sovrano le sorrise e la invitò ad avvicinarsi. «Ben arrivata» disse il sovrano. Reelia rispose inchinandosi con deferenza. Il sovrano le disse di alzarsi e, senza perdersi in preamboli, introdusse l’argomento di quella convocazione. «Vi ho chiesto di venire perché ho un incarico da affidarvi» affermò il re con una voce bassa e pacata che a Reelia ricordò Oriveo. «Voi siete troppo giovane per ricordare la guerra con i nani, però suppongo che la vostra tutrice ve ne abbia parlato» proseguì Roti, fermandosi in attesa di una reazione della sua ospite. La ragazza non conosceva il protocollo, con il principe parlava come con chiunque altro, però adesso era a Roti che doveva rispondere… indecisa su quale fosse l’approccio migliore, si limitò ad annuire. Il suo interlocutore sembrò soddisfatto e riprese a parlare. «Conoscevo Tysen, quando lei era la prima dama di corte della regina e io il primo ufficiale dell’esercito. Avevo la massima considerazione
per lei e per la sua saggezza. Avrei voluto che rimanesse a corte anche dopo la mia incoronazione, però ho rispettato la sua decisione di adottare un’orfana di guerra e di dedicarsi al lavoro di sarta. Forse per lei i ricordi della precedente famiglia reale erano troppo vividi per permetterle di restare a vivere a palazzo» fece una breve pausa prima di proseguire: «Mi è dispiaciuto sinceramente quando ho saputo della sua prematura morte» disse con franchezza. Reelia fu commossa nel sentire quelle parole, pronunciate con un tono schietto e per nulla di circostanza. «Grazie» rispose d’impulso, senza curarsi dell’etichetta. Poi si zittì di colpo, pensando di aver sbagliato a parlare così istintivamente. Il re non parve farci caso. «È per l’ammirazione che provavo per la vostra madre adottiva che vi ho chiamata, e anche per la stima che mio figlio ha per voi» continuò Roti. Reelia sentì che le sue guance arrossivano e sperò vivamente che il re non lo notasse. Fu sollevata di sentirlo riprendere il discorso. «So che vivete della rendita che Tysen vi ha lasciato. Forse non avete bisogno di un lavoro, ma voglio ugualmente proporvene uno» aggiunse il sovrano «vorrei che vi occupaste di insegnare la storia di Ghyoron alla più giovane classe della scuola di Serenella. Gli altri studenti manterranno gli insegnanti che già hanno, non voglio confondere loro le idee. Però vorrei che i nuovi arrivati seguissero un programma di studi diverso; l’anno è già iniziato ma non penso sia troppo tardi» concluse. La giovane rimase senza parole per qualche istante, infine replicò cercando di non mostrarsi ingrata o scortese. «Maestà, vi ringrazio per la fiducia che mi concedete. Anche se non credo di essere all’altezza del compito che vorreste affidarmi» rispose a un volume appena percettibile. «Sciocchezze» la interruppe il re «vostra madre conosceva bene la terra di Ghyoron e le sue leggende, amava leggere e credeva nella dea Alyari, motivo per cui aveva nei confronti delle altre razze pregiudizi minori rispetto alla maggior parte dei miei sudditi. Suppongo che anche per voi sia così, presumo che vi abbia trasmesso le proprie idee e le proprie conoscenze» asserì. «È vero» ammise Reelia «ma in che modo questo può fare di me una buona insegnante?» si azzardò a chiedere.
L’espressione di Roti si addolcì. «Avete ereditato anche la sua modestia» disse il sovrano «e ritengo che siate in grado di fare quanto vi chiedo. Vedete, amo i miei sudditi e ciò che spero per loro e per il mio regno è che il periodo di pace in cui viviamo possa durare il più a lungo possibile. Eppure, non posso avere la certezza che questo accada e non è mia intenzione nascondere la testa e fingere che tutto vada bene. «Agli uomini piace pensare di vivere in una bolla protetta, separata dal resto delle altre razze. Questo non è un bene; alcuni lo hanno capito, e hanno viaggiato o letto, però la maggior parte preferisce ignorare ciò che accade al di fuori delle vallate. Eppure, l’ignoranza non è una cosa buona. E se può essere tutto sommato accettabile nei periodi di pace, è certamente inadeguata quando avvengono dei cambiamenti inaspettati. Desidero che le nuove generazioni crescano con la mente aperta e pronta ai cambiamenti. «Sono riuscito a sconfiggere i nani perché ne conoscevo le usanze e i metodi di combattimento, ma Serenella e le altre città hanno subito danni consistenti, che forse avrebbero potuto essere contenuti se fossimo stati più preparati. La nostra scuola, finora, si è occupata di insegnare ai giovani solo lo stretto indispensabile per quanto riguarda la storia e la geografia di Ghyoron, limitandosi a descrivere le vallate e tralasciando i popoli che vivono al di fuori delle nostre terre, senza menzionare le trasformazioni che hanno portato il nostro mondo a essere come oggi lo conosciamo. «So che questa non è la condotta di Agàn, di cui anche voi e mio figlio seguite le lezioni. Ma non è sufficiente, il suo corso non è preso seriamente da molti dei nostri concittadini, come sapete la magia non è in cima alle priorità delle nostre tradizioni. Soprattutto, penso che le menti degli adulti siano poco elastiche nel guardare al di là di ciò che già conoscono. Con i bambini però la situazione è differente. È ancora possibile insegnar loro la verità depurandola dai pregiudizi, ed è quanto desidero che voi facciate. Dovete spiegare loro che la realtà non è immutabile, e che il mondo così come appare in un dato momento non è lo stesso che era un tempo, né lo stesso che sarà in futuro. Dovete educarli a non dare nulla per scontato. E dovrete farlo raccontando loro la storia di Ghyoron senza tralasciare gli avvenimenti e le conoscenze che i programmi didattici hanno finora ritenuto ininfluenti. «Questo è ciò che vi chiedo e che ritengo siate in grado di fare. Cosa
mi rispondete?» terminò il re, con un tono che già sottintendeva un pieno consenso. Reelia non aveva idea di cosa fare. Si sentiva onorata da quell’offerta, senza contare che conduceva una vita dignitosa ma non eccessivamente agiata, perciò un’ulteriore fonte di guadagno le avrebbe fatto sicuramente comodo. Pensò alle parole del re. In effetti, ricordava perfettamente tutto ciò che Tysen le aveva insegnato negli anni passati insieme, e le lezioni di Agàn avevano ampliato le sue conoscenze sulle terre esterne alle vallate. Non voleva sembrare arrogante ma, a essere sincera, forse era davvero all’altezza di quell’incarico. Trascorsero un paio di minuti, in cui né lei né il re dissero nulla. Infine, la ragazza si decise a parlare. «Va bene, maestà, accetto la vostra offerta.» Reelia si riscosse da quei pensieri. Era inutile domandarsi se avesse fatto bene o meno ad assumere il ruolo che le era stato proposto. Aveva acconsentito, questo era quanto. Ora ciò che poteva fare era provare a se stessa e al re che era stata la decisione giusta. Fino a quel momento si era detta di essere pronta, di sapere affrontare la situazione, si era sentita sicura di sé. Era arrivato il momento di dimostrarlo. Lasciò la biblioteca e si avviò verso la classe.
JK La vita a Ryatolia si era rivelata più difficile del previsto. Kelagar non conosceva le abitudini delle ninfe, le occorreva del tempo per riuscire a comprenderle e adattarvisi. Eppure era certa di trovarsi nel luogo giusto, non aveva mai avuto ripensamenti al riguardo. Alcune delle sue nuove sorelle, le più giovani soprattutto, quelle che si erano ricongiunte ai boschi da poco, la trattavano con gentilezza e tolleravano volentieri il suo modo di essere ancora così impacciato. Anche Bryzal era sempre dolce con lei; era la sua istruttrice, era lei ad avere il compito di addestrarla all’uso della magia e di insegnarle le usanze di quella terra. Le spiegava come muoversi nel bosco, come riconoscere le piante e gli animali che Kelagar non conosceva, come trarre beneficio dalla foresta e dalla nebbia. Le insegnava a utilizzare meglio i suoi poteri; per quanto questa fosse
la parte più difficile, Bryzal era una maestra paziente. Molte delle altre ninfe adulte, però, guardavano Kelagar con scetticismo. La ragazza aveva pensato che fosse così ogni volta che una nuova strega si univa al gruppo, ma più passava il tempo e più questa spiegazione le sembrava poco plausibile. Ripensava spesso a ciò che le aveva detto Bryzal, il giorno in cui aveva scoperto di essere una ninfa, a Sevinia, nella casa di sua madre e suo padre. Bryzal le aveva parlato di Alyari e della magia. Quella conversazione era durata per più di due ore. Kelagar non aveva raccontato ai genitori cosa si fossero dette, le rivelazioni della sconosciuta andavano ben oltre la scoperta che le ninfe, una razza di sole donne, nascevano tra gli umani, in forma di bambine ignare del proprio destino e dotate dei poteri di Alyari fin dalla nascita. Andavano anche oltre il semplice fatto che Kelagar fosse una di loro. Non ne aveva parlato. Forse, neanche per lei era stato facile credere a quelle novità. Però le speranze di Bryzal, il suo sguardo, dolce, comprensivo, fiducioso… non le era occorso troppo tempo per decidere. Era uscita dalla camera in cui si erano chiuse a parlare, aveva detto ai genitori che sarebbe partita con quella donna. La madre ne era rimasta sconvolta, il padre semplicemente furioso. Aveva cercato di scacciare la straniera, parlandole con tono sprezzante, dicendole che non le avrebbe permesso di corrompere sua figlia. Kelagar si era mostrata irremovibile, anche quando il padre le aveva annunciato che, se fosse andata con lei, avrebbe fatto meglio a non farsi rivedere da loro, e anche quando sua madre, tra le lacrime, aveva cercato con tutte le sue forze di dissuaderla. Kelagar aveva deciso. Bryzal era stata la prima persona che avesse mai incontrato a non guardarla con condiscendenza o curiosità. L’aveva fatta sentire normale, accettata. Forse si era trattato di puro istinto, o magari di incoscienza, o del senso di frustrazione che aveva accumulato negli anni. Quale fosse il motivo, Kelagar non aveva avuto alcuna esitazione. Sarebbe partita con la ninfa. L’avrebbe seguita fino a Ryatolia, la città-stato delle streghe dei boschi, nelle terre oltre il Vodi. Lì avrebbe iniziato l’addestramento, avrebbe cercato di scoprire se davvero era all’altezza di ciò che Bryzal si aspettava da lei. E in realtà, se anche così non fosse stato, sarebbe comunque stata una ninfa d’erba, avrebbe avuto una casa, uno scopo. Durante il viaggio che l’aveva portata a Ryatolia, Bryzal non aveva ag-
giunto altro a quanto le aveva detto. Kelagar si sarebbe aspettata un’infinità di informazioni, ma Bryzal non aveva quasi parlato, era apparsa assorta e concentrata. Solo quando era ricomparsa la nebbia azzurra, per la terza o quarta volta dall’inizio del percorso, la ragazza aveva capito che era proprio quella concentrazione a permettere loro di avanzare nel bosco, che era la sua compagna a permettere il loro cammino. Aveva finalmente capito perché gli umani non andavano a Ryatolia: era impossibile per loro. Era stata quella scoperta a farle capire che ancora non sapeva chi fosse, ma sapeva ormai certamente cosa non era. Non aveva rimpianti della sua vita umana. Essere una strega, essere accettata dalle sue sorelle, era ciò che desiderava maggiormente, che la profezia fosse vera o no. Stava imparando in fretta a comportarsi in modo appropriato, ma ottenere il proprio posto in quel nuovo mondo richiedeva studio e attenzione. La società delle ninfe era rigidamente strutturata in una ben precisa gerarchia di ruoli, ma era una questione di prestigio più che di potere, perché tutte le abitanti dei boschi godevano degli stessi diritti. Non esisteva una leader della comunità, la nazione delle streghe era governata da un gruppo di dieci anziane. Le ninfe vivevano per un numero di anni maggiore rispetto agli umani, però anche le loro vite volgevano a un termine, e poiché nei boschi non correvano alcun pericolo, e non erano soggette alle malattie, la morte più diffusa era quella per vecchiaia. Quando una delle dieci sagge moriva, un’altra strega ne prendeva il posto, perché il numero delle componenti del consiglio non doveva cambiare. Era stato deciso che dieci persone erano la misura perfetta per il governo di Ryatolia, c’erano più voci da sentire, ma non abbastanza per sfociare in un’anarchia, né sufficientemente poche per generare alleanze di interesse. Ogni volta che una delle anziane moriva, la sostituta designata ne prendeva il posto, e sceglieva quella che sarebbe stata la sua erede. C’erano dei requisiti che una strega doveva soddisfare per poter essere scelta come futura saggia. Doveva essere eccezionalmente abile nella magia, aver mantenuto una condotta rispettabile nel corso della sua vita, essere accettata come degna del ruolo che le veniva proposto non solo da colei che la nominava ma dall’intera comunità. Inoltre, doveva avere almeno centodieci anni. Quando lo aveva scoperto, Kelagar ne era rimasta scioccata, perché la
sua insegnante era destinata a diventare una delle sagge del consiglio, alla morte della sua protettrice, però Bryzal non dimostrava più di una trentina d’anni! Sapere di essere istruita da una donna che aveva vissuto già così tanti anni, e che era destinata a salire al massimo livello gerarchico di quella società… non aveva mai ammirato nessuno come faceva adesso con la sua istruttrice e non voleva in alcun modo rivelarsi inadeguata ai suoi insegnamenti. Però, né i risultati ottenuti con l’addestramento né la protezione di una ninfa del rango di Bryzal sembravano migliorare i sentimenti delle streghe a lei ostili. Non che si comportassero in maniera scortese o apertamente avversa, ma era facile intuire che dubitavano di Kelagar. Quando la sua maestra era venuta a prenderla, a Sevinia, le aveva detto che il suo destino sarebbe potuto andare oltre al fatto di essere una ninfa e Kelagar aveva pensato che questo sarebbe stato un punto a suo favore. Invece, era esattamente il contrario. Non era gelosia, tutt’altro, sembrava che alcune ninfe non credessero alla teoria di Bryzal, e di conseguenza non si fidavano della nuova arrivata.
JK Quando Reelia entrò in aula, i suoi studenti si alzarono in piedi. Non le piaceva essere trattata così ossequiosamente, ma per quei ragazzi era il primo giorno con lei, e dai loro volti intimoriti la giovane donna capì quanto ciò li mettesse in ansia. Non sapeva come gli altri insegnanti si comportassero con gli allievi, Agàn dai suoi studenti non pretendeva un’eccessiva formalità, però erano adulti, forse con i bambini era diverso. Comunque, non le importava. Disse al suo giovane pubblico di sedersi, disse loro che non occorreva che si alzassero ogni volta, e di darle il tu. Le sembrò che avessero gradito l’iniziativa, perché già durante l’appello i loro visi erano più rilassati, le voci non eccessivamente terrorizzate. Si presentò a sua volta, ammettendo che per lei quello era il primo giorno come insegnante. Non voleva spaventarli, né iniziare con una lezione troppo noiosa o impegnativa. Dopotutto, erano bambini di sei o sette anni al massimo… lei non sapeva come doveva comportarsi, non le era mai capitato di do-
ver avere a che fare con così tante persone così giovani, tutte insieme e per un tempo prolungato! Decise che non era necessario dir loro quali fossero le istruzioni che le aveva dato Roti, affermò semplicemente che l’argomento del suo corso sarebbe stata la storia di Ghyoron e dei suoi abitanti.
JK Era cresciuta Sevinia, un piccolo villaggio di contadini e agricoltori a sud di Serenella. Aveva diciassette anni, abitava con i genitori e conduceva un’esistenza tutto sommato tranquilla. Però Kelagar qualche stranezza l’aveva notata. Si era accorta che gli altri abitati del villaggio la guardavano con sospetto, a volte. Capitava che anche suo padre assumesse un atteggiamento di diffidenza, ma nulla più. Credeva fosse dovuto al colore della sua pelle, o alla sua naturale predisposizione per una serie di cose che riusciva a fare senza sapere bene come. Piccole cose, in realtà. Come far bollire l’acqua in pochi istanti, o farla congelare solo pensandolo. Nessuno l’aveva mai incoraggiata a sviluppare queste capacità. Aveva trovato dei libri che ne parlavano in biblioteca, ma quando il padre si era accorto di quelle letture gliele aveva categoricamente proibite. I suoi erano persone semplici. Sua madre un’erborista e suo padre un allevatore. Kelagar aveva sempre amato le piante e gli animali e si era mostrata spesso curiosa riguardo al lavoro dei genitori e il suo tempo lo trascorreva soprattutto studiando, anche perché i coetanei la tenevano a distanza e non le permettevano di partecipare ai loro giochi. Già da bambina aveva scoperto di avere il potere dei guaritori e quello di far rinascere le piante appassite. Suo padre guardava a quei poteri con timore, non aveva mai amato niente che avesse a che fare con la magia. La madre ne era meno intimorita ma non la incoraggiava a svilupparli, e il giorno in cui l’aveva scoperta in giardino, sospesa a mezz’aria ad ammirare un fiore su un ramo alto di un albero, aveva anche lei cominciato a guardare la figlia con sospetto. Quanto allo studio, non glielo avevano mai espressamente detto, però non lo tenevano in gran considerazione, pensavano che l’istruzione le servisse giusto quel minimo per non essere ignorante e trovare un buon marito. Anche se, a causa del suo aspetto, temevano sarebbe stato diffi-
cile. La ragazza non diceva niente; in cuor suo sperava che la vita le riservasse anche qualcosa di più. In effetti, Kelagar era bella. Tuttavia, troppo diversa dai suoi compaesani; le altre persone avevano la pelle abbronzata e scura mentre la sua era bianchissima, e manteneva quel candore nonostante la madre avesse provato in tutti i modi a scurirla con unguenti e lunghe esposizioni al sole. I suoi capelli erano rossi, di un rosso vivo e acceso con striature rosa, che nessuno nel villaggio o nella sua famiglia aveva mai avuto prima di lei; i suoi occhi viola, scuri, con tenui riflessi verdi al centro. Inoltre, nonostante il suo corpo fosse già quello di una giovane donna, il viso e i lineamenti erano freschi come quelli di una bimba, come se per lei il tempo passasse più lentamente. I capelli erano lunghi; li portava legati in una coda ottenuta con un nastro verde che li avvolgeva in più punti, lasciandole scoperti il viso, il collo e le orecchie, piccole e delicate. Il taglio dei suoi occhi era leggermente allungato, e il viso e parte del collo e delle spalle erano coperti da piccole lentiggini color lilla. Indossava vestiti di pelle e cuoio conciato dai colori scuri, non troppo femminili però decisamente confortevoli. I genitori l’avrebbero preferita vestita in modo più aggraziato, ma si erano abituati; dopotutto, quella era una stranezza decisamente irrilevante rispetto alle altre. Così, la sua vita era trascorsa solitaria e monotona per diciassette anni. Fino al giorno dell’arrivo di Bryzal: una donna bellissima con la pelle diafana, i lineamenti di una bambola e i capelli color ruggine e oro.
JK Il ruolo che adesso Kelagar ricopriva era quello di apprendista. Terminato il suo addestramento, Bryzal avrebbe dovuto farle scegliere una specializzazione tra quelle che giudicava inclini alle sue abilità; questo avrebbe determinato la sua futura posizione nella società dei boschi. Le apprendiste più abili nei poteri che richiedevano un coinvolgimento fisico oltre che spirituale diventavano esploratrici, custodi o sentinelle. Quelle portate per le arti della divinazione divenivano veggenti o indovine. Altre ancora, che sviluppavano un legame maggiore con le forze vitali e la natura, erano destinate a occuparsi della cura degli animali o delle piante dei boschi. Le più dotate nell’esercizio della magia, infine, avevano la possibilità di scegliere la specializzazione che preferivano,
anche se veniva consigliato loro di votarsi al potenziamento delle proprie capacità, scegliendo una delle forze elementali da cui trarre forza. Queste ninfe terminavano la formazione acquisendo il titolo di Paladine di Ryatolia o quello di Sacerdotesse di Alyari. Quasi tutte le streghe appartenenti al consiglio delle dieci sagge o destinate a farne parte avevano seguito questo percorso. Così era stato anche per Bryzal, paladina legata ai poteri della terra. A Kelagar non l’aveva mai detto apertamente, ma pensava che quel ruolo sarebbe toccato anche a lei; ancora non sapeva con certezza a quale elemento si sarebbe votata, però le sembrava che la giovane ninfa avesse una naturale predisposizione per l’acqua e per i poteri a essa legati. Inoltre, Bryzal credeva nella profezia sulla ragazza. Pensava, perciò, che dovesse diventare sacerdotessa. Ma anche lei si era accorta che non tutte le sue sorelle credevano nella predizione che le veggenti di Ryatolia avevano formulato. Quando avevano decretato che una ninfa si era rivelata a Sevinia e avevano mandato una paladina a reclamarla, avevano aggiunto ben più di quanto dicessero di solito per le nuove arrivate. Le visioni delle veggenti raramente venivano messe in discussione, invece questa volta poche ninfe sembravano realmente disposte a crederci. Bryzal si era chiesta spesso quale fosse la ragione di quell’atteggiamento, così come si era chiesta per che motivo lei ci credesse così fermamente. Era sempre stata una sua caratteristica, quella di infiammarsi per le novità e abbandonarsi alla speranza. Quando la sua istruttrice era andata a reclamarla, più di novant’anni prima, il suo cuore era sobbalzato e nemmeno per un istante aveva pensato che non fossero vere le parole che le venivano dette. Allo stesso modo, aveva vissuto con entusiasmo il periodo dell’addestramento e si era mostrata un’allieva brillante. La speranza di diventare una ninfa rispettata e la volontà di eccellere le avevano permesso di divenire paladina. Anche se, in cuor suo, per qualche tempo aveva cullato l’idea di essere nominata sacerdotessa, perché la sua devozione per Alyari era sincera e profonda. Ma la strada che si era profilata per lei era un’altra, così aveva accettato il proprio ruolo e vi si era applicata con dedizione ed entusiasmo. Eppure, non poteva fare a meno di chiedersi se la convinzione che provava nei confronti del destino di Kelagar avesse qualcosa a che fare con il suo rimpianto di non essere diventata sacerdotessa. Per accedere a quel ruolo la fede non era sufficiente, occorreva dimostrare di avere
un legame particolare con la dea. Se la profezia fosse stata vera, nessuna più di Kelagar sarebbe stata degna di quel ruolo, nessuna più della ragazza destinata a ospitare dentro di sé l’incarnazione della divinità. Dopo il primo incontro a Sevinia, lei e la sua allieva non avevano più parlato della previsione delle veggenti. Bryzal si disse che era giunto il momento di affrontare la questione con la giovane apprendista, anche lei doveva essere pronta a difendere la propria posizione di fronte alle sagge di Ryatolia e a tutto il popolo dei boschi. La prima parte dell’addestramento di Kelagar stava per terminare, presto Bryzal avrebbe dovuto decretare davanti al consiglio quale specializzazione avesse pensato per la ragazza. La ninfa sapeva che, quando quel giorno sarebbe arrivato, la profezia formulata sulla sua protetta avrebbe dovuto essere discussa, perché era inevitabile che avesse conseguenze sul futuro della ragazza.
JK Kelagar si era svegliata riposata e piena di energie. Ormai vi si era abituata, era stato così da quando era giunta a Ryatolia, come se il suo corpo vivesse in uno stato di costante benessere. Si vestì e uscì di corsa dall’abitazione che le era stata assegnata, non vedeva l’ora di iniziare la lezione quotidiana con Bryzal. Aveva deciso di ignorare le ninfe a lei ostili, nonostante la cosa le pesasse, e di dedicarsi con tutta sé stessa alla propria formazione. Era orgogliosa di essere una ninfa d’erba, ma le capitava spesso di ripensare ai suoi genitori e al modo in cui si era separata da loro. Suo padre le aveva detto di non tornare, quelle parole le pesavano nello stomaco e nel cuore; concentrarsi sull’addestramento la aiutava a non pensarci. Voleva eccellere, voleva che tutte le streghe la accettassero, perché aveva perso la sua famiglia, non voleva essere respinta anche dalle sue nuove sorelle. Così, come tutte le mattine, si precipitò da Bryzal impaziente di iniziare l’addestramento. Migliorava ogni giorno, riusciva a sentirlo; i poteri erano più forti in lei, i risultati che otteneva sempre più consistenti, le sue abilità ampliate e affinate. Poteva far germogliare i fiori e mutarne l’aspetto. Poteva levitare, in modo più cosciente di quanto avesse spontaneamente già fatto in passato, anche se resisteva sospesa solo per pochi minuti, e decisamente non era tagliata per la divinazione, pur aven-
do imparato a effettuare previsioni che si rivelavano esatte… solo che non riusciva a guardare più in là di qualche ora e le sue predizioni erano sempre piuttosto generiche. Ma era incredibilmente portata per la cura delle piante e degli animali; in più, aveva esercitato le proprie doti di guaritrice, raggiungendo risultati insperati. Si era applicata anche nello studio delle forze elementali, iniziando a ottenere i primi successi… poteva accendere un fuoco dal nulla e renderlo freddo, se lo desiderava, così come sapeva generare piccole trombe d’aria e spostarsi al loro interno, abilità che sopperiva alla sua scarsa attitudine per la levitazione. Soprattutto, aveva stabilito un legame speciale con l’acqua in ogni sua forma. Sapeva deviare il corso dei torrenti e chiedere alla rugiada di avvolgerla come una veste, rendendola invisibile alla vista. Aveva imparato a generare e a interrompere la pioggia, a evocare una tempesta o a mutare la neve in fiocchi d’argento contenenti perle bianche purissime; da due di essi aveva ricavato degli orecchini da cui non si separava mai, averli indosso la incoraggiava a continuare. Bryzal non le aveva mentito, quando le aveva detto che avrebbe imparato ad amare Ryatolia e la foresta, anche la nebbia azzurra adesso le era familiare. Raggiunse Bryzal. Vide che la paladina sembrava preoccupata, non sapendo cosa fare attese che fosse la maestra a dire qualcosa. Quando la donna le parlò, il tono della sua voce non le piacque. «L’allenamento attenderà, c’è qualcosa di cui discutere» affermò Bryzal cupamente. Kelagar non rispose, rimase immobile, cercando di indovinare dagli occhi dell’istruttrice di cosa si trattasse; temeva di aver commesso un errore, non voleva peggiorare la situazione parlando a sproposito. La strega dovette intuirne i pensieri, o forse li lesse. Il suo sguardo si ammorbidì leggermente. Si rivolse a Kelagar con un’intonazione che sperava risultasse rassicurante, ma che purtroppo non lo era. «Non è per qualcosa che hai fatto» disse guardando l’apprendista negli occhi, lo sguardo invaso da indecifrabili pensieri. Non aggiunse altro. Kelagar ne sapeva quanto prima, ciò nonostante tirò un profondo sospiro di sollievo; Bryzal assunse un’espressione divertita, anche se solo per un attimo.
4. Ruoli e verità
«So che il primo giorno di scuola è un avvenimento importante, so che siete emozionati, lo sono anch’io» esordì Reelia rivolta alla classe «questa è la vostra prima lezione con me, perciò per oggi non vi darò pagine da studiare a casa o compiti da svolgere» concluse sorridendo. Fece una pausa per accertarsi che i bambini la stessero ascoltando. Dai loro volti sorridenti capì che avevano gradito. Così decise che era ora di entrare nel vivo della lezione. Cominciò leggendo un passo da La leggenda della terra di Ghyoron, un antico volume anonimo che narrava delle origini del loro mondo. Le piaceva quel testo, non era un libro propriamente didattico, ma le ricordava i racconti di Tysen. Iniziò la lettura dalla primissima pagina: L’alba era sorta sull’universo. Era il giorno della creazione e dell’inizio. Due potenti divinità ne ascoltarono il richiamo: Alyari, dea della vita e della creazione, e Tuoren, dio della distruzione e del caos. I due supremi esseri vivevano in armonia completandosi vicendevolmente. Decisero di unire i propri poteri per generare la terra di Ghyoron, popolandola e regolandone i cicli vitali. Diedero vita a quattro differenti razze. A ognuna di esse assegnarono un luogo in cui risiedere, nella pace e nel rispetto degli altri popoli. La dislocazione nei territori fu dettata dalle caratteristiche prevalenti dei diversi gruppi, perché potessero crescere in ambienti loro affini e prosperare sotto la tutela delle due divinità. Alle ninfe, determinate, energiche e intolleranti ai climi freddi, venne attribuito il deserto. Gli elfi amavano gli ambienti umidi, ed erano il popolo spiritualmente più vicino alla natura e al mondo vegetale, così vennero loro affidati i boschi. Agli gnomi, schivi, pratici e resistenti alle basse temperature, furono concessi i monti. Agli umanidi, bisognosi di tranquillità e stabilità – per bilanciarne la natura caotica – e poco
resistenti ai climi eccessivamente caldi così come a quelli freddi, vennero consegnate le vallate. Tutte le razze disponevano dei poteri della magia. La voce di un allievo interruppe la lettura di Reelia. «Maestra! Dove sono questi popoli adesso? Perché oggi ci sono altre razze a Ghyoron?» chiese il bambino. «So che adesso la situazione è differente, so che il mondo com’è oggi non è quello di cui vi ho letto. Avrete sentito dire che sulla terra esistono gli umani, le streghe, le amazzoni, le sirene e i nani, forse anche i folletti» affermò la giovane insegnante. Decise di non aggiungere nessun aggettivo per i popoli che nominava, non voleva suscitare nei bambini reazioni ostili. Pensò che molti di loro già avessero sentito dire dai genitori o dagli adulti della città che delle altre razze non c’era da fidarsi. Dei nani, soprattutto. Preferì non infierire, non le sembrava necessario aggiungere altro, così come non volle dire loro che si erano perse le tracce dei folletti, dopo che i nani avevano sterminato gli abitanti delle colline al solo scopo di raggiungere le vallate. «Sicuramente vi parlerò di com’è Ghyoron oggi» riprese «vi insegnerò a conoscere e distinguerne i luoghi e le specie viventi, e ci concentreremo sulle vallate, la zona in cui noi viviamo. Però, per capire in che modo la terra di Ghyoron è diventata così com’è, è necessario ripercorrere le tappe della sua evoluzione.» «Come vi ho detto, all’inizio esistevano quattro razze. Ma come sapete, adesso quei popoli non esistono più, altri hanno preso il loro posto. Ciò che farò sarà ripercorrere la storia di queste trasformazioni, dicendovi quello che so al riguardo.» «Incominciamo affrontando il tema della magia. Anche noi umani, che non esercitiamo se non saltuariamente la magia, neutra, non ne siamo esclusi. All’inizio la magia era unica, solo successivamente si è divisa. La mutazione è stata causata dalle diverse caratteristiche delle differenti razze. Gli umanidi, i nostri antenati, si dimostrarono incapaci di gestire la magia e si trasformarono in umani, forti e versatili ma quasi privi di ogni potere. Gli unici cui rimasero in grado di accedere furono quelli più semplici, che richiedevano un coinvolgimento emotivo e spirituale minore rispetto agli altri. Così avvenne che la magia si divise per la prima volta, generando quella che chiamiamo ‘magia neutra’. Ma anche
le altre razze andarono incontro a trasformazioni.» «La potente magia alla quale gli umanidi avevano rinunciato era ancora a disposizione degli altri popoli, però tra questi ve ne fu un altro che vi rinunciò.» «Sto parlando degli gnomi, ai quali era stata assegnata la zona dei monti. Gli gnomi si accorsero presto che quelle montagne ospitavano grotte e fenditure abitabili; è lì che si insediarono. Poco per volta costruirono una civiltà sotterranea, che raramente saliva in superficie. Si addentrarono sempre più nelle viscere dei monti in cerca di ricchezza e protezione dalle altre razze, considerate dagli gnomi una minaccia a causa della propria bassa statura, che ritenevano una debolezza. La voluta privazione della luce del sole e il quasi completo distacco dalla natura, se non per la caccia e per rare coltivazioni, causò in loro dei cambiamenti. La magia, legata alle forze della natura, li abbandonò. Si trasformarono nella nuova razza dei nani, più possenti e robusti ma scontrosi e selvatici, privi di ogni potere o aspirazione spirituale.» «Rimasero così gli elfi e le ninfe a dividersi il dominio della magia. Furono queste due razze ad andare incontro alle trasformazioni più radicali. La prima importante differenza rispetto a umanidi e gnomi fu che questi, pur cambiando la propria natura, non abbandonarono l’ambiente naturale loro assegnato. Non fu così per i popoli del deserto e dei boschi, anche se non sempre le migrazioni furono volute. La ragione di questi spostamenti risiede nel temperamento delle ninfe.» «Non tutte, tra loro, si rivelarono capaci di gestire le potenti forze magiche di cui erano dotate. Furono esse a causare una nuova divisione della magia, da cui nacquero la magia bianca e quella nera. Alcune tra loro scelsero la magia bianca, e Alyari, mentre altre preferirono le forze occulte di quella nera, e si votarono a Tuoren. Un terzo gruppo, infine, rifiutò di utilizzare entrambe le forme di magia, pur riconoscendone l’importanza.» «Questo terzo gruppo generò il popolo delle ninfe di sabbia, le amazzoni, che ancora oggi risiedono nei territori desertici al di sopra dei boschi. Il deserto si rivelò non essere abbastanza grande per ospitare tre diverse famiglie di ninfe; le amazzoni scacciarono le loro sorelle, che a loro volta avevano generato nuove razze. Il gruppo che scelse la magia nera diede vita al popolo delle ninfe d’acqua, le sirene; scacciate dal proprio habitat naturale, le ninfe d’acqua si rifugiarono nel luogo a esso più lontano, il mare, riuscendo a sopravvivere sott’acqua modificando
le proprie caratteristiche grazie ai poteri di cui si servivano. Infine l’ultima famiglia, quella che scelse di onorare Alyari e di servirsi della forza della magia bianca, diede vita alla stirpe delle ninfe d’erba, che noi umani conosciamo come streghe dei boschi.» «Però, il luogo in cui esse scelsero di vivere, i boschi, non era affatto libero. Era la residenza di un altro popolo che ricorreva ai poteri della magia, quello degli elfi. Anch’essi avevano scelto la magia bianca, e vivevano pacificamente in armonia con la foresta loro assegnata. Inizialmente elfi e streghe condivisero quei territori, ma la convivenza tra le due razze non durò a lungo. Gli elfi, accortisi delle mistiche proprietà del bosco, vollero averne il possesso esclusivo. Ben presto dichiararono guerra alle ninfe, ma ne uscirono sconfitti. Furono così costretti a lasciare la propria casa e a cercarne un’altra in cui stabilirsi. Tentarono invano di superare la cortina impenetrabile di alberi eterni che separa i boschi dalla foresta proibita. Non riuscirono, così decisero di insediarsi sulle colline. Abituati alla rigogliosità dei boschi, gli elfi si adattarono al diverso ambiente tramutandosi in una nuova specie, quella dei folletti, meno potenti e meno dotati nella magia, ma più capaci di resistere e sopravvivere lontani dal bosco. I folletti sono rimasti su quelle colline per secoli.» «Nel frattempo, anche la relazione tra Tuoren e Alyari era cambiata. Tuoren si accorse che la compagna era considerata con rispetto e ammirazione anche da coloro che non la veneravano, mentre a lui, oltre all’adorazione delle sirene, erano riservati soltanto il timore e la diffidenza da parte degli altri popoli, a eccezione delle amazzoni che però poco curavano la vita spirituale. Inoltre, la magia cui aveva scelto di legarsi, quella nera, più affine alla sua naturale inclinazione, era considerata pericolosa e proibita da quasi tutte le razze. Così, l’invidia e la sete di vendetta si impossessarono di lui. Dal litigio tra Alyari e Tuoren scaturì un odio maggiore tra i diversi abitanti di Ghyoron; i rapporti tra loro, già non facili né amichevoli, si inasprirono ulteriormente. Le razze si abituarono a vivere ognuna per proprio conto, stabilendo solo raramente dei contatti.» I volti dei bambini apparivano piuttosto increduli. Reelia pensò che fosse il momento di fare una pausa. Mancava ancora quasi mezz’ora alla fine della lezione. Decise di non aggiungere altre informazioni per il momento, temeva che dei bambini così piccoli potessero distrarsi o annoiarsi facilmente.
Perciò li invitò a fare delle domande, se lo desideravano, su quanto avevano sentito. Dovette passare qualche minuto prima che un bambino si azzardasse a parlare: «I nani sono sempre stati cattivi?» chiese. Quell’interrogativo sembrò incoraggiare la classe, che scatenò un coro di domande. «Perché abbiamo paura delle streghe? Sono solo donne? Come nascono?» «Che fine hanno fatto i folletti? E che poteri hanno?» Reelia era contenta di aver scatenato la loro curiosità, ma dovette interromperli, o non sarebbe mai riuscita a rispondere. Per non fare favoritismi e non deludere i suoi studenti, procedette rispondendo alle domande nell’ordine in cui erano state formulate. Cominciò da quella sui nani, pur non sapendo con esattezza cosa fosse meglio dire…
JK In effetti, nemmeno Reelia vedeva di buon occhio i nani; pur non essendo tra quelli che vivevano nel timore costante di un nuovo attacco, in cuor suo sospettava che fossero davvero tutti spietati. La donna che l’aveva cresciuta, Tysen, le aveva dato affetto, calore e una casa. Reelia le aveva voluto bene, però sapeva che non era sua madre. Sapeva che i suoi genitori, chiunque essi fossero, erano stati uccisi durante la guerra con i nani. Tysen non le aveva rivelato niente che potesse aiutarla a scoprire quali fossero le sue origini, aveva detto di non conoscere nulla dei suoi veri genitori. La giovane aveva smesso presto di farle domande al riguardo. Non tutti gli orfani della guerra erano stati altrettanto fortunati; Tysen era gentile, l’amava e si prendeva cura di lei come se fosse stata davvero sua figlia. Reelia non voleva che la sua tutrice pensasse che lei non apprezzava tutto questo, perciò capì che era inutile insistere a interrogarsi sul passato. Tuttavia, non erano domande che potesse mettere a tacere facilmente, soprattutto sapendo identificare un colpevole. Non personalmente, certo, Reelia non poteva sapere quale nano avesse effettivamente assassi-
nato suo padre e sua madre. Ma forse anche questo contribuiva a farle guardare con sospetto a tutta la loro razza. Ora si trovava a dover dire a dei bambini che non si può giudicare un intero popolo dal comportamento di alcuni dei suoi membri… i resoconti dicevano che non tutti i nani erano scesi in guerra, che molti di loro erano rimasti sui monti ad attendere il ritorno dei guerrieri. Perciò, non si poteva dire con certezza che tutti gli abitanti delle grotte fossero maligni. Era questo che pensava di dover rispondere alla sua classe, anche se avrebbe preferito non farlo. Però Re Roti era stato chiaro: i bambini dovevano aprire le loro menti, non riempirle di pregiudizi! Lei si era assunta quel compito, non voleva venire meno alla parola data. Partì da lontano nella sua risposta, iniziò descrivendo il regno delle montagne. Disse che i nani vivevano in una zona fitta di monti perennemente innevati, a eccezione del Timyr, il grande vulcano attivo ospitato dalla vetta più alta della catena. Parlò loro della capitale del territorio dei nani, la città sotterranea di Ostrea, al cui interno risiedeva un grande palazzo di roccia costruito tra le gallerie, dimora della famiglia reale. Ostrea, sottoterra, e il Timyr, alto sopra la terra dei nani, costituivano il centro politico e geografico della zona dei monti. Stava per proseguire parlando loro della fauna che viveva in superficie, al di sopra della società costruita nelle profondità della terra… Avrebbe potuto parlare delle rare coltivazioni che i nani curavano all’interno di apposite grotte illuminate grazie a profonde finestre scavate nella roccia… tutto sommato, c’erano molte cose che avrebbe potuto dire, ma che non erano per nulla una risposta al quesito che le avevano rivolto. Si forzò ad ammettere con sé stessa di star divagando. Le ci volle un grande sforzo di volontà prima di riuscire ad affrontare realmente la questione. «Vedete bambini» disse infine «uno dei motivi per cui le vallate non si aspettavano l’attacco, è che i nani avevano sempre condotto, fino a quel momento, un’esistenza isolata. Non avevano mai dato fastidio alle altre razze. Il mio insegnante, Agàn, sostiene addirittura che essi fossero guidati da un re saggio e giusto, inaspettatamente e misteriosamente impazzito, che senza un apparente motivo ordinò l’attacco alle colline e alle vallate» si interruppe.
Pensò al suo anziano maestro; si fidava di lui, non dubitava delle sue parole. Il giorno in cui gli aveva sentito pronunciare quel discorso l’opinione di Reelia nei suoi confronti non era cambiata; ricordò di aver semplicemente deciso di non dare particolare peso a quelle convinzioni. Forse Agàn aveva ragione. Lei, semplicemente, non era interessata a saperlo, così aveva sospeso il suo giudizio al riguardo. «Per questa ragione, ritengo sia impossibile dire con certezza se tutti i nani siano cattivi o meno» continuò Reelia «l’unica cosa che so è che la guerra che hanno combattuto era ingiusta e priva di una ragione. Ma questo non è un motivo sufficiente per esprimere un giudizio su tutti loro» concluse. Non intendeva aggiungere altro. Senza dare il tempo alla classe di poter replicare passò ad affrontare la seconda domanda, questa volta più serenamente; non aveva preconcetti particolari sulle ninfe, soprattutto perché anche loro credevano in Alyari. «Le donne che noi umani chiamiamo streghe non sono crudeli» esordì «sono persone che dedicano la propria vita al rispetto della natura e al culto della dea. Praticano la magia, è vero, ma come vi ho detto anche alcuni umani lo fanno.» «Però hanno cacciato gli elfi!» la interruppe una bambina. «Hai ragione» rispose Reelia «però è ingiusto condannare una nazione per eventi accaduti in tempi ormai remoti. E poi, sono stati gli elfi a causare la guerra. E se fosse andata diversamente? Se fossero stati gli elfi a vincere?» domandò, ma non ottenne nessuna replica. Il tempo era quasi terminato. Promise ai bambini di rispondere alle domande rimanenti durante l’incontro successivo. Concluse la lezione e salutò i suoi studenti. Era stanca. Le erano tornati alla mente antichi interrogativi, si sentiva irrequieta, però c’era anche dell’altro… Era pervasa dalla strana sensazione che forse, un giorno, avrebbe potuto trovare la verità che le era stata negata per anni. Queste riflessioni le misero addosso un senso d’inquietudine. Ma tutto sommato, pensò, se l’era cavata bene con la sua prima lezione!
JK
Kelagar e Bryzal si erano sedute sotto una delle alte querce, lontana dalle altre, da cui non partiva nessun ponte. Avevano scelto un luogo appartato, per parlare senza essere disturbate; era stata un’idea di Bryzal, e Kelagar pensò che tutta quella segretezza non fosse rassicurante. «Sai che ho molta fiducia in te» esordì Bryzal «ti sei rivelata una formidabile allieva» disse. Kelagar fece per replicare ma la paladina non le lasciò il tempo e proseguì nel proprio discorso. «Il tuo addestramento sta per terminare. È arrivato il momento che io ti indichi una strada da seguire per la tua specializzazione» Bryzal fece una pausa «sei dotata di grande talento e hai imparato a rispettare la foresta e Alyari» disse la ninfa prima di interrompersi nuovamente. Kelagar rimase in silenzio. Era vero, non sapeva quasi nulla di Alyari, quando viveva a Sevinia. Adesso, invece, l’amore per quella dea buona e potente le dava forza e speranza, proprio come avveniva per Bryzal. «Ho notato che hai una particolare predisposizione per la forza elementale dell’acqua» riprese la sua istruttrice «in seguito a ciò, e al fatto che ancora credo nella profezia che ti ho rivelato il giorno in cui ci siamo conosciute, ho pensato di proporti come sacerdotessa» terminò la strega senza aggiungere altro. La giovane apprendista la fissò incredula. Bryzal le stava offrendo di intraprendere la strada per raggiungere il massimo grado cui potesse aspirare una strega, solo le altre sacerdotesse e le paladine sarebbero state al suo stesso livello, se avesse seguito quel percorso. Non si era aspettata una simile proposta, anche perché, doveva ammetterlo, nonostante avesse imparato ad apprezzare il culto della dea, non era molto il tempo che trascorreva al tempio. Ancora una volta, ebbe la sensazione che Bryzal le avesse letto nella mente, perché la paladina le disse di non preoccuparsi delle poche ore trascorse al tempio; erano infatti numerose le ninfe che preferivano pregare Alyari e rivolgersi a lei all’esterno di quelle mura. La dea poteva udirle ovunque fossero, perciò il luogo non era determinante. «Naturalmente» proseguì Bryzal «dovrai recarti al tempio molto più frequentemente, e avrai il compito di aiutare nella fede le tue sorelle. È un incarico impegnativo e importante, solo poche ninfe possono accedervi.»
Kelagar avrebbe voluto replicare, però si accorse di non riuscirvi. Era felice, si sentiva immensamente onorata, perché quella donna che tanto ammirava la riteneva degna di essere una sua pari. Però qualcosa non le tornava. Da come si era preannunciata quella discussione, si sarebbe aspettata qualche notizia terribile. Invece, quanto le era stato detto finora non le sembrava potesse avere nessun risvolto negativo… «Ti sbagli» le disse Bryzal «il risvolto negativo c’è eccome» continuò, prima di fermarsi un attimo a riflettere. «Ti chiedo scusa» aggiunse poi la paladina «continuo a leggerti nel pensiero. Non lo faccio per mancarti di rispetto. Mi viene spontaneo. È una cosa che ho sempre saputo fare, specialmente con le persone a cui mi sento legata. Non ti ho insegnato quest’abilità perché non è una cosa che si possa apprendere, è una dote innata che poche ninfe hanno.» «Non fa niente» le rispose Kelagar «non preoccuparti, non mi dà fastidio. Qual è la parte brutta allora?» disse cercando di non sembrare turbata, ma con scarsi risultati. «È per le altre ninfe» le spiegò Bryzal «quando ti proporrò come sacerdotessa, dovrò motivare la mia scelta, dimostrando che il tuo legame con la dea è più forte del normale. Inevitabilmente, dovrò ribadire la mia fede nella profezia che ti riguarda.» «Le nostre sorelle non condividono la tua fede» disse Kelagar, iniziando a capire. «Infatti» ammise la paladina «non tutte almeno. Avremo il pieno appoggio delle veggenti che l’hanno formulata, naturalmente, e della mia protettrice, l’anziana di cui sono destinata a prendere il posto. Ma non so su chi altri potremo contare. Dipenderà in parte da te, anche, dimostrare il tuo valore e la forza della tua convinzione. Dovrai crederci tu stessa per prima, se vogliamo sperare di convincere anche le altre» terminò. Kelagar rispose di getto, disse che ci credeva. Ma già mentre pronunciava quelle parole, si rese conto di non avere nessuna prova per avvalorare quella tesi. Finora, il principale motivo per cui non aveva mai dubitato della previsione era che neanche per un istante avrebbe dubitato di Bryzal. Però si accorse che, oltre a questo, non aveva altri elementi su cui basarsi. C’era anche qualcos’altro, che fino a quel momento non aveva voluto affrontare, qualcosa che non poteva più continuare a ignorare. «Cosa comporterà, esattamente, l’incarnazione?» chiese alla donna che
l’aveva guidata fino a quel giorno. «Nessuna di noi lo sa» replicò la ninfa «anche per questo in molte trovano difficile credere alla profezia» concluse, come se non ci fosse altro da dire. Kelagar la guardò perplessa, voleva rassicurarla, farle sapere che aveva fatto bene a credere in lei. Però, non aveva nessun mezzo per farlo. Soprattutto, era tempo che lei stessa si chiedesse fino a che punto riponesse la propria fiducia nella profezia.
5. L’esiliata
Quella notte Reelia non dormì. Dopo esser rientrata dalla lezione, si era affannata ininterrottamente in lavori domestici che non dovevano realmente essere sbrigati. Aveva tolto dai cassetti la biancheria, l’aveva disposta sul letto per poi dispiegarla e ripiegarla, riposandola negli stessi cassetti da cui l’aveva presa, nello stessa disposizione esatta. Aveva lavato tutte le stoviglie che possedeva, togliendole dalla credenza in cui riposavano già pulite. Poi aveva pulito il pavimento – per tre volte – e spolverato ripetutamente ogni superficie della casa. Si era dedicata a risistemare l’armadio dei vestiti, disponendo tutti gli indumenti che possedeva secondo l’ordine della scala cromatica. Continuò a lavorare futilmente per ore. Era già sera inoltrata quando, esausta, interruppe quelle inutili faccende, si accasciò sopra una sedia e ammise con sé stessa che era ora di affrontare i suoi pensieri, confusi e impastati dal sonno che cercava di combattere. Aveva trascorso l’intero pomeriggio costringendosi a non ripensare a quanto aveva detto ai bambini, allo strano modo in cui si era sentita quando la lezione era terminata. Adesso, non era più così convinta di aver fatto bene ad accettare l’incarico di maestra. Ma il giorno successivo avrebbe dovuto tenere una nuova lezione, non poteva semplicemente ignorare il problema… Aveva detto cose in cui non credeva e si era accorta di non essere stata sincera con sé stessa nemmeno in passato. Come aveva potuto non detestare le parole di Agàn sulla razza dei nani? Com’era riuscita a far finta di niente, a dirsi che non c’era alcun motivo per non abbandonare la classe di magia? Che motivo aveva per frequentare quel corso? Non voleva più ascoltare il suo anziano maestro, non voleva più saperne. Tanto più che non aveva mai ottenuto risultati eccelsi nella pratica, il massimo che riusciva a fare era generare piccole illusioni, come cambiare colore agli oggetti o aumentare e abbassare il volume dei suoni che sentiva. Abilità che, comunque, non u-
sava fuori dalla scuola. Lasciò che la mente le si riempisse di astio, se la prese con Agàn e anche con Oriveo, dicendosi che se il principe non fosse stato così disponibile con lei forse avrebbe lasciato già da tempo il corso di magia neutra. Era nervosa e cercava qualcuno da incolpare. Pensò a Tysen, che le aveva mentito, pensò ai nani, con disprezzo e tutto il risentimento che era in grado di provare. Odiò persino Re Roti, per il compito che le aveva affidato. Ma simili sentimenti mal le si adattavano. Non era così che la sua tutrice l’aveva cresciuta, non era sua abitudine gettare addosso agli altri la propria insoddisfazione. Solitamente, per di più, non si sentiva per nulla insoddisfatta. La vita che conduceva le piaceva, la maggior parte del tempo. Era grata per ciò che aveva avuto. Per l’amore di Tysen e anche per l’amicizia di Oriveo. Apprezzava sinceramente Agàn, non aveva mai pensato che non fosse degno di fiducia, così come stimava il re. La testa le faceva male, le lanciava delle fitte improvvise e dolorose, come se il turbinio di emozioni contraddittorie e contrastanti che provava stesse cercando, invano, di stabilire un ordine nella sua mente. Poggiò la fronte tra le mani, premendosi le tempie. «Sono ingiusta» si disse «la colpa non è di nessun altro, solo mia. Sono io che non ho chiuso con il passato come fingo di aver fatto da anni. Sono io che ho dei conti in sospeso» si costrinse ad ammettere. Ma questa ammissione non risolse in alcun modo il problema. Pensò al giorno successivo, pensò di non voler vedere Agàn, né Oriveo, né tanto meno tornare dai bambini della prima classe. Avrebbe potuto fingersi malata, si disse, però già nell’istante in cui formulò quell’idea le sembrò meschina e inconcludente. Cosa avrebbe dovuto fare? Poteva continuare a ignorare ciò che sentiva, obbligarsi a dormire per qualche ora. Poi si sarebbe svegliata, alzata e avrebbe vissuto la giornata che l’attendeva, fingendo che tutto fosse normale. Sarebbe stata la cosa più semplice, probabilmente. O forse la peggiore. Si rese conto all’improvviso di non aver scritto il rapporto quotidiano che aveva promesso al re per metterlo al corrente dell’andamento delle lezioni che teneva. Quel pensiero le passò per la mente come un lampo, come se fosse la risposta a qualcuna delle sue domande. «È così» disse a voce alta, alzandosi dalla sedia di scatto. Corse a prendere carta e penna e si sedette al tavolo. Descrisse al re
come si era svolta la prima lezione, cosa aveva detto ai bambini, riportò le domande che le avevano fatto. Terminato il resoconto, però, aggiunse qualcos’altro: Vi prego di perdonarmi, maestà. Quanto ho esposto finora può esservi sembrato positivo, può avervi indotto a pensare di aver fatto bene ad assegnarmi questo compito. Non è così. Temo di non esser stata del tutto sincera. Come sapete, i miei veri genitori sono stati uccisi dai nani durante la guerra. Sono stata fortunata ad avere Tysen a prendersi cura di me, non ho dubbi in proposito. Ma nonostante ciò, non posso fare a meno di domandarmi chi fossero mia madre e mio padre, non posso smettere di credere che avrei dovuto avere la possibilità di conoscerli, come ogni bambino. Non riesco a non pensare al male che mi hanno causato i nani, uccidendo la mia famiglia. Come vi ho scritto, ho detto ai bambini che non si può mal giudicare un’intera razza per le azioni di alcuni. È ciò che pensate voi, ciò che mi ha insegnato Agàn. So che sicuramente avete ragione. Solo, non sono in grado di convincermene, non sono capace di accettarlo davvero. Non è ciò che provo. Non tornerò a lezione domani. Ho deciso di lasciare Serenella, per un po’; ho bisogno di risposte, di pace. Ho bisogno che gli strani sogni che mi tormentano smettano di farmi visita. Non avrei voluto deludere le vostre aspettative. Ma se vorrete punirmi per questa mancanza, sarò pronta ad affrontare le conseguenze delle mie azioni, al mio ritorno in città. Partirò domattina stessa, subito dopo aver consegnato al messo reale questo messaggio. Vi chiedo ancora una volta di scusarmi e di comprendere le ragioni di questo gesto. Vi prego anche, se vorrete, di salutare Oriveo per me. Vi porgo tutte le mie scuse e i miei omaggi. Spero possiate trovare un miglior sostituto, qualcuno che possa svolgere il ruolo che avevate pensato per me con esiti migliori. Addio. Reelia. Rilesse quelle parole, chiedendosi se fosse possibile rivolgersi a un re in maniera così diretta. Forse avrebbe dovuto chiedere di essere nuovamente ricevuta a palazzo, per esporgli le proprie ragioni di persona.
Sarebbe stato più appropriato, pensava. Rifletté sulla possibilità di agire in quel modo, di non abbandonare il lavoro senza aver prima ottenuto il consenso di Roti. Però non era possibile, concluse con sé stessa cercando di rassicurarsi. Ci sarebbe voluto del tempo e lei non voleva aspettare. Inoltre, non era del tutto sicura che il sovrano avrebbe acconsentito e le avrebbe permesso di portare a termine il suo progetto. Il fatto che il re avesse una mente particolarmente aperta non faceva di lui un cultore delle forze spirituali. Mentre ciò che Reelia aveva in mente di fare coinvolgeva i poteri di una strega e le imponeva di recarsi nella zona dei boschi. Dove, che lei sapesse, gli umani non erano soliti inoltrarsi.
JK Il messo reale arrivò puntuale a casa di Reelia, il mattino successivo, per ritirare il resoconto della ragazza. Lei glielo diede e si congedò, senza dire nulla che potesse insospettirlo. Quando l’uomo se ne fu andato, lei corse in casa a prendere quanto le serviva. Non aveva mai affrontato un simile viaggio, non era sicura di cosa avrebbe dovuto portare. Soprattutto non aveva idea di cosa indossare. Cercò degli abiti adeguati, ma il modo in cui risultò vestita alla fine della preparazione le conferiva un aspetto piuttosto bizzarro. Reelia era solita portare indumenti dalla foggia spiccatamente femminile e non possedeva abiti da viaggio. Avrebbe potuto comprarne, ma voleva dire dover attendere l’apertura delle botteghe e correva il rischio di incontrare Oriveo, diretto a lezione. Non voleva salutarlo, non voleva che lui si preoccupasse, cercasse di dissuaderla o si offrisse di andare con lei. Era una cosa che doveva fare, e doveva farla da sola. Così aveva cercato di adattare gli abiti che aveva. Nessuna delle scarpe che possedeva le sembrava adatta per camminare nei boschi. Non sapendo come fare, decise di risolvere la situazione cucendo un paio di solette di cuoio alle basse calzature di stoffa che utilizzava in casa. Il risultato non era dei migliori, constatò, ma non se ne curò minimamente. Inoltre, le scarpe non erano il maggiore dei problemi; fino a quel momento aveva indossato solamente gonne, così non disponeva di pantaloni.
Cercò di realizzarne un paio, cucendo al centro uno dei suoi vestiti, ma ne risultò qualcosa di scomodo e difficilmente utilizzabile. Allora prese una spessa calzamaglia, di quelle che solitamente si portano sotto le gonne e non in loro vece, ne tagliò la parte dei piedi e la mise indosso. Decisamente più confortevole. Cercò una vecchia casacca da mettervi sopra e infine ricoprì il tutto con un lungo mantello, che la copriva quasi interamente e rendeva l’insieme meno improponibile. Si ritenne soddisfatta dall’esito dell’operazione, però evitò accuratamente di guardarsi nello specchio, nel timore di pentirsene. Passò a occuparsi delle provviste. Non avrebbe potuto trasportare un carico eccessivamente pesante; era abbastanza vigorosa per essere una donna, ma l’aspettava una lunga camminata e non voleva che il peso la rallentasse. Così si limitò all’essenziale. Prese tre borracce e le riempì d’acqua, avvolse del formaggio stagionato in una pezza e lo ripose in uno zaino di tela che avrebbe portato in spalla, aggiungendovi delle frutta e qualche fetta di carne essiccata. Sapeva che nella foresta crescevano cespugli dalle bacche commestibili. Non era sicura di saperle riconoscere ma sperò che le scorte che aveva portato le sarebbero bastate; non prevedeva di stare via a lungo, anche se non sapeva quanto tempo le sarebbe servito per raggiungere la propria meta. Era diretta in una zona dei boschi lontana da Ryatolia, a pochi chilometri dal grande fiume. Non conosceva l’ubicazione esatta della propria destinazione però non le era necessaria… si stava recando da Auriel, la veggente, perciò le bastava avvicinarsi alla sua abitazione perché la strega se ne accorgesse e le venisse incontro. Era stato Agàn a parlarle di lei; aveva detto che Auriel non viveva con le altre ninfe, conduceva un’esistenza appartata, ai margini del bosco. Reelia ignorava il motivo di questo isolamento, comunque era irrilevante. Agàn aveva detto che si trattava di una veggente di grande abilità e questo le bastava. Legò i capelli dietro al collo e fu pronta per partire. Sistemò il mantello sopra la testa. L’avrebbe tenuto così fino a quando non fosse stata sufficientemente lontana da Serenella, non voleva incontrare nessuno che potesse riconoscerla e farle domande, sulla sua destinazione o sul suo strano abbigliamento!
JK Camminare per le vallate non richiedeva a Reelia sforzi eccessivi, aveva un passo svelto e si complimentò con sé stessa per la comodità dell’abbigliamento che aveva creato: non la impacciava nei movimenti e le permetteva di avanzare rapidamente. Andò avanti per un giorno intero, fino a quando scese la sera e volle fermarsi per riposare. Non aveva avuto nessuna paura a viaggiare senza qualcuno che l’accompagnasse, né aveva provato disagio pranzando da sola in mezzo a una distesa di erba con nulla intorno a ripararla. Ma adesso il cielo iniziava a scurire e non voleva dormire all’aperto. Proseguì fino al villaggio più vicino, decisa a trovare una sistemazione per la notte. Aveva viaggiato procedendo verso sud, per raggiungere il Vodi nella sua parte più facilmente guadabile, dove l’acqua era bassa e un cavallo non aveva difficoltà a procedere. Era indecisa se tentare di attraversarlo a piedi o accettare di procurarsi una cavalcatura. Comunque, ci avrebbe pensato il mattino successivo; per ora il suo obiettivo era trovare una taverna dove una ragazza sola potesse passare la notte senza problemi. Il paese in cui si fermò era una cittadina di allevatori e contadini, si chiamava Sevinia. Non tanto grande, pensò Reelia, abituata a vivere nella capitale, però graziosa, abbastanza per affittare una camera. Si aggirò per le vie di quello che doveva essere il centro, fino a che vide un’osteria dall’aspetto invitante. L’insegna riportava un nome che la ragazza trovò simpatico: “Il caldo camino della sera”. Entrò, chiese un tavolo e ordinò la cena. Aveva portato del denaro con sé, voleva conservare le scorte che aveva per il viaggio, così si concesse un pasto caldo. Giudicò la cena soddisfacente, tanto da garantire sulla possibilità di pernottare in quel locale. Chiese all’oste se fosse possibile, se avessero camere disponibili. Pochi viandanti passavano da quelle parti, si sentì rispondere, così la taverna era quasi vuota e non ebbe difficoltà a trovarvi posto. Le fu data una camera piuttosto piccola ma pulita, e lei fu felice di avere un letto in cui stendersi. Forse per la stanchezza, o per l’eccitazione del viaggio, quella notte non ebbe difficoltà a dormire. Non sognò e non ebbe ripensamenti sulla decisione che aveva preso. Al mattino si svegliò riposata e ancor più convinta della bontà del cammino intrapreso.
Andò dal locandiere per pagare. L’oste non era solo, stava parlando con un uomo, simile a lui nei lineamenti e nella voce, che Reelia pensò potesse essere il fratello, o un cugino. Non aveva intenzione di ascoltare i loro discorsi, ma le sembrò maleducato interromperli, così attese che finissero e non poté fare a meno di udirne le parole. Stavano parlando di una ragazza, a quanto capì. Reelia non era sicura ma doveva trattarsi della figlia di uno dei due, dell’ospite dell’albergatore, probabilmente. Il taverniere stava chiedendo al secondo uomo come mai non la si vedeva in giro da qualche tempo. Reelia sentì il visitatore rispondere, con noncuranza, che la giovane non abitava più a Sevinia. Era stata mandata presso un’anziana zia materna bisognosa di assistenza, in un altro paese. L’uomo che aveva posto la domanda parve soddisfatto della risposta e finalmente si accorse della presenza di Reelia. La ragazza pagò il conto e uscì dalla locanda, pronta a rimettersi in marcia. Le ci sarebbero volute solo poche ore di cammino per raggiungere il grande fiume, ma una volta lì si sarebbe presentato il problema di come superarlo. Dopo aver lasciato Serenella, Reelia aveva proseguito evitando di entrare nei centri abitati, a eccezione di Sevinia. Intendeva continuare nello stesso modo. Perciò, prima di lasciare il paese in cui si trovava, doveva decidere se le convenisse o meno acquistare un cavallo, o prenderne uno in prestito. Ci pensò per un po’, ma concluse che acquistarlo le sarebbe costato troppo e che probabilmente nessuno ne avrebbe concesso uno in consegna a una sconosciuta. Cercò di convincersi che quelle fossero le uniche ragioni, che avrebbe superato l’avversione per i cavalli, se fosse stato necessario. A ogni modo, era ininfluente. Aveva deciso ed era ora di ripartire.
JK Il sole era ancora alto nel cielo, quando Reelia raggiunse il Vodi. Si sedette sulla sponda del fiume, ferma a riflettere. Pensò che, per quanto quello fosse il punto più basso, l’acqua era comunque troppo alta per poterla attraversare camminando. L’unica possibilità che aveva era procedere a nuoto, nonostante la forte corrente e la temperatura gelida.
Ancora una volta Reelia dimostrò, a sé stessa, la propria capacità di arrangiarsi e trovare soluzioni ingegnose. Doveva trovare il modo di proteggere le scorte di cibo, per evitare che si infradiciassero. Voleva anche avere qualcosa con cui asciugarsi, una volta uscita dall’acqua. Così si sfilò il mantello, lo avvolse intorno allo zaino delle provviste e lo legò intorno alla testa creando una sorta di improvvisato copricapo. A quel punto, tutto ciò che doveva fare era nuotare fino alla riva opposta evitando di bagnarsi dal collo in su. L’impresa si rivelò più ardua del previsto. Il freddo le bloccava i movimenti e la corrente la spingeva con una forza inaspettata. La ragazza dovette attingere a tutta la forza di volontà di cui disponeva, costringendo il suo corpo a procedere nonostante ogni muscolo le dolesse violentemente. Riuscì a farcela, a superare il fiume e tornare a poggiare i piedi per terra, accorgendosi però che ogni minimo sforzo le richiedeva una fatica mai provata. Era infreddolita, sentiva fitte e crampi divorarla avidamente. Lentamente, con difficoltà, srotolò il mantello e tentò di ripararsi come meglio poteva. Avrebbe voluto sdraiarsi e riposare, almeno per qualche minuto, però guardandosi intorno non scorse nessuna superficie pianeggiante sufficientemente ampia. Attorno a lei si stagliava minacciosa una densa cortina di alberi giganteschi e immensi. Imprevisto, lo sconforto l’assalì silenzioso. Non sapeva quale direzione dovesse seguire, non aveva idea di come poter procedere attraverso l’imponente foresta che le si stagliava davanti. L’esitazione durò solo qualche secondo. Non aveva certo raggiunto i boschi per perdersi d’animo alla prima difficoltà! Attese ancora qualche minuto, per permettere ai suoi muscoli di riprendersi almeno in parte, poi fu pronta per riprendere il cammino. Aveva un piano, o qualcosa di simile: avrebbe affrontato quegli alberi, uno alla volta. Non fu facile per nulla. Tra un albero e l’altro lo spazio era poco e angusto, spesso Reelia era costretta ad avanzare appiattendosi contro le cortecce, che le sfregavano sulla pelle dolorosamente. Si graffiò e si ferì più volte; anche i suoi piedi e le sue gambe erano livide e insanguinate, a causa dei cespugli che ricoprivano il suolo. La sua calzamaglia si strappò in più punti, riducendosi rapidamente in un insieme di larghi fori tenuti uniti da pochi brandelli di stoffa. La testa le doleva e vedeva a stento; la foresta era immersa nel buio, a eccezione di alcuni tratti ri-
schiarati dalla fioca luce di una fastidiosa nebbia bluastra che si attaccava ai capelli e al volto della giovane donna, rendendole quasi impossibile respirare. Reelia non aveva più idea di che ora fosse, l’oscurità che l’avvolgeva era uniforme e persistente, non avrebbe saputo dire da quanto tempo vi si fosse immersa. Si diede della sciocca, per aver creduto di potersi addentrare nel territorio delle ninfe. Si sentiva smarrita, sola e priva di ogni energia. Ripensò alle parole di Agàn… il maestro aveva detto che Auriel viveva quasi al bordo della foresta, e che si accorgeva della presenza di un visitatore. L’angoscia l’assalì fulminea. Il fatto che la strega fosse a conoscenza del desiderio di Reelia di incontrarla non voleva necessariamente dire che fosse disposta a mostrarsi a lei. Questa rivelazione si fece strada amara nel suo cuore, la mortificazione che provò le causò dei feroci conati alla bocca dello stomaco. Pianse, maledicendo la propria incoscienza. Pensò di avere agito scioccamente, con immotivata arroganza. Non avrebbe dovuto lasciare Serenella; si chiese se sarebbe mai riuscita a tornarvi, forse sarebbe morta così, vagando per i boschi senza nessuno che potesse ritrovarla. Però ancora non era pronta ad arrendersi, ancora c’era qualcosa che le diceva di non abbandonare le speranze. La sua ostinazione, quasi certamente. La sua fede in Alyari era sempre stata forte e sincera, ma adesso era come se la divinità le avesse voltato le spalle. Forse era in collera con lei, per aver violato il territorio delle sue figlie predilette. Si rivolse alla dea, urlando al vuoto preghiere disperate e cariche di rabbia. «Credi che io abbia sbagliato?» singhiozzò «pensi che ti abbia disonorata venendo qui? O temi che possa danneggiare questa dannata foresta?» aggiunse, subito pentendosi di quelle parole. «Perdonami, Alyari» balbettò, la voce rotta dal pianto. Non disse altro, non pensò più a nulla. Rimase immobile, lo sguardo fisso e vacuo. Restò così, ferma e vuota, per un tempo che le parve interminabile. La riscosse un ululato lontano proveniente da un punto imprecisato. Si sentì in trappola. Ogni rumore, anche il minimo fruscio, le sembrava una minaccia cui non poteva sottrarsi. D’un tratto, fu come se un ricordo dentro di lei avesse riacquistato con-
sistenza. Un’idea l’attraversò… Agàn, la magia, qualcosa che forse sapeva fare… Raccolse le poche forze che ancora aveva, si concentrò come mai aveva fatto prima. Lentamente, impercettibilmente, la foresta si zittì. Ogni suono del bosco era svanito, come se a occuparlo rimanesse solo lei. Si guardò intorno sorpresa. Un assoluto silenzio, innaturale e ovattato, l’avvolgeva. Il selvatico labirinto in cui era sprofondata le appariva meno inavvicinabile, ora. La fiducia tornò a farsi strada in lei, come una vecchia amica con cui avesse litigato senza ragione e che adesso poteva riabbracciare senza esitare. Era orgogliosa di quanto aveva fatto. Le sembrava di aver domato il bosco, di averlo conquistato. Era finalmente pronta a proseguire. «Ma in che direzione?» si chiese. Non fece quasi in tempo a formulare quel pensiero. Una voce cantilenante e irreale si rivolse a lei, parlandole senza produrre alcun suono tangibilmente percettibile. «Non occorre che te lo domandi» disse la voce. Reelia guardò in ogni direzione, tentando di identificare la sorgente di quelle parole. Non vide nulla cui potessero essere attribuite. «Non sono qui, inutile cercarmi» proseguì l’inspiegabile eco «ciò nonostante, mi hai trovata.» La voce fece una pausa, prima di parlare nuovamente. «Sono Auriel» disse. Il cuore di Reelia sobbalzò. «Dove sei?» gridò, ma dalla bocca non uscì alcun rumore. Ripeté la domanda nella sua mente. Ottenne una risposta chiara e silenziosa. «Non puoi raggiungermi. Nessuno può avvicinare la mia dimora, nemmeno quelle sciocche ninfe» disse Auriel. Reelia avrebbe voluto chiederle come mai fosse in lite con le sue sorelle, ma non osò, nel timore di indispettirla. Precauzione che si rivelò inutile, poiché Auriel lesse quella domanda all’interno della sua mente. «Quelle vili codarde mi hanno esiliata» disse la veggente «hanno avuto paura della verità, questo è quanto. Ma non è per semplice curiosità che sei qui, dico bene?» chiese la veggente. «Puoi aiutarmi?» replicò Reelia. «Certo che posso» rispose la ninfa. Dopo queste parole, la sua voce svanì.
JK Reelia si ritrovò di nuovo sola, incerta su cosa fare, su cosa Auriel volesse da lei. Provò a chiamarla. Silenziosamente, poi parlando. Questa volta non ottenne risposta. Stava iniziando a pensare che la veggente si fosse presa gioco di lei, quando una donna comparve dal nulla davanti ai suoi occhi. Non era come Reelia l’aveva immaginata; dalla voce di poco prima e dai racconti di Agàn aveva pensato si trattasse di una vecchia. Ma quella che invece vedeva adesso era una donna di non più di quarantacinque, massimo cinquant’anni. «Non farti ingannare dall’apparenza» le disse Auriel «sono a questo mondo da quasi due secoli ormai.» Reelia la guardò rapita. La sua carnagione esangue le sembrava quasi trasparente in quell’oscurità. I suoi lineamenti, delicati e aggraziati, avevano qualcosa di felino e sinuoso. I suoi capelli, lunghi fino a terra, erano di un colore ingannevole, che alla ragazza sembrò di un lilla vagamente luminescente. Aveva due occhi chiarissimi, di un intenso azzurro glaciale. Auriel sorrideva, quasi sapesse che Reelia non aveva mai visto una ninfa prima di allora, pensò la ragazza. «Lo so» affermò la veggente. Le due donne si fissarono, immobili, poi fu di nuovo la strega a parlare. «Vuoi che io ti riveli la verità sul tuo passato, non è così? Non occorre che parli, conosco la risposta. Ti accontenterò» disse Auriel «ma in cambio dovrai fare una cosa per me.» «Di che si tratta?» domandò Reelia. «Ogni cosa a suo tempo, bambina. Adesso andiamocene di qui. Non mi piace allontanarmi dal mio rifugio. Non posso rivelarti dove si trova, ti ci condurrò io stessa» disse la strega. Cinse la vita della ragazza con un braccio, con la mano libera le coprì gli occhi. Reelia si sentì sollevare da terra, le sembrò che il suo corpo fosse privo di solidità. La ninfa si librava in aria con leggerezza. Reelia tremava, ma la strega procedette imperturbabile. Di colpo si fermò. Poggiò la ragazza per terra e la liberò dalla stretta. Le scoprì gli occhi. Erano all’interno di una piccola costruzione di legno, dalle pareti ricoperte di fiori rampicanti e poggiata
sui rami di un’alta quercia. Reelia osservò stupita quell’abitazione sospesa al di sopra della foresta. Era piuttosto spoglia: pochi mobili, pochi oggetti, tutto perfettamente ordinato, immacolato; era come se niente fosse mai stato utilizzato. Avrebbe potuto essere un edificio abbandonato da anni, non fosse stato per l’impeccabile pulizia e la forte illuminazione. «Benvenuta in casa mia» annunciò Auriel.
JK Oriveo trovò strano non vedere Reelia a lezione quella mattina. La ragazza, finora, non aveva perso neanche un giorno. Temendo che si fosse ammalata si recò a casa sua, per accertarsi delle sue condizioni. La casa era vuota e chiusa. Il principe doveva fare ritorno al palazzo reale ma non si sentiva tranquillo a non conoscere le ragioni dell’assenza di Reelia. Così nel pomeriggio ritornò alla scuola, nell’ora in cui la giovane maestra avrebbe dovuto tenere la sua lezione alla prima classe. Al suo posto trovò Agàn. L’anziano insegnante disse ai bambini di fare una pausa e uscì dall’aula per salutare Oriveo. Il figlio del re non era in vena di convenevoli. «Cosa fate voi qui?» domandò il principe seccamente. Non era solito comportarsi in modo scortese; il vecchio maestro sembrò leggergli la preoccupazione negli occhi. «Ne so quanto voi, maestà» ammise Agàn «Reelia non si è presentata a scuola stamattina, questo già lo sapete. Al termine della lezione sono stato convocato da vostro padre. Il re mi ha detto che la nostra giovane amica sarebbe mancata per qualche giorno. Non mi ha spiegato per quale ragione, si è limitato a chiedermi di prenderne il posto fino al suo ritorno» concluse. Oriveo si scusò per la sua irruzione, disse ad Agàn di rientrare in aula, ringraziandolo per la pazienza. Uscì dalla scuola in tutta fretta, montò a cavallo e si diresse a palazzo, intenzionato a chiedere al padre una spiegazione. Il re non aveva mai mentito al figlio, eppure sapeva qualcosa che non aveva voluto dire a Oriveo. «Padre» esordì il giovane «dov’è Reelia? So che voi lo sapete, per quale ragione non me ne avete parlato?» «Non ero sicuro di come avresti reagito» rispose Roti «e la tua irruenza conferma i miei sospetti. Tieni molto a lei, mi sbaglio forse?» domandò
il sovrano. «No padre, non vi sbagliate, sono affezionato a quella ragazza» replicò il principe «più di quanto lei sappia» aggiunse, con evidente imbarazzo. «L’avevo immaginato» disse il re «per questo motivo ho atteso, prima di parlarti della sua scomparsa.» Roti si fermò, osservò il volto di Oriveo, la sua espressione ansiosa e carica d’interrogativi. «Non intendo tenerti nascosto ciò che so» proseguì il sovrano «tuttavia temo di non poterti fornire una storia sufficiente a placare il tuo animo. Ho atteso prima di parlartene, non volevo che tu compiessi gesti avventati.» «Che significa?» s’affrettò a chiedere Oriveo «sapete dov’è andata?» aggiunse d’un fiato. «No, non lo so» gli rispose il padre «ma ho qualcosa da mostrarti.» Roti mostrò al figlio la lettera che Reelia aveva consegnato al messo reale. Il principe la lesse avidamente, poi la rilesse più volte. «Non dice niente!» esclamò, sperando che il re potesse aggiungere qualcosa a quella misera spiegazione. «Non so altro» ammise Roti «non conosco la sua destinazione. Per questo non sapevo se parlartene o meno. Non volevo che tu partissi alla sua ricerca senza neanche conoscere la direzione da prendere.» «Che importanza volete che abbia?» sbottò il principe «devo seguirla, accertarmi che stia bene» aggiunse risolutamente. «No, figlio mio» affermò il sovrano «non puoi abbandonare la capitale. I nostri sudditi hanno bisogno che tu sia qui, devono poter fare riferimento sulla famiglia reale, vederla in città. O potrebbero intimorirsi di una nuova minaccia.» «Ma… » Oriveo fece per parlare. Roti fu rapido a interromperlo. «Non ti permetterò di lasciare la città senza una buona ragione. Non è compito tuo andare in cerca della ragazza. Sarà la guardia reale a occuparsene» annunciò il re. Il principe lo guardò, stupito e grato per quelle parole. «Tysen era una mia buona amica, e certamente non voglio causare un dolore al mio stesso figlio. Reelia è in cerca di risposte, ma potrebbe non sapere dove cercarle. Ho paura che possa andare incontro a qualche guaio. Due delle mie guardie migliori, Ravies e Nimoi, sono già sulle sue tracce. Avremo loro notizie quanto prima» disse il re «ti riferirò ogni cosa, hai la mia parola» promise al figlio.
Oriveo era ancora inquieto e in ansia per la sorte dell’amica. Però la premura del padre lo aveva rincuorato. Ringraziò Roti, lo abbracciò; un gesto non proprio regale… ma era suo padre, un buon padre, per quale motivo non avrebbe dovuto volergli bene? Anche il sovrano doveva pensarla nello stesso modo, perché rispose all’abbraccio e baciò il figlio con sincero affetto. «Tua madre sarebbe fiera di te» gli sussurrò, riuscendo infine a rasserenarlo.
6. Dove conduce la ricerca
Ravies e Nimoi erano partiti alla ricerca di Reelia appena ricevuto l’ordine dal re. Non avevano fatto domande sulla necessità di quella missione: erano fedeli al sovrano e non occorreva loro nessuna spiegazione, a eccezione della descrizione della ragazza. Viaggiavano a cavallo. Fu facile per le due guardie raggiungere la viandante, meno semplice riconoscerla. Roti l’aveva descritta come una giovane donna aggraziata… ma la persona che incontrarono non era la dolce ragazza che avevano immaginato, il suo abbigliamento era decisamente insolito. Però doveva essere lei: bassa di statura, sui vent’anni, corti capelli biondomiele. Non ebbero dubbi. Reelia procedeva a piedi, così dovettero faticare non poco per rallentare il passo dei cavalli e non farsi vedere; l’ordine che avevano avuto non era di costringerla a tornare, bensì di seguirla silenziosamente controllando che fosse al sicuro. Se così non fosse stato, ovviamente, avrebbero potuto rivelare la propria presenza e intervenire. Pur avendo un passo veloce, Reelia poteva contare solo sulle gambe. Le guardie furono costrette più volte a fermarsi per concederle il vantaggio necessario a non accorgersi della loro presenza, soprattutto a causa della pressoché assoluta mancanza di ripari che le vallate offrivano. Quando ne perdevano le tracce, ricostruivano il percorso della ragazza dalle impronte che lasciava. Avanzarono così fino al suo ingresso a Sevinia. Dentro al paese fu facile per i due uomini seguirla non visti, mimetizzati dalla presenza degli abitanti del villaggio. Attesero fino all’indomani, quando la videro lasciare la piccola città. Seguirono il suo stesso tragitto fino al Vodi. Giunsero al fiume dopo di lei. La videro che nuotava lottando contro la corrente. Ebbero la tentazione di lanciarsi con i cavalli in suo soccorso, ma resistettero. Reelia riuscì a superare il fiume, le due guardie la videro fermarsi all’ingresso dei boschi. Aspettarono che gli alberi la sottraessero alla vista e guadarono rapidamente il Vodi, in sella ai destrieri. Giunti sulla riva opposta, furono sopraffatti dalla vista di un paesaggio
sconosciuto e impenetrabile. Non c’era modo di proseguire tra gli alberi cavalcando, gli animali riuscivano a malapena a trovare uno spazio sufficiente a fornire loro una superficie d’appoggio. Nimoi e Ravies scesero dai cavalli, li legarono a due degli alberi e si apprestarono a procedere a piedi. Gli alberi impedivano ai due uomini il passaggio, la rigogliosa e onnipresente vegetazione rendeva arduo ritrovare le tracce di Reelia. Provarono invano ad addentrarsi nella foresta, ferendosi nell’inutile tentativo. Non si erano mai trovati in una simile situazione, ma erano soldati ben addestrati e abituati a non arrendersi. Cercarono di farsi strada con le spade; un’impresa disperata e impraticabile. Pensarono allora di arrampicarsi su uno di quegli alberi dai tronchi spessi e difficilmente accessibili. Occorsero loro numerosi sforzi e un notevole spreco di tempo per arrivare in cima. Una volta saliti, si accorsero che era impossibile guardare verso il basso cercando di orientarsi: le fronde ostruivano del tutto la visuale, l’oscurità sembrava permeare ogni centimetro del bosco. Avanzarono faticosamente da una pianta all’altra muovendosi tra i rami. Si accorsero che la distanza tra gli alberi era leggermente aumentata, così ridiscesero a terra sperando di riuscire a orientarsi. Camminarono appiattendosi contro le cortecce, senza nessuna ipotesi sulla direzione da seguire. Potevano essere passate solo poche ore, così come essere già scesa la notte. Non avrebbero saputo dirlo; l’unico riferimento a disposizione era l’aumentare del dolore agli arti e ai muscoli dei loro corpi. Non sapevano dove fossero, né avevano idea dell’attuale posizione della ragazza, risucchiata chissà dove in quel buio inviolabile.
JK Auriel disse a Reelia di sedersi, indicandole una sedia accanto a un basso tavolino di legno scuro. Prese posto di fronte a lei. La veggente allungò le braccia sulla superficie del mobile, prendendo le mani dell’ospite tra le sue. «Sappiamo entrambe perché sei qui» dichiarò la strega «inutile perderci in chiacchiere.» Reelia non parlò, sostenne lo sguardo della ninfa. Non era certa di fidarsi di quella donna.
«Puoi fidarti di me» affermò Auriel «sei stata tu a cercarmi, comunque.» C’era qualcosa di sgradevole nel suo modo di fare. Sembrava quasi che avesse fretta di concludere, mentre era Reelia quella che stava mettendo in gioco la propria vita e tutto ciò che di essa credeva di sapere. La ragazza continuò a tacere. Non che le fosse necessario parlare, pensò, la veggente leggeva i suoi pensieri con la più assoluta libertà, facendola sentire vulnerabile e ingiustamente violata. Cercò di svuotare la mente, ma continuava a ripensare al motivo per cui era lì, alle domande che l’assillavano. «Posso vedere nel tuo passato, posso rivelarti ciò che desideri sapere» la blandì la ninfa d’un tratto. Reelia era intimorita da quella creatura, e al tempo stesso ne era affascinata. Una vaga sensazione di pericolo, da qualche parte in fondo alla sua coscienza, cercava di metterla in guardia dalle intenzioni della strega. La ragazza ignorò l’avvertimento; forse poteva ancora rinunciare, ringraziare e andarsene… forse Auriel gliel’avrebbe concesso… inutile pensarci; mise a tacere ogni timore. La speranza di conoscere il significato dei suoi sogni, di sapere la verità su chi fosse, era troppo forte per poterla cancellare. «Sono pronta» disse «cosa devo fare?» Le veggente rispose che non era necessario che facesse qualcosa. Doveva rimanere in silenzio, concentrarsi su ciò che voleva sapere. Reelia ubbidì. Vide Auriel chiudere gli occhi. La vide rimanere perfettamente immobile, ferma davanti a lei. Sentì la stretta delle sue mani farsi gelida. Qualunque cosa fosse accaduta, non era durata più che pochi minuti. La ninfa riaprì gli occhi, un’espressione affaticata si dipinse sul suo volto. Eppure, la ragazza fu certa di scorgervi uno sguardo divertito.
JK Auriel non pronunciò una sola parola. Rimase ferma a guardare la giovane di cui ora conosceva il passato. Reelia aspettò che la donna le parlasse, che le rivelasse quanto aveva visto. La veggente, però, non accennava a volerlo fare. Lasciò le mani dell’umana che le sedeva di fronte, e questo fu tutto. «Cos’hai visto?» chiese infine Reelia a bruciapelo, stanca di aspettare una reazione della strega.
«Davvero lo vuoi sapere? La verità potrebbe essere diversa da come l’avevi immaginata» ribatté Auriel. «Certo che lo voglio sapere! Perché tutto questo mistero?» replicò la ragazza, che iniziava a perdere la pazienza. Pensò che la strega la stesse ingannando. «Nessun inganno» affermò la ninfa «ho visto chi sei. I tuoi genitori, le tue origini. E dunque, ti accontenterò. Spero tu sia pronta per sentire cosa ho da dire. Ho visto la tua nascita. Ho visto tua madre darti alla luce. Eri una figlia desiderata e sei stata fortemente amata, da entrambi i tuoi genitori.» Il cuore di Reelia perse un battito. I suoi genitori, sua madre e suo padre. «Chi erano? Quali erano i loro nomi?» domandò. Auriel le sorrise freddamente. «Tua madre si chiamava Situe, tuo padre Helif» rispose la strega «immagino tu abbia già sentito questi nomi.» Lo sapeva. Glielo lesse in faccia, prima ancora che nel pensiero. «Tu menti!» gridò la ragazza. «Niente affatto, principessa.»
JK Il re Helif e la regina Situe avevano regnato su Serenella per anni, donando alle vallate stabilità e benessere. I sudditi avevano fiducia in loro, li ritenevano generosi e corretti. Sicuri nelle decisioni e fermi nella guida. Generosi, disponibili, i migliori regnanti che si potessero desiderare. Una sola cosa turbava la pace della famiglia reale: la mancanza di un erede. Dopo quasi un decennio di speranze e delusioni, i sovrani avevano abbandonato il sogno di donare la vita a un figlio. Per quanto lo desiderassero, nessun concepimento sembrava voler benedire la loro unione. Situe piangeva quasi ogni notte, quando nessuno poteva sentirne i lamenti. Condivideva il proprio dolore solo con il marito e con Tysen, amica e prima dama della sua corte. Nessuno sapeva spiegarsi l’impossibilità dei sovrani di avere un bambino. Erano giovani, godevano di ottima salute. Situe era una donna
bellissima, slanciata e snella, dai lunghi capelli castani e la pelle ambrata. Helif era un uomo forte e robusto, possente, tranne che per un dettaglio: la moglie lo superava in altezza di venti centimetri circa. Ma questa modesta imperfezione non poteva certo essere un motivo sufficiente a impedire loro di procreare. Tysen, ferma devota di Alyari, pregava ogni giorno la dea di concedere alla regina il dono di un erede. La sua fede era forte e incrollabile; Situe non comprendeva la fiducia che l’amica riponeva in quelle invocazioni, ma le era grata per l’affetto che in tale maniera le dimostrava. La dama non interruppe le sue suppliche alla dea, nemmeno quando gli stessi sovrani si erano ormai arresi all’evidente infertilità. Impossibile dire se furono davvero le preghiere di Tysen a rendere possibile il miracolo. Certo la donna ne era convinta. Un soleggiato giorno di primavera Situe corse da lei, il viso inondato di lacrime colme di gioia. La regina non ebbe bisogno di dire niente: la radiosità dei suoi occhi parlava da sola. Re Helif era felice come non lo era mai stato. Fece diffondere la notizia da un angolo all’altro delle vallate, invitando a recarsi a Serenella chiunque volesse prendere parte ai festeggiamenti, che sarebbero durati per nove mesi, destinati a interrompersi unicamente per lasciare il posto a feste ancora più suntuose e magnifiche, quando il bambino fosse nato. Sembrava che nulla potesse turbare la gioia che pervase l’intero regno. La regina portò avanti la gravidanza senza alcuna complicazione; lei e suo figlio apparivano perfettamente sani. Ed era la verità. Quando Situe partorì, Serenella accolse con commozione l’arrivo di una bambina dal volto paffuto e sorridente. La regina non era convinta che la fede di Tysen avesse avuto un ruolo in quella vicenda. Però volle ricompensare l’amica per la profondità del suo amore, per il modo in cui le era sempre stata accanto. Chiamò la figlia Aileer, in onore della dea. Nessun altro, oltre a Tysen, notò la somiglianza tra il nome della principessa e quello di Alyari. Ma Situe era sicura che la dama avesse apprezzato quel gesto. Ciò che avvenne in seguito fu tanto inaspettato quanto letale. Le vallate, abituate a non curarsi di quel che succedeva nel resto di Ghyoron e distratte dalla nascita dell’erede al trono, non ebbero alcun sentore di quanto stava accadendo sulle colline.
I nani, che fino ad allora non si erano mai avventurati al di fuori del proprio territorio, avevano invaso la regione dei folletti, finendo con l’annientare quel piccolo popolo pacifico e giocoso. A conti fatti, gli umani avrebbero potuto continuare a ignorare lo svolgersi dell’insensata guerra scatenata dai nani. Se questi si fossero limitati ad attaccare le colline, la vita nelle vallate avrebbe continuato a scorrere esattamente come prima. Ma i piani dei nani non prevedevano quest’ipotesi; ben presto si fecero strada attraverso il territorio degli uomini, distruggendo e saccheggiando ogni villaggio che incontrarono lungo la strada per Serenella. Gli umani non erano preparati allo scontro, gli aggressori avanzarono senza incontrare una qualche resistenza in grado di rallentarne la marcia. Ben presto i nani raggiunsero la capitale.
JK Reelia non riusciva a credere a quelle parole. Non potevano essere vere. «La figlia di Helif e Situe è morta quindici anni fa: quando i nani hanno attaccato Serenella il loro primo pensiero è stato distruggere la famiglia reale» disse, più a sé stessa che alla strega. Auriel lesse, nella mente della ragazza, ciò che lei sapeva della vicenda dei penultimi sovrani del regno degli uomini. Reelia conosceva ciò che ogni umano aveva imparato sulla guerra: che i nani avevano ucciso Situe, Helif e la loro bambina. Che il conflitto aveva causato innumerevoli altre morti e intere famiglie erano state spazzate via. E che solo l’intervento di Roti, salito al trono in seguito alla morte di Helif, era riuscito a mettere fine a quella carneficina. «Quella che tu sai è solo una parte della verità» affermò la ninfa «alcune cose sono andate diversamente da come ti è stato detto. «La tua matrigna, Tysen, non era solo una dama di compagnia; era la migliore amica e confidente della regina Situe. «I nani hanno effettivamente ucciso Re Helif e sua moglie. Eppure, non sapevano che i regnanti avessero avuto una figlia. Tysen nascose loro la bambina. Quando la guerra terminò e vennero ritrovati i corpi dei defunti sovrani, tutti pensarono che anche Aileer fosse morta. Ciò nonostante, la storia si svolse diversamente. «La piccola principessa era viva e al sicuro. Tysen rifiutò l’invito di
Roti di rimanere a corte; comunicò al neoeletto re la decisione di dedicarsi al mestiere di sarta, e a quello di madre. Disse di volersi occupare di una bambina rimasta orfana. Dopotutto, non mentì. «Semplicemente, omise alcuni – significativi – dettagli. Non disse a nessuno quale fosse il vero nome della neonata, né disse mai che si trattava di una neonata, non rivelò dove l’avesse trovata, o chi fossero i suoi genitori. La portò a vivere con sé e la crebbe come una figlia; aveva delle buone ragioni, per agire così. La bambina era ancora decisamente inadatta a regnare. Senza contare che Tysen conosceva Roti personalmente, si fidava di lui e pensava avrebbe potuto guidare le vallate saggiamente. Il re le aveva chiesto di rimanere a palazzo non solo per l’amicizia e la stima che li legavano. Era vedovo, già da prima della guerra, con un figlio piccolo da crescere e un regno da governare. Avrebbe voluto che Tysen si prendesse cura del piccolo Oriveo, le propose di restare a corte insieme alla sua figlia adottiva. «La dama non volle accettare. Trovava macabro che Aileer crescesse nel palazzo dov’erano vissuti, e morti, i suoi genitori. Inoltre, sapeva che i nani non erano tornati sui monti: avevano creato un accampamento sulle colline e non era certa che non sarebbero tornati ad attaccare. Svelare l’identità della principessa avrebbe significato esporla a rischi maggiori. Non rivelò mai a nessuno chi fosse sua figlia, nemmeno alla stessa Aileer, il cui nome aveva mutato nell’inverso ‘Reelia’. «Ti è più facile, adesso, comprendere?» terminò Auriel. I pensieri di Reelia vorticavano impazziti in mille diverse direzioni. Per quanto assurdo fosse il racconto della veggente, le sembrava che in qualche modo un senso ce l’avesse. Però non poteva essere, l’avrebbe saputo, Tysen gliel’avrebbe detto… «Hai visto tutto questo dentro di me? Come hai potuto vedere cose che io stessa ignoravo?» domandò la ragazza con voce nervosamente acuta «non hai fatto nessuna magia, non hai fatto proprio niente. Hai giusto preso le mie mani, chiuso gli occhi e ti sei divertita a inventare una ridicola storia!» esclamò. Auriel non si scompose, non ritrattò la propria visione. Ma concesse all’umana un chiarimento. «Non ho visto solo dentro di te, ho guardato attraverso il tuo corpo, i tuoi ricordi, i ricordi delle persone che ti hanno amata. Ogni persona entrata in contatto con te ha lasciato tracce indelebili e perfettamente leggibili, per chi sa come fare» chiarì la strega «non mi occorreva fare
altro che sfogliarti come un libro. Non mi credi? O non ti è bastato? Vuoi vedere qualcosa di più eclatante? Preferisci forse che ti riveli cosa ti riserva il futuro?» chiese con tono irato, come di sfida. «Sei una bugiarda e non sei neanche brava a mentire; se fossi la figlia di Helif e Situe dovrei avere poco più di quindici anni.» «La magia offre possibilità che ancora non comprendi» rispose limpidamente Auriel «ma che la tua tutrice conosceva. Era solo un’umana, è vero, ma la sua fede in Alyari le rese possibile camuffare la tua età, le costò uno sforzo che non immagini nemmeno, non hai idea dei sacrifici che sono stati compiuti per proteggerti, non sai quanta energia e fede siano necessarie per rendere efficace un incantesimo, soprattutto su una persona come te» nella sua voce s’insinuò rapido un lieve disprezzo, ma subito proseguì, certa che la sua ospite non l’avesse notato. «Ti sei mai chiesta cos’abbia causato la sua morte? Perché la sua vita sia terminata così presto e senza un’apparente ragione? Quale fosse in realtà la malattia che l’ha consumata?» domandò Auriel, già perfettamente consapevole che la ragazza non conosceva nessuna delle risposte. «Basta!» strillò Reelia balzando di scatto in piedi. La ragazza s’incamminò verso la porta, intenzionata ad andarsene, incurante del fatto di non sapere dove fosse esattamente. Fu come se una mano invisibile la trattenesse, si accorse di non riuscire a muovere un passo. «Non così di fretta, principessa. Non è gentile mancare alla parola data. Quanto ti ho detto è la verità, se non vuoi credermi non m’interessa. Ho fatto ciò che mi avevi chiesto. Ora sta a te, ripagare il favore.» FINE ANTEPRIMA CONTINUA…
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