In uscita il 31/7/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2017 (3,99 euro)
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ANGELA FRESCHI
LE NUVOLE BUONE
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LE NUVOLE BUONE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-120-4 Copertina: immagine di Yojan D. Giorgini
Prima edizione Luglio 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A chi ha fatto le discese ardite. E poi le risalite. E a chi, invece, è rimasto giù. A chi ha visto le nuvole nere. E poi di nuovo il sole. A tutte le donne. Alle mie amiche. A me stessa.
«Ma tu non vergognarti del viaggio. La vita, credimi, non è un fascio di speranze perdute, un puzzolente ricamo di mimose, la vita raglia e cavalca nel suo incessante splendore.» Margaret Mazzantini - Splendore
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1. Il sogno.
Un’isola del Sud. Nella luce di un mezzogiorno estivo una ragazza cammina lungo la spiaggia di un piccolo porto. Il sole è intenso. Splende a picco sull’acqua trasparente del mare, sulle barche rovesciate, sui muriccioli, sulle case basse dei pescatori intorno. È scalza. Ha lasciato un paio di Converse color pesca laggiù, su uno di quei tre scalini insabbiati che scendono alla spiaggia. Ha jeans arrotolati sulle ginocchia e lunghi capelli biondi che le svolazzano sulle spalle. Si è alzato vento, all’orizzonte il blu s’increspa. Immerge i piedi nel mare, turchese come i suoi occhi. Cammina nell’acqua che le arriva alle caviglie. Piccoli pesci di bassura le guizzano curiosi intorno ai piedi, una sogliola minuscola saetta via, disturbata. La ragazza si porta una mano alla fronte per schermare un po’ di quel bagliore. Si guarda intorno. Non c’è nessuno. Vede porte di legno serrate e qualche tenda gonfiarsi al vento insieme alle lenzuola, ai panni stesi sui terrazzi. Le scalinate e i vicoli sono infuocati di sole. Due scritte su un muro bianco, sono le insegne delle botteghe: Sale e Tabacchi, Alimentari; tende con le frange di plastica sono le loro porte. Ora fa una piccola curva, torna sul bagnasciuga. Calpesta un serpentone bianco di conchiglie tritate e alghe secche, sminuzzate. Sulla sabbia un po’ troppo calda, vicino alle barche, ci sono le reti da pesca con il loro odore acre, forte. Lì c’è una bottiglia di birra capovolta, lì una lattina. Lei si sofferma a osservarli questi sparuti rifiuti marini, oggetti arrivati con le mareggiate, che si portano storie di navi. Tre bambini le passano a fianco correndo. Hanno magliette con scritte che oramai non si leggono più, pantaloncini sbiaditi dai troppi
6 lavaggi e capelli scuri arruffati di salsedine. Si tuffano così, con i vestiti addosso, in mezzo alle boe, alle corde delle barche. Sente i loro schiamazzi, le loro grida in una lingua che lei non conosce. Cammina. Lentamente, Alba cammina. Abbandonata vicino al muretto che divide la spiaggia dalla via principale di quel piccolo porto, con le ruote piantate nella sabbia, c’è una carrozzina blu. Alba si avvicina senza motivo né curiosità, semplicemente qualcosa la spinge. Il blu del rivestimento è scolorito dal sole e dal vento. Dentro, la carrozzina è vuota. “Che immagine triste!” pensa. Con una mano sfiora il telaio, poi impugna i manici come se volesse spingerla, toglierla da lì. Sono roventi, allora lascia perdere e torna sui suoi passi. Cammina. Si sente due occhi nella schiena, sa che qualcuno dietro di lei la sta guardando. Va avanti, non lo vede eppure sa che c’è: là intorno, da qualche parte. All’ombra di una tettoia di una di quelle basse case bianche un uomo, seduto spalle al muro, la segue con lo sguardo. Non è più un ragazzo, è un uomo. Ha due occhi arabi, immobili. Vicino a lui, intorno a un tavolo di plastica, altri tre uomini stanno giocando a carte, le loro teste chinate mal si distinguono tra i vasi di agavi, di fichi d’india. Alba si volta, incrocia i suoi occhi. Gli sorride. “Ecco dov’era l’amore della mia vita” dice a se stessa. Lui solleva una mano, un piccolo saluto. Lei è lontanissima, eppure vede quel gesto. È l’unico sogno che Alba non ricorda di aver fatto.
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2.
Settembre 199… “Domani sarà una bella giornata” pensa Alba guardando la luce lunare schiarire di grigio perla laggiù, lontanissime, le vette della catena del Monte Bianco. Nel cielo indaco, una miriade di stelle come se ne vedono poche durante l’anno. Viene voglia di fermarsi un attimo, di prendersi una pausa. Alba tira fuori dalla tasca posteriore dei jeans un pacchetto di Camel Light, ne sfila una, accende; poi infila con un gesto automatico il pacchetto di sigarette nel vaso appeso fuori dal terrazzo, in mezzo ai gerani, e appoggia i gomiti al parapetto di legno rivolto verso il fondovalle. Inspira. Guarda una decina di luci accese nel villaggio di Cretaz. L’aria è ferma, il silenzio immenso. I fari di una macchina che scende verso Epinel balenano per un attimo dietro a una curva, poi spariscono subito risucchiati dal buio e andranno a illuminare i tornanti neri di abeti che scendono verso i boschi di Sylvenoire, poi verso Vieyes. Un brivido di freddo la fa stringere nelle spalle. Con la sigaretta tra l’indice e il medio, si tira un po’ più giù la manica del golf sull’altra mano. È settembre, sono riaperte le scuole. I turisti e i villeggianti, già da un paio di settimane, hanno lasciato le camere, le belle sale da pranzo della fila di alberghi di Rue Cavagnet; si sono svuotati i parcheggi, le vie del paese. Presto di macchine ne passeranno sempre di meno: quelle degli abitanti del paese che hanno bisogno di spostarsi dalla valle, i furgoni dei fornitori, gli autobus dei pendolari per Aosta. Ancora per qualche settimana, finché non cominceranno le prime nevicate, qualche gruppetto di alpinisti farà capolino nella valle.
8 Arrivano dalla Francia, Piemonte, Svizzera, Lombardia. Spesso Alba assiste alle loro partenze e ai loro ritorni. Stanchi morti, entrano nel bar dove lei lavora, gettano a terra quegli zaini pesanti come macigni, carichi di attrezzatura: corde, caschi, ramponi. Hanno appeso i chiodi, si sono legati sulle cime del Gran Crou, sul Roccia Viva, il Gran Paradiso… poi vanno da lei a festeggiare con un grappino, a riscaldarsi con un tè bollente. Alba li ammira questi “pazzi”, ascolta i racconti delle loro imprese, si informa, fa domande. Pensa che ci voglia coraggio a sfidare quei ghiacciai, quelle altezze, gli strapiombi, i precipizi. “Non è solo questione di tecnica, ci vuole il pelo sullo stomaco a stare lassù con il vuoto sotto i piedi” commenta tra sé. Alcuni sono piuttosto belli. Hanno quei polpacci scolpiti che macinano dislivelli, sfondano salite. Hanno gambe che vanno su come treni, spalle larghe, pance piatte. A lei piacciono quelle facce giovani disfatte dalla stanchezza, quegli occhi spiritati di adrenalina, le barbe arruffate. A certuni, oltre alla birra, porta un sorriso, una strizzatina d’occhio. Con qualcuno ci è finita a letto. Non molte, ma qualche volta è capitato. Avendo un buon rapporto con il sesso e non essendo una che si fa troppi problemi, le è capitato di indurirsi il cuore e di seguirne qualcuno nella camera di un meublé o in una tenda ghiaccia di un campeggio di Lillaz o Valnontey. Il termometro segna 4°. Con l’arrivo imminente del cattivo tempo la vita di paese, là in montagna, avrà una lunga fila di giornate opache, poi bianche, poi gelide, tutte uguali. Un nuovo autunno e un nuovo inverno da colmare, da svernare. Alba non è una che si abbrutisce, però durante le stagioni fredde sembra far di tutto per sembrare meno bella di quello che è. S’infila dei maglioni informi, spesso oltremisura, sotto ai quali mette dei camicioni pesanti, un po’ maschili, un po’ fuori moda. È sotto questi strati di lana e di feltro che nasconde le sue belle forme, così come nasconde quella cascata di capelli biondi dentro alle cuffie. Certo non si ammala quasi mai, ma di sicuro quell’abbigliamento non le dona!
9 “Chi vuoi che ci venga d’inverno nel mio bar…” si dice sputando fumo su quel vago lasciarsi andare, quelle piccole depressioni stagionali. Eppure è così. I clienti invernali sono i soliti amici, compaesani che conosce a memoria, qualche avventore di mezz’età un po’ avvinazzato, di quelli che nel suo bar d’inverno ci passano le mattine e i pomeriggi, i pensionati seduti ai tavolini fuori, a ghiacciarsi il culo sulle sedie gelate. Alcuni con lei ci fanno i cretini, a volte ci provano sfacciatamente. Muratori, carpentieri in trasferta a costruire un nuovo albergo; certuni hanno moglie e figli a casa, il fiato di grappa; questi ultimi per lei valgono meno di una lira bucata. Ora inizia a sentire un po’ freddo. La cicca, nell’abbandono dei pensieri, le si è consumata tra le dita e si è spenta senza che lei se ne accorgesse. Ritira con rapidità lo stendino con i panni, perché se trascinato lentamente sul parquet fa un rumore che la disturba. Chiude la finestra, abbassa la tapparella solo per metà: troppo buio non le piace. Sta per andare a letto. I suoi occhi grandi, di ogni strato di azzurro, sono lucidi di stanchezza, le borse sotto le palpebre, leggermente più accentuate. Getta il golf sulla sedia con un gesto meccanico, senza essere presente, poi alza lo sguardo verso lo straniero appeso alla parete di fronte al letto. Si tratta dell’unico uomo che, da un po’ di tempo oramai, è testimone involontario dei suoi spogliarelli solitari. Alba si abbassa la zip, fa per sfilarsi i jeans, poi strizza l’occhio a Kurt Cobain. Quello, tuttavia, guarda da un’altra parte; bellissimo anche in bianco e nero, sta fumando di profilo, abbracciando una chitarra. Alba ama la sua musica. Alza il volume, da sola, di notte. Chiude gli occhi, balla, ci danna i vicini. E “Smell like teen spirit”, “Lithium”, “In bloom” avvolgono quei notturni, fendendo insieme a lamelle di luce azzurrina la sua stanza dolce, di legno, perfettamente arredata in stile montano. Dice che quella musica l’aiuta a pensare, a fare il punto della situazione, certe volte dice che l’aiuta a calmarsi. Trova che Nirvana sia un nome pazzesco per un gruppo rock.
10 “Ci sono uomini che certe cose le sanno fare” pensa del biondo leader dei Nirvana. Pensa lo stesso di Axl Rose, di Freddie Mercury. Si è tradotta i loro testi con il vocabolario, ci ha imparato l’inglese, si è fatta una discreta pronuncia. Ama la loro poesia, l’estremismo delle loro espressioni, il loro essere artisti veri. Gonfia le guance, fa un piccolo sbuffo d’inquietudine con le labbra mentre s’infila il pigiama. È il sospiro di qualcosa che ancora le brucia dentro, le provoca ogni volta un dolore lieve, ma ancora presente. Ha pensato agli alpinisti là fuori, sul terrazzo; è sicura che stanotte sognerà lo scalatore di Grenoble, farà uno di quei sogni che le si appiccicheranno addosso, le resterà appeso tra la testa e il torace fino a metà della mattina seguente e oltre, appesantendola. *** “Il Francese”. Lo chiama così quando si riferisce a lui. Invece si chiama Adrien. Era arrivato nella valle l’anno prima, in tarda primavera. Tornava tutti i mesi con un paio di amici, anch’essi francesi, anch’essi attrezzatissimi, antipaticissimi. Stipavano di bagagli una Renault Safrane grigia, e con l’autostrada in meno di tre ore erano a Cogne. Salivano ai rifugi, pernottavano in quota, percorrevano le Alte Vie. Avevano asceso tutte le cime della Valle di Champorcher, della Valsavarenche, ora toccava a quelle della Val di Cogne. Prima di attraversare il Prato degli Orsi, si fermavano a fare colazione al bar di Alba; è così che si erano conosciuti. «Stavolta saliamo su una Punta Patrì. Stavolta sulla Torre del Gran San Pietro. Ora tocca al Roccia Viva, parete Nord…» dicevano nel bar davanti al bancone, alla vetrina delle brioches, ad altri clienti. Si facevano belli davanti ad Alba e a Simona, la sua amica. Simona è la figlia del proprietario, il bar è praticamente suo. Lei e Alba, quasi coetanee, condividono un rapporto che va oltre l’amicizia; sono l’una per l’altra, un pezzo di famiglia. Molto magra, con i suoi tratti scuri, Simona non sembra affatto valdostana; ha pelle olivastra, begli occhi marroni e un caschetto di riccioli castani.
11 Carina, esuberante e simpatica, è corteggiatissima, nonché “fidanzata” un po’ con questo, un po’ con quello. Simona e Alba al bar sono la bruna e la bionda. Per quel gruppetto di alpinisti francesi erano anche meno. Le chiamavano les deux barmaids: le due bariste. Volevano andare in Nepal, sull’Himalaya. Quelle ascensioni erano giusto per fare un po’ di allenamento, ci tenevano a far sapere. Erano senza dubbio un po’ sbruffoni e pieni di sé, ma erano giovani, coltivavano un sogno, e ciò all’inizio fu sufficiente per far uscire Adrien dalla fila davanti ad Alba. Aveva un bel paio di spalle aperte, da nuotatore. Infatti a Grenoble faceva l’istruttore di nuoto in una piscina comunale. Un nuotatore che faceva l’alpinista; quando lo seppe, lei lo trovò stravagante, pazzo e interessante. Ma ormai era già troppo tardi; lui si era caricato sulle spalle lo zaino con tutti i vari attrezzi e stava già ripartendo per una delle sue scalate. «Dis-moi bonne chance!» le aveva detto dandole un bacio sulla guancia. Poi aveva infilato la porta. Lei era già cotta di lui. Simona le aveva dato una gomitata di complicità e approvazione, Alba era arrossita nel rumore dei piattini e delle tazzine buttati nel lavello a risciacquare, nella voce di un telegiornale in sottofondo, nei buongiorno in patois, il dialetto locale. Gli preparava sempre un cappuccino bollente, è così che lui lo chiedeva e che sorseggiava piano, senza staccare gli occhi da lei, senza smettere di sorriderle. Era piuttosto miope, portava le lenti a contatto, si vedeva. I suoi occhi castani sembravano leggermente più grandi, le pupille lievemente più dilatate, o forse era un particolare che notava soltanto lei. Lui aveva ventinove anni, riccioli bruni e barbetta scura. Lei quel maggio ne aveva appena compiuti ventiquattro. Desiderava avere un compagno vicino, qualcuno a cui pensare, qualcuno con cui camminare per mano in giro per il paese. ***
12 La lampada sul comodino è rimasta accesa. Il rivestimento di legno delle pareti si tinge di tutti i toni di arancio, poi la stanza diventa grigio-viola man mano che ci si allontana dal letto e ci si avvicina al corridoio. Alba non si accorge di questa dimenticanza, perché è risucchiata in un imbuto di pensieri. Non c’è, non è presente. Sotto le coperte, con l’indice si stuzzica le pellicine intorno all’unghia del pollice. Tocca sempre alla mano sinistra. È un gesto che fa involontariamente quando la mente sta cercando di avere la meglio su di lei, un piccolo sfogo del tutto inconscio e incontrollabile che le procura un lievissimo e quasi impercettibile piacere, di cui si accorgerà solo quando, mettendosi in bocca il dito, sentirà il sapore del sangue. *** Era disceso dalla montagna, l’aveva invitata a cena. Aveva combinato una di quelle uscite che, già in partenza, avrebbero dovuto suonare come poco convincenti. Da parte di Adrien c’era stata quella richiesta - “portati la tua amica per il mio amico…”, un certo Marc - e un terzo in più “a fare il lume”. E invece lei e Simona si erano preparate tutto il pomeriggio, si erano messe in tiro, erano arrivate in anticipo davanti alla locanda di quell’albergo a Lillaz. I ragazzi erano usciti dalle tende del campeggio con i pantaloni sportivi pieni di tasche laterali, i maglioni da montagna, gli occhi lucidi di hashish. Ridevano. L’estate era nell’aria. I baci di saluto sulle guance. «Salut! Salut! Vous êtes très jolies…» Alba si era messa un pantalone nero aderente che le snelliva i fianchi, quelle gambe comunque già belle che lei si vedeva grosse, che non le piacevano, un paio di scarpe col tacco per slanciarsi. Si era lasciata andare ai numerosi bicchieri riempiti di rosso, Simona pure. I francesi avevano bevuto, scherzato tutto il tempo, brindato quasi a tutto: alla salita al Roccia Viva appena compiuta, al Nepal, all’Annapurna l’anno successivo. Avevano parlato per lo più nella
13 loro lingua, anche di quegli svizzeri che erano tornati indietro, di un tizio caduto in un crepaccio, non si era capito sé dove, né quando, e le due ragazze lì ad ascoltare, a sorridere. Comunque si erano rivelati simpatici, tutti e tre, anche quel ragazzone con le basette nere di cui Alba non ricorda più il nome. Così era cominciata la sua storia con Adrien: guardando le spalle di Simona a braccetto a Marc, che uscivano dal locale e prendevano la via del campeggio, tutti e due con il passo un po’ incerto, di vino; e quell’altro tale rimasto fuori dalla porta, che si rollava uno spinello. C’erano stati i baci nel parcheggio prima del ponte, sulla Panda rossa di Alba coi fascioni neri paracolpi intorno alla carrozzeria, l’abitacolo che sapeva di fumo, il buio intorno, il villaggio deserto, la notte a casa sua. E lui che era tornato da lei durante l’estate, senza amici; una volta, poi un’altra, poi un’altra ancora. C’erano state le passeggiate per mano, come voleva lei, la festa del paese, le notti in una stanza in affitto oppure da lei. Alba era convinta che nessuno le avrebbe più fatto dei complimenti così belli, così intensi, come quelli che le faceva Adrien. Anche oggi, se ci pensa, resta ferma su quest’idea. «Che sciocca! Avrei dovuto ascoltare i segnali! I segnali c’erano…» sussurra, borbotta da sola. È una che sa ascoltare i segnali, ecco perché dice così; è un piccolo dono ereditario. È in grado di cogliere, di carpire quei formicolii lungo le braccia, poi in testa, sulla cute, tra i capelli. A volte, soprattutto quando è sola, le capita improvvisamente di sentire i brividi di freddo oppure un soffio leggero su una guancia; eppure non c’è vento, eppure la finestra è chiusa. Alba sa che sono messaggi, brividi di un attimo provenienti dall’altra parte, sono qualcosa di sottile, il segno che sta per succedere qualcosa. La sera della cena con i francesi aveva già capito che c’era qualcosa che non andava. Un senso di affanno, di pesantezza sul torace l’avevano accompagnata per tutto il tempo, anche in macchina, anche a casa sua, anche le volte successive. Camminava al fianco di Adrien, parlava, sorrideva, tutto pareva andare bene, invece a lei sembrava di portare un sacchetto pieno di sassi. Ha questa fissazione per i sassi; li associa alle conversazioni un po’ forzate, ai suoi sforzi
14 di trovare un argomento che interrompesse un silenzio. Erano nel suo affannarsi a voler apparire interessante davanti ad Adrien, nel suo arrabattarsi per piacergli; ecco che lì c’erano schegge, pietre. “Quando le cose vanno bene, non ci sono i sassi.” A settembre Adrien aveva diradato le telefonate. Alba chiamava ma lui non c’era mai oppure non rispondeva. Pian piano era sparito del tutto, dalla valle, da lei. Così; senza una parola, una spiegazione. “Non è andata e basta.” Alba si era messa in testa fin da subito che ci fosse di mezzo un’altra, una francese forse più alta, più magra di lei. Incolpava il suo girovita, le sue cosce che si ostinava a trovare abbondanti. Un giorno, settembre era passato, aveva preso il telefono e gliene aveva dette di tutti i colori, ma aveva parlato tutto il tempo con una segreteria. «Non si fa così! Non si fa così!» vi aveva registrato urlando. Poi si era tolta una piccola soddisfazione. Al culmine dell’esasperazione, con il mero proposito di colpirlo nell’ego, gli aveva lasciato detto che come scalatore aveva conosciuto di meglio. Tutte scemenze che non le interessano più. *** Ha le labbra socchiuse, gli occhi aperti. Sta fissando un punto a caso del soffitto. C’è talmente tanto silenzio che riesce a sentire il suo respiro, il tic tac delle lancette del suo Swatch e il ticchettio un po’ più robusto della pendola sulle scale. Qualcuno, là fuori, ha chiuso le portiere di una macchina, un motore si accende, le ruote schiacciano la ghiaia e si allontanano. “Anche il silenzio, adesso, mi sembra una bugia” pensa. Si sente il rumore ovattato del fiume: è il torrente Urtier che scorre dietro al paese e che presso Cretaz andrà a ricongiungersi con l’Evyia in un unico fiume. Lei è sola. O almeno è quello che crede in quel momento. Non ha nessuno con cui ricongiungersi. L’anno scorso nella sua vita è passata la piena, ha rotto gli argini, le ha scavato dentro, ha strappato
15 un pezzo di lei. Le è rimasto un dolore che fatica a decifrare; è qualcosa che va ben oltre la rottura con un uomo. “È qualcosa che va ben oltre la rottura con un uomo.” Se lo ripete spesso. È un vuoto che le vive dentro, dal quale spesso cerca di prendere le distanze con qualche bicchierino di nascosto quando è sola di turno al bar, uno spinello ogni tanto, le sue sigarette sempre. Eppure questo dolore ritorna e adesso Alba ha paura che non la lascerà in pace mai. Qualcuno al piano di sotto si è chiuso in bagno, si sente l’acqua scendere; sua nonna si prepara per la notte.
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3.
È la medium della valle. Lo è dal 1925, quando all’età di sei anni si mise a urlare in piena notte chiamando i suoi genitori. Diceva che nella sua stanza, davanti al lettino, c’era seduta una donna che la fissava e non diceva niente. La mamma, accorsa a consolarla, aveva continuato pazientemente a spiegarle che si trattava solo di un sogno, ma Caterina, scossa da un pianto violento e spasmodico, si arrabbiava e le urlava contro: «Come fai a non vederla? È proprio lì, sulla sedia!» Gliel’aveva descritta nei dettagli; diceva che indossava un fazzoletto a fiori sopra la cuffia bianca coi merletti e un abito lungo nero di seta con un una cintura incrociata, anch’essa a fiori. Al mattino la mamma della Caterina ne aveva parlato col marito, mentre quello si sorbiva una ciotola di latte prima di andare a lavorare nella stalla del fattore. Convennero si trattasse di una donna con il costume da messa che si usava verso la fine dell’Ottocento e che la bambina non poteva aver visto. Era una bambina degli anni Venti; aveva lunghi capelli biondocenere e gli occhi del colore del cielo di maggio, a malapena aveva appena iniziato ad andare a scuola. Viveva con i genitori in una casa rustica nella parte alta del capoluogo e, come quasi tutti i valligiani di allora, vivevano con molto poco. All’inizio la scoperta delle sue facoltà medianiche che andavano sviluppandosi in modo sempre più crescente, fu accolta tutt’altro che come un dono sia da lei che dai suoi genitori, i bisnonni di Alba. Caterina non voleva andare a dormire, perché spaventata da quelle frequenti visioni e le sue crisi di pianto erano un problema per i genitori che avevano bisogno di un po’ di sonno e di svegliarsi presto per andare a lavorare. Di giorno stava diventando una bambina cupa, rabbuiata, che tendeva a isolarsi, probabilmente per
17 vergogna o angoscia, oppure le due cose insieme. A ogni modo fu portata dal parroco, dal medico e perfino da un erborista a Villneuve, con un carro. La questione fu presa molto sul serio e, loro malgrado, la voce si sparse di villaggio in villaggio. Caterina iniziò a sedersi al tavolo della loro cucina umile, con gli utensili di sua mamma come cornice. Con l’espressione di un’adulta e gli occhi in un altro mondo, riceveva i visitatori che venivano a consultarla; una madre che sperava di mettersi in contatto con un figlio morto in guerra, un padre che ne cercava un altro seppellito da una valanga. C’era chi, come compenso, le portava in dono una bambola, chi una stecca di cioccolata di cui è sempre stata golosa. Il giorno dopo la mamma non la mandava a scuola; all’epoca quei contatti le facevano venire la febbre, la sera. È la medium della valle. È in contatto da una vita con il mondo dell’aldilà. I suoi contatti si manifestano mediante la scrittura automatica oppure attraverso delle visualizzazioni; in pratica vede la gente morta. Figure che non parlano, restano immobili e mute, eppure lei sente dentro di sé i loro messaggi. Oggi Caterina ha passato i settantaquattro anni e questi contatti si stanno facendo sempre più radi, come se anche dall’altro mondo volessero lasciarla in pace a godersi la sua anzianità. Alba, a questo proposito, la prende spesso in giro: «Vedi nonna, ti hanno mandato in pensione anche i morti!» le dice. Le piacciono i film, il ricamo, ama leggere i libri. Passa dalla libraia di Cogne, li ordina, se li fa arrivare dopo qualche giorno, legge un po’ di tutto. Da Alba si era fatta passare “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, ora hanno cominciato a leggere Banana Yoshimoto. Ha sempre tenuto all’aspetto fisico, si cura di apparire “in ordine”, come dice lei. Al venerdì pomeriggio ha l’appuntamento fisso dalla parrucchiera per sistemare i capelli; si fa fare la tinta biondo-cenere, come quando era giovane. I suoi occhi sono ancora di un azzurro come se ne vedono pochi. ***
18 All’inizio per i genitori di Alba non fu affatto semplice spiegare queste facoltà particolari della nonna alla loro bambina. La figlia di Caterina, la Silvia, cercava di spingersi solo fino a dove poteva, tacendole gli aspetti più oscuri, più sinistri, quelli che avrebbero potuto turbarla in modo troppo profondo. Insieme al marito Paolo, erano persino andati un paio di volte a Torino a chiedere il parere di uno psicologo riguardo a come sarebbe stato meglio comportarsi nei confronti della loro figlia. «La nonna è magica, Alba! Vede quello che noi non possiamo vedere» diceva Silvia a sua figlia di nove, dieci anni «a volte vede persino le persone che vivono in Cielo!» Ma a quel tempo le nascondevano le sedute che Caterina faceva in casa, spesso anche a domicilio dalle famiglie. C’era stato un periodo in cui la sua attività ferveva: le persone arrivavano per incontrarla dalle altri valli e persino da Aosta. C’erano sedute che la lasciavano spossata per giorni, debole, col mal di testa. «Mi succhiano l’energia, Silvietta!» Alba l’aveva sentita mormorare una volta, quando la Silvia era entrata nella sua camera a portarle un cachet. A quel tempo vivevano tutti insieme; Alba e i suoi genitori al piano di sopra, Caterina al piano terra della casa. Poi crescendo Alba ci aveva fatto l’abitudine, grazie soprattutto al valido lavoro psicologico che i suoi genitori e sua nonna avevano fatto su di lei. Anzi, da adolescente aveva cominciato ad andare dalla nonna a fare domande sempre più specifiche e col tempo tra loro due non ci sono stati più segreti, ma rivelazioni e confidenze che sono arrivate con molta naturalezza; infatti quando Alba diventò maggiorenne e i suoi genitori decisero di trasferirsi a Torino per lavoro, fu con Caterina che volle restare. Ci sono due episodi che ricorda molto nitidamente e che ogni volta le fanno venire la pelle d’oca o sentire un leggero formicolio sulla cute o lungo le braccia. ***
19 Un pomeriggio d’estate dei suoi tredici anni, Alba era stata portata da un dentista ad Aosta, accompagnata da Silvia e Caterina. Ricorda che quel giorno era felicissima, perché il dentista le aveva appena tolto l’apparecchio fisso e che si erano fermate a festeggiare in una gelateria di Aosta con tre coppe. Tornate a Cogne, stavano percorrendo a piedi la via che dal Ponte di Moline porta al paese; tutte e tre insieme, continuando a chiacchierare del più e del meno, come si fa tra mamma, nonna e nipote. A un certo punto Caterina si blocca, si ferma a bordo strada e non procede più né avanti né indietro. Se ne sta lì immobile, con una mano attaccata al manico della borsa e l’altro braccio penzoloni lungo un fianco. Alba si volta, perché non sente più la sua voce. Vede che ha le palpebre abbassate, ma i suoi occhi tremano sotto di esse, come durante un sogno, come se con gli occhi chiusi stesse guardando qualcosa. Silvia con calma le si avvicina, sa che assolutamente non deve scuoterla né distoglierla da quello che sta avvenendo, bensì lasciarglielo vivere, come si fa con i sonnambuli. Caterina ha la faccia rivolta verso l’alto, verso sinistra. Accenna un lieve sorriso, la sua mano fa per sollevarsi, forse un saluto, poi ricade giù pesante. Dopo qualche istante riapre gli occhi e riprende il cammino, impettita, con i suoi orecchini a clip, la sua collana di perle. «Mamma, cosa c’era?» le chiede Silvia dolcemente. «Lì, alla casa dei Jeantet, sulla balconata di legno, c’era una villeggiante col parasole che mi salutava. Accanto a lei c’era una bambina. Vedessi che abito che aveva la signora! Lungo, di stoffe pregiate! Che eleganza, Silvia! Doveva essere una gran signora! Sotto alla casa un uomo anziano con la bombetta sta facendo la siesta su una sedia impagliata. Mi ha salutata anche lui…» «Una volta lì c’era l’Hotel Royal! Ti ricordi, mamma?» chiede Silvia senza stupore «ci siamo andati qualche volta a pranzo la domenica quando c’era papà…» ***
20 C’era poi stato un episodio che invece aveva turbato Alba quel tanto da doversi spostare da sua nonna, fare qualche passo, attraversare una strada. Era avvenuto durante il giorno di Pasqua di tanti anni prima. Anche quella volta, era ancora una ragazzina. Era una giornata bellissima, quell’anno la primavera sembrava in anticipo. Erano andati a Valnontey, al ristorante per il pranzo della festa. Passeggiando per il villaggio, Caterina si ferma davanti a una casa, in prossimità della finestra; si tratta di una di quelle case dietro alla chiesetta, vuote, invendute, chiuse da sempre. Tocca a suo genero, stavolta, cercare di capire cosa sta combinando sua suocera, ferma lì con il naso attaccato al vetro di quella finestra. «Caterina, cosa fa? Guarda dentro alle case della gente? Venga via, su!» Caterina comincia a tossire, si porta una mano al petto. Colpi di tosse secca, continui. «Oddio! Mi manca l’aria!» dice «è pieno di fumo e fuliggine!» Si è curvata sul davanzale esterno di pietra della finestra. Paolo, Silvia e Alba le si sono fatti intorno, ma lei non si sposta da lì. «Quel vecchio barbone… è il patriarca del villaggio… non lo sapete? Sono tutti seduti uno accanto all’altro… vicino a lui c’è suo figlio, poi la nuora con il figlioletto in grembo… e altri due bambini, lì su quelle sedie… guardate! I bambini portano le cuffiette in capo… hanno tutti lo sguardo rivolto verso di noi, verso questa finestra aperta…» dice non appena riesce a respirare tra gli attacchi di tosse. Alba si allontana. «Questa finestra è chiusa!” le dice Paolo. «Su! Venga via!» la sprona ma con calma, come le ha insegnato Silvia; cerca di prenderla per un gomito. «Questa finestra è aperta, ti dico! L’hanno aperta loro… avevano bisogno d’aria! Sono tutti morti nel sonno, di notte, soffocati dal fumo della stufa. Era l’anno 1901… un problema col camino!» ***
21 Ci fu un periodo della vita di Caterina in cui i suoi contatti con gli spiriti subirono una lunga e perpetuata battuta d’arresto. Sembrava veramente che l’avessero abbandonata o che si fossero dimenticati di lei. Quella fase iniziò quando conobbe Alberto, il giovane che poco tempo dopo divenne suo marito, l’amore della sua vita. Si conobbero alla Féra, la festa di fine estate. Era il 1945; i valligiani festeggiavano il rientro delle mandrie dagli alpeggi, ma soprattutto la guerra finita. Caterina oggi non si ricorda la ragione precisa del perché Alberto fosse a Cogne quel giorno. Arrivava dalla Valgrisenche, un bel po’ da lontano; là avevano le proprie feste, le proprie tradizioni. Era un giovanissimo partigiano. Era alto e magro, aveva anche lui gli occhi di un blu profondo, lo sguardo sempre allegro e scanzonato. Era bruno, uno dei pochi che in quelle valli si metteva la brillantina. Aveva ventun anni. Caterina allora ne aveva già fatti ventisei. Si era ormai convinta che sarebbe rimasta sola, con le sue amiche già sposate, il suo impiego di bidella alla scuola elementare. Invece in quell’occasione Alberto la vide e la invitò a ballare. E Caterina, in abito tradizionale, volteggiò con lui in mezzo alla piazza, con quella schiena dritta, il vitino di vespa. Oggi spiega che in quegli anni volati via, gli spiriti non riuscivano a mettersi in contatto con lei perché i suoi canali energetici erano tutti assorbiti dal suo amore per Alberto, dalla loro passione. Trascorsero insieme anni bellissimi. Alberto la portava a ballare a tutte le feste di paese, perfino in una sala da ballo di Aosta. La chiamava “la mia ballerina”, le regalava stecche di cioccolata grandi come un cassetto. Era il dopoguerra, lui si era trasferito a Cogne e aveva aperto una piccola bottega di alimentari, si erano sposati. Dopo poco nacque Silvia. Fu concepita lassù, sui prati del Noménon. Quando Caterina lo racconta, si tappa la bocca, nasconde un risolino, i suoi occhi s’illuminano di un sorriso malizioso. Ad Alberto piacevano le canzoni di Fred Buscaglione. In casa cantava alla moglie “Eri piccola così” oppure “Guarda che luna”; Silvia, bambina, rideva, gli batteva le mani. Erano una famiglia che cantava. Mente apparecchiavano la tavola, mentre passeggiavano in
22 montagna, canticchiavano tutti e tre “Come prima”, “Aveva un bavero”, Fiorin fiorello, l’amore è bello vicino a te… C’erano pochi soldi, ma tanta felicità. Vent’anni di felicità. Dopodiché Caterina rimase vedova. Una brutta malattia si portò via improvvisamente il suo Alberto e sulla sua vita il cielo si spense. Scesero le nuvole grigie, gonfie di dolore, di tristezza e di una violenta depressione. “Il periodo delle nuvole cattive”, dice lei. Si rinchiuse in casa, sopraffatta da un male interiore che le toglieva il respiro. Si era abbrutita, era diventata magra come un fuscello. A Silvia, già devastata dalla perdita del papà, non rimaneva che trascorrere il tempo nella casa dei nonni, diventati nel frattempo molto vecchi. *** Poi una notte Alberto apparve in sogno a Caterina. Lo vide, a mezzo busto, emergere dal fiume Evya, le gambe sommerse dall’acqua fino alla vita. Intorno a lui, gli schizzi delle rapide che si infrangevano sulle pietre, il vapore acqueo che saliva verso l’alto. Lì per lì Caterina non fece caso al fiume; con le lacrime che le sgorgavano dagli occhi, si affrettò a camminare sui ciottoli, tra quei fasci di fiori rosa selvatici che crescono lungofiume, e si avvicinò all’argine per parlargli. «Non ce la faccio senza di te» gli disse con le parole che le uscivano con sforzo dalla bocca, come succede sempre nei sogni più importanti «non ce la faccio a vivere senza di te. Sapessi quanto mi manchi, Albertino mio!» «Lo so amore mio. Ma tu ce la farai!» le rispose suo marito. Appariva molto più giovane, con la camicia beige che aveva su il giorno in cui si erano conosciuti, le maniche arrotolate, le bretelle. Aveva un bel viso abbronzato dal sole di montagna e la sua brillantina sui capelli. Sembrava nel fiore dei vent’anni, in piena salute, invece era morto di un male terribile. «Devi farti coraggio e accettare, Caterina. Lasciati andare e accetta» le disse ancora.
23 Ma Caterina era presa dalla sua figura, bramava un contatto fisico, desiderava toccarlo, sfiorarlo una volta ancora, perciò l’attenzione alle sue parole in quel momento veniva meno, sfuggiva come l’acqua verso il fondovalle. «Alberto, vieni fuori dal fiume! Vieni da me!» gli disse urlando per sovrastare il rumore dell’acqua. Alberto invece rimase lì. Con un sorriso d’amore nei suoi occhi blu, disse a sua moglie: «Siamo tutti in un Fiume che scorre, Caterina. Siamo tutti nello stesso Fiume! Lasciati scorrere, amore mio, lasciati scorrere…» e scomparve tra gli schizzi dell’acqua, nella schiuma bianca. Caterina non si sognò più suo marito, ma il suo cuore guarì dalla depressione. Di lì a breve tempo le sue facoltà medianiche fecero la loro ricomparsa, rinnovate di energia ancora più forte. *** Passarono neanche due mesi da quel sogno. Poi, un pomeriggio, due donne ballarono insieme. Una era una ragazza bruna dagli occhi azzurri e lunghi capelli mossi che le ricadevano fin sotto le spalle. Aveva appena compiuto diciotto anni, era Silvia. Su un paio di scarpe mezzo-tacco, faceva le giravolte in corridoio cingendo la vita di sua madre. Madre e figlia. Corridoio, cucina, camera da letto, danzando. E di nuovo, corridoio, cucina, camera da letto. Una canzone trasmessa dalla radio, risuonava tra le pareti della loro casa di montagna, faceva volteggiare veloci le loro belle gambe. Loro canticchiavano sorridendosi: “…l’amore è bello vicino a te… mi fa sognare, mi fa tremare, chissà perché… fior di margherita…”. Ad Alba hanno raccontato che quel giorno la radio si era accesa da sola, all’improvviso.
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4.
Le campane della Chiesa di Sant’Orso chiamano la gente alla messa della domenica. Alba ha fatto colazione, ora l’aspetta quello che per lei è il primo piccolo piacere della giornata: la prima sigaretta. Il sole di metà mattina non è ancora arrivato sul suo terrazzino frizzante di ombra. È una bella giornata però, ieri sera non si era sbagliata. Con la sigaretta appena accesa tra le dita, guarda lassù, i prati pieni di sole dell’Ouille, indovinandone il tepore della terra, delle pietre. “Lassù potresti toglierti la felpa e restare con le maniche corte” pensa, quasi che quel calore possa arrivarle fin laggiù e scaldarle un po’ le braccia, le spalle. Molto più in basso, dei colori in movimento, figurine piccolissime, attirano la sua attenzione: una piccola comitiva sta salendo il sentiero severo che porta a Rabat. “Stanno andando a Les Ors, oppure al Pousset” si dice, accompagnandoli ancora per un po’ con lo sguardo. Ad Alba piace indovinare i percorsi, le mete degli escursionisti, criticare i loro orari di partenza, pensare a quei sentieri che lei conosce bene: salgono faticosamente in mezzo ai larici, sbucano sui pianori, sui pascoli, poi salgono ancora fino a un valico, un bivacco, un ghiacciaio. Due macchine si avvicinano. Sono una Lancia Delta di colore verde scuro, seguita da un’Opel Astra nera che pare un po’un carro funebre. Avanzano in modo incerto, quasi a passo d’uomo. Oltre al parabrezza della macchina davanti, Alba distingue il guidatore che sta guardando le case in giro, si rivolge alla persona accanto, annuisce. Ora abbassa il finestrino e con la mano fa cenno a quello dietro: «Di qua!»
25 Mentre le macchine, prima una e poi l’altra, si dirigono verso lo spiazzo di una casa poco distante, Alba ne legge le targhe: Brescia, Novara. “Sono arrivati i nuovi inquilini della casa del povero Juanìn” si dice. La notizia che la casa del Juanìn era stata finalmente affittata stava facendo il giro del paese da oltre una settimana. Da quando il vecchio era morto, quella bella casina indipendente, a due piani, con vista frontale sulle montagne, erano già due anni che era sfitta. Qualche famiglia di Milano la prendeva d’estate per il mese di Agosto, poi basta. «Il figlio chiede troppo!» dicevano in paese. Così l’orticello con le patate e quel poco di verdure era marcito due volte sotto alla neve. Le cataste della legna si erano bagnate, erano da buttare via, qualche attrezzo di montagna era rimasto lì, sotto a una tettoia. Giorni addietro il lattaio era stato il primo a dare la notizia nel bar di Alba. «Hanno affittato la casa del Juanìn!» aveva annunciato. “Finalmente!”; “Speriamo arrivi una famiglia”; “Speriamo sia gente anziana” erano stati i commenti immediati al bancone del bar. «Si sa da dove vengono? Chi sono?» aveva chiesto un compaesano. «Gente che viene da fuori» aveva tagliato corto il lattaio, che davvero non sapeva niente di più del fatto che il figlio del Juanìn aveva abbassato il prezzo e dato via la casa intanto per un anno. Nel piccolo supermercato Despar, poco più tardi, stessa scena. «Hanno affittato la casa del Juanìn! Lo sapevate?» La commessa, dietro al banco degli affettati, aveva divulgato la notizia alle signore che compravano un filino di pane, un etto e mezzo di mocetta, di prosciutto cotto… Quel giorno Alba era appena rientrata a casa che la Caterina le si era parata davanti. «Hanno affittato la casa del Juanìn!» le aveva riferito tutta contenta del prossimo arrivo di nuovi vicini, di un po’ di compagnia. «Lo so, nonna, lo so!» aveva risposto lei svogliatamente.
26 *** Ora Alba è la prima ad assistere all’arrivo dei nuovi inquilini. Mentre gli sportelli delle auto si aprono, abbassa gli occhi sul cotone rosa pallido e sui fiorellini del pigiama che ha ancora addosso. Tre uomini di età differenti, ma tutti e tre più o meno giovani, scendono dall’auto più sportiva, la Delta. Il guidatore si stira le braccia. Non è molto alto, ma ha un corpo massiccio, due spalle larghe e braccia muscolose, fasciate da un maglioncino arancio chiaro con la zip che gli va forse un po’ troppo attillato. Porta i capelli castani pettinati all’indietro con il gel, un paio di baffetti e pizzetto curati, appena accennati. “Quello avrà ventisei, ventisette anni” giudica Alba. Indovinare l’età della gente è un altro giochetto che le piace. Di solito ci azzecca. In generale è una buona osservatrice. “Quell’altro più giovane, invece, avrà meno di me!” continua. Sta guardando il ragazzo appena uscito dai sedili posteriori. Ha capelli neri arruffati, sembra il più stanco del viaggio. Con un gesto poco fine si aggiusta il cavallo dei jeans, poi si accende subito una sigaretta. È stato l’unico che si è voltato a guardare le montagne, però. Alba l’ha notato. Gli altri due no, non l’hanno fatto. Quello più alto ha un’aria strafottente. Da quella distanza non distingue le parole, ma sente il suo vociare fin da lì. Si rivolge agli altri due - “Forse sono i suoi fratelli…” - con una cadenza, un modo di parlare aperto, un po’ pesante… “Che non è certo di queste parti; questi arrivano dal Sud.” Fumano quei tre ragazzi, si scambiano qualche battuta, ridono. “Ma sì, devono essere tre fratelli… eppure mi sembra che non si somiglino. Quello più grande, che sarà sui trentaquattrotrentacinque, è più alto degli altri due, è ricciolino, gli altri no…” Si è piazzato davanti alla porta di casa con una mano in tasca, la sigaretta nell’altra. Sta indicando agli altri un vecchio slittino di legno rimasto lì, appeso alla facciata della casa, sopra alla porta. Mima qualcosa, ride, ridono anche gli altri. “Cosa ridi? Cosa sbraiti? A giudicare dalla tua provenienza, tu neanche lo sai cos’è quello.”
27 Un uomo più anziano è disceso dall’Astra, ha tirato fuori un mazzo di chiavi dalla tasca del giaccone blu ed è andato ad aprire la porta di casa del Juanìn. È un tipo di media statura, oltre la sessantina di età, ha guancione olivastre ben rasate, grossi baffi neri curati, capelli imbiancati sulle tempie, un pancione sotto la giacca. “Oddio! Non ci sto capendo niente. Questo non sembra il papà di quei ragazzi, eppure per età ci siamo! Eppure lì c’è una donna, stessa età; quella è la moglie, non mi posso sbagliare…” Con la sigaretta penzoloni dalle labbra, l’uomo torna alla macchina, apre il portabagagli, inizia a scaricare quel vano stipato, zeppo di roba. La donna gli si è messa di fianco in silenzio, lo aiuta. Piegati sul portabagagli, tirano fuori due valigie enormi, borse piene di oggetti, pentole di cibo avvolte negli asciugamani da cucina. Alba si è tirata su la cerniera della felpa; di solito al mattino non lo fa, ma si è accesa un’altra sigaretta, vuole assistere al trasloco, cercare di studiare i nuovi arrivati. Altre facce si sono avvicinate ai vetri delle finestre intorno, Alba vede le sagome delle vicine dietro ai merletti delle tendine fatte al tombolo, qualcuna è uscita sul terrazzo con la scusa di tendere un panno. Con Alba si salutano, si danno il buongiorno, ma la signora Bouchet non sembra avere un’espressione contenta sul viso. I tre uomini sono spariti in casa. Quello più giovane è già uscito un paio di volte ad aiutare la coppia a fare avanti e indietro con una valigia, con un borsone pesante da lasciarci un braccio. Dopo un po’ esce quello coi baffetti, va alla Delta, tira fuori dal portabagagli un televisore. Eccolo di nuovo, torna indietro con uno di quei grossi stereo portatili con il manico, il mangiacassette. Riappare un’ultima volta. Si inginocchia per terra, armeggia sotto il sedile anteriore della macchina, tira, strattona: una borsa grigia, stropicciata, esce fuori con fatica. “Non aveva un posto più comodo per quel bagaglio? Cosa ci sarà mai lì dentro?” “Quello alto non è mai uscito ad aiutare gli altri. Che maleducato!” La portiera della macchina viene sbattuta, anche la porta di casa si chiude, tutti dentro, lo spettacolo è finito. Restano due macchine nella piazzola davanti casa, di nuovo silenzio.
28 *** Pomeriggio. Alba è di turno al bar, Simona non c’è, a lei tocca il lunedì mattina. Non si vede molta gente in giro; qualche famiglia dalle città, gente che è venuta a fare gli ultimi lavori prima di chiudere la seconda casa per l’inverno, un po’ di turismo giornaliero. Alba porta un tè, una tisana a qualche ricca signora che si gode il tepore del sole ai tavolini fuori. Il negoziante di souvenir aspetterà un altro giorno a chiudere per le ferie; vista la giornata di sole, sperava in maggior passeggio. Se qualcuno ora guardasse il paese dai ripidi fianchi del Montzeuc, vedrebbe qualche sottile filo di fumo chiaro levarsi nell’aria tranquilla che precede la sera: stufe accese per togliere un po’ di freddo dalle stanze che non prendono il sole. L’autunno è ormai alle porte. Tornano i giorni della polenta coi funghi, delle caldarroste. Alba esce dal bar. Si siede fuori, sulla panca di legno accanto alla porta, si accende una sigaretta. È quasi ora di ritirare i tavoli esterni, di sistemarli contro il muro del bar, uno sopra l’altro, poi c’è da fare lo stesso con le sedie. Gonfia le guance, sbuffa: «Ogni volta una bella rottura di balle!» Un uomo e una donna attraversano la piazza. Sono quei due signori arrivati alla mattina, la coppia che si è fatta tutto il trasloco. Alba accompagna con gli occhi i loro passi. Sembrano essere stanchi, stravolti da un viaggio lungo, troppo lungo. La donna in quella casa non si è risparmiata; ha preparato una camera da letto, allestito un armadio, riempito un frigorifero e messo a tavola quattro uomini. Lei no, ha spilluzzicato qualcosa dopo in disparte, la stanchezza le ha tolto l’appetito. Ha qualcosa di diverso; non curiosa in giro come fanno le altre donne, non si ferma davanti alla vetrina dei prodotti tipici, davanti agli oggetti di legno per la casa, ai manufatti in merletto. È una donna minuta, porta i capelli ancora neri raccolti sulla nuca da un fermaglio, un soprabito scuro, un paio di calze un po’ troppo coprenti. Con una mano sorregge una borsa con il nécessaire per tutti e due. Ha l’aria di chi è lì, ma potrebbe essere da qualsiasi altra parte, procede accanto al marito
29 come per inerzia. È stanca della giornata, è stanca di quelle precedenti. Nella sua terra ha passato una vita al servizio degli uomini, poche scelte, poche gioie, sacrifici tanti. Non è una da villeggiatura. È partita il pomeriggio del giorno prima da Palermo, ha attraversato tutta l’Italia. Se l’è guardata di buio dal finestrino della macchina-staffetta, come guarda il televisore mentre cucina: zitta, seria, pensando a qualcos’altro, con i cartelli verdi delle autostrade che le scorrevano davanti: A30, A1… Ma queste sono cose che ad Alba non è dato sapere. Vanno verso un albergo in una stradina del paese vecchio, sentiranno se c’è una camera, stanotte dormiranno lì. *** Appende la giacca all’attaccapanni dietro alla porta, s’infila le ciabatte. In cucina la luce è accesa. Al suo posto, la tavola è apparecchiata. Caterina ha già cenato, ora siede sulla sua poltrona vicino alla finestra, la sua bottiglia di vetro con l’acqua, il bicchiere, il telecomando della televisione poggiati sullo sgabellino accanto. C’è in onda un telegiornale, il ronzio della voce dei cronisti in sottofondo. In Ruanda gli Hutu hanno cominciato ad ammazzare i Tutsi, poi appare l’immagine di Rabin e Arafat che si stringono la mano, Clinton che li guarda. Sequenze di immagini che scorrono, che Caterina non vede. «Ciao nonna» la saluta Alba. Lei non risponde. I suoi occhi azzurri, lacustri, sono rivolti verso un punto imprecisato della stanza, il suo sguardo è appeso a un altrove verso l’alto. «Allora è arrivato, hai visto?» dice. «Parli dei vicini, nonna?» «Sì. Ma è arrivato, hai visto?» ripete. Ha quel tono di voce distaccato, un po’ lontano. «Nonna, sono più di uno. Li ho visti stamani. Sono arrivate cinque persone…» tenta di spiegare Alba. «No. Io parlo di lui. È arrivato.»
30 Poi ha un piccolo sussulto, come quando ci si appisola un attimo e ci cade la testa e ci riprendiamo subito dopo. «C’è il minestrone, Alba, prendilo. È ancora bello caldo.»
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5.
Aveva già chiuso la porta, stava per incamminarsi verso il bar, poi d’impulso si è fermata a guardare quella casa. Le due macchine, che ieri erano rimaste tutto il giorno parcheggiate lì davanti, sono sparite. Se non fosse per la tapparella della finestra al piano terra tirata su, la casa sembrerebbe ancora disabitata. È in balìa dell’incuria e della trascuratezza. Al primo piano il terrazzo avrebbe bisogno di una bella ripulita: ci sono ancora i vasi con la terra, uno strato di foglie secche e sporco, un paio di racchette da neve dismesse, le corna di un camoscio. La tapparella della finestra di camera è abbassata fino in fondo, è scolorita dalla polvere e dal tempo. “Quella è la camera dove abbiamo fatto la veglia al Juanìn” ricorda Alba “Dio, che tristezza!” *** Di tanto in tanto veniva chiamato nelle scuole per qualche piccola conferenza, per raccontare. Alcune volte era intervenuto alla scuola media, in un’occasione fu chiamato perfino ad Aosta. Giovanni, detto il Juanìn, poco più che ventenne aveva fatto la famosa ritirata. Era nella “Tridentina”, quando la brigata aveva aperto un varco nelle linee russe per far venire fuori quei pochi italiani rimasti. Alba adesso si rammenta di frasi, di frammenti di racconti che aveva sentito dal Juanìn stesso, quando lei era ancora una bimbetta e certe cose le entravano da un orecchio e le uscivano dall’altro. Diceva sempre che la notte del Natale del ‘42 in Russia c’erano 52 gradi sotto lo zero. Parlava di pianure sconfinate sepolte sotto la neve, campagne disabitate per decine e decine di chilometri. Si ricordava di gente che si fermava, perché non ce la faceva più, si
32 lasciava cadere, si abbandonava all’oblio del gelo; ragazzi di diciotto, vent’anni. Il Juanìn in Russia ci aveva quasi lasciato una gamba congelata. Gliel’avevano salvata in un ospedale di guerra chissà dove, ma era rimasto zoppo, aveva camminato male tutta la vita. In vecchiaia si era dato al Genepy, il liquore ricavato dall’infusione di fiori di artemisia. Poi un giorno se n’era andato senza troppi discorsi, dopo breve malattia, proprio in casa sua. Caterina non era voluta andare alla veglia, ci aveva mandato Alba. «Il Juanìn ora deve fare il Viaggio» aveva detto «se vengo anch’io, ci sta che si trattiene, si confonde le idee.» Le altre donne la guardavano perplesse, alcune annuivano, altre avevano quel sorriso indulgente e l’espressione bonaria di chi guarda un vecchio che sta vaneggiando. Lei parlava di energie, di calamite. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
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