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ALBERTO BERTONI
LE SEGRETE DI ANUBI LADRI DI CORPI SECONDO VOLUME
ZeroUnoUndici Edizioni
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LE SEGRETE DI ANUBI Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-548-6 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Aprile 2022
Questo romanzo è opera di fantasia. Ogni riferimento a personaggi realmente esistiti o fatti realmente accaduti è da intendersi del tutto casuale o usato in chiave fittizia.
Per Caterina
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790 D.C. IL BRAMINO
Ero frastornato per i soliti postumi del cambio di corpo, ma anche per l’oppio che avevo assunto e per la febbre che ancora non era passata. Mia madre mi corse incontro, chiedendomi cosa fosse successo. Le dissi che non ricordavo, che lo schiavo Peshgar era venuto a vedere come stessi e si era seduto con me… poi un serpente doveva averlo morso, ma questo non lo sapevo per certo, perché ero caduto addormentato. Non ero sicuro che questa versione potesse convincerla, ma a lei non sembrò importare, giacché ero rimasto incolume. Decise di farmi bere il decotto avanzato, che mi stordì di nuovo, poiché conteneva altro oppio. Dormii per tutto il giorno e quando mi risvegliai, la stanza era stata pulita e profumata, e il corpo del capitano Peshgar, nel quale avevo trascorso molti anni da schiavo, buttato da qualche parte. Adesso ero un bramino. Come nelle precedenti occasioni, la sensazione di nausea e di vertigine durò per alcuni giorni. Al di là di questo, avere nuovamente dodici anni era fantastico. Potevo correre e fare le scale senza avere il fiatone, inoltre non avevo più i dolori che quel vecchio corpo aveva accumulato alla schiena e alle giunture, e poi ero di nuovo ricco. Non tanto quanto lo ero stato, ma comunque abbastanza per farmi vivere in maniera dignitosa e anche di più, se mi fossi impegnato per far fruttare i terreni di famiglia. La prima cosa a cui dovetti abituarmi fu l’avere ancora una madre e un padre che si prendevano cura di me. All’inizio, quando avevo ancora nausea, la presenza di mia madre si rivelò confortante, ma con il passare del tempo sottostare a regole di condotta che mi erano del tutto sconosciute, mi rese oggetto di molti rimproveri e di qualche ceffone. Cercai di rimanere tranquillo e misi a tacere quella parte di me che li avrebbe uccisi entrambi per poter vivere finalmente in pace. L’unica persona con cui costruii un buon rapporto fu mio nonno Anjan, che all’epoca doveva avere circa sessantuno anni ed era un vero capo famiglia. Aveva preso il vizio di masticare il betel, e aveva denti neri e saliva rosso sangue che sputava in continuazione. Amava portarmi a caccia, ai combattimenti tra animali o semplicemente passava il tempo a
6 parlare con me degli argomenti più disparati. Con lui potevo permettermi di dimostrare più anni di quanti ne avessi, e osavo sottoporgli i miei punti di vista su varie faccende riguardanti l’amministrazione delle sue proprietà, alcuni dei quali trovò molto interessanti. Con mia madre invece dovevo apparire molto più ingenuo. Lei notò un cambiamento nel mio comportamento e ne parlò con Bansi. Per quanto mi sforzassi di comportarmi in ogni occasione come ritenevo si sarebbe comportato il vero Harilal, non riuscivo a ingannarla e lei continuò, giorno dopo giorno, a chiedermi se ci fosse qualcosa che non andava. Per il resto, la vita procedeva tranquilla. Dimostrai alla mia famiglia di saper leggere e scrivere in sanscrito e in cinese, e questo mi risparmiò un nuovo educatore, così passai i primi giorni tra passeggiate, chiacchierate con Anjan e la lettura dei pochissimi libri presenti nel palazzo. Volevo partire, lasciarmi quella casa e i miei nuovi parenti alle spalle, e girovagare in cerca di avventure, ma continuavo a rimandare. Anjan mi spiegò come funzionava il sistema delle caste, che dopo tanti anni ancora non mi era chiaro, godendo del piacere della mia compagnia. «Tu sei un bramino» diceva. «Quando sarai più grande, toccherà a te celebrare il Soma, il rito più importante della nostra religione.» Più Anjan tentava d’insegnarmi le tradizioni religiose della sua gente e le complesse ritualistiche che le accompagnavano, più io mi chiudevo in me stesso, rifiutando di accettare quella cultura così diversa dalla mia, riflettendo piuttosto sul come fare per fuggire da qualche altra parte. «Quando smembrarono Purusa, in quante parti lo divisero?» chiese, citando i Rgveda. E io dovevo rispondere: «In quattro parti.» Lui proseguiva: «Cosa divenne la sua bocca? Cosa le sue braccia? Come sono chiamate ora le sue cosce? E i suoi piedi?» «La sua bocca diventò il brāhmana, le sue braccia si trasformarono nello ksatriya, le sue cosce nel vaiśya e dai piedi nacque lo śūdra» rispondevo, soffermandomi poi a spiegargli come questo legittimasse il sistema delle caste indiane per il quale i bramini, in quanto provenienti dalla bocca di Purusa, erano gli unici a potersi occupare di religione, perché a loro competeva la parola, così come ai Kshatriya, che derivavano dalle sue braccia, competeva di proteggere il popolo incaricandosi della guerra; ai Vaiśya, nati dalle sue cosce, toccava il sostegno degli altri e quindi la produzione del cibo, ovvero l’agricoltura; e ai Shudra erano riservati i lavori più faticosi.
7 La vita di ognuno in India dipendeva dalla casta natale, e non era possibile per nessuno, non solo cambiare la propria condizione, ma nemmeno frequentare chi apparteneva a una casta diversa. Tutto questo mi sembrava assurdo ma Anjan sosteneva che la posizione di ogni individuo nel mondo era determinata dal suo comportamento nella sua vita precedente. Se era stato un uomo onesto e retto, dopo la morte si sarebbe reincarnato nel membro di una casta più alta, se invece si era comportato male, si sarebbe ritrovato in una casta inferiore. Era la purezza della sua anima a determinare la casta della sua prossima incarnazione. Gli Shudra erano i più impuri, e bisognava star loro lontano. I fuori casta erano ancora peggio: non si potevano nemmeno toccare senza esserne sporcati. Il discorso degli schiavi era diverso. Uno schiavo, specie se straniero, non era nemmeno considerato una persona. Poteva essere usato per svolgere lavori faticosi senza venire pagato, e quindi sostituiva i senza casta al servizio di chi se ne poteva permettere l’acquisto, ma era trattato come un animale o uno strumento. I matrimoni intercasta erano consentiti, ma solo tra un uomo di casta superiore e una donna di casta inferiore, probabilmente perché nel corso dei secoli gli uomini più ricchi e potenti avevano finito per scegliersi le donne che volevano. Inoltre era praticata la poligamia e, più prestigiosa era la casta di appartenenza, maggiore era il numero di mogli che un uomo poteva prendere. In ogni caso, in quella regione dell’India, la poligamia non veniva molto incoraggiata, e nella nostra famiglia non si ricordavano casi di matrimoni plurimi. Anjan svolgeva delle funzioni religiose. Officiava riti ai quali venivo invitato ma che rifiutavo di comprendere perché continuavo a considerarmi “di passaggio”. Masticare il betel non era un’attività consona per un bramino. Tra Bansi e Anjan c’erano stati diversi screzi a riguardo. Anjan sosteneva che non fosse vietato in modo esplicito da nessuna parte, mentre Bansi riteneva il contrario, ma in quegli anni il consumo delle foglie del betel era diffuso a tal punto che nessuno se ne curava. I bramini masticavano una qualità più pura di foglie, per distinguersi dai più umili, e questo bastava a dar loro una parvenza di legittimazione. Quando Anjan morì, quattro anni più tardi, i suoi uffici divennero pertinenza di Bansi. In quello stesso anno io mi dovetti sposare. Avevo sedici anni. A dispetto della mia età – considerata giusta per prendere moglie – a me proprio non andava. Cercai di posticipare, adducendo scuse di vario tipo
8 ma non c’era nulla che potessi fare. La nostra famiglia non navigava più in buone acque, e l’apparentamento con una ricca famiglia locale avrebbe migliorato la situazione. Conobbi la mia sposa il giorno delle nozze. Charita era una bramina come me, e i suoi genitori erano benestanti. Ci sposammo appena trascorso il periodo di lutto per la morte di Anjan, al cui funerale erano intervenuti tutti i nobili del villaggio. Lei aveva dodici anni. *** Mio padre mi accordò il permesso di badare ai campi di cotone di betel, risparmiandomi di presenziare ai riti di cui lui si era fatto carico dopo la morte del nonno. Pensava che quando sarei stato più maturo avrei cambiato idea, come si conviene a un bramino, e avrei ritrovato il mio posto nel mondo. Per me fu una liberazione. Riorganizzai le coltivazioni rendendole più produttive, ma soprattutto iniziai a negoziare con i compratori garantendomi un guadagno più alto. I bramini tendevano a non considerare troppo importante il denaro, preferendo concentrare la propria attenzione a faccende spirituali, e spesso i mercanti se ne approfittavano, per spuntare prezzi fuori mercato per le merci prodotte nelle loro proprietà. Bansi non poté non apprezzare la cosa, ma evitò sempre l’argomento, per non dover difendere la mia scelta di abdicare al mio lavoro di religioso. A dispetto di ogni mia aspettativa, la piccola Charita si rivelò una buona moglie. Badava egregiamente all’organizzazione della casa e della servitù, e mi lasciava in pace da consentirmi di dedicare il mio tempo a faccende più importanti. Oltre all’amministrazione delle proprietà terriere, alla contabilità e al pagamento delle tasse, avevo infatti ripreso l’abitudine di estraniarmi per alcune ore ogni tanto, in quello stato contemplativo che avevo già sperimentato durante la mia vita in Cina. Mi sedevo da qualche parte, di solito all’aperto, per rivivere momenti del mio passato. Ordinavo di non essere disturbato, spiegando che mi sarei ritirato in preghiera, e invece stavo lì a ricordare pezzi della mia vita con una nitidezza tale che era come se fossi di nuovo un guerriero Unno, o un mercante sulla via della seta, o un funzionario cinese al cospetto dell’Imperatrice. Nel complesso, gli anni passarono senza che mi potessi lamentare di quella vita e con essi anche la fretta di partire venne progressivamente meno.
9 Giravo per il paese sulla schiena di un elefante, seduto su un palanchino. Era fantastico. Avevamo assunto un vecchio che addestrava e conduceva quegli enormi animali e, all’interno del palanchino c’era posto addirittura per tre. Visitai alcuni dei paesi vicini e mi spinsi fino alla costa, ripercorrendo le vie di quel porto nel quale ero stato venduto in catene moltissimi anni prima. Il miglioramento della situazione economica consentì a Charita di sostituire i cuochi e parte della servitù – all’epoca ancora in gran parte costituita da schiavi che non erano più in grado di lavorare la terra – con dei servitori indiani infinitamente migliori nel loro lavoro. I cuochi in particolare furono un ottimo investimento, perché ci preparavano ogni giorno manicaretti deliziosi. Il rapporto con Bansi non fu mai buono. Anno dopo anno, mi metteva pressione perché iniziassi a dedicarmi ai riti che il mio essere bramino imponeva e, dal momento che io continuavo a rimandare, lui s’infuriava e questo causava liti furiose che finivano per turbare una situazione che non avrei potuto definire idilliaca ma che di certo non sarebbe stata da disprezzare, soprattutto dopo una vita da schiavo. Nell’814, assieme a moltissimi bramini, fui invitato a partecipare alla cerimonia d’incoronazione del Re Amoghavarsha I, successore di Govinda III. Era alto, snello e con una folta barba nera. Portava il turbante ed era vestito con abiti di seta, impreziositi da gemme colorate. Alla cerimonia seguì un banchetto che durò per tutta la notte, e mi ricordò lo sfarzo a cui avevo rinunciato andandomene dalla Cina. Mi ritrovai spesso a penare ad Abat, chiedendomi se fosse ancora vivo. Il corpo della piccola Dandan avrebbe potuto condannarlo a una vita da schiava di piacere, se mai si fosse risvegliato da quella letargia che lo aveva colto negli ultimi giorni della lotta con Ihal per il possesso di quel corpo. Mi chiesi se lo avrei mai rivisto e mi sforzai di pensare che forse stava meglio, che era stato risparmiato dalla ciurma che lo aveva rapito e, perché no, che era riuscito ad avere la meglio anche contro Ihal. Desideravo come non mai avere qualcuno con cui aprirmi, qualcuno a cui confidare i miei segreti e con il quale pensare al futuro. Un futuro che non si sarebbe risolto nel giro di una cinquantina d’anni come per gli altri ma che sarebbe proseguito per secoli, di corpo in corpo fino a quando lo avessi desiderato. ***
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Non avevo mai preso troppo sul serio le raccomandazioni alla prudenza che mi venivano rivolte da chi, mia moglie innanzitutto, si preoccupava per la mia incolumità. Essere immortali ci fa erroneamente ritenere di essere anche immuni dagli incidenti e dalle disgrazie che invece colpiscono tutti. E un giorno questa mia presunzione si rivelò per quello che effettivamente era: un’illusione. Dopo un giro in città con la mia consorte, nello scendere dall’elefante, non mi accorsi che un piede si era incastrato in uno dei finimenti dell’animale, e caddi. Atterrai abbastanza male da procurarmi una brutta frattura a una gamba. Venni subito portato a casa e curato. All’epoca, naturalmente, la medicina indiana, per quanto all’avanguardia in tutto il mondo, non poteva fare molto. La gamba fu steccata e l’osso si aggiustò da sé dopo molti giorni di riposo assoluto. Purtroppo la gamba non ritornò più come prima, e questo ebbe due effetti: innanzitutto da quel giorno fui affetto da una zoppìa molto accentuata che non mi abbandonò più, ma soprattutto fui vittima di un dolore cronico che mi accompagnò in ogni mio movimento, sia che camminassi sia che stessi fermo. Sentivo dolore anche quando tentavo di dormire la notte o restavo seduto sulla stuoia per mangiare. Per lenire il dolore, i medici mi somministrarono diverse medicine. Nelle prime fasi dell’incidente dei decotti e delle strane pozioni, in seguito, quando il dolore divenne cronico, mi diedero un infuso incolore dal gusto amarognolo che funzionava egregiamente e mi garantiva qualche ora di sollievo. Trascorsi i primi giorni immobile sulla stuoia, pervaso da cattivo umore. Mi biasimavo per essere stato così stupido da cadere, e mi ripetevo che dovevo prestare più attenzione per evitare che fosse una simile banalità a uccidermi, dopo un’esistenza di quasi cinquecento anni. Trascorso questo periodo di forzata immobilità, tentai di ributtarmi sul lavoro ma il dolore mi tormentava e quel liquido amarognolo che bevevo, se da un lato me lo faceva passare, dall’altro m’intontiva e m’impediva di lavorare come in precedenza. Mi lasciai andare all’ozio e iniziai a tralasciare i miei impegni. Convocai alcuni medici e chiesi una soluzione più duratura, ma l’unica cosa che ottenni fu quell’intruglio amaro e giallognolo, che poi scoprii essere oppio, che all’epoca in tutta l’India veniva consumato in forma liquida. La droga mi diede sollievo, ma dopo alcuni mesi mi rese di nuovo schiavo. Riuscivo a stare bene solo dopo averlo bevuto e in sua assenza
11 venivo tormentato da dolori ancora più forti, non solo: necessitavo di dosi sempre maggiori. Nell’antichità l’oppio era considerato dai medici come la soluzione a molteplici problemi, primo fra tutti il dolore di tipo cronico. Nonostante alcuni dei suoi effetti collaterali fossero noti, si ritenevano largamente superati dai benefici, quindi costituiva una risorsa essenziale per i medici che, in pratica, lo prescrivevano per quasi tutte le patologie. Ero abbastanza ricco da permettermi tutto l’oppio che volevo quindi ne comprai in quantità e iniziai a prepararmelo da solo. All’inizio la mia vita mantenne una parvenza di normalità ma mese dopo mese la droga m’impedì di svolgere le mie normali mansioni. Non riuscivo a concentrarmi sul lavoro, non mi interessavo più del buon andamento delle coltivazioni né della gestione degli schiavi, il cui lavoro presto iniziò a risentirne. Mio padre e mia moglie iniziarono a preoccuparsi ma era troppo tardi. Avevo intuito che avrebbero potuto rappresentare un problema e preparavo il mio intruglio da solo, quando ero sicuro che non mi vedessero. Avevo nascosto svariati chili di oppio in un posto segreto, e mi rifornivo da un mercante ogniqualvolta il totale iniziava a calare troppo. Presto iniziai ad abusarne. Non facevo nulla senza bere un sorso della bevanda che portavo sempre con me dentro una specie di borraccia. Quando Bansi morì, io avevo compiuto quarantadue anni ed ero un oppiomane. Passavo l’intera giornata a bere. Non facevo altro, bevevo e dormivo. Mia moglie non mi parlava più e non me ne importava nulla. In mia assenza aveva preso su di sé la gestione delle nostre proprietà e a me la cosa andava benissimo, visto che mi lasciava in pace a coltivare la mia dipendenza. Gli altri bramini mi avevano isolato, dal momento che rifiutavo di svolgere qualsiasi attività connessa alla mia casta e passavo tutto il giorno chiuso in casa. Non ero del tutto inconsapevole del fatto che l’oppio fosse un problema estremamente serio. A dire il vero tentai di smettere. Non una ma molte volte, ripetendomi che per un immortale come me, una vita vissuta in quel modo rappresentasse una sconfitta. Io ero destinato a vivere in eterno, forse a compiere grandi imprese. Avrei potuto avere ogni cosa e mantenerlo vita dopo vita, per sempre. Ero stato uno schiavo ed ero diventato un bramino, e adesso rischiavo di finire i miei giorni da tossicodipendente. Mi chiesi se mi sarei limitato a
12 gettare via quella vita o avrei continuato a cercare l’oppio anche nei successivi corpi. Tentai di liberarmene. Distrussi l’oppio in mio possesso e m’imposi di non berne più, ma poi il dolore tornò a tormentarmi, e il desiderio della droga divenne irresistibile al punto da farmi correre dal mercante per comprarne altro, e altro ancora. Gli anni passarono mentre io alternavo momenti della più completa incoscienza ad altri in cui bevevo litri e litri di quell’intruglio amaro. Il corpo di Harilal iniziò a invecchiare e a dimagrire, anche perché non mi nutrivo in maniera adeguata. Non feci nulla per anni. Tutta quella vita fu sprecata. Quando mia moglie osava tentare di parlarmi, io avevo degli eccessi d’ira. Solo ora capisco che erano causati dalla consapevolezza che sapevo quanto lei avesse ragione, ma io non potevo e non volevo reagire. Tentò molte volte di persuadermi a smettere, anche sfidando le consuetudini che impedivano a una moglie indiana d’interferire con le scelte del marito, ma non ottenne mai alcun risultato. Raggiunsi il fondo il giorno che, andando nel nascondiglio dell’oppio lo trovai vuoto. Mi convinsi che fosse stata colpa di Charita: che lo aveva nascosto perché io non lo bevessi, così andai da lei e la picchiai per farglielo tirare fuori. Lei disse che non l’aveva, che non sapeva di cosa stessi parlando, ma la mia ira era incontenibile e la picchiai ancora, e ancora prima di crollare a terra a mia volta, esausto. Mi svegliai con addosso un’orribile sensazione e la prima cosa a cui pensai fu procurarmi altro oppio. Ricordai di averlo finito il giorno prima, o forse no? Era tutto così confuso. Non sapevo, ma a differenza del giorno precedente non ero più così certo che lo avesse nascosto Charita. Non aveva importanza, cercai dell’argento e mi trascinai in città per comprarne quanto più potessi. I bramini mi evitavano ma non me ne importava nulla. Per tutta la strada pensai solo a pregustare il momento in cui avrei preparato il mio intruglio, e quando rincasai mi misi subito al lavoro. Una volta pronto, riempii dei contenitori e iniziai a bere poi, prima che la droga cominciasse ad annebbiarmi la vista, vidi che Charita era stesa sul pavimento, priva di sensi.
13 Mi misi a urlare e quando un servitore accorse, lo mandai a chiamare aiuto ma era troppo tardi. Charita era morta. La mia spirale discendente non era ancora arrivata al punto più basso. Quando la notizia che avevo ucciso mia moglie si diffuse, ci furono delle conseguenze. Suo padre, venendolo a sapere, si adoperò in ogni modo per far sì che fossi condannato a morte. Disse che stavo disonorando la casta dei bramini e che meritavo di morire per avere ucciso sua figlia. Io mi pentii subito del mio gesto, oltretutto non premeditato, e cercai di trasformare questa mia disperazione in uno stimolo per smettere di assumere l’oppio. Mio suocero aveva amici molto altolocati ma non abbastanza. Ai bramini la pena di morte non veniva mai applicata. Dissi che si era trattato di un incidente e forse fui creduto, oppure i giudici fecero finta di credermi per non creare un precedente che avrebbe un giorno potuto ritorcersi contro di loro. In fondo era morta solo una donna e, anche se era figlia di un bramino, quanto accaduto non doveva essere ingrandito oltre misura. Fui cacciato dalla casta e punito con una grossa ammenda. Questo episodio, unito al mio recente tentativo di finirla con l’oppio, mi gettò in una profonda depressione. E la depressione mi rigettò tra le braccia dell’oppio. *** I miei terreni erano sempre meno redditizi. Alcuni dei miei schiavi riuscirono a scappare, e tutti i miei servitori se ne andarono altrove, dal momento che non li pagavo più. Raggiunsi un accordo con un ricco Kshatriya, a cui cedetti l’usufrutto di tutte le mie proprietà in cambio di un affitto mensile. Una cifra lontanissima rispetto a quanto avrei potuto guadagnare amministrando i terreni come si deve, ma più che sufficiente per permettermi di passare un giorno dopo l’altro rinchiuso in casa a bere il mio veleno. Non mi lavavo, non mi radevo, non facevo altro movimento se non quello richiesto dalla preparazione dell’oppio e dal suo consumo, e mi nutrivo quel poco per non morire di fame, mangiando ciò che trovavo in cucina o nelle dispense. Andai avanti così, anno dopo anno. Il circolo depressivo in cui ero caduto era tale che avevo deciso di lasciarmi morire senza nemmeno tentare di passare in un nuovo corpo. Tanto comunque anche la prossima sarebbe stata una vita inutile, nella quale avrei anche potuto ringiovanire ma mai mi sarei liberato dalle catene imposte dalla droga.
14 Poi un giorno tutto cambiò. Successe quando ero ormai talmente vecchio e consumato dalla droga che a stento mi reggevo in piedi. Uno degli schiavi che avevo tenuto con me, perché si prendesse cura delle mie necessità, mi venne ad avvertire che una persona chiedeva udienza. «Chi sarebbe?» borbottai. «Non lo so signore, è vestito in modo strano.» Quello schiavo non aveva mai visto un monaco buddista ma io sì, in Cina, e non avevo niente contro di loro. Lo feci entrare. Il mio ospite si rivelò essere un allegro vecchietto, piccolo di statura e senza capelli, portava una misera veste giallastra che gli lasciava scoperta una spalla, e non aveva altro bagaglio se non una ciotola vuota di legno. Mi salutò con rispetto e chiese di poter avere dell’orzo per preparare la tsampa. Io non sapevo cosa fosse ma ordinai che gli portassero l’orzo e gliene donai un sacco. Il monaco rise. «Vi ringrazio per la vostra generosità, signore, ma io sono vecchio e debole, e non potrei mai percorrere la strada che ho davanti con un intero sacco di orzo. È troppo pesante per me. Mi accontenterò di riempire questa scodella.» Indicai l’oggetto che aveva in mano e dissi: «La strada che avete davanti non può essere poi così lunga, se quella scodella è sufficiente a sfamarvi.» Non so perché ma quel monaco mi trasmetteva una tranquillità che raramente avevo provato. «La vostra generosità è davvero grande, signore. Il contenuto di questa scodella non mi sfamerà per tutta la strada che mi resta, ma non ha importanza per me. Vi ringrazio.» Ero davvero incuriosito da quell’uomo. «Dove state andando?» chiesi. «Oltre le montagne, molto più a nord rispetto a qui. Nella mia terra natale.» «Se non volete altro orzo, permettetemi almeno di ospitarvi per qualche giorno, per farvi riprendere le forze prima di riprendere il vostro viaggio. Io vivo da solo in questa casa e mi farebbe piacere un po’ di compagnia.» Il vecchio accettò, stupito da tanta generosità da parte di un bramino. «Non sono più un bramino» spiegai. «Anzi, forse non lo sono mai stato…» dissi, ripensando a quello che avevo fatto a mia moglie.
15 «Per scoprire chi siamo davvero, spesso non basta una vita intera, a volte è l’immagine che abbiamo di noi stessi a ingannarci» disse come se conoscesse da sempre la mia storia. Lo invitai a cenare con me, e gli assegnai una stanza per la notte. Gli domandai chi fosse, da dove venisse e gli chiesi della sua fede, che avevo conosciuto solo per tramite dell’Imperatrice Wu. «Tutte le persone» disse «cercano la felicità in questa vita. È naturale che sia così. Ma pochi sono coloro che la trovano. E sapete perché? Perché la felicità non è una cosa che può essere comprata con il denaro. Circondarci di beni dona una felicità effimera, transitoria, che dura per un po’ e poi cessa, lasciandosi sostituire dalla malinconia e dalla tristezza. Allora ci s’illude che altri beni, altri… oggetti, possano darci la felicità, e facciamo in modo di possederli per poi accorgerci che non bastano. Ci si dice allora che la felicità non esiste. Che esisteva quando eravamo bambini, perché passavamo il tempo a giocare e ci facciamo prendere dalla nostalgia e, di nuovo, dalla tristezza, ma la felicità esiste ed è a portata di mano per tutti. Ricchi e poveri. Perché non dipende da cosa uno possegga ma è uno stato dell’anima ed è presente in ognuno di noi. Basta saperla cercare.» Ero incantato da lui talmente tanto da non riuscire a mettere fine alla cena per lasciarlo andare a letto. Quando poi mi decisi e mi coricai a mia volta, non riuscii a dormire per l’impazienza di rivederlo il giorno dopo e scambiare altre parole. Era profondo, saggio oltre ogni mia possibilità. Avrei potuto ascoltarlo per ore. Fu allora che compresi quanto fosse stato stupido il modo in cui avevo gettato via quella vita. L’uso dell’oppio mi aveva reso schiavo di un piacere che mi consumava e mi avvelenava, quando avrei potuto godermi una vita tranquilla e agiata. E quel monaco, così povero da non possedere altro al di fuori dei suoi vestiti e una scodella di legno, aveva invece una serenità e una gioia interiore che io, nei miei quasi cinquecento anni di vita, non avevo mai raggiunto. Volevo sapere come facesse. Il giorno seguente, dopo averlo atteso a lungo per colazione, lo andai a cercare. Lo trovai nella sua stanza, seduto a terra con le gambe incrociate, che fissava immobile la parete di fronte a sé. Quando chiesi cosa stesse facendo si destò e si scusò per avermi fatto preoccupare: «Medito» disse. «Lo faccio ogni giorno al risveglio.» Ero incuriosito sempre di più e chiesi spiegazioni.
16 «La felicità è sentirsi parte del tutto. È come quando una goccia d’acqua scopre di non essere solo una goccia ma una parte dell’oceano. Sente come quell’oceano la abbraccia e la ama, e le parla…» «E quella cosa che facevate?» «Meditare vuol dire mettere a tacere tutti i rumori che abbiamo nella testa per ascoltare la voce dell’oceano.» «E voi avete sentito quella voce?» chiesi. «No!» rispose allegramente: «Ma ogni volta che medito ci vado più vicino, e quando smetto sento su di me tutto l’amore del mondo.» «Vorrei provare…» dissi tra me e me, senza nemmeno rendermi conto di parlare a voce alta. Sorrise. «Non è mica troppo tardi» si mise in piedi a fatica. Fu in quel momento che capii che volevo seguirlo nel suo viaggio. Pensai per molte ore a quello che avrei fatto, e quando mi sentii pronto, lo cercai per parlargli. «Ho da chiedervi un favore» gli dissi. «Ho un figlio che voi non avete conosciuto, perché in questi giorni è stato leggermente malato.» Lui sembrò incuriosirsi. «Vorrei che lo portaste con voi quando partirete.» «Mio generoso signore…» rispose «il mio viaggio in queste terre serve a diffondere la parola del Buddha, da molti mesi vago di città in città e parlo con persone come voi, cercando di aprire il loro cuore alla parola del Bodhisattva. Ma non credo sia un viaggio semplice per un bambino…» «Si adatterà. Lui è molto maturo per la sua età, e io desidero che abbia una formazione buddista. Posso pagare.» Il monaco agitò le mani e si affrettò a rispondere: «Non voglio i vostri soldi. La parola di Buddha non è cosa che si possa comprare, e io mi sono impegnato a trasmetterla a quante più persone possibile. Porterò vostro figlio con me, se questo è quello che desiderate. Posso vederlo? Come si chiama?» Mi colse impreparato, non avevo pensato a un nome. «Anil.» Inventai una scusa e gli dissi che il giorno seguente gli avrei fatto trovare il bambino pronto per la partenza poi mi ritirai, dando istruzioni alla servitù di non disturbare il mio ospite, e iniziai a pensare a come procurarmi un nuovo corpo. Mi preparai dell’oppio, chiedendomi se ne sarei rimasto schiavo anche nella vita successiva, bevendo il necessario per una breve passeggiata. Volevo non provare dolore ma non dovevo essere troppo intontito.
17 Uscii quando il sole stava per tramontare, e le nuvole in cielo si erano tinte di un colore arancione chiaro, che presto sarebbe diventato un rosso acceso. M’incamminai fuori città. Non avevo pensato di cambiarmi e i miei indumenti m’identificavano come un bramino, anche se forse non uno particolarmente agiato. Dove avevo in mente di andare questo avrebbe potuto attirare su di me molte attenzioni ma ormai non sarei tornato indietro, quindi cercai di non pensarci. Al di fuori del sistema induista delle caste ci sono i Dalit, gli intoccabili. Questi sono così in basso nella scala sociale, da non venire nemmeno autorizzati a vivere in città, perché la loro sola presenza non sarebbe tollerata. Vengono definiti “intoccabili” perché il toccarli, o anche soltanto incrociare il loro sguardo, poteva rendere impuri i membri di caste superiori. Per questa ragione non era permesso loro di usare le fontane, fare acquisti nei negozi o anche camminare per strada. Erano emarginati e vivevano nella più assoluta povertà, accontentandosi di lavori umili e saltuari e spesso nutrendosi di rifiuti. Quando arrivai fuori città, la mia presenza fu notata dai pochi adulti fuori casta che incrociavo, i quali, per quanto stupiti, distolsero lo sguardo, forse in segno di rispetto per il mio status. Non me ne curai e proseguii fino ai margini del loro insediamento senza nemmeno avere chiaro in mente cosa fare. Avevo pensato di proporre a un Dalit una piccola somma in cambio del figlio, ma non avevo portato denaro con me e tutto sommato iniziava a non sembrarmi più una buona idea. In breve, la gamba iniziò a farmi male e mi resi conto di quanto stupido fossi stato a non portare con me altro oppio. Camminai senza meta per un po’, poi finalmente la fortuna mi assistette. Ero finito lontano dalle capanne dei Dalit, in una zona arida e pietrosa, ricoperta di rifiuti e cattivi odori. Stavo quasi per ritornare indietro, quando mi si avvicinarono due ragazzini. Il più grande tese la mano verso di me per chiedere la carità, e il più piccolo gli si strinse addosso senza togliermi gli occhi di dosso. «Non ho nulla per voi» dissi, toccandomi le tasche in un gesto eloquente. Loro non desistettero e rimasero lì fermi, come se non avessero capito nulla delle mie parole. Il grande avrà avuto una decina di anni, il più piccolo qualcuno in meno. Erano magri, sporchi, seminudi e scalzi. Il più grande aveva delle croste di sangue rappreso agli angoli della bocca, come se si fosse azzuffato
18 con qualcuno e avesse avuto la peggio. Il più piccolo gli si stringeva addosso come se temesse per la sua incolumità. «Siete fratelli?» azzardai. Il grande scosse la testa e pronunciò quello che doveva essere il suo nome. Non ci feci caso, iniziando invece a chiedermi come fare per portare con me uno di loro. Non avevo cibo con me, niente da poter barattare e presto sarebbe arrivata la sera. Non ritenevo pericoloso rimanere lì per un altro po’, ma non volevo trattenermi oltre lo stretto necessario. Il bambino più grande non aveva ritirato la mano: «Ti prego signore! Carità! Mio fratello è molto malato. Ha bisogno di cibo…» «Lui?» chiesi, indicando il bambino che si aggrappava alla sua gamba. «No» rispose, conducendomi poco più avanti dove si trovava un riparo di fortuna. Mi fece entrare e tra alcuni stracci nel pavimento vidi altri due ragazzini seduti a terra, e un quinto steso poco più in là. Mi avvicinai tra gli sguardi stupefatti dei due, che mai si sarebbero aspettati l’ingresso di un bramino nella loro capanna, e diedi un’occhiata al bambino a terra. «Lo puoi curare?» mi chiese uno di loro. L’anima di un induista si sarebbe sporcata tanto da non tornare più come prima per il contatto con tutti quei fuori casta ma io non ero induista, più di quanto lo fossi prima di risvegliarmi nel corpo di un bramino, e la cosa non m’importava. Mi avvicinai e lo toccai sulla fronte. Non era particolarmente caldo, forse aveva un po’ di febbre ma non mi parve nulla di grave. Perlopiù era denutrito e quindi debole. «Da quanto tempo è così?» chiesi. «Da ieri» spiegò il più grande. «Ha bisogno di cure» dissi. «Avete i soldi per un medico?» Posi la domanda senza aspettarmi che qualcuno rispondesse, infatti non successe. Poi il maggiore mi disse: «Tu puoi curarlo?» Io finsi di pensarci per un po’ poi risposi: «Sì, posso, ma non qui. Devo portarlo con me e dargli delle medicine.» A quelle parole il bimbo si strinse ai fratelli, spaventato, ma io non potevo lasciarmelo scappare e aggiunsi: «E voi… dovete mangiare! Sennò vi ammalerete tutti come lui.» Prima che potessero obiettare, mi tolsi uno degli anelli che portavo al dito e lo mostrai al bambino più grande: «Ti regalo questo. Ora io e te andremo in città portando con noi tuo fratello. Quando saremo arrivati, tu venderai l’anello e comprerai del cibo, tornerai qui e lo dividerai con gli altri. Lui resterà con me alcuni giorni, fino a quando non starà meglio. Poi sarà libero di andarsene.»
19 Il ragazzino allungò la mano per prendere l’anello ma io lo chiusi nel pugno: «D’accordo?» «Sì signore» rispose. Gli ordinai di prendere in braccio il malato e di seguirmi. Subito si alzarono tutti in piedi. «State giù!» ordinai. «Non posso farmi vedere in città con un gruppo di Dalit. Verrai solo tu e voi aspetterete qui.» Uscii. Il ragazzino mi seguì portando con sé il fratellino. Questi riusciva a reggersi sulle proprie gambe, segno che le sue condizioni non erano poi così gravi come mi erano state presentate. Li precedetti fino in città, sperando di non dare troppo nell’occhio, grato che le prime ombre della sera rendessero più difficile distinguere le persone. Quando arrivammo nei pressi della mia abitazione, mi fermai. Consegnai l’anello al maggiore e gli indicai un gruppo di costruzioni poco più avanti. «Tieni. Non sarà difficile scambiarlo con del cibo, nemmeno per un bambino Dalit. Lui viene con me.» Il piccolo gli si strinse addosso ,spaventato, ma il possesso di un tesoro come quello indusse il più grande a ritenere che io fossi una persona buona. Disse al fratello di fidarsi di me e che sarebbe ritornato il giorno successivo. Gli disse che avrebbero avuto molto cibo e che ne avrebbe tenuto da parte anche per lui, e finalmente corse via lasciandolo con me. «Non piangere» gli dissi aprendo il pesante portone. Quando il mio servo mi venne incontro rimase sbalordito nel vedermi in compagnia di un bambino sporco e denutrito che non poteva avere più di sei anni, e si ritrasse quando realizzò che era un intoccabile. «Portami del cibo!» ordinai. «Nella mia stanza!» Lui fu felice di andarsene, senza essere costretto a un contatto con quello sconosciuto, e io mi avviai zoppicando fino alla mia stanza al piano di sopra. Per prima cosa mi concessi una lunga sorsata di oppio, che mi ridiede un po’ di pace e lenì i dolori alle gambe; erano anni che non camminavo così tanto. Cercai di tranquillizzare il ragazzino che tremava di paura, gli dissi che presto avrebbe mangiato, e dopo avrebbe potuto dormire in un letto morbido. Quando il servitore ritornò e lasciò a terra un vassoio con il cibo e una coppa di acqua, il bambino ci si gettò sopra e iniziò a mangiare. Senza farmi sentire, dissi al servitore che il mattino seguente il bambino sarebbe partito con il monaco e gli ordinai di non disturbarmi. Nessuno doveva entrare nella mia camera per nessun motivo, scandii in tono minaccioso.
20 Il servo se ne andò e io iniziai i preparativi per il cambio di corpo. Lui mangiava con la voracità di chi non ha mai conosciuto una simile abbondanza, e non si curò di me. Soppesai varie possibilità, quindi presi la coppa con l’oppio, un laccio di cuoio e un coltellino affilato. Bevetti una sorsata di droga, quindi ne riempii due bicchierini e mi avvicinai al piccolo. «Tieni» gli dissi, porgendogliene uno. «Questo ti aiuterà.» Scolai il mio in un’unica sorsata. Lui soppesò il bicchiere poi lo bevette a piccoli sorsi e si ributtò sul cibo. «Bravo» annuii compiaciuto, sperando di avere utilizzato una dose adeguata al suo peso. Dopo alcuni minuti iniziò a barcollare, e quando finalmente crollò a terra, lo sollevai e lo misi nel mio letto. Il suo respiro era regolare e avrebbe dormito per molte ore prima che la droga avesse cessato i suoi effetti. Trovai un panno, lo bagnai con l’acqua della caraffa e lo usai per detergere quella pelle sporca. I capelli erano talmente incrostati di lordura che preferii tagliarli del tutto. A quello scopo utilizzai il coltello che avevo preso poc’anzi, preoccupandomi di non svegliarlo mentre lo radevo. Quando fui soddisfatto, cercai dei vestiti che potessero andargli bene e, non trovandone, adattai alla bell’e meglio delle tuniche che a me stavano strette, e che tagliai per adattarle alla sua altezza. Il risultato sarebbe stato di certo scadente, ma mi sarei accontentato e speravo che il vecchio monaco non se ne accorgesse. Terminati i preparativi, mi sedetti vicino a lui e gli legai un polso con il laccio di cuoio. Bevetti una lunga sorsata di oppio per attutire il dolore della lama, e m’incisi il polso con il coltello. Quando il sangue prese a fluire dalla ferita, lasciai ricadere la mano insanguinata da un lato, e afferrai con l’altra mano il polso del bambino, inserendo le mie dita al di sotto del laccio, in modo che rimanessero bloccate contro la sua pelle. Lui non si accorse di nulla e continuò a dormire. Io rimasi a fissarlo per un po’, ascoltando il rumore del sangue che gocciolava sul tappeto. Non provavo dolore, solo un bruciore diffuso sul polso ferito, e una specie di formicolio. Avrei voluto altro oppio ma la borraccia era vuota e non potevo certo prepararne dell’altro. Chiusi gli occhi, ero stanco. Di tanto in tanto muovevo la mano per accertarmi di essere a contatto con il ragazzo e aguzzavo l’udito per essere sicuro che il flusso di sangue non si esaurisse, risparmiandomi la vita. A dispetto della serata torrida mi venne freddo, e finii per addormentarmi percorso dai brividi.
21 Quando mi svegliai ero intontito, mi girava la testa e fui immediatamente colto da un senso di smarrimento. Non avevo freddo, e soprattutto non sentivo il laccio tra le dita, quando me ne resi conto, mi sovvenne un’immediata sensazione di panico. Avevo lasciato la presa ma non ero ancora morto. Forse ero ancora in tempo, avrei potuto pugnalarmi al cuore e scambiarmi con il bambino. Aprii gli occhi e la confusione aumentò. Il bambino… dov’era finito il bambino? Un forte giramento di testa mi costrinse a rimettermi giù nel momento esatto in cui tentai di alzarmi. Respirai lentamente, costringendomi a mantenere la calma. Vidi di fianco a me un vecchio con la testa inclinata di lato, e non riuscii a capire chi fosse, poi vidi che una delle sue braccia era diretta verso di me, e le sue dita erano infilate sotto a un laccio che mi cingeva il polso, e allora finalmente mi rilassai. Aveva funzionato.
22
850 D.C. - IL MONACO
Uscire da quella stanza non fu semplicissimo. La testa mi girava molto, per l’ingresso nel nuovo corpo in primis, ma anche per l’oppio che quel giovane non aveva smaltito del tutto. Mi tolsi di dosso le dita ormai fredde del bramino che fui e, quando scesi dal letto pestai una larga pozza di sangue semi rappreso. Raggiunsi i vestiti che avevo preparato e li indossai, rendendomi conto, con disappunto, di quanto fossero inadatti alla mia corporatura. Non sapevo che ora fosse, ma sperai che il mattino fosse appena iniziato. Buttai in una sacca le quattro cose che avevo pensato di portare con me: del denaro, alcuni vestiti della cui taglia mi sarei occupato in seguito, e un coltello. Sentii delle voci provenire dal piano di sotto e mi affrettai. Prima di uscire, mi pulii i piedi per non lasciare dietro di me delle impronte insanguinate, quindi richiusi la porta e mi ci appoggiai contro per non cadere. Mi veniva da vomitare. Altre voci. Scesi di sotto e trovai il monaco che si stava preparando a uscire. Uno dei miei servi gli stava dicendo che il bramino non voleva essere disturbato. Quando il vecchio mi vide, si zittì. «Tu devi essere Anil» disse poi. Quelle parole mi colsero di sorpresa, avevo quasi scordato il nome che avevo inventato la sera prima. Mi avvicinai a loro, rivolgendo il mio sguardo al servo che subito si allontanò da noi per sfuggire alla lordura che la vicinanza con un intoccabile avrebbe causato alla sua anima. «Mio padre si scusa ma non potrà venire a salutarti» gli dissi dopo aver atteso che il servo si fosse allontanato. «Io sono pronto!» proseguii, mostrandogli la sacca che avevo portato con me. Lui mi fissò e per un attimo pensai che avrebbe insistito per salutare il bramino, poi sorrise, alzò le spalle e mi rispose: «Bene, possiamo andare allora. Il vostro servitore è stato così gentile da donarci un po’ di orzo per la tsampa.
23 Si chiamava lama Dhanba, e da dove proveniva significava “santo” e più o meno lo era. Rimasi con lui per molti mesi, spostandomi di continuo di villaggio in villaggio. I primi giorni non furono affatto semplici. Volevo dell’oppio. Non ne avevo un bisogno fisico, il corpo che avevo rubato non era intossicato come il precedente. Ciononostante, volevo berlo per regalarmi quella sensazione di pace che accompagnava il primo sorso. Tentai di convincermi che dovevo smettere e che quella vita sarebbe stata spesa bene, se mi avesse condotto lontano dalla droga, ma il passare dei giorni non leniva il mio desiderio. Ero un bambino, di nuovo, e non potevo chiedere a lama Dhanba la droga. Come dopo ogni cambio non stavo bene, avevo vertigini, nausea, una strana sensazione di disagio associata alla mia diversa altezza e alla forma del mio nuovo corpo, che in più stavolta era denutrito e molto debole. Da questo punto di vista la presenza di Dhanba era quanto di meglio potessi chiedere. Il monaco passava gran parte della giornata in silenzio. In silenzio camminavamo per spostarci da un posto all’altro, in silenzio ci sedevamo contro un muretto per chiedere l’elemosina, e sempre in silenzio ci coricavamo la notte. Questo mi diede la possibilità di riflettere sulla mia esistenza, su come avessi sbagliato tutto nella mia vita precedente, e di riprendermi dal trauma del passaggio nel nuovo corpo senza essere impegnato in inutili conversazioni. La droga era una presenza costante che aleggiava sopra di me come un incubo, e non riuscivo a togliermela dalla testa. Il monaco mi aveva procurato dei nuovi vestiti che mi aveva fatto indossare il primo giorno e questi, assieme a una ciotola di legno, erano tutto ciò che possedessi al mondo. Lui non aveva molto di più, solo un piccolo bagaglio contenente del tè, un pentolino, un rosario di legno e un sacchetto d’orzo per la tsampa. Che poi si rivelò essere l’unico cibo che consumavamo ogni giorno. Quando Dhanba trovava un posto adatto, accendeva un fuoco e scaldava l’acqua per il tè. Io sedevo vicino a lui per aiutarlo, o mi allontanavo per cercare dei rametti da bruciare. Quando il tè era pronto, il lama lo versava nelle ciotole e subito dopo, con una mano, prendeva dell’orzo e ce lo aggiungeva fino a ricoprirlo del tutto. A quel punto mi restituiva la ciotola, prendeva la sua tenendola dal fondo con una mano e, usando l’altra come una paletta, comprimeva l’orzo mentre contemporaneamente ruotava la ciotola.
24 Io facevo lo stesso con la mia, e dopo pochi minuti orzo e tè diventavano una specie di pasta morbida e saporita: la tsampa. «Ci vorrebbe del burro di yak!» mi diceva sempre «ma da queste parti non se ne trova, bisognerebbe andare molto più a nord…» Mangiavamo in silenzio così come in silenzio avevamo passato il resto della giornata. Consumavamo la tsampa bevendo altro tè, e finalmente ci addormentavamo con i piedi, scalzi e sporchi, rivolti verso il fuoco. *** «Sei uno strano bambino» mi disse un giorno, destandomi dalle mie riflessioni. Gli rivolsi uno sguardo interrogativo e lui proseguì: «Sai, all’inizio non ero convinto che portarti con me fosse una buona idea. Io non conosco molti bambini ma ho sempre pensato che questo tipo di vita non fosse adatto a… be’… al figlio di un bramino, ad esempio!» Assentii. «Pensavo che mi avresti disturbato con un’infinità di richieste, di capricci… Temevo che ti saresti messo a piangere o qualcosa del genere, invece devo dire che sono stupito della tua capacità di adattarti.» Quello fu l’unico complimento che mi rivolse in tutti gli anni della nostra vita in comune, ma da allora cambiò tutto, perché iniziò a trattarmi in maniera diversa: con rispetto. Ci dirigemmo verso Nord-Est, fermandoci anche per diversi giorni in ognuno dei villaggi che attraversammo. Conducevamo una vita poverissima, ci sostentavamo con l’orzo che poveri contadini ci elemosinavano, e quando questo finiva, non mangiavamo affatto. Io avevo imparato a non lamentarmi e trascorrevo, perlopiù immerso nei miei pensieri, un’ora dopo l’altra. Il desiderio di oppio svanì, anche se ci volle un po’. La decisione di sopravvivere in un nuovo corpo era stata giusta e, ora che il desiderio di bere stava allentando la sua presa, ero felice di riavere otto o nove anni. Non pensavo a cosa avrei voluto da quell’esistenza. Mi limitavo a proseguire nel mio cammino con Dhanba, sedendomi lontano dagli altri quando, in una piazza o in un mercato, iniziava a predicare la sua religione. Non ero particolarmente interessato al buddismo, le religioni per un immortale hanno un significato diverso, dato che con un po’ di
25 attenzione e molta fortuna avrei potuto vivere per sempre, quindi il problema del “dopo” non mi preoccupava. Ero nato cristiano ma avevo vissuto per moltissimi anni in Oriente, dove il mio rapporto con la religione era stato messo a dura prova da secoli di convivenza con i culti più strani. Ricordavo come l’Imperatrice Wu fosse stata molto vicina al buddismo ma, nel suo caso, più per una scelta politica che per una reale fede, in quanto aveva la necessità di allontanare dalla percezione comune l’idea della donna subordinata all’uomo, insita nel confucianesimo. Tuttavia, imparai molti degli insegnamenti del Buddha, e mi dissi che quella religione aveva tanti elementi che meritavano di essere approfonditi. Sapevo che per un bel po’ non sarei stato pronto ad andare per la mia strada da solo, perché l’oppio avrebbe continuato a tentarmi, e non mi sentivo così forte da resistergli; quindi consideravo quel viaggio con Dhanba come un’occasione per lasciarmi alle spalle il mio passato di tossicodipendente, aspettando una chance per ricominciare. C’era una cosa che più di tutte mi affascinava in Dhanba: era del tutto disinteressato dalle cose materiali. Chiedeva la carità per sopravvivere, ma serbava la stessa gioia sia per quando ne riceveva, sia per quando nessuno sembrava accorgersi di noi. Sorrideva con la gioia nel cuore, autentica, vera, che non riuscivo a capire. Passavo molto del mio tempo pensando a cosa fare della mia vita, non ero sicuro di nulla tranne che di una cosa: presto me ne sarei andato. Quella vita da miserabile non faceva per me. La dipendenza dall’oppio mi stava abbandonando. Il mio nuovo corpo era incontaminato e la mia mente, giorno dopo giorno, pensava a quel liquido maledetto sempre di meno. Ci spostammo verso nord con estrema lentezza, procedevamo a piedi scalzi, fermandoci in ogni villaggio per elemosinare un po’ di orzo per la tsampa e, una volta riempito il suo sacchetto, il lama riprendeva il cammino. Una mattina mi parlò: «Tu sei uno strano bambino» mi fissò aspettando una risposta che però non gli diedi. «Ti ho già detto che pensavo mi avresti intralciato, che avresti fatto capricci, che mi avresti disturbato con inutili domande, ma invece… Viaggiare con te è come viaggiare con un altro monaco!» sorrise. «Ti voglio insegnare una cosa, sono sicuro che ti piacerà.» Detto questo, si sistemò in una posizione strana. Intrecciò le gambe in modo che il dorso dei piedi fosse appoggiato sull’interno delle cosce,
26 raddrizzò la schiena e appoggiò le mani aperte alle ginocchia con i palmi verso l’alto, invitandomi a fare lo stesso. Ci misi un po’ ma alla fine, quando fui soddisfatto del risultato, lo guardai aspettando il resto. «Ora chiudi gli occhi e non pensare…» fece un respiro profondo. «Sgombra la tua mente… lascia che i pensieri fluttuino liberi dentro e fuori da te, ma non attaccarti a nessuno di essi. Lascia che se ne vadano e cerca di arrivare a un punto in cui la tua mente è vuota. Potrebbe volerci un po’…» Chiusi gli occhi e ci provai. Quando fui soddisfatto chiesi cosa fare poi. «Bene. Ora cerca di rimanere cos per tutto il tempo che puoi. E se la tua mente si fisserà su un pensiero, lascialo andare e svuotala di nuovo. E ancora. E ancora…» Meditazione. “La pratica rende perfetti” ripeteva. Ma nel mio caso non fu così, almeno all’inizio. La mente di un immortale non è fatta come quella degli altri. È simile, ma con delle piccole differenze, alcune delle quali terribilmente ingombranti per praticare la meditazione. Ho già detto di come i ricordi della mia intera vita fossero vividi e precisi dentro di me. Stare fermo in una posizione qualsiasi a occhi chiusi mi metteva in uno stato che io chiamo “ricordante”. In quello stato potevo rimanere ore e ore immobile, mentre nella mente rivivevo un fiume di ricordi. Questo senz’altro non significa meditare, ma il mio maestro non lo sapeva, e fu molto soddisfatto del modo in cui io stavo immobile, ora dopo ora, in quella posizione assurda. Iniziavamo a meditare al mattino, appena svegli, per un paio d’ore, e poi lo facevamo al pomeriggio, mentre chiedevamo l’elemosina. Lui diceva che meditare apriva le porte dell’anima e consentiva di raggiungere l’illuminazione. Mi spiegò di come il suo maestro ci fosse riuscito molti anni addietro, e come ci riuscì lo stesso Buddha molto prima. Io sentivo il bisogno di chiudermi nel mio stato “ricordante”. Mi era già capitato in passato. Farlo mi lasciava una sensazione di gioia. Come se il mio cervello dovesse scaricarsi dopo anni e anni di attività. Continuavo a stupirmi di come potessi ricordare ogni stupido dettaglio di ogni momento della mia vita. Mi perdevo nel mare dei miei ricordi e riemergerne mi faceva sentire più forte e consapevole della mia condizione privilegiata.
27 Non feci mai lo sforzo necessario per svuotare la mia mente e abbracciare il nulla. Non credevo in nessun Nirvana e non m’importava di tentare, persino tenere le gambe in quella posizione m’infastidiva ma lo consideravo un piccolo prezzo da pagare per poter essere lasciato in pace a ricordare. Lama Dhanba era fiero di me. *** Il viaggio durò molti mesi. Dormivamo sotto le stelle, o raramente venivamo ospitati in qualche tempio buddista lungo la strada. Lama Dhanba teneva dei discorsi alle persone che di tanto in tanto si riunivano per ascoltarlo. Insegnava loro la sua religione e poi chiedeva l’elemosina. Io non ero tenuto ad ascoltare e mi nascondevo in un angolo a meditare. A volte ci capitò di trovare riparo in una grotta. Il mio maestro mi disse che i primi buddisti in India praticavano di consueto il loro culto nelle grotte. Mi spiegò che alcune di queste erano talmente antiche che anno dopo anno erano state ampliate, scavate e cesellate fino a diventare dei veri e propri castelli sotterranei, ricchi di statue, bassorilievi e colonnati scolpiti nella pietra come nel tempio di Ellora dove, prima o poi, mi avrebbe portato. «Mi prendete in giro?» chiesi, non riuscendo a capacitarmi di una cosa del genere. Lui si limitò a sorridere. «Vedrai, mio giovane discepolo, vedrai.» La prima tappa del viaggio fu Karli. Lama Dhanba continuava a magnificarmi Ellora, così le mie aspettative su Karli non erano molto elevate. Per arrivare, finimmo per attraversare una zona lussureggiante che terminò in un vasto spazio erboso, interrotto dalle pendici di una collina granitica. «Guarda là…» mi disse Dhanba. Io seguii con lo sguardo la direzione che indicava e rimasi a bocca aperta. L’intero fianco della collina era ricoperto di fori, di forma regolare e di notevoli dimensioni, scolpiti nella roccia che si estendeva su tre piani. A mano a mano che ci avvicinavamo, notai la presenza di colonne e finestre, la cui realizzazione aveva tenuto occupate generazioni di scalpellini. Quando superammo un ultimo sperone di roccia, l’ingresso della maggiore di queste grotte si palesò in tutta la sua grandiosità. Una
28 facciata liscia e levigata, impreziosita con eleganti bassorilievi, si stagliò davanti a noi, costringendomi a bloccarmi sul posto con la testa rivolta verso l’alto e la bocca aperta. Era ornata su entrambi i lati da elefanti in altorilievo, che presentavano autentiche zanne in avorio. Al centro dalla facciata, enorme, un singolo arco di pietra costituiva la porta d’ingresso al complesso. Ai lati dell’arco, pilastri di pietra alti più di quindici metri, sostenevano delle sculture a forma di leone. Lama Dhanba avanzò incurante di tanta bellezza, e io lo seguii attraverso l’enorme arco. All’interno, il soffitto era costituito da una serie di archi a forma di ferro di cavallo in teak, che poggiavano su robuste colonne di pietra. Erano disposte in due file ordinate, e proseguivano perdendosi nel buio. Camminando con lo sguardo in alto non mi ero accorto che, al nostro arrivo, un gruppo di monaci dalle vesti colorate ci aveva raggiunti. Salutai e seguii il mio maestro in una larga stanza quadrangolare, i cui lati davano accesso a numerose celle. Ci fecero riposare e rifocillare e Dhanba si perse in saluti, abbracci e risate con i suoi fratelli. Io rimasi in disparte. Nessuno sentiva il bisogno di conversare con un bambino. Quando ci fummo sufficientemente riposati, il lama Dhanba mi mostrò la stanza che ci era stata assegnata e si congedò, dicendomi che doveva andare a cercare un suo vecchio amico. La nostra stanza era una vihara, una cella monastica. Un piccolo cubo scavato nella roccia con un tappeto a terra. Dopo i lunghi mesi di viaggio, durante i quali avevamo dormito dove capitava, mi parve il più confortevole posto del mondo. Rimasto solo, mi dedicai a esplorare il complesso. Nell’aria il profumo d’incenso si mescolava a quello dei fiori e delle essenze che riempivano le sale. Sentii un canto in lontananza e, senza quasi accorgermene, iniziai a camminare in quella direzione. Salii per una scala di pietra, fino a che una delle sue pareti si aprì verso l’esterno in una piccola terrazza la cui vista sulla foresta circostante era interrotta da un robusto colonnato. Proseguii verso una delle colonne, e mi ci appoggiai per osservare il panorama. Il sole stava tramontando e il verde della foresta assumeva una colorazione più calda, mentre la luce penetrava in raggi inclinati tra le colonne. «Tu devi essere Anil» disse una voce alle mie spalle. Mi girai e vidi un piccolo monaco sdentato, poco più alto di me e senza capelli, che sorrideva, mostrandomi le gengive. «Sì, sono io» risposi.
29 «Il lama Dhanba ti aspetta per le preghiere della sera.» Lo seguii lungo il corridoio, meravigliandomi di quanto mi fossi allontanato, fino a superare la nostra cella. Il vecchio mi condusse nel chaitya: la cappella dove eravamo entrati poco prima, il cuore della grotta, all’interno della quale era conservato un importante reliquiario. Vidi Dhanba assieme ad altri monaci, ma fui condotto in una zona del chaitya riservato ai bambini, e da lì assistetti ai riti della sera. Il mattino dopo Dhanba mi disse che saremmo ripartiti subito, ma che a Bhaja, la nostra destinazione, ci saremmo fermati per un po’. Il viaggio fu breve, e per arrivare non ci impiegammo più di mezza giornata. Bhaja era un complesso di grotte scavate nella roccia molto simile a Karli ma decisamente più grande, almeno così mi sembrò, non avendo potuto visitare Karli come avrei voluto. L’ingresso sontuoso conduceva in un chaitya di forma pressoché identica a quello di Karli, ma più piccolo, con gli stessi archi a ferro di cavallo sostenuti da pesanti colonne di pietra. A destra e a sinistra vi erano i vihara, le celle dei monaci, piccole come quelle di Karli ma presenti in numero maggiore. I giorni a Bhaja si susseguirono tranquilli. Scanditi, dai riti del mattino, dalle lezioni di buddismo, dai pasti collettivi in una grande sala nella quale tappeti colorati venivano spiegati per l’occasione. E poi le lunghe ore pomeridiane dedicate alla meditazione e i riti della sera che concludevano la nostra giornata. La piccola comunità di monaci ci accolse come se fossimo dei parenti che non vedevano da molto tempo, e fecero sempre in modo da non farci mancare nulla. Il mio maestro passava molto tempo a parlare con altri adulti e io venivo relegato tra i numerosi ragazzini che studiavano per diventare monaci. Ognuno di loro ci mise pochissimo a capire quanto fossi diverso. Lì per lì non me ne importava ma finii col preoccuparmi che questa situazione potesse crearmi dei problemi. Tentai persino di confondermi con gli altri, ma era impossibile. Non avevo nessun interesse a partecipare ai loro giochi o ai loro discorsi. Venivo da una vita da tossicodipendente e approfittavo di quel corpo per decidere come spendere il mio futuro. Rifuggivo dagli scherzi e dai giochi degli altri bambini, e trovavo pace nelle lunghe ore che trascorrevo immerso nei miei ricordi. Ci volle poco perché anche gli altri adulti notassero il mio comportamento. Nessuno me ne parlò mai apertamente, ma presto mi accorsi dei loro sguardi, e del fatto che parlottassero alle mie spalle.
30 Passarono diversi mesi prima che succedesse qualcosa, poi il lama Dhanba venne a parlarmi. «Gli anziani hanno deciso che partirai per Ellora. Una volta lì, il saggio lama Padmahan Rinpoche ti riceverà e deciderà se fare di te un lama.» Io ero perplesso, in verità non ero affatto sicuro di voler diventare un lama. «Solo l’essere ricevuti da un lama così importante è un grande onore» aggiunse, notando il mio disagio. «Certo maestro, quando partiremo?» «Io non verrò» disse, guardandomi con i suoi occhi neri. «Devo ritornare a Karli e ci dovrò rimanere per un po’, ma non preoccuparti, non ti lascerò partire da solo…» In quel momento un vecchio si avvicinò a noi. Era magro e seminudo, indossava un unico panno bianco che gli copriva i fianchi ossuti, e non portava nemmeno i sandali. Ci fece un cenno di saluto e proseguì verso di noi, aggrappandosi a un lungo bastone. Aveva corti capelli bianchi e due occhi scuri che teneva socchiusi come per ripararsi dalla luce. Quando fu davanti a noi, Dhanba proseguì: «Il lama Grange ti accompagnerà al posto mio.» Mi presentai, continuando a fissare quell’uomo. Non aveva l’aspetto di un lama, sembrava un semplice vecchietto più che un monaco tibetano. Le sue vesti erano sciatte e il suo modo di porsi era ruvido, sbrigativo. Dopo le presentazioni, mi ritirai nel mio vihara per prendere il mio bagaglio: ciotola, rosario di legno, un sacchetto di tè e una piccola borsa di orzo che mi diedero nella sala dove consumavamo i pasti. Grange aggiunse al mio bagaglio la sua ciotola, rivolse un saluto al lama Dhanba e, senza aggiungere altro, si avviò verso l’uscita. Rimasto solo con Dhanba, che non avrei più visto per chissà quanto, lo salutai con calore e lo abbracciai. «Va’ ora, presto!» disse. «E che la strada possa scorrere veloce sotto ai tuoi piedi.» *** L’auspicio del mio maestro si rivelò del tutto sbagliato. Il viaggio fino a Ellora fu lunghissimo. Grange avanzava lentamente, un passo alla volta, e pretendeva moltissime lunghe pause: per mangiare, per meditare, per pregare.
31 Non perdeva tempo per dare lezioni di buddismo nei paesi dove passavamo, ma questa fu l’unica concessione che face alla speditezza del cammino. Mi guardava. Quando non ero girato nella sua direzione mi fissava con quegli occhietti semichiusi tanto che, sentendomi osservato, mi risolvevo a girarmi nella sua direzione e solo a quel punto lui faceva finta di nulla. Avevo un sacco di tempo a disposizione per riflettere, lo facevo soprattutto quando ci fermavamo per chiedere la carità. Grange non parlava quasi mai, così io avevo tutto il tempo per pensare alla mia condizione. Iniziavo ad amare quella vita. La tranquillità del monastero, la bellezza dei templi scavati nella roccia; e ancora i canti, le preghiere, la gentilezza e i sorrisi dei lama erano diventati parte di me. E poi stavo iniziando a sperimentare una forma di felicità che non avevo mai avuto. È difficile da spiegare: ero felice per il fatto stesso di esistere. Non avevo nient’altro che una vecchia ciotola di legno e dei vestiti logori, ma stavo bene. Ero pervaso da una serenità che, anche quando ero stato molto ricco, non avevo mai avuto. Non m’interessavano più il denaro, il potere, nemmeno le donne. Stavo bene così, e volevo che continuasse. Ma diventare lama? Davvero volevo diventare un lama? Passare la vita insegnando il buddismo alla gente come Dhanba? Non ne ero sicuro. Non ero sicuro nemmeno di essere buddista! Certo, condividevo gli insegnamenti che mi erano stati impartiti, ma ritenevo che non riguardassero me: in fondo ero un immortale. Dovevo assecondare la mia natura, accettarmi per quello che ero e proseguire la mia vita come un parassita. Spostando la mia anima di corpo in corpo finché ne fossi stato capace. E dopo? E quando alla fine qualcosa fosse andata storta e anche per me fosse giunta la morte? Mi sarei reincarnato, come predicava il lama Dhanba? Avrei raggiunto il paradiso, come sostengono i cristiani? O avrei cessato di esistere? Le risposte che le religioni danno sull’aldilà valgono anche per gli immortali? Queste erano le domande che mi assillavano mentre sedevo con la schiena contro un muretto e la mano tesa in avanti, ringraziando, di tanto in tanto, per la carità ricevuta. Ma di questo non potevo certo parlare con Grange. Il mattino era dedicato alla meditazione. Meditavamo per diverse ore, subito prima dell’alba. Poi preparavo la tsampa che sarebbe stata anche
32 l’unico pasto della giornata. Quello era uno dei pochi momenti in cui riuscivo a distaccarmi dalle mie riflessioni, escludendo completamente il mondo al di fuori di me, per immergermi nei miei ricordi. Avevo bisogno di ricordare. Immerso nella bellezza dell’aurora, sceglievo un fatto, un episodio, un momento della mia lunghissima vita e lo rivivevo di nuovo. Con la stessa nitidezza della prima volta, con tutti i dettagli, gli odori, i suoni che lo avevano caratterizzato. È una cosa indescrivibile a parole: era come rivivere pezzi della propria vita, ancora e ancora. Quando Grange mi diceva di smettere, mi restava addosso una serenità che mi accompagnava per molte ore. Era come se definire chi ero stato, mi desse la forza per continuare a essere quello che a tutti gli effetti ero. Un immortale. Poi, una mattina, tutto cambiò. Il cielo si stava annuvolando, e le prime luci dell’alba coloravano le nuvole, che si spostavano veloci in un cielo di un giallo brillante. Rimasi per molti minuti a fissare quello spettacolo prima di iniziare a meditare. Pensai che forse non avrebbe piovuto. Quando fui soddisfatto, chiusi gli occhi e attesi per alcuni minuti che la respirazione si stabilizzasse. Davanti a me comparve un campo di battaglia infangato, cosparso dei corpi di decine di uomini. Dal cielo plumbeo cadeva una leggera pioggia fine e fredda. Sentivo odore di fumo e morte. Poi, una voce alle mie spalle: «Urgal! Di qua!» Ero compiaciuto dalla prestanza di quel corpo, il cuore mi martellava nel petto per la fatica dello scontro. Mi voltai, vidi i miei uomini risalire a cavallo e uno di loro venire nella mia direzione conducendo una cavalla marrone per le redini. Avanzai. Una mano mi trattenne per la caviglia. Guardai a terra e vidi l’avversario che avevo sconfitto poco prima gemere al suolo, con le interiora che fuoriuscivano da uno squarcio nel ventre. Strappai con un grugnito la caviglia dalla sua presa, e appoggiai la punta della mia spada alla sua schiena. «No! No!» farfugliò con la bocca impastata di sangue. Io strinsi l’impugnatura di cuoio, era sudata e sporca. Spinsi la lama nella sua carne, poi la rinfoderai. «Arrivo!» dissi, guardando verso la cavalla che mi veniva offerta, e proseguii a fatica, affondando gli stivali di pelliccia nel suolo infangato. Dolore… sentivo i muscoli delle braccia dolere per lo sforzo e i colpi ricevuti. Guardai verso il cielo e lasciai che quella debole pioggia lavasse via la polvere dalla mia orribile faccia. Presto avrei raggiunto Cat, e lei mi avrebbe ripulito a dovere.
33 In quel momento fui raggiunto da una bastonata alla testa e tutto divenne nero. Aprii gli occhi, portandomi una mano sul cranio. Non ero più Urgal, ero di nuovo il piccolo Anil, e davanti a me c’era il vecchio Grange che mi fissava. «Ahia!» gli dissi, non sapendo come spiegare il colpo ricevuto. Lui ripose il lungo bastone da passeggio con aria compiaciuta, e rispose: «Non così! Quando mediti, devi cercare il vuoto dentro di te.» «Ma io lo stavo facendo!» risposi con convinzione, senza smettere di massaggiarmi la testa. «Riprova!» Cercai di calmarmi, regolai la respirazione, portai le mani sulle ginocchia. Chiusi gli occhi. Poco dopo sentii di nuovo l’odore di quel campo infangato. Decisi di ricordare qualcos’altro. Mi lasciai avvolgere dal flusso delle memorie. Sentii la voce di Luna. Mi capitava spesso di ricordare gli anni passati con lei. Il mio cuore si riempì di quell’amore che ormai non provavo più, e fui felice come lo ero stato con lei. «Vieni, tesoro! La cena è pronta.» Annusai l’aria e sentii il profumo dello stufato. Sapevo cosa stava per succedere. Mi sarei alzato e l’avrei raggiunta di là. L’avrei abbracciata, perdendomi nel profumo dei suoi capelli, poi avremmo fatto l’amore proprio lì sul pavimento. «Ahi!» Un’altra bastonata mi riportò alla realtà. «Lama Grange, perché mi bastonate?» domandai frustrato. Lui si spostò e ripose il bastone per la seconda volta. «Quello che tu fai non è meditare!» disse. «Lama Dhanba non se n’è accorto ma tu non mediti… tu pensi!» «Non è vero…» risposi imbarazzato. «Cioè a volte mi vengono in mente delle cose, ma poi io le lascio fluire, e…» M’interruppe alterato: «Non mentire! Io so vedere la differenza. Lascia che i pensieri se ne vadano da soli. Non fissarti su nessuno di essi e se ne andranno. Concentrati sul respiro e perditi in esso fino a che resterà solo il vuoto…» Da quel giorno tutto fu diverso. Non so come facesse, ma Grange riusciva ad accorgersi se io meditavo sul serio o mi chiudevo nei miei ricordi. Il bisogno di ricordare mi spinse
34 a perdermi tra le memorie ma questo mi procurò solo altre bastonate sulla testa. Non una volta Grange si lasciò ingannare. In quel viaggio, mio malgrado, dovetti imparare a fare il vuoto e meditai come non ero mai riuscito a fare. Fu davvero faticoso, perché la mente è indisciplinata e se si cerca di non pensare, i pensieri appaiono da soli. La mente odia il vuoto, e se questo vale per tutti, per quella di un immortale è peggio, perché i pensieri sono sostituiti dai ricordi, con una potenza tale che per scacciarli serve il doppio dello sforzo. I risultati, almeno all’inizio, non arrivarono affatto nonostante il mio impegno e il bastone di Grange. «Vedi, giovane allievo, l’anima è nuda dentro di te. I pensieri sono il modo in cui essa si protegge dal tuo sguardo. Si cela dietro al rumore delle tue idee, dei tuoi ricordi, dei tuoi suoni… Liberarsi da questo rumore di fondo è difficile ma la pratica, giorno dopo giorno, ti ci porterà sempre più vicino.» «E poi?» chiesi. «Che succede quando trovo la mia anima?» «Oh ragazzo…» ridacchiò. «La domanda giusta è un’altra… Che cos’è l’anima?» Mi guardò, aspettando una risposta da me. «L’anima è il mio “me stesso”, l’essenza senziente che dà vita a questo corpo. La mia volontà. L’origine dei miei pensieri…» «Sì… Ma é anche molto più di questo… L’anima è una goccia divina. È la vita stessa. Non una vita disgiunta ma una piccola parte di tutta la vita del mondo. È l’amore, ma non come lo puoi intendere tu, piuttosto è una piccola parte di un amore più grande. Come una goccia, che nell’oceano perde la sua identità e si fonde con un tutto più grande di lui.» Fece una breve pausa poi mi guardò e disse: «Trova la tua anima e troverai tutto l’oceano. Questo vuol dire illuminazione.» *** Continuammo l’interminabile viaggio fino a Ellora, ma il maestro Grange trovava ogni scusa per fermarsi o deviare dal percorso più breve. Lasciava a me tutte le incombenze, come portare il nostro bagaglio, preparare la tsampa e trovare un posto adatto per dormire. Si univa a me solo per chiedere l’elemosina, cosa che facevamo quasi ogni giorno, visto che non avevamo altro per sostentarci. La carità dei poveri contadini indiani ci sfamò quanto bastava per consentirci di proseguire, ma il corpo che avevo scelto, già in precedenza
35 denutrito, finì per raggiungere una magrezza che a un certo punto cominciò ad allarmarmi. Meditavo ogni giorno per molte ore. Ormai avevo rinunciato a chiudermi nei miei ricordi e tentavo, con il massimo impegno, di allontanare da me ogni pensiero ed entrare in quello stato di meditazione profonda che gli indiani chiamano samādhi. Non fu affatto facile e ricevetti numerose altre bastonate sul capo, ma constatai che al termine della pratica mi sentivo meglio. In pace con me stesso. Addirittura, sentivo di meno i morsi della fame. Secondo Grange la cosa era normale. A suo dire c’erano asceti che passavano l’intera esistenza a meditare e non si nutrivano, né bevevano, per anni interi. Grange era un vecchietto strano, non era burbero ma mancava dell’allegria di lama Dhanba. Inoltre era una di quelle persone che facevano sembrare cose di poco conto tutte le questioni a loro sottoposte. Liquidando le domande con una risatina o un sorriso. Non che io gliene ponessi molte. In verità parlavo pochissimo e, per quanto mi fu dato di capire, a lui andava bene così. Avevo finalmente dimenticato l’oppio, e questa era una buona notizia. Tale dipendenza avrebbe potuto rivelarsi fatale per me se me la fossi portata dietro anche in questa vita. Non ne sentivo più il bisogno, e con un po’ di attenzione avrei cercato di starne lontano per sempre. Ellora, nella seconda metà del nono secolo, era un complesso di dodici caverne, scavate una a fianco all’altra nelle profondità di un costone roccioso. Era abbastanza simile ai complessi di Karli o Bhaja ma molto più grande. Ci arrivammo dopo una settimana di cammino in una foresta così fitta da non consentirci di vedere il cielo. Gli ultimi giorni furono i più difficili per le mie gracili gambe, anche perché finimmo le scorte di orzo e dovemmo adattarci a mangiare quelle poche piante che Grange riteneva commestibili, quando ne trovava di tanto in tanto. Da lontano il complesso appariva come un semplice susseguirsi di fori lungo il fianco di una montagna, ma già da più vicino, ogni foro si rivelava per quello che era: un ingresso, una finestra o una fila di enormi piloni di pietra. Percorsi gli ultimi passi, con la testa rivolta verso l’altro, incapace di trattenere il lungo ”oh” che pronunciai per lo stupore. Grange, vedendomi così, proseguì ridacchiando e m’invitò a seguirlo. Alcuni monaci ci vennero incontro e salutarono il vecchio maestro con deferenza. Ci condussero presso una piccola scalinata nella roccia, che
36 conduceva a una porzione di montagna che era stata scavata e levigata fino a ricavarne tre enormi colonnati che si sviluppavano su tre piani sovrapposti. Accedemmo all’interno attraverso l’apertura tra le due colonne centrali del piano terra e all’interno, tra fiaccole e tappeti, una moltitudine di monaci dai vestiti colorati ci accolse. Io e Grange fummo separati. Alcuni monaci mi presero per mano e mi condussero in quella che per i giorni successivi sarebbe stata la mia cella. Per arrivarci, attraversammo l’enorme sala, il cui tetto di pietra era sostenuto da ulteriori file ordinate di colonne, e le cui pareti erano ornate da statue di pietra che raffiguravano il Buddha, e giungemmo davanti a una piccola cella intagliata nella pietra dove mi lasciarono. Mi portarono dei vestiti puliti da apprendista e della tsampa, e mi lasciarono solo. Ero molto stanco e avrei voluto dormire, ma il tramonto non sarebbe arrivato prima di qualche ora, ed ero curioso di esplorare le grotte. Così, dopo essermi rifocillato, mi cambiai e iniziai a passeggiare nei dintorni. Ellora era un complesso di dodici grotte scolpite dai monaci più di due secoli orsono. Molte di queste consistevano essenzialmente in vihara, ampi edifici a più piani che comprendevano le celle per i monaci e zone comuni, cucine, e granai. Le pareti erano ornate con bassorilievi e statue di Buddha, che costituivano dei veri e propri santuari per la preghiera. Proseguendo il mio giro arrivai nel chaitya, il vero e proprio cuore del complesso. Vi si accedeva da un cortile scavato nella roccia, tramite una scalinata. Su entrambi i lati si aprivano portici su pilastri con un piccolo santuario a entrambe le estremità. Era incredibile pensare quanto lavoro avesse richiesto scavare dentro la roccia tutte quelle stanze. Internamente, la sala era divisa in tre navate da due file di colonne ottagonali, con capitelli a forcella che sostenevano un soffitto a volta, con travi che in un primo tempo mi apparvero di legno ma guardandole con maggiore attenzione mi accorsi che erano di pietra. Gli artigiani che le avevano scolpite erano stati abili a tal punto da ingannare uno sguardo distratto. Una ventina di monaci stava pregando e accompagnava le preghiere con il suono di grandi campane appoggiate a terra su cuscini di seta. Rimasi per un po’ ad ascoltarli, poi li superai per arrivare alla fine della stanza, dov’era posta una statua di Buddha in posizione di preghiera, alta più di quattro metri. Ero incantato. Quando ritornai alla mia cella, un monaco molto giovane m’invitò a riposare e mi disse che l’indomani mattina il saggio lama Padmahan Rinpoche mi avrebbe concesso udienza.
37 Mi coricai così esausto da tralasciare la meditazione della sera. Da fuori mi giungevano, attutiti, i canti delle preghiere dei monaci, nelle narici il profumo d’incenso e di vestiti puliti. Prima di addormentarmi mi domandai cosa stessi facendo in quel posto. Avevo accettato di viaggiare con Dhanba, sperando che la compagnia di un lama mi potesse allontanare dal tipo di vita che avevo condotto nel corpo del bramino, ma non avevo mai avuto intenzione di diventare un monaco a mia volta. Eppure non potevo negare di sentirmi in pace e felice come non mai. Forse gli unici anni della mia vita in cui ero stato più felice furono quelli che passai con la mia piccola Luna nella nostra casetta vicino al lago Balquas. Luna… Pensavo spesso a lei. Forse era stata l’unica donna che avessi mai amato davvero. Se fossi diventato un lama non avrei potuto sposarmi, pensai, ma non era questo a preoccuparmi. Volevo davvero diventare un lama? Avevo vissuto nel lusso ed ero caduto in miseria, ma mai avevo supposto che avrei finito per dedicare la mia vita alla religione. Non m’importava nemmeno molto del buddismo, eppure mi ritrovavo disteso sul pavimento di una cella da monaco a Ellora, e non avevo nessuna intenzione di andarmene. Il merito era nel bastone di Grange, che mi aveva costretto a smettere di fingere e a praticare la meditazione. Era stata la meditazione a fare la differenza. Le lunghe ore passate immobile a “non pensare”, la serenità che immancabilmente ne conseguiva e rimaneva con me per tutto il giorno. La stessa serenità che ritrovavo negli sguardi e nei sorrisi di tutti gli altri monaci che incontravo. Mi svegliai di buon mattino e trovai il giovane del giorno prima ad attendermi. Mi diede il buongiorno e mi chiese di seguirlo. Attraversammo le grotte fino ad arrivare in una grande sala, illuminata con centinaia di lampade a olio, e addobbata a festa con tappeti e teli colorati. «Va’!» mi disse, prima di ritornare da dove era venuto. Io mi guardai attorno e vidi, in una piattaforma rialzata, la sagoma di un uomo ben vestito, seduto con le gambe incrociate. Mi avvicinai, mantenendo il capo abbassato come voleva la buona educazione, fino ad arrivare ai piedi della pedana dove un tappeto era stato predisposto per i visitatori. Mi sedetti e trovai il coraggio di guardarlo. Sotto il copricapo di seta dorata, ornato con piume bianche e gemme multicolore, c’era la faccia sorridente di lama Grange. «Maestro Grange! Ma cosa?» dissi, incapace di trattenermi.
38 Lui esplose in una sonora risata. «È da quando siamo partiti che non vedevo l’ora di vedere la tua espressione!» Lo guardai confuso. «Non capisco…» «Giusto, credo di doverti una spiegazione. Quando sei arrivato a Bhaja, il maestro Dhanba ha parlato di te agli anziani, ha detto che sei un bambino speciale. Estremamente maturo per la sua età, privo di tutti i difetti tipici dei giovani come l’impazienza, la fretta, l’arroganza… Ha raccontato che pur provenendo da una famiglia braminica, ti sei subito adattato alle difficoltà che un monaco itinerante è costretto a patire ogni giorno, e che non ti sei mai lamentato per la mancanza di cibo o per le condizioni di vita. Credo abbia usato la parola “unico”. Gli anziani ti hanno osservato per un po’ e si sono detti d’accordo con lui, quindi mi hanno avvertito.» «Ma…» «Spinto dai loro racconti, ho accettato d’incontrarti, ma volevo che l’incontro avvenisse in modo da non farti sospettare la mia identità. Volevo che tu fossi spontaneo con me, come lo eri stato con Dhanba. Mi sono fatto accompagnare a Bhaja, ho dato ordine che non ti fosse rivelata la mia identità, e ho stabilito di accompagnarti in questo viaggio per conoscerti un po’.» Tacqui. Non c’era molto da dire in quella situazione. Mi ero preparato, sperando di fare buona impressione sul Rinpoche, ma ormai i giochi erano fatti e non c’era molto altro da poter aggiungere. «Mi farete lama?» chiesi infine. La mia domanda suscitò una sonora risata, al termine della quale lui si ricompose: «Farti lama? No! Ma che ti salta in mente?» «Ma Dhanba…» «Tu non sei qui per diventare lama, mio giovane amico. La tua conoscenza del buddismo è ancora approssimativa e non hai l’esperienza né la saggezza necessaria per guidare dei discepoli, quindi no. Non ti farò lama!» Per la seconda volta tacqui. Le cose non stavano affatto andando come avevo previsto. Lui proseguì: «Non so cosa può averti detto Dhanba, ma tu non sei qui per diventare lama. Tuttavia, ritengo che tu non sia un ragazzino qualsiasi. Anch’io come Dhanba vedo moltissima maturità in te. Superiore a quella di molti adulti, e molta saggezza. A mio avviso troppa per un bambino. Sai cos’è un trülku?» «No…» risposi, sempre più confuso.
39 «Un trülku è un reincarnato. Quando un Bodhisattva ha raggiunto altissimi livelli spirituali a volte, morendo, è in grado d’incanalare la sua mente di saggezza scegliendo il corpo in cui essa si reincarnerà. Quel lama di solito lascia delle indicazioni per aiutare gli altri monaci a trovare il bambino nel quale rinascerà, e grazie a ciò può proseguire nel suo insegnamento anche dopo la morte del suo corpo fisico.» «Ma io…» «Non ho finito… Al momento non stiamo cercando nessun trülku. L’unico guru Rinpoche che forse potrebbe decidere di intraprendere questa strada è il venerabile Densho ma è ancora vivo quindi…» La cosa si stava complicando, iniziavo a sentirmi come un ladruncolo colto sul fatto. Come potevo raccontare che la mia maturità era dovuta al fatto che avevo vissuto per quasi cinquecento anni, cambiando corpo dopo corpo, senza soluzione di continuità? «A volte la cosa è più complicata di così» proseguì Grange. «Un lama può reincarnarsi anche in tre diversi bambini, con un processo che non ti spiegherò ora. In quel caso, ognuno dei bimbi riceve una parte dello spirito del Bodhisattva: uno di loro sarà la sua “mente”, uno il suo “corpo” e uno il suo “insegnamento”. È possibile che tu possa rientrare in una di queste categorie. Ovvero che un guru Rinpoche del passato abbia scelto per qualche motivo di reincarnarsi in più bambini, alcuni dei quali noi non abbiamo identificato…» Cercai di difendermi. «Ma io non sono…» Lui però m’interruppe: «Certo! Tu non lo puoi sapere, è ovvio. Un trülku passa molti anni in monastero e deve venire adeguatamente formato prima di riprendere il suo posto nel mondo. Oltretutto, non ti abbiamo rintracciato da bambino, quindi alla tua età… È normale che tu non ne abbia memoria.» «Quindi voi pensate che io sia un trülku?» «Non ne sono sicuro, ma vorrei sottoporti alle prove per verificarlo. Te la senti?» «Certo» dissi, incuriosito. «Bene. Le prove sono tre e sono molto semplici, ma prima di poterle affrontare devi essere pronto. Tu sei ancora spiritualmente immaturo. Dhanba non si è accorto che invece di meditare, tu passavi il tempo a fare altro, e questo ti ha impedito di prendere contatto con il tuo vero io. Se dentro di te c’è un trülku, prima di poter affrontare le prove devi avere modo di prendere contatto con te stesso, di conoscere il tuo vero io per mezzo della meditazione. C’è una prova che facciamo affrontare agli apprendisti lama, e consiste in un periodo lungo di meditazione, isolati
40 dal resto del mondo. Durante questo tempo, molti di loro riescono a giungere a livelli profondi di meditazione, e prendono coscienza del loro vero io. Ecco… io penso che per poter affrontare le altre prove, prima tu debba affrontare questa.» Meditare e solitudine. Non chiedevo altro. La sola cosa che volevo fare da quando avevo scoperto i benefici della pratica quotidiana era proseguire a meditare il più possibile. Inoltre, da solo, avrei potuto anche dedicare molto tempo ai miei ricordi, che da quando ero stato in viaggio con Grange non avevo più potuto richiamare alla mente. Avrei accettato qualsiasi cosa e forse mi gettai in quell’impresa con troppa incoscienza. Grange ne fu compiaciuto. Fui riaccompagnato alla mia cella e mi rifocillai. I monaci, all’improvviso riguardosi nei miei confronti, fecero di tutto per farmi riposare e nutrirmi in modo che arrivassi al giorno della prova in piena forma. *** Iniziai un mese dopo. Durante tutto quel tempo, partecipai ai riti collettivi, alle preghiere e soprattutto mi nutrii fino a trasformare quel corpicino gracile in qualcosa di più simile a un bambino “normale”. Quando il giorno arrivò, mi condussero sulle montagne di Ellora. Non mi era chiaro cosa si aspettassero da me, e la preoccupazione iniziò ad aumentare man mano che ci allontanavamo dal monastero. Arrivammo nei pressi di una grotta. Un semplice buco nella pietra per la verità, nulla a che fare con la roccia scolpita di Ellora, talmente stretto che per entrare fui costretto a mettermi carponi. L’interno era un po’ più ampio, tanto da consentirmi di stare eretto e di potermi muovere senza rischiare di andare a sbattere di continuo sulle pareti. Quello che mi dissero fu: «Resta qui in meditazione fino a che ti verremo a prendere. Poi verrai ammesso alle prove.» Non dirò del periodo che trascorsi là sotto. Non ero prigioniero, in qualsiasi momento avrei potuto ritornarmene a Ellora da sconfitto e lasciare che i monaci si prendessero cura di me. Ma non fu questo ciò che successe. Mi sistemai in un posto confortevole, e da principio mi chiusi nei miei ricordi. Ricordai tutto quello che sentivo il bisogno di ricordare, fino a che non ne fui sazio. Gli avvenimenti più importanti della mia vita, le persone che avevo incontrato, ma anche alcuni momenti insignificanti. Rimasi immobile per giorni e giorni senza nutrirmi, senza dormire, senza aprire gli occhi. Chiuso nella mia mente e immerso nel mio passato.
41 Quando al bisogno di ricordare si sostituì una sensazione di appagamento, iniziai a meditare sul serio. E non smisi più. Un gruppo di monaci venne a prelevarmi dopo tre anni, tre mesi e tre giorni. Li sentii cantare mentre si avvicinavano, ma non mi mossi dalla mia posizione. Mi ero nutrito di tanto in tanto in quella grotta, ma quando mi trovarono, non riuscivo a reggermi in piedi e nemmeno a parlare. La luce del sole mi fece male agli occhi quando mi trascinarono all’esterno, anche se erano le prime luci dell’alba. Probabilmente svenni, perché non ricordo il tragitto fino a Ellora. Ricordo che mi svegliai nella mia cella, attorniato da monaci che mi offrirono del tè zuccherato e della tsampa. Avevo meditato in completo isolamento, fino a trovare il più assoluto silenzio dentro di me. Avevo sperimentato per giorni l’assenza di qualsiasi sollecitazione esterna, ma anche interna, e avevo trovato il buio. I pensieri di cui l’anima si vela per nascondere la sua nudità allo sguardo, svanirono uno a uno, fino a quando mi trovai davanti a me stesso. Non credo di aver avuto un’illuminazione, almeno non nel senso comune del termine, ma in quella grotta cambiai. Non credo di saper spiegare in che modo, ma dopo fu diverso. Vidi il vero me stesso. È difficile da spiegare, per molti anni finii per credere che si trattasse solo di una specie di allucinazione causata dall’immobilità, dal buio e dagli stenti, ma ora so che non era così. Il vero me stesso era Tatnis. Quando dal buio iniziarono a emergere delle immagini, erano confuse. Ma giorno dopo giorno i contorni si definirono e d’un tratto mi risvegliai al centro di una specie sfera, la cui superficie curva era costituita da tantissimi piccoli cassetti accostati l’uno all’altro. A un’estremità c’era una specie di parete verticale, la cui superficie lucida rifletteva le immagini come uno specchio. Mi ci avvicinai, come in trance, aspettandomi di vedere in essa l’immagine del corpo emaciato del giovane Paki, invece quella lastra riflesse l’immagine di Tatnis. Erano secoli che non rivedevo il mio primo corpo, tanto che all’inizio non lo riconobbi. Alzai la mano destra per toccarlo, lui alzò la sinistra e la mosse verso di me.
42 Rimasi in quella specie di stanza per molto tempo. Non provavo fame, né sete. Scrutai negli occhi dell’io che fui per trovare la goccia divina predettami dal maestro, poi la mia attenzione finì per deviare sulle migliaia di cassetti che ne costituivano il confine. Ne aprii uno ed ecco comparire un ricordo, e poi un secondo uscì da un altro cassetto. Capii di essere al centro della mia anima, e mi sentivo in pace in una maniera indescrivibile. Separato dal mio corpo, dal quale non ricevevo sensazioni di alcun tipo, al punto che mi dovetti sforzare per uscirvi e ritornare ai dolori, al freddo, al peso stesso del corpo di Paki che avevo finito per dimenticare. Riuscii a muovermi solo dopo alcuni giorni, e me ne servirono molti altri per riprendere a camminare. Quando mi sentii in grado di affrontare le prove, dissi agli amorevoli monaci che si stavano prendendo cura di me, che mi volevo recare dal Rinpoche, e mi portarono la veste di color zafferano riservata ai lama. Non ero un lama, e loro lo sapevano, ma mi dissero che avevo superato la prova che normalmente viene proposta a chi intende diventare un lama, quindi mi avrebbero considerato come uno di loro. Non solo: a memoria d’uomo nessuno aveva affrontato quella prova alla mia età, e questo faceva di me, ai loro occhi, una sorta di prescelto. Il Rinpoche mi accolse con calore. «Non ho dubitato per un solo secondo che tu ce l’avresti fatta.» Non risposi. Lui proseguì: «Hai trovato le risposte di cui avevi bisogno?» «Ho trovato molte cose, maestro.» Lui sorrise, lo vidi invecchiato rispetto all’ultima volta. Mi fece cenno di seguirlo. Mi portò in una delle grandi sale di Ellora, dove due file di monaci schierati davanti ai colonnati che delimitavano la navata centrale cantavano una solenne litania. Percorremmo il breve tragitto davanti ai loro occhi, fino ad arrivare a un baldacchino che era stato allestito all’estremità della sala. L’odore dell’incenso riempì le mie narici e mi diede una sensazione di pace. Grange mi fece cenno di sedermi, poi si mise accanto a me. Batté le mani e tre monaci entrarono nella sala, passarono vicino a noi e appoggiarono sul baldacchino tre ciotole. Grange me le indicò, e mi chiese se ne riconoscessi una. Erano tre comuni ciotole di legno, non diverse dalle molte che avevo visto. «No maestro» risposi. «Nessuna di queste è la mia.»
43 I monaci le portarono via e al loro posto furono messi tre rosari. Questi erano diversi tra loro: uno era un semplice rosario di legno, gli altri due erano di turchesi, il primo con pietre piccole e tonde, il secondo con pietre grandi e irregolari. Li guardai e anche in quel caso, quando me lo domandò, dissi: «No maestro, nessuno di questi è il mio.» Infine fu la volta di tre grossi copricapi di seta, e anche in quel caso la mia risposta fu la stessa. Grange mi ringraziò e a un suo cenno i monaci abbandonarono la stanza. «Ho fallito?» «Non si può fallire una prova che non prevede delle risposte giuste e delle risposte sbagliate.» «Ma… sono un trülku?» «È difficile dirlo…» rispose pensoso. «Non chi pensavo tu potessi essere, ma questo si deve alla mia inadeguatezza non alla tua. Devo meditare, ragazzo. Ho bisogno di riflettere per molto tempo sulle tue scelte.» Detto questo se ne andò pure lui, lasciandomi solo. *** Rimasi per diversi anni a Ellora, partecipai ai riti collettivi e meditai con assiduità ogni volta che ne ebbi occasione. L’anno successivo rividi il maestro Dhanba. Fui felice di rivederlo. Mi disse che sapeva tutto di me e che era davvero orgoglioso di quanto fossi progredito. Dall’ultima volta che ci eravamo visti era stato messo a capo dei templi di Karli, per questo non aveva avuto occasione di passare a trovarmi prima. Passammo tutto il nostro tempo libero insieme, ricordando il nostro viaggio, e ridendo dei momenti trascorsi. Fu divertente. Una sera, di ritorno da una passeggiata, mi disse che il lama Grange gli aveva detto che si era accorto che io non meditavo sul serio ma “pensavo”. «Non me n’ero mai accorto» aggiunse. «È vero, maestro…» risposi imbarazzato. «Non riuscivo a liberare la mente… Non del tutto.» «Eri così giovane! Per voi ragazzi non è facile!» disse bonario. «Piuttosto maestro» chiesi «non ho mai saputo come facesse a indovinare cosa mi passasse per la mente… Voi lo sapete?» Dhanba rise. «Ma certo!» mi spiegò che era possibile accorgersi se qualcuno tentava di fare il vuoto nella propria mente o pensava a
44 qualcosa, osservando con attenzione le sue palpebre. I movimenti oculari al di sotto delle palpebre chiuse rivelavano un’attività mentale incompatibile con la ricerca del vuoto mentale prevista dalla meditazione. Continuò a ridere. «Non me sono mai accorto. Erano anni che non seguivo un giovane discepolo…» Quando Dhanba ritornò a Karli, ci salutammo come se non dovessimo rivederci mai più. Io rimasi a Ellora e proseguii nel mio tirocinio. I monaci continuavano a rispettarmi come se fossi un trülku, ma il lama Grange continuò a non esprimersi in tal senso. Io ero esentato dai lavori che spettavano ai più giovani, e venivo trattato come un lama. Partecipavo ai riti, ai cori, alle preghiere collettive, ma non tenevo lezioni ai discepoli. Avevo molto tempo per me, che spendevo in lunghe passeggiate serali, o in prolungati momenti di meditazione mattutini. Meditare continuava a piacermi moltissimo e decisi di dedicarmi alla pratica, poiché con il passare del tempo il bisogno quasi fisico di “ricordare” si fece meno intenso. Se avevo abbastanza tempo, riuscivo con facilità a ritornare in quella stanza tonda con le pareti fatte da cassetti in cui mi ero ritrovato durante la mia prova da trülku. La consideravo il mio rifugio. Mi piaceva stare là dentro: guardare alcuni ricordi, specchiarmi in quello strano specchio che rifletteva l’immagine di Tatnis e godere dell’impareggiabile sensazione di tranquillità che quel luogo mi trasmetteva. Le diedi persino un nome: “la camera”. “Quando troverai la tua anima saprai per sempre dove cercarla” dicevano i saggi, e in parte era così. Io l’avevo trovata e l’avevo guardata, riflessa in quello specchio. Guardandomi con gli occhi di un altro avevo accettato me stesso per quello che ero. Un immortale. Non potevo né volevo cambiarmi. Non sapevo quali fossero le origini della mia diversità ma non aveva importanza. Un monaco buddista è un uomo di pace, ma io non dovevo considerarmi un uomo. Per vivere rubavo il corpo che mi serviva, e nel farlo toglievo una vita ma quella era la mia natura. Non potevo oppormi a essa più di quanto un leone si possa opporre al vivere nutrendosi di gazzelle. Lo avevo fatto in passato e non mi volevo sentire in colpa per questo, anche se in realtà in me si era insinuato il dubbio che la mia stessa natura fosse un abominio. Chi ero davvero? Questo cercavo nelle lunghe ore che ogni giorno dedicavo alla meditazione.
45 Avevo trovato la mia anima in quella camera ma non mi aveva dato risposte, si era mostrata a me svelata dai pensieri che la proteggono dal mondo, ma non mi aveva parlato. Il giorno in cui il maestro Grange morì, ero con lui. Mi aveva mandato a chiamare. Il suo messaggero mi spiegò che il Rinpoche stava per morire ma prima voleva parlarmi. Lo trovai seduto su un tappeto, con la schiena dritta e lo sguardo rivolto a terra. Mi salutò come se niente fosse, non sembrava malato. Solo molto vecchio. «Mi hanno detto che stavate morendo…» esordii. «Infatti» rispose senza alcuna sfumatura di emozione. «Ho pensato moltissimo a te in questi anni. Non sono stato in grado di vedere il trülku dentro di te e me ne dispiaccio. Questo è un mio fallimento, non tuo.» Tentai di obiettare ma mi bloccò con un gesto. «Vedi» mi disse «mi ero riproposto di non morire prima di poter emettere un verdetto per le tue prove, ma non ne sono stato capace. Questo corpo presto non mi consentirà più di proseguire il cammino in questo mondo e, mio malgrado, non ho risposte da darti.» «Maestro…» «La mia saggezza non è così grande, quindi prima di andarmene voglio chiederti di fare una cosa.» «Ditemi…» «Recati al monastero Jokhang. Lì troverai il venerabile Guru Rinpoche Densho. Sua Santità ti aiuterà a scoprire chi sei… È un viaggio molto lungo, ma farà parte della tua crescita. Se il venerabile Densho non potrà aiutarti, allora nessuno potrà.» Alzò gli occhi da terra per la prima volta e mi guardò. «Lo farai per me?» «Certo maestro» risposi. Abbassò di nuovo lo sguardo al suolo, senza proferire parola, limitandosi ad accennare un sorriso. Rimasi per un po’ in attesa, chiedendomi se dovessi rimanere o andarmene. Solo quando entrarono i suoi discepoli, intonando il canto funebre, mi accorsi che era morto.
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INDICE
790 D.C. IL BRAMINO ....................................................................... 5 850 D.C. - IL MONACO .................................................................... 22 921 D.C. IL PRIGIONIERO ................................................................ 61 979 D.C. IL VENDITORE DI TAPPETI ................................................. 97 1032 D.C. IL FIOLARIO ................................................................. 141 1082 D.C. IL CROCIATO ................................................................ 172 1127 D.C. IL CONTE...................................................................... 203 NOTA DELL’AUTORE ..................................................................... 229