Maria Beatriz Do Mar

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In uscita il 31/3/2015 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine marzo e inizio aprile 2015 ( ,99 euro)

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CARLO MARCHI

MARIA BEATRIZ DO MAR

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MARIA BEATRIZ DO MAR Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-872-5 Copertina: immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Marzo 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Agua clara, cÊu azul, suave ser, alegria contida, moças florescem no azul da manha recem-nascida Diogenes Da Cunha Lima



PARTE PRIMA



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SI COMINCIA DALLA METÀ

C’erano tutti nella piazza di Genipabu che, per l’occasione, era stata decorata con bandierine gialle e verdi appese ai fili del telefono. La giornata non era molto calda e la brezza che veniva dal mare era gradevole. C’erano tutti quelli che contavano, più le comari in cerca di argomenti per le chiacchiere serali. Dell’avvenimento, del ritorno dal manicomio della Loca, la matta, ne avrebbero avuto abbastanza per almeno due mesi, nelle sere in cui le donne si sedevano sul muretto della chiesa di San Sebastiano a prendere il fresco. Non potevano mancare Pericles, che nel frattempo aveva vinto le elezioni ed era il Vereador di Genipabu, e il suo nemico politico Nixon, che aveva festeggiato col vincitore la sconfitta elettorale con una sbronza di Pitù – o amor do brasileiro – durata due giorni e tre ore. Era stata necessaria una visita domiciliare della dottoressa Myldred.


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Viviane non aveva più il pancione, ma in compenso aveva un seno enorme, dovuto alla nascita del piccolo bastardo Aguinaldo. Tatiane era molto indaffarata, ciabattava di qua e di là e salutava chi arrivava con rumorosi e falsi bacioni sulle guance. Jurema troneggiava. Imponente. Josynara, la pescatrice di aragostine, per una volta non aveva sul capo il cestino con le sue prede in vendita e la mascherina da sub al collo. Emilson osservava taciturno una fila di formiche giganti al lavoro, seduto sui gradini del ristorante “O Grelhado do Nordeste”, da tempo chiuso. Il proprietario – un olandese sempre un po’ fumato – era fuggito alla fine del carnevale lasciandosi alle spalle una montagna di debiti. Magna Maria, quella che sapeva usare il computer, arrivò dondolando su un paio di pericolosissimi tacchi alti forse mezzo metro. Comunque fu un bel vedere. Molto sexy. Pasquale il Gordo fu il primo ad avvicinarla e ad abbracciarla. Janilson era lì con il berretto troppo grande e la cicca spenta sull’angolo sinistro della bocca. Non mancavano Graça, che camminava con la pancia in avanti e una mano dietro la schiena, come si conviene per una signora al settimo mese, Marco Antonio e la dottoressa Myldred con il fonendoscopio attorno al collo e la valigetta saldamente appesa alla mano destra. Non si sa mai… I bambini correvano qua e là strillando senza senso, come


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tutti i bambini del mondo. Erano una ventina tra i quattro e i dieci anni, ma riuscivano a fare una baraonda come se fossero stati un migliaio. Insomma c’erano tutti quelli di Genipabu. C’era da far festa. Gugu ormeggiò il suo taxi davanti alla piazza, la statua di San Sebastiano ci guardò compiacente, io mi detti da fare a tirare fuori dal portellone posteriore la seggiola a rotelle con il numero 46. Lui, con un gesto plateale che doveva aver visto in qualche film d’epoca, si precipitò ad aprire la portiera della Brasilia, che gemette ruggine, poi aiutò ciò che restava di Maria Beatriz a scendere e a sedersi sulla 46. Mil felicidades e amor no coração Que a sua vida seja sempre doce e emoção Bate bate palma que é hora de cantar Agora vamos juntos vamos lá Parabéns, uh uh Parabéns, uh uh… Tutti cantavano Parabéns battendo le mani accompagnati dalla chitarra di Fernando il pedreiro, detto Violão. Vidi, incredulo, cantare, battere le mani e saltellare perfino l’imperturbabile Janilson. Il fonendo di Myldred cadde per terra e lei non se ne accorse neppure. Jurema troneggiava. Imponente.


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JENIPABU

Ci vado da molti anni. Il viaggio è lungo e noioso, ma ne vale la pena. Jenipabu, che adesso si chiama non so per quale motivo Genipabu, è un gran bel posto. È una spiaggia di Natal. Dico “spiaggia” perché nella sua magnificenza è così modesta che non è mai riuscita a guadagnarsi il nome di paese o cittadina o altro. Topograficamente è una strada, Rua Vereador Ricardo Afonso. Non più di cinquecento metri, un chilometro se comprendiamo Tabu, con due file di case: una fila dà sulla spiaggia larghissima, l’altra sul mato: la foresta di caju e mangrovie. L’oceano Atlantico rispetta Genipabu. Anche quando la marea è alta e lui è infuriato, non arriva mai a lambire le case e le pousade. Genipabu è una spiaggia dunque, che, con la marea bassa, specialmente quella della luna di gennaio, diventa un enorme


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luccicante specchio dorato dove le grasse nuvole si guardano vanitose e provano le loro bizzarre acconciature. A sud l’arenile termina, dopo una dolce insenatura spesso visitata da delfini zuzzurelloni, con una duna alta con due grandi gobbe color miele d’acacia. Un dromedario di sabbia. Tra le gobbe un pennacchio verde scuro, quasi nero controluce. È una grande pianta di caju che Dio solo sa come abbia fatto a nascere e crescere così rigogliosa, proprio lì sotto un sole che non perdona, senza acqua, con il solo nutrimento di quella silice salmastra. Un mistero, se volete un piccolissimo mistero, ma pur sempre uno dei tanti misteri di Genipabu. Lì tutti sono abituati a nascere e crescere con pochissimo. E a morire con semplicità. I colori. Sono esagerati. Pieni. Morbidi a volte e sanno essere, all’occasione, dolci come le labbra di un’adolescente. Hanno forma, danno forma a tutte le cose. Sono colori che curano, sono una terapia per gli occhi e per l’anima. Un grande poeta dovrebbe cantarli, descrivere le emozioni e i sentimenti che provocano. I colori di Genipabu sono colori e ci sono tutti quelli dell’iride e anche qualcuno in più. Verso nord per un paio di chilometri, mentre il mare allegramente ci invita spumeggiando a giocare con le sue onde, raggiungiamo un luogo stupefacente. La barriera di rocce nel mare è alta, separata ogni tanto solo dalla schiuma di qualche ondata più energica che forma un’enorme piscina naturale d’acqua calda, tranquilla: inevitabile dopo la camminata sotto quel sole. Poco più in là neanche dieci minuti di cammina-


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ta, una meraviglia, uno stupore: l’estuario di un piccolo fiume le cui acque entrano levigate nell’affettuoso abbraccio dell’oceano. Il ristoro di un bagno in acqua dolce. Cielo blu, più blu che azzurro, casette bianche sullo sfondo, palme, piccole dune di sabbia caldissima. Un uomo in acqua con il suo cavallo, lo lava e l’animale gli è grato. A me sembra strano: non si vede mai un solo gabbiano. Mi mancano. Mi accontento di veder veleggiare i neri Urubù: la mia passione è volare e li studio. Sono degli spazzini che tengono pulite le spiagge e le dune. Sono avvoltoi. Sanno come sfruttare il vento e volano in circolo, non battono quasi mai le loro ali, sono veri maestri e, se li vedi scendere in picchiata, vuol dire che hanno individuato un morto, una carogna. In aria sono belli, a terra sono bruttini; si vede che sono avvoltoi. Sugli Urubù ci sono delle storie. Si dice che durante la seconda guerra mondiale venissero catturati, fatti fuori e spennati. Ben ripuliti si vendevano come gustosi tacchini agli americani che avevano una base aerea proprio a Natal, per questo detta “Trampolim da vitoria”. Non risultano americani morti per intossicazione alimentare. C’è poi la leggenda del rospo e l’Urubù. Pare che il rospo abbia una pelle brutta e bitorzoluta perché un Urubù suonatore di chitarra l’avrebbe fatto precipitare dall’alto, dopo che il rospo si era nascosto dentro alla sua chitarra per burlarsi di lui. Esiti cicatriziali da grave trauma. Molto altro è Genipabu, ma questa è l’idea. Alla fine potrei


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dire che il vento ti accarezza e non ti fa sentire il sole che ti sta bruciando la pelle, o che puoi perdere tempo contemplando il colibrì, che in portoghese si chiama con un nome poetico “bejaflor” (bacia fiori), mentre succhia i fiori che non mancano mai nei giardini anche più modesti. Basta dire che è un gran bel posto dove, se la sera pianti un ombrello, la mattina ha le foglie ed è fiorito. Nient’altro. Questa storia nasce lì. Non poteva che nascere lì.


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IL TREDICESIMO ANNO INIZIÒ CON UNA SCIAGURA

Era il tredicesimo anno che tornavo laggiù, dall’altra parte del mondo, dove si sta a testa in giù, ma non ce ne si accorge. Per la verità qualche segnale che ti fa capire che sei a rovescio c’è. Per esempio a Genipabu i cani rispondono al richiamo che si fa da noi con i gatti: «Mucci, mucci» con le labbra atteggiate al bacio. E i gatti? I gatti si chiamano con un fischio, proprio così, con un fischio. E non è vero, non è assolutamente vero, che il gallo canta al sorgere del sole. Il gallo canta tutta la notte, almeno il galletto di Joao il caseiro. Sarà perché dispone di un pollaio con almeno una decina di gallinelle molto sexy, ma quel pennuto non mi aveva lasciato dormire strillando tutta la notte. Non è assolutamente vero che un gallo canta e fa chicchirichì, almeno quello di Joao il caseiro, perché quell’infame emette suoni rauchi e


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sgradevoli che mi avevano fatto desiderare di strozzarlo con le mie mani. L’indomani avrei imposto a Joao di prepararlo per un bel arrosto. Galline sì, galli mai più, almeno finché io fossi stato ospite in quella casa. Perciò ero sveglio e di pessimo umore, che peggiorò quando qualcuno bussò vigorosamente alle imposte della mia finestra. Ci mancava solo questo alle quattro e quarantadue del mattino, anzi, della notte fonda. Fu così che festeggiammo il primo dell’anno: portando Pedro all’inferno, cioè a morire all’ospedale Santa Catarina. Pericles, il Vereador di Genipabu, era il titolare dell’ambulanza in dotazione a Genipabu. Ambulanza si fa per dire. Si trattava di una vecchia scassata Brasilia Volkswagen dipinta, forse a mano, di bianco e con la croce rossa di sghembo sulla fiancata. Pericles guidava come un pazzo, io ero in qualche modo sistemato sul fondo della macchina a fianco di Pedro rantolante e cercavo di farmi spiegare da Joao e Pericles cosa era successo. Per via del fracasso del motore e di tutta la baracca, più l’evidente confusione mentale dei due e la preoccupazione per il poveraccio steso al mio fianco, capii solo che si trattava di una gran botta sulla testa. Pazienza, pensavo, tanto nessuno arriverà vivo all’ospedale. Invece arrivammo tutti vivi, meno Pedro che smise di rantolare e stralunò gli occhi tre curve e un semaforo prima dell’accesso al Pronto Soccorso. Qui la faccenda si complicò. Avevamo un morto in ambulanza e occorreva l’intervento


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della polizia. Stava albeggiando e i lampeggianti rossi e blu ne preannunciarono l’arrivo illuminando le case prima ancora dell’ultima curva. Mi aspettavo di peggio: i due poliziotti che scesero da un enorme SUV non avevano un’aria particolarmente truce. Pericles spiegò di essere stato chiamato da Maria alle quattro, perché Pedro era stato accompagnato a casa e messo a letto dagli amici da circa mezz’ora ubriaco fradicio. Maria gli aveva detto che dopo un po’, infastidita per il modo tanto rumoroso di russare, aveva cercato far smettere il marito con i soliti metodi dolci, poi, non ottenendo reazioni, aveva provato a scuoterlo. A quel punto aveva visto un grosso bozzo sulla nuca del poveretto e si era resa conto che Pedro, più che ubriaco, era mezzo morto. Pericles, che aveva fatto un corso intensivo di infermiere della durata di due settimane e mezzo e che era il titolare ufficiale dell’ambulanza di Genipabu, aveva deciso di portare l’uomo all’ospedale, chiamando Joao e il sottoscritto, gringo turista, in aiuto. Purtroppo, nonostante Pericles avesse guidato il più rapidamente possibile, Pedro aveva smesso di respirare tre curve e un semaforo prima dell’arrivo al Pronto Soccorso, testimoniai io. La faccenda si complicò un poco per via dei documenti: nessuno ne era provvisto tranne il Vereador. Neppure il morto aveva un documento di riconoscimento in tasca. Un morto che puzzava d’alcol con un grosso ematoma sulla nuca, in bermuda, senza documenti di identificazione. Due individui, di cui uno straniero in abbigliamento molto som-


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mario, per non dire scalcinato e dall’espressione infelice, fortemente sospetti di un decesso probabilmente per via di una botta in testa. Tutto sommato per un poliziotto, anzi due, la situazione era imbarazzante e forse anche stimolante. Potevano arrestarci e, per come era iniziato l’anno nuovo, mi sentivo certo che avrei passato più di qualche giornata nella prigione di Natal, che sapevo poco ospitale. A questo punto val la pena che spieghi cosa e chi è il Vereador. È una specie di assessore comunale. Le località, chiamiamole frazioni, del Comune eleggono un rappresentante. Non sapevo che Pericles fosse, oltre al titolare dell’ambulanza, anche il Vereador di Genipabu. Una certa autorità ce l’aveva, confabulò con il poliziotto più grasso, che sembrava anche quello più autorevole. Quello più magro, che teneva minacciosamente la mano sul calcio della pistola appesa alla cintura, ci teneva d’occhio. Joao, a testa bassa, rigirava il berretto con scritto FBI. Quando Joao rigirava fra le dita nodose il berretto e sudava, era un brutto segno. E lui stava sudando. Io ero rassegnato e pensavo che probabilmente la Farnesina avrebbe attivato l’Unità di Crisi per tirarmi fuori dai guai in non meno di tre o quattrocento anni. Anni in cui mi sarei nutrito di scarafaggi come Steve McQueen nel film Papillon. Avevo anche considerato che, date le gigantesche dimensioni degli scarafaggi equatoriali, avrei assimilato abbastanza proteine per sopravvivere. Il poliziotto grasso ascoltava molto, parlava poco e ci guar-


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dava in tralice con occhi che mi sembravano poco benevoli. Pericles si accalorava e mi indicava. Indicava più me che Joao. La faccenda durò moltissimo, almeno mi parve. Poi il grasso si avvicinò e ci spiegò che, date le garanzie che aveva fornito il Vereador, potevamo rientrare a Genipabu. Perentoriamente dovevamo presentarci alla Delegacia di Polizia a Natal l’indomani mattina entro le ore nove. Mi guardai bene dal precisare che l’indomani mattina era già arrivato da un pezzo, assicurai la mia puntualità aggiustando sguardo e postura alla massima dignità e decoro possibili. Un colpevole in genere ringrazia e si mostra servile, pensavo. Joao si calcò il berretto sulla testa e questo era un buon segno. Ritornammo a Genipabu sulla scassata ambulanza piuttosto silenziosi, pensando con molta tristezza alla sposa e ai bambini di Pedro: a dare la cattiva notizia ci avrebbe pensato il Vereador. Erano già le sette e avevo solo un’ora per rendermi presentabile e tornare a Natal. Bisogna sempre presentarsi a un Delegato di polizia puliti e in ordine. Soprattutto se siete sospettati di un omicidio. L’edificio era in centro città poco distante da Rio Branco. Mi aspettavo qualcosa di più terrificante, con poliziotto armato al portone e auto bianche e blu parcheggiate davanti, come nei film americani. Invece sembrava una casa popolare un po’ trasandata. Comunque era chiaro dalla targa che Joao e io ci trovavamo davanti alla Delegacia de Policia.


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L’atrio era piccolo, dietro a un tavolino era seduta una ragazza niente male. Apprezzai la maglietta nera molto scollata e ben riempita nei due punti giusti con la scritta Policia ondeggiante sulle collinette. Gentilmente ci chiese le generalità che annotò scrupolosamente su un quaderno a quadretti. Era mancina e aveva gli occhi blu, rarissimi per una moretta brasiliana. Il Delegato ci aspettava al piano di sopra e, sempre con molta cortesia, la ragazza ci informò che gli altri convocati erano già arrivati e che potevamo salire al primo piano, seconda porta a destra. La situazione mi sembrava troppo idilliaca, così cominciai a sudare anche perché Joao aveva ripreso a maltrattare il suo berretto del Federal Bureau of Investigation. La storia è iniziata troppo bene per non finire male, pensai. Non ricordo d’aver mai faticato tanto a salire pochi gradini, quattordici per la precisione: sentivo un tintinnio di manette. Guarda un po’ cosa ti va a succedere per aver tentato di salvare la pelle a un poveraccio con la testa rotta la notte di Capodanno. Seconda porta a destra, aperta. Stanzone illuminato dai soliti tubi fluorescenti. Armadi metallici alle pareti, pareti con urgente bisogno di un imbianchino. Scrivania metallica. Macchina da scrivere IBM di quelle con la pallina, non ne vedevo più da qualche anno. Persone in piedi, conosco quasi tutti, parlottano. Riesco a vedere dietro la macchina da scrivere una calvizie e poco di più. È il Delegato. La calvizie si sposta all’indietro per mostrare un viso rotondo, non sorride, ma neppure esprime minaccia e parla.


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Ci invita uno a uno all’unica sedia per la deposizione. Joao e io saremo gli ultimi. La storia è sempre quella. Si trovavano a una festa per soli uomini a bere un po’ (si fa per dire) e festeggiare l’arrivo del nuovo anno. Scherzavano, bevevano e scherzavano ancora. A un certo punto Pedro aveva cominciato a millantare di essere stato un grande atleta di capoeira. Nessuno aveva mai visto Pedro cimentarsi in quella danza acrobatica e avevano cominciato a prenderlo in giro, lui si era infervorato e aveva voluto cimentarsi in una mossa vorticosa. In un attimo era successo il disastro: Pedro era caduto all’indietro e aveva battuto la testa sul bordo del lavello. Sulle prime si era rialzato e addirittura voleva riprovarci, poi, in pochi secondi, era stramazzato al suolo farfugliando parole incomprensibili. Così avevano deciso di riportarlo a casa a smaltire la sbronza e la botta in testa. Tutti confermarono la stessa storia, io intanto apprezzavo la velocità – quante battute al minuto, cinquecento, mille, millecinquecento? – del Delegato sulla tastiera della IBM. Pericles, Joao e io raccontammo la nostra testimonianza che già conoscete. Nel frattempo, la faccenda era durata un paio d’ore buone. Il caldo si era fatto sentire fisicamente, sudavamo tutti, meno il Delegato, che si era acceso un piccolo ventilatore sulla scrivania. Lo rinfrescava e gli faceva volare verso l’alto quei dodici o quindici capelli che aveva conservato gelosamente per il riportino sulla pelata. I testimoni avevano testimoniato.


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Il Delegato spense il ventilatore e il riportino tornò al suo posto automaticamente. Si raschiò la voce e disse che il medico legale aveva constatato che il decesso era avvenuto in seguito al trauma cranico occipitale, cioè dietro la testa, che la lesione era unica e compatibile con il bordo di un lavello. Perciò, sentite le deposizioni dei testimoni, pensava di archiviare il caso come morte accidentale. Ero sbalordito. Non avrei mai supposto che si potessero fare indagini così rapide e che la Medicina Legale a Natal fosse così efficiente. Ero quasi deluso, ma anche sconcertato e forse sospettoso. Niente interrogatorio con il poliziotto buono che ti offre il caffè e ti racconta con gli occhi umidi di lacrime di essere infelice perché la moglie l’ha lasciato. Neppure quello cattivo che picchia pugni sul tavolo e si slaccia la cravatta pronto a malmenarti. Niente faro da mille watt puntato sugli occhi. Niente sala interrogatori con il finto specchio e il capo della polizia nascosto dietro. Nessuno mi aveva mostrato terrificanti fotografie del morto per farmi confessare. Nessuno aveva acceso un registratore dicendo data, ora eccetera. Nessuno mi aveva letto i miei diritti. Io non avevo chiesto il mio avvocato, anche perché non ho mai avuto un mio avvocato, mentre nei film tutti ce l’hanno. Una cosa da niente, insomma. Salutammo il Delegato che rispose facendo ciao con la manona. La scollatura con la scritta Policia ci sorrise. Noi ci pic-


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chiammo grandi manate sulle spalle. Conoscevo proprio tutti, meno uno. Meno uno che se ne andò da solo con passo rapido e senza stringere la mano a nessuno di noi. Nessuno si girò per guardarlo andarsene. Mi sembrò strano, molto strano.


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MARIA BEATRIZ

Per dodici anni di seguito l’avevo vista. Era scomparsa. Usciva da una casupola con le imposte e la porta color “blu del rey” dove abitava assieme a una vecchietta rinsecchita dal sole, sempre sorridente nonostante l’evidentissima povertà che doveva affliggerla. Lei era bionda ma di carnagione scura, alta. Indossava sempre solo un bikini ridottissimo, scalza, con un portamento da mannequin. Regale. Attraversava lo stretto passaggio fra le case, andava in riva al mare e lì stava seduta, accoccolata tutta la mattina. Ogni tanto entrava in acqua, giocava con le onde che pareva quasi la rispettassero infrangendosi su di lei con molta delicatezza. Nei giorni di sabato e domenica la spiaggia era più frequentata da famiglie: s'incontravano uomini panciuti da birra, mamme quasi tutte fuori peso i cui microbikini si infilavano in tutte le pieghe e anfratti più o meno leciti e una moltitudine di bambini chiassosi. I giovanotti erano impegnati a dimostrare


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le loro brasiliane abilità nel gioco del calcio. Le coppiette in acqua avvinghiate a fare l’amore. I turisti rossi come gamberi ben cotti. I venditori ambulanti di picolé caseiros, castagne di caju, occhiali da sole e collane di conchiglie. Lei in quei giorni restava nella catapecchia e non metteva il naso fuori dalla porticina. Non parlava. Mai. Tutta Genipabu diceva che era matta e con qualche ragione. La pazzia raramente rispetta la bellezza. Lei era semplicemente perfetta. Seno alto, giusto per riempire la famosa coppa da champagne, gambe dritte polpacci affusolati, caviglie sottili, cosce tornite. Da dietro un capolavoro. I capelli lunghi, ramati, mai toccati dalla spazzola di qualche parrucchiera incorniciavano con rispetto un viso dagli zigomi alti, naso piccolo appena un po’ aquilino, ma poco, una bocca carnosa al punto giusto per far nascere cattivi pensieri. O buoni pensieri, a seconda del punto di vista. L’espressione del volto era lievemente assorta, come se stesse ascoltando chissà chi o cosa. Dicono che non avesse mai parlato, mai con nessuno fin dalla nascita. Era matta. Eppure, eppure quando mi vedeva, a me, diceva «Bom dia». Solo bom dia, nient’altro. Buongiorno. Una stranezza e suppongo che ciò dovesse aver avviato malignità sul mio conto. È risaputo: nelle piccole comunità si usa malignare senza troppa cattiveria, tanto per bater papo, per fare chiacchiere.


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Mai un vestitino, solo quel minuscolo bikini bianco e blu, che a me sembrava sempre lo stesso e mi chiedevo come non si fosse sbiadito con quel sole perennemente a picco e la forza dell’acqua salata. Forse li comprava sempre uguali. Come facesse a trovarli, data la volubilità della moda, identici, era un altro mistero di Genipabu. Piccolissimo insignificante mistero, se volete, ma pur sempre un mistero. Poco o molto, doveva essere matta. Così pensavo tutte le volte che la incontravo e mi diceva “bom dia” e mi sentivo addolorato per lei. Dicevano, pettegolezzi o verità difficile a sapere con certezza, che avesse avuto una figlia. Dicevano anche che era una bambina molto bella, morena, con tanti capelli lunghi neri fin dalla nascita, con gli occhi blu come il mare, come il cielo. Gli assistenti sociali gliel’avevano portata via un giorno di grande pioggia, quasi subito, perché lei era una mamma che non aveva le condizioni né economiche, né psichiche per accudirla e farla crescere. Le voci di paese erano che fosse stata adottata da stranieri, dei gringo bianchi come il latte di vacca, e che fosse stata portata lontano dal Brasile, al di là dell’oceano. Verità o no, difficile accertarlo. Purtroppo bisogna dire che le storie tragiche sono quasi sempre vere. Senza vergogna, io spiavo il suo ventre: non un segno di rilassamento, non una smagliatura, era piatto e sodo come quello di una giovane vergine. Ancora un mistero.


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Tutti dicevano di sapere che, nelle notti di luna nuova in cui le stelle sembravano luci di Natale, la matta andava sulla spiaggia a fare l’amore con gli uomini di Genipabu. Le donne non erano gelose, lasciavano fare, in fondo li faceva star bene: quelli non tornavano a casa ubriachi e cattivi e dormivano subito beati e tranquilli. Fare l’amore con una matta non è tradimento. Neppure peccato. Alcune volte ero andato a spiare, ma l’immensità della spiaggia, il ruggito del mare che sembrava dirmi: «Lasciala stare, non è cosa per te, vattene!». Il buio profondo come un buco nero dell’universo che inghiotte e annulla tutto quanto, il cielo dell’equatore, senza luna, pieno di miliardi di stelle, mi avevano intimidito e un pochino impaurito e me ne ero tornato a casa a fantasticare su di un buon libro. Alla fine erano solo affari suoi, delle donne e, soprattutto, degli uomini di Genipabu. L’unica cosa che sapevo di lei, oltre al fatto che era matta da legare, era il suo nome: Maria Beatriz. Un bel nome. Giusto per lei. Per un po’ non ci avevo pensato, mancava qualcosa, non capivo cosa. Il colibrì era fedele, compariva vibrante a succhiare i miei fiori, tutto era come l’avevo lasciato, tutto ciò che mi dava belle emozioni era lì, immutato e mi aveva aspettato. Il sole, la duna che sembra un dromedario, il mare, la spiaggia dorata e luccicante, le baracchine in spiaggia dove si possono


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mangiare gamberetti e bere acqua di cocco ben gelata, il venditore di dischi clonati a prezzo stracciato, le mucche per strada la notte a rovistare fra la spazzatura, i ragazzotti impegnati nelle interminabili partite di calcio, i bambini, tanti bambini, le mamme grasse con i loro minuscoli bikini, gli uomini con la lattina di birra in mano e la pancia gonfia, straripante dai calzoncini, i grossi granchi blu con una chela grande e una piccola, che entravano in casa e combattevano con gli occhi fuori dalla testa per non essere cacciati, un forrò risuonava nell’aria: «Maria prendi la scopa, Maria prendi la scopa!». Tutto era al suo posto. Il mango era carico di frutti, l’arancio in fioritura, la jaboticaba era piena di succose bacche viola scuro. Poi capii: mancava lei. Maria Beatriz. La cosa non avrebbe dovuto turbarmi più di tanto, in fondo non avevo mai avuto nulla a che fare con quella ragazza, trascurando il fatto che pareva fossi l’unica persona cui avesse mai rivolto una parola, cosa misteriosa e non da poco alla fine. Passavo davanti alla sua casetta, la più piccola del posto e vedevo la porticina blu sempre chiusa, l’unica finestra sul lato destro era sbarrata da assi di recupero inchiodate alla meglio. Sulle tegole malmesse era cresciuto un lungo spinoso cactus con due propaggini che sembravano due braccia alzate al cielo, come in atto di preghiera. Un cactus implorante.


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Della vecchina secca e sorridente e di Maria Beatriz nessuna traccia. Sparite. Per alcuni giorni mi trattenni dal chiedere notizie. Il cielo era blu, il sole splendente, non c’era vento forte, solo una lieve brezza faceva ondeggiare le lunghe frastagliate foglie dei cocchi che, con il loro incomprensibile linguaggio si scambiavano le notizie dell’ultima ora. Però il mare non si stava comportando bene. Pareva non conoscesse basse maree ed era furioso, da giorni. Neppure i pescatori sapevano spiegarsi il fenomeno e aspettavano sconfortati seduti sulle loro fragili jangade tirate a secco. Era impossibile superare quei cavalloni con quelle imbarcazioni a fondo piatto. Lo strano era che, al di là del promontorio formato dalla grande duna, a Santa Rita, il mare si comportava bene, tranquillo come doveva essere. Mistero. Alle tre in punto della mia terza notte a Genipabu tre tonfi ben distinti mi allarmarono. Bira il grosso bastardone di Aristófane, cane dallo sguardo mite, guardiano fedele e incorruttibile, non aveva abbaiato, comunque uscii a controllare e i miei sospetti furono confermati rassicurandomi. Nessun malintenzionato. Da quell’altissimo coqueiro dietro casa, vicino al muro di cinta del giardino, erano cadute tre grosse noci di cocco secco e avevano sbrecciato alcuni mattoni. Non avevo più un gran sonno e il buio porta a rimuginare sulle cose più assurde: tre del mattino, tre tonfi, tre noci, era stato un segnale misterioso? Cretinate! L’indomani per far riparare il muro avrei dovuto chiamare Fernando il pedreiro, detto Violão perché suonava bene la chitarra soprattutto


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quando era ben carburato con alcune dosi di cachaça (almeno due). Violão era bravo, preciso, veloce e onesto: quando lavorava non pensava alla chitarra e beveva solo acqua di cocco. E Maria Beatriz? E la vecchina? Cosa poteva essere successo? Decisi che era inutile e sciocco continuare a ossessionarmi per fare una domanda così semplice. Appena fatta mattina mi sarei informato. Non ci fu più verso di prendere sonno, colpa anche del jet lag. A Genipabu alle quattro il cielo schiarisce, alle cinque c’è tanta luce che non si può più definire alba. Alle sei il sole è già così alto che potrebbe sembrare mezzogiorno e i bambini si avviano alla scuola. Alle sette a un gringo non conviene andare in spiaggia senza spalmarsi di creme e unguenti di protezione, tanto da ridursi tipo la gara del porco unto, pena infernali scottature. Alle otto infilai un paio di bermuda, una maglietta bianca con la scritta davanti e dietro “Aqui aula de sexo de graça” e le mie logore ciabatte azzurre. In pratica ero pronto e impeccabile per una passeggiata sul corso. Corso, si fa per dire. Esattamente quarantadue passi verso la chiesa cattolica dedicata a San Sebastiano, protettore del luogo, vidi il vecchio scorbutico Janilson che stava rammendando la rete del suo tramaglio, vecchia e malandata come lui. A dire la verità non l’avevo mai visto al mare intento a pescare, ma poteva essermi sfuggito dato che non mi alzo mai tanto presto. La sua casa era a trentasei passi da quella disabitata di Maria Beatriz.


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Ci si potrà chiedere come mai contassi le distanze in passi precisi. Non sono affetto da nevrosi fobico ossessiva. Tutt’altro. Solo che a Genipabu andavo per oziare e così avevo aggiunto alle poche cose da fare anche il passatempo di misurare le distanze in passi. Tanto per ridere un po’ di me. Avrei potuto contare i respiri o i battiti del polso, ma sarebbe stato troppo complicato. Potevo provare a chiedere al vecchio pescatore notizie sulle due donne, in fondo era solo un uomo di poche parole, non era di cattivo carattere, limitava i suoi discorsi all’essenziale, il che, alla fine, non si può neppure considerare un grande difetto. Anzi alle volte è decisamente un pregio. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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