In uscita il 23/12/2015 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2016 ( ,99 euro)
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Diego Seno
MAX P. I.
PRIVATE INVESTIGATION
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MAX P.I. Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-942-5 Copertina: immagine proposta dall’Autore
Prima edizione Dicembre 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Questa storia e tutti i personaggi sono frutto di fantasia, purtroppo.
A quei pochi che nonostante tutto si ostinano a volermi bene.
PARTE PRIMA
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La notte è buia nella città che ormai cammina a due passi dall’abisso. E c’è tristezza nei tuoi occhi. Tu cerchi di riportarla qualche passo più lontano. Ma sei l’unico che lotta. E la lotta è impari. E forse i tuoi mezzi non fanno altro che avvicinarla ancor più al baratro. Forse questo lo sai, ma ti convinci che è l’unico modo. L’unico modo che hai. Nella bustina che avevi in tasca, infili un deca arrotolato, porti l’altra estremità al naso e inspiri calmo e costante. Apri la bustina e lecchi quello che è rimasto sul cellophane. Senti il gusto amaro sulle labbra che iniziavano a intorpidirsi. Ti accendi una sigaretta, il cuore accelera ancora un altro po’. Infili guanti di lattice. Ti muovi dall’oscurità. L’agitazione sale. Il cuore galoppa, il cervello pulsa. Un uomo esce dal portone del palazzo a una ventina di metri. Mani in tasca e testa bassa. Si guarda alle spalle come stesse controllando di non essere seguito. Viene verso di te. Ti affianca per passare oltre. «Ahmed?» con naturalezza. «Sì?». Mentre il suo sguardo cambia espressione quando nota le mani con i guanti bianchi, ci metti un attimo a estrarre la pistola e sparare un colpo che lo prende in pieno nel collo del piede. Poi lesto lo prendi per la testa e premi una mano sulla bocca perché non continui a urlare. Il dolore deve essere atroce. Non quanto quello procurato. Il tizio cerca di divincolarsi, tu lo tieni più forte e lo trascini lungo il vicolo che sbocca davanti a te. Lo sistemi tra due cassonetti della spazzatura, impugni nuovamente la pistola e gliela punti ancora. Ormai il ghiaccio è rotto da molto tempo, hai imparato la parte e la sai bene. «Non parlare o sei finito». L’uomo trema. «Io no parla italiano io no capire?» balbettando terrorizzato. Tiri fuori un fazzoletto e glielo leghi attorno alla faccia stringendoglielo sulla bocca. Il tizio mugugna, ma tu non hai cuore per sentire le sue preghiere tardive. Spari un altro colpo all’altra caviglia.
8 Il grido straziato dell’uomo sembra un ululato sbiadito. Metti via la pistola, tiri fuori un coltello. «Scommetto che ti ricordi una certa Michela». L’uomo scuote la testa mugugnando. «No? Michela Loreni?» slacciandogli la cinta dei pantaloni. «Ti conviene essere sincero». L’uomo fece cenno con la testa terrorizzato. «Ah, vedi che se vuoi hai buona memoria» abbassandoglieli. Gli afferrò l’uccello moscio attraverso le mutande, appoggiò la lama. L’uomo piangeva dei no confusi, parole incomprensibili. «Vedi, la differenza tra lei e te, è che lei non può più implorare» dando un colpo secco. Un fiume di sangue cominciò a uscire inzuppando prima le mutande, poi tracimando. Ti raddrizzi. Pulisci il coltello con un altro fazzoletto e lo rimetti via. Poi dalla tasca della giacca di pelle estrai un biglietto. Glielo infili tra il fazzoletto e la bocca. Ti giri e a passi lenti e calmi ti allontani. Poco prima ci avevi scritto “Scusami Michela”. Ahmed El Moussi era uscito per buona condotta dopo un anno e mezzo di prigione. Michela Loreni si era lanciata dal balcone di casa sei mesi prima perché, seviziata e stuprata per cinque giorni, non era mai riuscita a riprendersi. Aveva quattordici anni. Ecco cosa stai cercando di essere, la correzione dello sbaglio, la regola che manca, la legge che trasforma la giustizia in giustezza.
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La musica era un po’ troppo alta per i suoi gusti, ma era del genere che amava. Andò diretto al bancone del bar dove fece baratto: una bottiglia di birra per un buco sulla drink card. Finché non si va alla cassa per uscire sembra conveniente. Poi si voltò a guardare la sala, fece qualche passo in avanti fino a fermarsi alle spalle di un divanetto, sorseggiando la birra a collo. Sconsolato osservò come ormai la maggior parte dei ragazzi stava insieme a guardare ognuno per conto suo il proprio telefonino. Poi la sua attenzione fu attirata dalla cubista che si era appena immolata sul cubo dall’altra parte della pista, carrozzeria Pininfarina, dentro un top a fascia che lasciava spuntare i capezzoli irrigiditi dall’aria condizionata che il bocchettone sopra di lei sparava nel locale e una minigonna a fascia ancor più bassa che da dietro lasciava vedere la fine delle guance solcate nel mezzo dal perizoma e che non aveva mai visto prima di allora. Alzò lo sguardo, magari cercando di incrociare il suo, come se la tipa, così occupata a sculettare e tettare a destra e a manca potesse, tra mille persone, accorgersi di lui. Bestia oh! Restando incantato. “È proprio carina” pensò. “Ecco una che conosce la sensazione di sapere che tutti quelli che ti circondano vorrebbero scoparti”. Ebbe un attimo d’invidia. Era una di quelle sensazioni che avrebbe voluto provare. Perché un ragazzo magari può piacere, ma una ragazza così può scommetterci il mondo. E quello era potere. Le staccò gli occhi disilluso, e anche contrariato non l’avesse ancora fatto, che potesse scendere dal piedistallo e corrergli incontro come all’uomo della sua vita, per quella notte s’intende, posò la bottiglia vuota su un tavolo lì vicino e s’incamminò verso la porta che stava a lato della postazione del dj che portava al privé, completamente separato e isolato dal resto del locale. L'addetto alla security che stava piantato lì davanti lo bloccò. Nuovo anche questo. «Perry mi sta aspettando» disse allungandosi verso di lui per farsi sentire nel trambusto della musica. L'addetto alla security si limitò a scrollare le spalle facendo no con la testa avendo l’espressione “dicono tutti così” stampata sulla faccia. Dopo un secondo un ragazzo lo urtò passando per entrare nel privé e girandosi per chiedere scusa si fermò. «Max, cazzo, è un’ora che ti aspetto».
10 «Ciao Perry» dandosi la mano agganciando i pollici. «Vieni» tirandolo, «è con me» al buttafuori che fece quasi lo scazzato al fatto di dover cedere il passo a uno che aveva bloccato un secondo prima. «Scusalo è nuovo. Anche tu però, ti ho sempre detto di farmi uno squillo» lo rimproverò. Max poteva entrare senza far colonna all’entrata, bere senza drink card, insomma era di casa in quel posto, ma non approfittava mai. Quasi. Di colpo la musica pompata svanì, lasciando il posto a un ritmo e a un volume più soft. Era più un lunge bar, abbastanza ampio con diversi salottini e divanetti dove si stava seduti a chiacchierare sorseggiando havanacola, martini o champagne. E anche qui ormai stavano più con l’iPhone che in compagnia. C’era una bella rappresentanza della Padova bene, la Padova figa, figli dei ricchi, eredi di avvocati, notai e commercialisti, che avevano smesso di andare al Pedro a fumare spinelli e fare cortei contro e prendere manganellate. Adesso portavano la giacca, erano contro a chi era contro, tiravano, e scrivevano Silvio sulla scheda al posto del rosso. «Allora come va?» chiese Perry raggiungendo un gruppo di ragazzi seduti a un tavolo. Perry era il socio titolare, anche se con una quota minima, del locale, ma soprattutto ne era il regista. Sapeva anticipare mode e tendenze e catalizzare la gente dove aveva interesse. E farla spendere. Era un bel tipo, alto e magro, abbronzato, con i capelli neri e corti e il viso spigoloso. Submariner al polso e sempre impeccabilmente vestito. «Bene, tutto sommato» rispose Max. «Tutto sommato perché?» domandò senza aver capito. «Ah così» facendo spallucce. «Sbirro!» sentì esclamare alle sue spalle, e girandosi, si vide venire incontro Filippo, l’altro socio, con tre calici in mano. Ne diede uno a Perry e uno a Max. Max lo guardò con quel senso di protezione con cui si guarda sempre il fratellino. Filippo invece aveva lo sguardo che hanno i marinai quando tornano a vedere la stella polare dopo notti di cieli tempestosi. Abbronzato anche lui, vestiva più casual di Perry, niente giacca sopra la camicia, filo di diamantini neri al collo e al polso al posto dell’orologio, viso rotondo il cui taglio di capelli, rasatura a zero causa precoce calvizie e barba lasciata crescere anche se curata, ne aumentava l’effetto. «Sembri ingrassato» commentò Max. Filippo rispose facendogli la lingua nella quale era incastonato un piercing diamantato. «Dove sei stato tutto ‘sto tempo amico mio?» gli domandò stringendogli la mano e poi facendo brindisi. «Alla deriva» rispose Max sorridendo.
11 Filippo sorrise scuotendo la testa, poi alzando lo sguardo vide un ragazzo vicino alla porta in fondo, quella con la targhetta con la scritta privato che era l’entrata per la zona dove si trovavano l’ufficio, il camerino per le cubiste e il magazzino. Accanto un altro addetto alla security. Indicò Perry con un cenno del capo, poi si rivolse a Max: «Ci fai compagnia sbirro?» col sorriso malizioso. Max lo guardò, poi notò Perry che s’incamminava vero l’ufficio e vicino alla porta il tipo che conosceva bene: «Come non potrei?» rispose, come fosse un affronto immenso rifiutare l’invito. Dopo aver superato l’atrio con il guardaroba, entrarono in un’altra stanza, abbastanza ampia, scrivania con computer, scaffale con registri ovunque e monitor che riprendevano il locale da una parte, salottino in pelle con tavolino di vetro e minibar dall’altra. Max si lasciò sedere su una poltrona accendendosi una sigaretta, mentre Alex, il quarto che era giunto, lasciò cadere due sassi dentro al cellophane sul vassoio d’acciaio che stava sul tavolino. Perry cominciò a scartare e schiacciare i sassi con una tessera di ricarica telefonica mentre Filippo si avvicinò al minibar. «Champagne!» ordinò sorridendo Alex. «Come devo dirti che quella cosa che si beve ghiacciata non la trovi da me. Vai al bar in sala se lo vuoi. Qua solo Franciacorta» ribatté sorridendo Max, tentando di fare la voce di Filippo. «Cojoni» commentò lui girandosi verso di loro sorridendo con una bottiglia. La stappò e versò il vino nei bicchieri. Poi guardò uno dei monitor e andò ad aprire la porta chiusa a chiave. «Ciao» disse la carrozzeria Pininfarina che prima stava sul cubo entrando. Si era infilata una vestaglia. Andò al minibar a prendersi un bicchiere e poi raggiunse Filippo sul divano. Perry intanto aveva finito di fare le strisce, si rilassò sullo schienale soddisfatto della sua opera, poi prese dieci euro e cominciò ad arrotolarli. «Max non lo conosci» disse Filippo presentandolo. «Edy» allungando la mano sorridendo. «Max» rispose l’altro per un momento inebetito dal sorriso semplice e spontaneo della tipa, che era veramente bella. «Ti devo aver notato in sala prima mentre stavo sul cubo» disse lei riconoscendolo. «Ah sì?» commentò Filippo incuriosito, ma con il tono privo di gelosia nella voce. «Era l’unico che mi guardava gli occhi e non le tette!». Max sorrise imbarazzato: «Quelle le avevo guardate prima».
12 «Il solito romantico» ribatté Filippo. «Stalle lontano» lo minacciò sorridendo. Max sollevò le mani in segno di resa, poi i tre furono interrotti dal rumore che emise la narice destra di Perry inalando una riga di coca. Alzò il capo all’indietro facendo un’altra mezza inspirazione e tornò giù pulendosi. «Ottima» commentò alzandosi per riempirsi di nuovo il bicchiere. A turno ognuno fece fuori la propria striscia. Max lasciò qualcosa, prese una sigaretta, la leccò e l’appoggiò sopra a quello che aveva lasciato. Poi accese. «Ehi Max, non è che ti hanno sbattuto fuori per ’sto vizietto» disse Alex sorridendo e accendendosi anche lui una sigaretta. Era da un po’ che gliela risparmiava. Sorrise, senza rispondere mentre anche Perry e Filippo risero. «Fuori da dove?» domandò Edy con espressione confusa. «Devi sapere cara» iniziò Perry alzandosi per prendere un’altra bottiglia, «il nostro qui presente Signor Garbo, fino a qualche mese fa era un rappresentante delle forze dell’ordine, serviva il bene e ci proteggeva dal male». Tutti risero, mentre Edy lo guardò curiosa piegando la testa. «Mi sono licenziato io, e comunque ero bravo» si difese alzandosi per sgranchirsi. «Sì, a sequestrarla senza verbale» finì Filippo, fecendo ridere di nuovo tutti. «Be’, io torno in sala» disse Edy prendendo la sigaretta dalle mani di Max e facendo un tiro. «È meglio se torniamo anche noi» aggiunse Filippo. «Ok, ultimo giro e andiamo» commentò Perry rimettendosi al lavoro. «E se finiamo la serata al tuo nuovo locale?» propose Alex a Filippo. Max si voltò verso Filippo cercando velocemente di eliminare un’espressione di meravigliata ignoranza mentre Filippo fu colto di sorpresa. Un velo di terrore gli passò nello sguardo, che Max registrò quasi senza accorgersene, poi riprese la sua espressione sorridente. «Sono entrato in società in un night. Un’occasione» aggiunse per giustificarsi di non avergliene parlato prima. «Potrai organizzare serate per soli uomini adesso» ribatté Max, nascondendo un certo disappunto con una frecciata che solo Filippo colse. «È sempre per soli uomini» disse Alex col tono di chi spiega le cose semplici a chi è duro a capirle. «Comunque ho già lasciato detto, per te è sempre tutto gratis» aggiunse cercando con lo sguardo una specie di perdono. Max continuò a fissarlo qualche istante serio, poi gli sorrise. Filippo sembrò tornare a respirare.
13 «Dai tosi» Perry richiamandoli alle priorità della vita. Quattro paia di righe erano parallele e di pari lunghezza sul vassoio. Ognuno riprese il proprio cerimoniale, poi altro bicchiere e altra sigaretta, infine tornarono in privé dal gruppo di prima, e da lì alla sala principale, dove avevano fatto preparare un tavolo. Ogni tanto Edy, e l’altra ballerina, Cinzia, li raggiungevano per bere qualcosa tra una sculettata e l’altra sul cubo, mentre Perry e Filippo andavano avanti e indietro per il locale a controllare che tutto andasse bene. Alla chiusura, mentre il personale cominciava a fare pulizia, i quattro tornarono nell’ufficio, assieme a Edy e Cinzia, a finire quello che era rimasto più eventuale presente da portare a casa come souvenir.
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Si svegliò con un’emicrania da guinness, il sole s’incuneava a linee trasversali dalla persiana semi abbassata puntandolo sugli occhi mentre cercava di scollare le palpebre. Cercò la posizione dove la testa rimbombasse meno, ma girandosi urtò qualcosa di duro. Aprì gli occhi quasi scattando all’indietro quando vide una cascata di capelli biondi sparpagliati tra il piumino e il cuscino. Sorrise tornando a sdraiarsi, ricordandosi che aveva smaltito la bamba con quella bionda sopra di lui. A tratti. A tratti sotto. Cinzia, l’altra ballerina, si era unita a loro a fine serata per gli ultimi tiri e la colazione e infine gli aveva chiesto se poteva accompagnarla a casa. A casa mia aveva ribattuto lui col suo sorriso da stronzo. Lei lo aveva guardato con l’espressione che si usa per guardare chi capisce la cosa più semplice del mondo. Si alzò lentamente, non tanto per non svegliarla che proprio così cavaliere non era, ma per non scuotersi troppo la testa, raggiunse il bagno, pisciata e un moment, che si sa, a stomaco vuoto fa effetto immediato. Per un attimo ebbe la tentazione di frantumarla e prenderla per il naso. Poi doccia e in cucina a prepararsi un caffè. Tirò fuori anche il vasetto della nutella, che mangiò direttamente col cucchiaino finché il caffè non fu pronto. «Ciao» disse una voce alle sue spalle. «Ciao» rispose girandosi. Cinzia era avvolta nel piumino del letto. Si chinò a dargli un bacio accompagnato da un buongiorno e un bel sorriso, senza troppe smancerie. «Cavolo!» esclamò prendendo il cucchiaino e affondandolo nel vasetto della nutella mentre Max le versava il caffè, che alla fine un po’ cavaliere lo era. Cinzia sembrò andare in estasi poi mentre le si scioglieva in bocca. Max la guardò mentre sorseggiava il caffè e sorrise. «Cosa c’è?» chiese sorridendo imbarazzata. «Niente». Stava pensando ai classici discorsi delle donne “è perché sono sopra un cubo tutte tirate che vi allupate, ma dovreste vederle senza trucco” oppure “sono foto ritoccate al computer, anch’io posso diventar così” e via dicendo, fino a quando a una troppo arrogante da declassare perfino la Bellucci, rispose “sì, ma con l’oro si fanno i gioielli, con l’ottone le maniglie delle porte” andandosene senza neppure chiedersi se l’aveva capita.
15 Anche senza trucco, con le borse agli occhi per la notte brava appena trascorsa, e senza mostrare tette e culo, quella che aveva di fronte era una gran bella ragazza. Cinzia appoggiò la tazzina. «Posso fare una doccia?» chiese. «Certo, il bagno sai dov’è» rispose finendo anche il suo di caffè. La guardò andar via, mise le tazzine sul lavabo, poi si lasciò cadere sul divano con gli occhi socchiusi. Ebbe subito una gran voglia di fumare, ma in casa non si fuma, questa è la prima regola e quindi avrebbe aspettato di accompagnarla a casa. Dopo qualche minuto un’ombra glieli fece riaprire. Cinzia stava in piedi accanto a lui con un asciugamano annodato in testa a raccoglierle i capelli bagnati, coperta da un altro asciugamano che le arrivava giusto a coprirle dal seno al sedere. «Hai programmi per oggi?» chiese. «Nessuno» Max senza capire. «Allora abbiamo abbastanza tempo» ribatté lei lasciando cadere l’asciugamano. Un momento assorto in silenziosa adorazione. “Sì”, pensò, “abbiamo abbastanza tempo”, sorridendo mentre lei si chinava a baciarlo.
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Iniziare una settimana di lavoro è sempre stressante. Nonostante non sia lunedì, nonostante non sia proprio un lavoro. Aveva già passeggiato lungo riviera Tito Livio, davanti all’omonimo liceo la mattina presto, all’orario d'entrata dei ragazzi e poi si era messo a bere un caffè, con molta calma, in un bar sul lato di fronte, in modo da avere l’entrata in vista. Sfogliava distratto il giornale, quando l’arrivo del suv nero, un Range Rover sfornato da poco che si parcheggiò davanti all’entrata, attirò la sua attenzione. Controllò la targa. Corrispondeva. Dopo qualche secondo scese dal lato passeggeri una ragazza, una moretta magrolina di quindici anni, in leggins e giacca in felpa, si accomodò lo zaino in spalla e si fermò sul marciapiede, salutando con la manina la macchina che partiva, guidata, da quello che ne sapeva, dalla madre. Tirò fuori dalla tasca dei jeans il suo Stonex nuovo, guardò la foto che gli era stata inviata la sera precedente, dopo la telefonata del padre, e constatò che era lei. Aveva un viso tondeggiante e carino, la pelle bianco pallida e le labbra carnose e rosse su cui i capelli neri corvini facevano contrasto. Tornò a guardarla dal vivo, appena in tempo per vedere il suo sorriso mieloso che salutava la mammina trasformarsi in un broncio senza espressione mentre cominciava a giocare col telefono. Appoggiò lo zaino a terra e ne cavò fuori dalla tasca superiore un pacchetto di sigarette, ne prese una e l’accese. Dopo due secondi un’altra ragazza la raggiunse. Era più o meno vestita uguale, sigaretta in bocca e telefono in mano, leggermente più in carne e castana di capelli. Restarono a guardare ognuna il proprio telefono finché finirono la sigaretta, la schiacciarono sotto i piedi, alzarono gli occhi dallo schermo il tempo di guardare a destra e sinistra il traffico e al piccolo trotto raggiunsero il marciapiede di fronte. Le fotografò col telefono mentre attraversavano. Doveva essere suonata la campanella perché la maggior parte dei ragazzi che erano rimasti affollati fuori cominciarono a entrare, mentre qualcuno iniziava ad allontanarsi a destra e sinistra a seconda delle destinazioni. Le nostre s’incamminarono verso le piazze salendo l’ultimo pezzo, o il primo forse, di via S. Francesco, quindi passarono di fronte alla vetrina del bar. Max le guardò da vicino. Altra sigaretta in bocca mentre ondeggiavano sul marciapiede con gli occhi sul telefono.
17 Probabilmente la nostra futura generazione sarà geneticamente strabica con una divergenza di 45 gradi tra un occhio e l’altro, per poter guardare la strada e lo schermo dello smartphone contemporaneamente. Con calma chiuse il giornale e lo ripose, lasciò un euro e dieci cent, e i dieci stavano in culo, accanto alla cassa e salutò uscendo. Si accese la sigaretta mentre guardò in alto il sole di primavera uscire tra i tetti delle case. “Ci aspetta di passeggiare oggi” pensò avviandosi dietro di loro, anche lui telefono in mano in modalità foto, facendo finta di guardarlo, di scrivere messaggi cercando di non perdere le ragazze, anche se questo era infrangere la prima regola: mai camminare guardando il cellulare, ti assorbe, si perde di vista il perimetro, non si riesce a tener d’occhio la situazione, ti rende attaccabile. Svoltarono a destra sul listòn direzione piazza Garibaldi. Cominciò a studiare una distanza di sicurezza e uno zoom adatto. Quindi ogni tanto alzava il telefono per far loro delle foto e per non dar nell’occhio parlava a voce alta come fosse in viva voce. A quell’ora cominciava la prima piena della giornata della città. Auto, tram, bus, bici e pedoni che invadevano il centro per andare a scuola, lavoro, giri in giro. Max camminava cercando di non perdere l’obiettivo, anche se era continuamente distratto dalla gente che incrociava, che superava o da cui veniva superato: ragazze troppo belle o troppo brutte e, soprattutto, già troppe con l’aggiunta di un minimo trenta percento di poliestere, gente vestita strana, gente con sguardi strani, e aveva sempre l’istinto di accertarsi di non essere seguito a sua volta. Era un istinto che aveva acquisito sin dai giorni della mobile di Milano, e via via sviluppato nel tempo e che più di qualche volta gli aveva salvato la pelle. E guardandosi attorno si accorse che la guerra era persa: vestiamo i maschi da cula e le femmine da puttane, dove vogliamo andare? Le ragazze s’incontrarono con altri due coetanei in piazza Garibaldi, baci di saluto. Restarono a chiacchierare per cinque minuti, entrarono in un bar a far colazione. Max li guardava di riflesso sulla vetrina di un negozio. «Hai moneta?» chiese un tipo con l’accento dell’est trasandato andandogli vicino. «No» rispose secco e senza nemmeno voltarsi. Quello se ne andò imprecando, Max lo tenne d’occhio finché fu fuori tiro, poi tornò ai ragazzi che stavano uscendo dal bar. Si avviarono lungo corso del popolo verso la stazione. Quasi certamente stavano andando a parcheggiarsi ai giardini Arena per fumarsi qualche spinello e sbaciucchiarsi. Sorrise rimettendosi a seguirli e pensando a quante giornate aveva bruciato da scuola per passarle ai giar-
18 dini, o al Prato, a prendere il sole e fumare erba. Quasi si pentì di aver accettato quel lavoro. Immortalare una ragazzetta che si faceva due canne marinando la scuola non era proprio il massimo, ma il padre, amico di un amico, aveva chiamato ieri, due volte, insistito, e soprattutto offerto cinquecento euro. C’era crisi. Da quello che aveva capito i genitori della ragazza erano separati, c’era in ballo l’affido e barra o soprattutto il mantenimento. Soldi insomma. Tra qualche anno cominceremo a pagare il conto di queste famiglie divise, allargate, senza controllo sui figli lasciati allo sbando, anzi forse viziati per farsi preferire all’altro. Perché ormai il modo di una coppia di superare la prima difficoltà è la separazione. Come previsto entrarono ai giardini dell’Arena. Non fecero in tempo a entrare che li fermò un nero, scambiarono saluti e baci, e poi soldi e cartocci in mano. Max li immortalò, poi mentre il quartetto cercava un posto per fumarsi quella roba si comprò un giornale all’edicola vicina, entrò anche lui, riuscì a trovarli subito, seduti sotto all’ombra di una pianta mentre il sole cambiava marcia e cominciava a scaldare. Max trovò una panchina lungo il canale da cui aveva un’ottima visuale e si mise a sfogliare il giornale. Girava una pagina, scattava una foto, ne sfogliava un’altra, ne scattava due. Solita questione sulla legge finanziaria mentre arrotolavano il filtro, altra tassa mentre leccavano la cartina, altra baruffa sui giudici mentre accendevano la canna. Si fumò una sigaretta, quasi con la voglia di andar da loro a chiedere un tiro, poi decise che aveva abbastanza e che poteva considerare il lavoro come svolto. Si stava alzando quando vide il nero di prima tornare e raggiungerli. Si sedette con loro, si mise al lavoro, questa volta li fece tirare, tutti contenti, tutti felici, gesso e aspirina tenuta nascosta nei coglioni a pulizia mensile o dentro i calzini, poi altra canna e birra. Ne arrivò un altro ad aggiungersi alla compagnia. Max fotografò e disgustato quasi, mentre vedeva che ridendo e scherzando uno tirava la scollatura all’altra, l’altro toccava il culo, pensava ai due ragazzini che non si accorgevano che quei due gliele stavano fregando e che sarebbe toccato alle ragazze pagarla la roba, in qualche modo. È così. Ci stiamo rincoglionendo e stiamo consegnando le nostre città, le nostre piazze e le nostre donne a questa gente, senza accorgersene. Ci spacciano sotto casa, invadono il centro mentre il sindaco fa chiudere i locali sempre prima perché disturbano la quiete, e lasciamo spazio, ci stuprano le figlie e dopo qualche giorno li lasciamo uscire dalle gabbie. Vengono a rubare in
19 casa finché stiamo dormendo e il problema sociale è il sovraffollamento delle carceri. Stiamo diventano pigri e molli e sazi, mentre gli altri sono affamati. E siamo colmi di quella morale cattolica comunista per cui bisogna aiutare, dare, donare, porgere l’altra guancia finché non è la tua. Perché finché non vengono nel mio cortile il problema non esiste. E ci perdiamo da vent’anni tra Silvio e contro Silvio e stiamo affondando nella merda che noi stessi ci spargiamo attorno. Restiamo in casa a trombarci su Facebook e rincoglionirci su Skypremiun asserragliati come nobili in guerra nel castello, balconi sprangati e porte a doppia mandata. Uno dei neri si alzò e fece alzare l’amica della nostra vittima. Si appartarono. Per un attimo pensò al bocchino che gli avrebbe fatto. “Vorrei vomitare” pensò. Tornarono al gruppo dopo un paio di minuti. Il nero col sorriso, la ragazza che sembrava non capire. Le fecero fumare un’altra canna. Poi i neri si alzarono e si avviarono verso l’uscita di via Porciglia, all’altro lato. Max si alzò per seguirli, vide uno allontanarsi più velocemente, probabilmente andava a prendere altra roba, mentre il primo, quello che la vendeva, camminava lento e tranquillo ed era vicino ai cancelli dell’uscita. «Ehi!» lo chiamò Max. Quello si voltò. Lo guardò un istante mentre si avvicinava, si guardò intorno con la molla delle gambe carica a partire, quando forse l’essersi reso conto che il tipo era da solo, lo convinse a prenderlo come un potenziale cliente piuttosto che una probabile guardia. «Ciao amico!» disse allungando la mano e sorridendo quando Max gli fu vicino. Max gli prese la mano accennando un sorriso di rimando, poi cambiò improvvisamente espressione, gliela strinse forte torcendola dietro la schiena e lo schiacciò sulle inferriate della ringhiera dell’uscita. «Non sono tuo amico, né tanto meno tuo fratello» ribatté parlandogli vicino all’orecchio mentre gli spingeva anche il ginocchio su una gamba in modo da farlo stare in precario equilibrio ed evitare si voltasse. «Siamo stanchi di vederti in giro e la prossima volta che ti becchiamo da queste parti a spacciare ti spacchiamo la testa, hai capito?!» schiacciandolo ancor di più sull’inferriata e usando il plurale per fare più effetto. «Sì, sì, amico» rispose terrorizzato. «E adesso sparisci» concluse Max tirandolo indietro e spingendolo poi mollando la presa verso l’uscita. Il ragazzo riuscì a non cadere sbilanciandosi in avanti e mettendosi a correre.
20 Sapeva che non sarebbe servito a molto. Tra mezz’ora sarebbe tornato lì. Forse lo avrebbe tenuto d’occhio e visto che non era uno sbirro ma solo un mona, raccolto qualche amico e pestato a sangue. Ma bisognava pure che qualcuno facesse qualcosa. Tornò indietro mentre, tramite mail, mandò le foto che servivano al padre della ragazza. Si sentiva un po’ merda e cominciava a pensare che non era cosa buona e giusta fare certi lavoro per tipi che neppure conosceva. Be’, si era accertato fosse il padre, quello sì, non era mica un coglione di tal specie, ma decise che doveva conoscere le persone per cui avrebbe lavorato d’ora in poi. E rifiutato anche alcuni lavori, perché alle volte forse, era meglio la fame. Avrebbe voluto fermare le ragazze e dir loro che la droga bisogna sempre e solo pagarla con i soldi, perché quando si comincia a pagarla succhiando il cazzo, chi ha il cazzo capisce che per pagarla puoi fare molto di più. Ma i ragazzi erano già spariti. E in fondo chi se ne frega. Si diresse verso il centro. Non c’era nessun senso di colpa che un giro di spritz con gli amici dei bar del salone e delle piazze non avrebbe sgrassato via dalla coscienza.
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Sballinato come al solito di una mattina qualunque, seduto al tavolino del suo bar di mezza giornata a sorseggiare uno spritz al campari, per riprendere il filo di un discorso sospeso all’alba. Sigaretta tra le labbra. E occhiali a nascondere le borse. Finì l’aperitivo e spense la sigaretta, si alzò salutando con un gesto il barista, e con fare calmo e disinvolto si avviò verso casa. Altra sigaretta. Non aveva fretta. Non serviva averla. Nessuno che ci aspettasse… “Ahi ahi” si disse guardandosi di sfuggita nel riflesso di una vetrina mentre dinoccolava tra una colonna antica e l’altra sotto i portici, tra mura che trasudano arte e che reclamano rispetto per la loro storia. Questa è la classica giornata da coglione in riflessione, sorridendosi ironico. Sì, sai quella mattina che ti svegli e decidi a un tratto di fare il punto sulla situazione. E lo fai perché sei svalvolato, perché se non lo fossi ti butteresti in canale alla fine, invece di buttarti sul letto a dormire. Già, ogni tanto gli capitava la giornata da coglione in riflessione, quelle del giorno dopo poi erano speciali. Speciali perché venivano fuori da serate di alcool droga e festa e tornavano, come per una strana legge del contrappasso, ad annegare nelle stesse sostanze, riempiendosi però di tristezza e cercando di farla durare il più possibile. D’altronde aveva sempre avuto un debole per la malinconia. Come un confuso poeta decadente impegolato nei suoi sogni. Senza aver purtroppo nulla del poeta e molto ormai del decadente. Questa primavera avrebbe compiuto la bellezza di trentatré anni e se da una parte gli ricordava l’età della morte di qualcuno molto famoso, dall’altra gli faceva pensare che aveva già superato abbondantemente la metà degli anni interessanti della vita. Già da un po’ aveva intuito il declino fisico, che stupidamente calcolava nell’aumento della fatica a recuperare da certe serate invece che considerarle la causa. Anche fisicamente stava cambiando, le linee si arrotondavano. Dopo tutto era molto che non faceva sport e già essere sani, come almeno pensava barra sperava ancora di esserlo era una fortuna. Il giro vita aumentava, le camicie, fatte su misura in figura cominciavano a tirare, le palpebre ad appoggiarsi alle ciglia,
22 qualche solco nasceva ai lati degli occhi, era più rado di capelli in testa e l’attaccatura si alzava ai lati mentre in altri posti del corpo i peli aumentavano. Capelli bianchi, spessi e infeltriti come setole di spazzole apparivano qua e là tra il biondo ormai scurito. E gli sembrava, soprattutto di notte e mentre guidava, di vederci meno. A spanna calcolava che fino ai quaranta avrebbe tenuto botta, poi sarebbe declinato completamente in un calvo e tozzo uomo di mezza età. Il problema è che non aveva un conto in banca a bilanciare. Anzi, il problema era anche il conto in banca. Che ormai, da mesi senza un lavoro e un’entrata fissa e col tenore di spesa che aveva, si stava, non essendo oltretutto mai stato consistente, prosciugando. Pensò al suo ex lavoro e a quanto, anche se alle volte non voleva ammetterlo neppure a se stesso, gli mancava. Certo, era entrato in polizia quasi per sbaglio e per non fare il classico militare. Prima che un suo amico gli passasse l’idea probabilmente era la cosa più lontana dal suo stile di vita, già portato a esagerare dall’età adolescenziale. Va bè, facciamoci l’anno di militare, va bè, facciamoci un altro anno che è pagato bene, va bè, restiamoci finché non ci viene un’idea migliore. E lentamente, non che fosse vocazione, la vita del poliziotto gli si era insinuata dentro, tanto da spingere per la mobile, tanto da fare il corso ispettore. E non c’era nulla da dire: era bravo! Oltretutto la vita da sbirro aveva anche limitato il suo eccedere. E questo, come la chiesa per il mondo, che se per secoli ne aveva frenato il progredire probabilmente ne aveva allontanato l’autodistruzione, aveva forse aiutato ad allungarne la vita. Le droghe erano sparite subito, anzi mesi prima di entrare per riuscire a passare le visite, il bere a seconda dei servizi e degli orari e delle leggi che diventavano, per colpa di quei deficienti che correvano ubriachi al volante, sempre più rigide, sia per i cittadini, sia per chi stava in servizio. Anche se certi vizi non passano, certe persone si riconoscono a pelle. E si era formato un gruppo ristretto di amici barra colleghi con cui, orari di lavoro permettendo, si tornava a caricare. Ma da quando si era licenziato aveva tolto il freno e si era lasciato andare in discesa. Licenziarsi era stato duro ma inevitabile, troppe cose erano confluite assieme tra un pestar di piedi e scoprire altarini su cose e persone, e ombre del suo operato e della sua vita che si erano accumulate nel tempo. I cavalieri devono essere retti e senza macchie. Lui preferiva scivolare sulla scelta di vita a chi glielo chiedeva restando sul vago. I pochi che sapevano erano tenuti al silenzio anche per il bene loro.
23 C’era chi ipotizzava che avesse beccato qualcuno di grosso; chi invece che lo avessero beccato ad andar di brutto con la coca; che fosse diventato amico di un boss; che avesse traffici. Tutto e niente era vero. Che il suo dirigente della questura fosse stato contestualmente trasferito ad altra sede ne alimentava e confondeva le voci. Oltre alla perdita del lavoro le dimissioni avevano portato alla perdita di amicizie. Un po’ per la lontananza, alcuni per i sospetti, alcuni per altre storie. D’altronde non ne aveva mai avuti troppi di amici anche se conosceva tanta gente. E il difetto principale era che non le curava come facevano altri: non era su Facebook né Whatsapp, non chiamava regolarmente per raccontarsi il niente. Non fotografava il piatto che mangiava per postarlo sui social o altro. Era contro quel genere di rincoglionimento. Ne aveva già troppi altri. A Padova era difficile poi riallacciare amicizie forti con i vecchi dell’adolescenza, troppi anni troppe cose avevano portato ognuno alla propria vita. E quelli della sua età ormai avevano cominciato a procreare e quindi a sposarsi barra convivere, e il tutto portava a un altro tipo di vita ancora. E avrebbe dovuto aspettare il giro dei divorzi e delle separazioni per rivederli. Gli era rimasto Filippo, fratello fin dalle elementari. Il resto erano amicizie che andavano e venivano a seconda delle maree. Come del resto le donne. Non aveva una relazione stabile, non l’aveva mai avuta. Roba da una due serate, ragazze di altri che si prendevano regolarmente la pausa, conquiste che lo appassionavano finché non cedevano. S’innamorava sempre, o gli sembrava, o se lo diceva per perdonarsi, perché entrava a piè pari nelle vite degli altri come uno stopper d’altri tempi nelle caviglie degli attaccanti. Vi entrava col suo fascino e il suo modo stronzo di fare, magari portando scompiglio in amori che correvano lungo binari regolari. Era qualcosa di diverso. Li faceva sbandare, li portava fuori strada, per poi lasciarli impantanati in mezzo ai campi. Solo una volta era stata una storia a entrare a piè pari su di lui e travolgerlo. Era durata diversi mesi, poi, inconsciamente anche, aveva fatto di tutto per farsi lasciare. Forse paura, il non sentirsi pronto. Ancora ci pensava, ancora ne soffriva. Soprattutto in giornate come quelle. Rientrò in casa. Si versò da bere.
24 In giornate come quelle dove si sentiva sbagliato, dove tutto era sbagliato. In cui realizzava che aveva sbagliato tutto nella vita. UscÏ in terrazza a fumarsi l’ennesima. Forse era proprio lui lo sbaglio.
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Aveva già spento un paio di sigarette sotto le scarpe, appoggiato col culo sul muro di fronte all’entrata del locale dove quei due erano entrati un quarto d’ora fa. Sapeva che non ci sarebbero rimasti molto, erano già il terzo che si facevano, entravano, bevevano, rompevano il cazzo e li mandavano fuori. Questa volta uscirono ridendo e scherzando senza nessuno li spingesse, caracollando e tendendosi in piedi tra loro per non cadere. Li vide salire gli ultimi scalini di quello che un tempo era stata la Cantina del Gufo, negli ultimi anni di una Padova spensierata e divertente e non tetra e pesante com'era diventata adesso. Restò lì com’era, senza muoversi, seguendoli con la coda dell’occhio. I due vennero dalla sua parte, si fermarono davanti al muro a pochi metri, si slacciarono i pantaloni, un po’ per dare aria al cervello, un po’ per pisciare. Trattenne il fiato mentre il cuore cominciava a pompare forte, anche se la mano tremava meno e la mente era più lucida, fredda. Sentiva i nervi tirare sotto la pelle, quasi come crampi. La saliva gli tornava alla bocca come prima del vomito. Strinse i denti come il cavallo il morso al galoppo. Aspettò che finissero. Per strada nessuno, qualche rumore di macchine dal vicino corso Milano barra via Verdi, nulla di più. Mancava poco a mezzanotte. Borbottarono qualcosa in una lingua che non conosceva. Si staccò dal muro e si mise diritto, quasi inarcando leggermente la schiena all’indietro prendendo un lungo respiro. Si diressero verso via Verdi per via Belle Parti, poi si fermarono e si voltarono indietro come avessero dimenticato qualcosa e se lo trovarono di fronte, fermo in mezzo alla strada. «Cazzo vuoi?!» gli disse minaccioso uno dei due fissandolo. Aveva fatto un passo per seguirli ma la loro retromarcia lo aveva sorpreso. Un segno. “Qui e ora” si disse. «Cazzo guardi!» aggiunse l’altro alzando la voce e bestemmiando. Poi si bloccarono tutti e due e ammutolirono quando videro bene, sotto la luce gialla del lampione, la canna della pistola che li puntava.
26 «Chi sei? Cosa vuoi?» chiesero più mansueti, balbettando e indietreggiando di un passo. Ma lui non parlava. Sorrise. Quasi sollevato. La prima volta era stata difficile. Guardare un uomo in ginocchio che piange e chiede perdono e dice che si pente e si dispera e ti chiede perdono perdono, era stato difficile. Aveva esitato. E quell’uomo aveva visto quell’attimo di esitazione e non era riuscito a sopprimere un ghigno di soddisfazione che gli era costato caro. Probabilmente era lo stesso ghigno che aveva avuto davanti a lei, mentre era lei che chiedeva pietà e misericordia. E un attimo prima che si rimettesse in piedi aveva schiacciato l’esitazione assieme al grilletto. E il ghigno era sparito proprio un istante prima, giusto un momento dopo essersi accorto di essersi tradito. E gli era rimasto un buco informe in fronte e brandelli di ossa pelle e cervello erano saltati dappertutto. Invece adesso sentiva che non avrebbe esitato. I nervi tirarono più forte, i denti si schiacciavano tra loro quasi a far male. Strinsero. «Cosa vuo…» il primo sparo bloccò la frase e rimbombò come il colpo del suo cuore al massimo dell’agitazione, il secondo seguì subito a impedire che l’altro scappasse via. Uno tra le spalle e il collo, poi nella schiena mentre si girava per scappare. Gli spari echeggiarono nel vicolo come bombe, un paio di allarmi di case cominciarono a suonare impazziti. Lì guardò un secondo per rendersi conto che non era stato il suo visualizzare la scena ciò che aveva davanti, ma la scena stessa che aveva visualizzato divenuta realtà. Le labbra si allargarono nel sorriso soddisfatto dell’artista che sa di aver imprigionato l’arte. Incantato dal proprio capolavoro. Sentì qualche voce e rumore di balconi che si aprivano. Si scosse. Cominciò a correre lungo Santa Lucia, veloce come un razzo finché non arrivò in riviera Ponti Romani passando sotto arco Altinate, a destra per la fermata del tram che doveva portarlo in stazione. Vide arrivare quello per la Guizza. In certi momenti non si può fare il difficile. Salì. Il cuore galoppava selvaggio e incontrollabile. In piedi, aggrappato a uno dei pali di sostegno, guardava fuori dalle vetrate la città, inebetito. Sentì il suono delle volanti e poi le vide sfrecciare di fianco al tram. Case e portici e lampioni e macchine passavano davanti ai suoi occhi come un unico immenso infinito quadro.
27 Scese al Prato vedendo arrivare l’ultima corsa che andava dalla parte opposta. Salì e questa volta si mise seduto con la fronte appoggiato alla vetrata, la testa leggermente piegata. Scese alla stazione dei treni e osservando cauto la marmaglia che la circondava si portò al Belvedere, digitò il codice alla porta d’ingresso che dopo un beep si aprì. Si portò alle cassette della posta, e tra quel muro di serrature ne aprì un’anonima, vi infilò la pistola e richiuse, poi si avviò alla porta che dava in via Tommaseo. Uscì calmo, si accese una sigaretta nella notte stellata e s'incamminò lento verso casa.
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La confusione nella stanza era totale e capillare. La tensione nell’aria quasi solida. Ormai il caso si era fatto notevole e la situazione sul punto di sfuggire di mano. Quando Pierobon entrò, restò quasi contrariato dal fatto che gli altri non si bloccassero in un rispettoso silenzio pendendo dalle sue labbra, ma che continuassero a parlare tra loro, telefonare e girare carte. D’altronde era lui quello appena uscito dall’ufficio del questore col culo gonfio e livido. Era lui quello su cui quel pezzo di merda di Esposito, il suo capo, aveva appena scaricato, se non proprio la responsabilità, comunque la gestione di come l’indagine sembrava un’auto che viaggiava perennemente dentro una rotonda. D’altronde era lui che rischiava di non superare per parecchi anni il grado di vicequestore aggiunto. La sensazione però durò pochi secondi. Subito si fece strada la consapevolezza che comunque stavano lavorando per cercare di raggiungere l’obiettivo comune. Batté un paio di volte le mani per attirare l’attenzione. Subito la sua squadra si zittì, in attesa del resoconto del briefing sotto forma di barbecue al quale il loro capo era stato invitato come portata principale. «Sei ancora vivo» disse quasi sorpreso il suo secondo, l’ispettore Calore. «Per un pelo» rispose accomodandosi. «Più tardi passa Esposito a pontificare. Intanto vi riassumo il concetto del capo supremo in poche parole, risparmiandovi le frustate che ho preso: “Dobbiamo fare dei significativi passi in avanti nell’indagine”». E poi si lasciò sprofondare nella sua poltrona. Intanto quasi in sincrono tutti si erano avvicinati, accomodandosi alla meglio immaginandosi di dover fare il punto della situazione e recepire le nuove direttive. «Pensavo ti dicessero di lasciarlo fare un altro po’» disse uno dei presenti. D’altronde, nel pensiero generale, degli operatori di polizia, ma anche tra la gente comune, questo omicida non era troppo biasimato, anzi, più di qualcuno sperava non lo trovassero e che continuasse quello che stava facendo. Diciamo che galleggiava nell’aria una certa tolleranza verso questi crimini. Pierobon sorrise amaro, il suo ruolo non gli permetteva di sbilanciarsi pubblicamente. «Ricapitolando» buttò lì. Pausa.
29 «Se da un lato abbiamo che questo fantomatico giustiziere, sempre se sia una mano unica a commettere gli omicidi, è ormai alla sua terza esecuzione con quattro vittime, dall’altra abbiamo che questa confidenza col delitto e sicurezza di sé che sta prendendo, notate che dal delitto unico in periferia siamo già passati al duplice in centro in ore serali, lo porti a commettere un errore. Speriamo solo che nel mentre non saltino fuori troppi cadaveri» chiosò. «Allora, aggiornatemi» disse poi guardandoli a uno a uno. «Dalle telecamere del comune che i vigili ci hanno passato non si riesce a ricavare più di tanto. Non sono puntate sulla scena, si vede a tratti la sagoma di una persona che corre e che presumibilmente è l’assassino. Ma la definizione è molto bassa. Ho richiesto la registrazione anche delle ore precedenti per vedere se si è appostato prima» rispose uno della squadra. «Ecco, questo è uno degli sbagli che sta commettendo per eccesso di sicurezza. Colpire in centro lo porta a essere più esposto. Controlla anche le varie telecamere degli edifici privati sulle possibili vie di fuga, magari abbiamo qualche ripresa frontale» Si guardò attorno. «Abbiamo raccolto tutti i mozziconi di sigaretta nell’ultima scena del crimine, sono centinaia e ci vorrà un po’ per catalogare tutti i dna e poi compararli con quelli già analizzati delle scene precedenti». Assentì con la testa «Stiamo controllando le vittime» aggiunse l’ultimo del gruppo, «per vedere se hanno qualcosa in comune. Al momento sappiamo solo che sono tutti stranieri, condannati per reati contro la persona e rilasciati per difetti procedurali o per sconti di pena». Calò qualche attimo di silenzio, poi Pierobon riprese: «Già, principalmente dobbiamo capire anche il vero movente che lo spinge, tenendo conto sempre che non abbiamo la certezza sia la stessa persona, se è proprio un giustiziere, se è pagato, e qui bisognerebbe controllare tutti i movimenti bancari delle ultime settimane dei familiari dei “vendicati”, se colpisce stranieri perché è razzista o per la legge dei grandi numeri» lasciò cadere. «La pistola?» chiese poi. «Sempre la stessa sembra, una Berretta 92 a canna corta. Maneggevole e facile da nascondere. La conferma della balistica domani mattina». «Va bene ragazzi, so che vi state impegnando» disse rialzandosi dalla poltrona e portandosi verso il cortiletto fumatori. «Continuiamo così. Da lunedì si aggregheranno Dal Soglio e Spezzati. Per allora speriamo di aver fatto dei significativi passi in avanti. Altrimenti se non ce la sentiamo il Questore farà arrivare gli specialisti da Roma, cosa ne dite?» accendendosi la tanto agognata sigaretta. Inspirò piano.
30 Leggeva sulle facce dei suoi la promessa che ce l’avrebbero fatta. Sorrise, nascondendo la sensazione di brancolare nel buio. E senza farlo notare espirò sconsolato.
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Piazza dei Signori è uno scrigno dorato nel tardo pomeriggio di primavera quando la luce rossa del tramonto inonda il cielo. Incastonata tra i portici e dominata dalla torre con l’arco che porta a piazza Capitaniato sotto e l’orologio mal pagato sopra, è tornata negli ultimi anni la piazza più viva della città. Sarà che a ogni negozio che ha chiuso per la crisi ha seguito l’apertura di un bar che ha aggiunto tavoli all’aperto nella bella stagione, sarà per i cicli della vita e della moda. Qualche ora, infatti, e si sarebbe riempita di giovani beoni, l’arco sotto la torre e gli angoli bui sarebbero stati occupati dai negri spacciatori, gli studenti avrebbero innaffiato delle loro pisciate culturali le mura dei dintorni e delle case della confinante piazza Capitaniato. E alle quattro della mattina sarebbe diventata una distesa di bottiglie di vetro e bicchieri di plastica, carte e cartine e odore acido di piscio e vomito. Il nostro stava seduto ai tavoli all’aperto di uno dei ristoranti della piazza con gli amici delle ultime serate. Si festeggiava il compleanno di Filippo, che oltremodo sponsorizzava la cena, con la sua ragazza e l’amica, Edy e Cinzia, c’erano Perry e Alex con due tipe, e un altro paio di persone. Franciacorta come aperitivo. «A Filippo!» esclamarono con i bicchieri a brindisi. Max fece l’occhiolino, Filippo sorrise. Con lo sguardo scivolò su Edy seduta accanto a Filippo. Lei ricambiò, sorrise, per poi cercare di distrarsi in altre direzioni. Accanto Cinzia, che da qualche giorno frequentava. Tipa giusta, non stressava, rispondeva sinceramente sì o no agli inviti a uscire, leggasi scopare, senza cercarvi significati reconditi, onesta più di tante altre ragazze serie. Si parlava del più e del meno in modo leggero, Max raccontò un episodio di quando stava a Milano. Edy e Cinzia sembravano colpite. «Bè ragazze, dovete sapere che alle storie di Max bisogna togliere l’iva» disse Filippo sorridendo, non tanto geloso dell’attenzione che il suo amico aveva suscitato, ma piuttosto per prenderlo in giro. «Tocà» rispose Max alzando il bicchiere, arrendendosi alla battuta e parafrasando il francesismo. Tra loro era sempre stato un continuo scherzarsi. Continuarono a chiacchierare leggeri poi la conversazione virò sui fatti di cronaca nera che avevano riempito la città negli ultimi dieci giorni, in particolare sull’omicidio di quattro persone a opera dello stesso uomo già so-
32 prannominato il giustiziere. Le vittime erano tutti palesemente colpevoli di reati violenti riusciti a sgattaiolare alla giustizia per cavilli legali e sbagli nelle procedure. «Ma sì, ha fatto bene» commentò Perry categorico. «Non si può farsi giustizia da soli» ribatté Filippo. «Altrimenti viene fuori un macello ragazzi». «Sono d’accordo» disse Edy in difesa del suo ragazzo. «Vorrei vedere, ti stuprano la figlia o robe del genere, e il colpevole te lo ritrovi accanto al bar a bere il caffè e magari ti sorride. Ma stiamo scherzando» aggiunse ancora Perry. «Fa bene anche per me» disse Cinzia. «Dovrebbero lasciargli il tempo di far fuori più mussulmani del cazzo possibili» disse ancora Perry facendo segno con la testa di guardarsi attorno. «Qualche negro in meno non sarebbe male». «Dai ragazzi» Edy face notare che stavano esagerando. «Tu non dici niente?» domandò Alex a Max notando il suo silenzio e l’estraneità al discorso. «Da ex esperto del settore?». «Esperto adesso» canzonò Filippo. «Aspetta... aspetta…» riprese Alex, «perché sembrerebbe un biondino alto e magro…». «Magro…» sempre Filippo. «Eh, col naso importante…» aggiunse Perry cogliendo al volo. «Va cagare» rise poi con tutti gli altri. «Comunque corrisponderesti alle prime testimonianze…» disse questa volta Filippo. «Sgamato» ammise Max, «e il prossimo sei tu se continui a renderti colpevole del fatto che ho il bicchiere vuoto da quasi dieci minuti» concluse sorridendo e interrompendo la conversazione per richiamare l’attenzione di un cameriere. Che salvò Filippo da morte certa quando stappò l’ennesima bottiglia.
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Era stato a riscuotere il pagamento per il lavoro di qualche giorno prima in ufficio dal padre della ragazza. Foglio da cinque bombe in tasca, caffè al bar sotto, stretta di mano e arrivederci, aveva pensato. Invece infine aveva voluto farci quattro chiacchiere, aveva capito che l’uomo teneva anche alla salute della figlia e gli aveva comunque raccomandato di non aver la mano troppo pesante. Alla fine sono ragazzi, fanno cazzate, e retorica del genere. E stava facendo tardi al suo aperitivo del giovedì con Monica. Riuscì a prendere la corsa del tram che stava arrivando, si sedette, poi si alzò per lasciar posto a una vecchietta. Gli piaceva prendere il tram. Certo, l’avevano tolto cinquant’anni prima perché pareva superato, poi rimesso anche se si potevano comprare non so quante decine di mini autobus elettrici e farli correre tutto il giorno gratis per chissà quanti anni, col disagio a residenti e commercianti e resto per ’ste rotaie, le fermate e le strade e cadute di bici e motocicli. A parte che c’è gente che cade dalla bici anche da ferma. E chissà poi quanti soldi aveva fatto girare nelle tasche di poche persone. Comunque ormai c’era e tanto valeva sfruttarlo. A Max piaceva. Era diverso dall’autobus. Quella sensazione di essere in un treno che si infila tra le strette vie della città, con i suoi portici infiniti e gli antichi palazzi, che poteva magari dare anche un senso di claustrofobia, per poi sbucare, come dopo essere passati per corso Vittorio Emanuele II, con effetto scenico devastante, all’enorme e incantevole spazio aperto di Prato della Valle, che ti si staglia davanti all’improvviso e ti lascia sempre un po’ sbigottito. E se guardi bene, capisci la bellezza. Come quando entri nella cappella Scrovegni, di cui ammiri i dipinti senza che nessuno debba spiegartene il significato. O entri nel Salone o in Santa Giustina, la cui maestosità toglie il fiato. Appoggiato a uno dei pali di sostegno, Max si gustò ancora una volta il giro panoramico del Prato, per poi scendere più avanti ancora in riviera. Si stava avviando verso piazza dei Signori col suo passo calmo proprio quando gli arrivò un messaggio “Ti aspetto”. Si accese una sigaretta. E quando la guardi, la capisci la bellezza.
34 E Monica era come le opere d’arte dei grandi. Belle, imponenti, lampanti. Che ti lasciano senza fiato ogni volta che le guardi. Che lo lasciava senza fiato ogni volta che la guardava. Bestia oh. Boccoli biondi su un viso tondeggiante, occhi azzurri e sguardo da adolescente cresciuta. Fisico snello fasciato da un vestito in viscosa che metteva in risalto il seno generoso e le cosce sode. E un sorriso che scompigliava. Si alzò a salutarlo con un bacio sulla guancia, poi tornò sedersi. Si sedette accanto. «Ciao, come stai?» chiese Max mentre stava già arrivando il suo spritz al campari senza agrumi, mandato da Stefano del bar dell’orologio, come lo aveva visto arrivare. «Bene» rispose Monica. Max la guardò un po’ di traverso, sembrava addirittura più bella del solito. Le piccole rughe che aveva ai lati degli occhi risaltavano ancor di più il suo viso sorridente. Aveva qualcosa di luminoso nello sguardo, sembrava come… innamorata. Sentì una pugnalata di gelosia sul fianco. «Cosa c’è?» chiese Monica sorridendo quasi imbarazzata dal suo fissarla. «Niente, è che mi sembri particolarmente felice». «Sarà perché non ci si vedeva da un po’ di tempo». «Già, ultimamente sei stata lontana» commentò, lasciando che la gelosia entrasse nel tono. Anche se non ne aveva motivo. Non ne avrebbe dovuto avere visto il loro tipo di relazione. Era quasi un anno che si frequentavano. Si erano scontratati a un bar poco dopo che lui si era licenziato. Quasi ipnotizzato, l’aveva seguita fino al posto dove lavorava. Poi per qualche giorno aveva aspettato uscisse cercando una scena adeguata per riscontrarsi, conoscerla, provarci. Ma non trovava mai il momento, l’occasione, il tempo, mentre ormai sapeva i suoi orari e dove abitava. Praticamente gli mancava, come era già capitato in passato con le ragazze delle quali quasi si innamorava, il coraggio. E nel cercarlo vagava ai limiti dello stalker. Aveva trent’otto anni, separata da un marito che aveva sposato a venti e con cui era stata per cinque anni ma con il quale adesso non aveva nessun rapporto poiché non avevano avuto né figli né discussioni patrimoniali, e lavorava come capo settore di qualche ufficio in provincia e viveva quasi in centro. «Eh, ho un bel casino con una pratica al lavoro, ma dovrei finire di sbrigarla entro fine settimana, perciò volevo chiederti se sabato sera passi da me a cena» disse a giustificarsi. «Non è che tu comunque ti sia fatto sentire molto» aggiunse, a pungere.
35 «Hai ragione, sono stato incasinato anch’io» disse Max, cercando di ricordare da qualche parte quale casino lo avesse impegnato, dando credito alle sue scuse, cercando di schernire la sua gelosia. “Il casino della mia vita” pensò, ricordandosene. «Ti preparo una delizia, ho già preso il tuo vino preferito, ho una sorpresa e stamattina...» avvicinandosi per sussurrarglielo e quasi mordicchiandogli l’orecchio, «sono stata da intimissimi». Max s’inarcò colto di sorpresa dal quel brivido ghiacciato che gli percorse la schiena, sia per il mordicchiare, sia per il pensiero. «Bastarda dentro!» le disse sorridendo. «Chi va con lo zoppo…» lasciò in sospeso la frase. Si alzò, gli abbracciò la testa e, baciandolo sul collo, sussurrò: «Ti voglio bene. E non ci provo nemmeno più a pagare in questo bar che ogni volta mi dicono che è tutto a posto» aggiunse quasi contrariata e incamminandosi. Max restò seduto sorridendo e accendendosi una sigaretta, a guardarla ondeggiare via. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD