Max P.I. Royal Club, Diego Seno

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In uscita il 19/12/2018 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre '18 e inizio gennaio '19 ( 99 euro)

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DIEGO SENO

MAX P. I. ROYAL CLUB

ZeroUnoUndici Edizioni


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MAX P.I. - ROYAL CLUB Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-258-4 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Dicembre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

Questa storia e tutti i personaggi sono frutto di fantasia.


A Francesca e Serena che mi sopportano ogni giorno

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E vennero i lupi travestiti da agnello

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Alle ventuno e venticinque di quella domenica d’estate calda e afosa, l’urlo di Tardelli echeggiava in tutto il mondo, raggiungendo l’Italia per via aerea direttamente dalla Spagna prima ancora che dagli altoparlanti dei televisori, tutti comunque sincronizzati sullo stesso canale. L’intera nazione era incollata davanti alla tivù. E neppure mezz’ora più tardi le strade di tutte le città e i paesi erano invase da cortei di auto e bandiere tricolori che festeggiavano l’Italia mundial. Padova non faceva eccezione. Prato della Valle era preso d’assalto da un popolo di gente fuori di senno, bandiere gigantesche sventolavano dai finestrini di macchine minute, decine di persone sui cassoni delle Ape, gruppi di tre quattro ragazzi aggrappati in equilibrio precario sopra le Vespe e i Ciao, il traffico in tilt, clacson incantati e urla a riempire l’aria calda e umida della notte, tutto in deroga a qualsiasi regola. Il terrorismo e gli anni di piombo cancellati da un calcio a un pallone. Così i ragazzi erano usciti con la scusa di festeggiare, ma, sinceramente, del calcio a loro non gliene fregava un granché. Stavano appoggiati sul muretto lungo il canale di una riviera dove si erano riuniti, avevano abbandonato le bandiere e le trombette e preso delle birre in un’osteria lì vicina. Romeo aveva portato del fumo rubato al fratello maggiore, il tutto per cercare di combattere una noia che già alla loro età li stava avvelenando. «Che rottura di palle ‘sto mondiale!» disse Giovanni, il più grande del gruppo. «Proprio», aggiunse Paolo. Restarono qualche secondo in silenzio mentre finivano di preparare lo spinello. Giovanni lo accese, poi lo passò agli altri, guardandoli finché aspiravano, mentre lui non fumò più. Aveva già intuito che per essere il capo doveva restare lucido, lasciare gli eccessi agli altri, cosicché, da posizione distaccata, poteva comandare e manipolare.


8 Non si trovavano lì per caso. C’era una questione da risolvere. Da quelle parti abitava una ragazzina su cui Giovanni aveva messo gli occhi e che spesso, a quell’ora, il padre mandava a prendere i gelati e le sigarette al baretto a qualche centinaio di metri da casa. La settimana precedente l’aveva incrociata e le aveva detto qualcosa per attaccar bottone. Ma gli aveva risposto male. Si era sentito umiliato. Doveva fargliela pagare. Non sapeva se sarebbe passata anche quella sera, con quella confusione che infestava la città, ma quando la vide arrivare da lontano sorrise, e le labbra presero una leggera piega malefica. «Io mi sto annoiando e voi?» disse verso gli amici. «Anche noi», gli altri quasi in coro. «Che ne dite se ci divertiamo?» E indicò la ragazzina che arrivava. Romeo fu il primo a sorridere. Era sempre entusiasta di quello che proponeva Giovanni. Paolo Antonio e anche Massimo non poterono fare altro che unirsi. «Salve signorina, dove sta andando?» le chiese Giovanni parandosi di fronte. «Non siete a festeggiare?», stupita che non fossero insieme agli altri migliaia di idioti che giravano per la città esaltati per dei calci a un pallone. «Ciao, ti va di fare un tiro?» si fece avanti Romeo trovando il coraggio per avvicinarla e porgendole lo spinello. Lei scoppiò a ridere con la naturalezza della bambina che era. Ma un colpo al viso, tanto forte da farle girare la testa all’indietro, e un dolore lancinante la fecero urlare. I ragazzi guardarono Giovanni sbigottiti. Lui stava lì in piedi davanti a lei con la mano ancora alta con cui l’aveva appena colpita, il sorriso soddisfatto e lo sguardo fisso. «Aiutatemi», disse poi afferrandola per le spalle. I ragazzi l’aiutarono a prenderla di forza e portarla sull’argine oltre il muretto. La ragazzina si dimenava e urlava. Giovanni le mollò un altro paio di sberle che la tramortirono, anche se non perse del tutto conoscenza. Le strapparono i vestiti, le bloccarono le braccia. «Dai Romeo», disse Giovanni e, dopo qualche attimo di esitazione, il ragazzo obbedì. A turno, tutti abusarono di lei e della sua innocenza.


9 Per ultimo toccò a Giovanni, ma lui non si abbassò i pantaloni. Aveva recuperato una bottiglia di birra vuota… “Così impari a portarmi rispetto”, pensò. Gli altri lo guardarono esterrefatti, terrorizzati e ammaliati nello stesso tempo. Poi ripresero i motorini e le bandiere e andarono a unirsi alla folla del centro per festeggiare l’epica vittoria, lasciando la ragazzina sanguinante, tramortita e ormai morta dentro, stesa sull’erba, finché da sola trovò la forza di riprendersi e tornare a casa.


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2

In piedi, davanti alla porta finestra che dava alla terrazza che dominava piazza dei Signori, la fronte appoggiata al vetro, come se si fosse lasciato inclinare in avanti. Nella mano sinistra un bicchiere, nell’altra una pistola. Si rimise eretto, risvegliato da un abbiocco più che destato dai pensieri. Portò in automatico la mano col bicchiere alla bocca e mandò giù l’ultimo sorso. Si defilò a destra, raggiungendo la parete dove uno specchio a grandezza d’uomo riproduceva la sua figura sfatta, e precedeva i ripiani di un mobile bar fino a qualche giorno fa ben rifornito, un tavolino su cui stavano alcune bottiglie ormai vuote e altre che non lo sarebbero mai divenute. Ne prese una e la capovolse lasciando cadere le ultime gocce che conteneva nel bicchiere. La riappoggiò sul tavolo col culo metà fuori dal bordo in modo che, quando tolse la mano, cadde andando a sbocciarne altre che stavano già a terra senza comunque frantumarsi. Non degnò la scena di molta importanza, già di spalle raggiungeva il divano. Si sedette. Rilassò un momento la testa sullo schienale, la pistola appoggiata sul cuscino accanto. Poi, contemporaneamente, sollevò il bicchiere e la testa dallo schienale, riaprendo gli occhi che aveva socchiuso quasi colto nuovamente da un colpo di sonno. Fissò il liquido che ondeggiava lento. Pensò se era il caso di finirlo subito. O se lasciarne un goccio, per ogni evenienza. Era uno dei dubbi amletici che costellavano la sua esistenza. E lo risolse come ogni volta. Svuotò il bicchiere. La gola bruciò, per l’ennesima e ultima volta. Sarebbe stata una delle cose che avrebbe rimpianto. Il gusto forte, il sapore deciso, il profumo intenso e antico, la gola che si scaldava e la mente che si accomodava. Si chinò ad appoggiare il bicchiere vuoto sul pavimento.


11 Inspirò profondamente. Poi strinse l’altra mano forte al calcio della pistola. La sollevò postandola davanti a sé. Col pollice e l’indice dell’altra ora libera afferrò il carrello per tirarlo indietro facendo entrare il colpo in canna. Posò la bocca della canna sotto il mento. Un accenno di sorriso. Un senso… quasi di libertà. Iniziò a premere il grilletto, lentamente. Inesorabilmente costante. Un soffio ancora. Drinnnnn… Drinnnnn… L’indice scattò via dal grilletto. Le molteplici situazioni della sua vita avevano modificato l’istinto che, invece di contrarre l’indice nello spasmo del colpo di scena, come avrebbe fatto la maggior parte delle persone, lo spinse verso l’esterno. Gli occhi si spalancarono come risvegliato da uno stato di ipnosi, scostò l’arma dal mento mentre si voltava a guardare la porta, come se fosse trasparente e si potesse vedere chi stava suonando. Drinnnnn… Infilò la pistola tra i cuscini del divano per nasconderla, alzandosi e dirigendosi all’entrata. «Arrivo» disse con la mano già alla maniglia, non riuscendo proprio a immaginare chi potesse rompere. Aprì. Subito la investì una folata d’aria che sapeva di chiuso e stantio, poi odore di alcool e fumo. Di troppo alcool. Quasi da nausea. Infine, la sua faccia sfatta la lasciò impietrita e senza parole. «Non mi fai entrare?», non più sicura comunque di volerlo per davvero. E lui se l’era trovata di fronte – d’altronde sarebbe stato anche giusto dirle addio – dispettosamente bella, il solito colpo sotto lo sterno che toglie il fiato. Bestia oh, canaja! Si sentì improvvisamente inadeguato, e imbarazzato. Restò qualche secondo indeciso se accogliere quella sua richiesta che non sembrava neppure tanto voluta, come fosse più una formalità. Si scansò comunque dalla porta per farla passare.


12 Silvia entrò lenta, quasi titubante, diede un’occhiata veloce in giro, vide il disordine e l’abbandono: le bottiglie vuote e semivuote sul mobiletto, alcune rotolate a terra, piatti e bicchieri sul tavolo oltre il divano e roba da mangiare qua e là. Distolse lo sguardo girandosi verso la vetrata dove prima stava Max appoggiato con la fronte. Si abbracciò massaggiandosi per scaldarsi, come se avesse sentito il brivido freddo di qualcosa che non andava bene. Max l’aveva guardata camminare mentre entrava, sempre incantato dal suo passo sinuoso. Poi si vergognò di quello che lei stava vedendo in giro e, soprattutto, di quello che stava probabilmente immaginando e supponendo di lui. Chiuse la porta e subito istintivamente andò ad aprire una finestra cercando di far cambiare l’aria. Ma la richiuse quando vide che si stringeva come infreddolita. «Vuoi da bere?» «Ti è rimasto ancora qualcosa?!» le uscì spontaneo e sarcastico. Incassò alla grande come era sua maniera, col sorriso obliquo, riprese da terra il bicchiere che aveva posato poco prima, raggiunse il mobile bar e pescando una bottiglia ancora in vita ne versò. Si bagnò le labbra. Pensò nuovamente che sarebbe stato un peccato perdere tutto questo, quel sapore sulle labbra e, girandosi di nuovo verso Silvia e puntandole lo sguardo sul sedere, quel sapore agli occhi. «Cosa ti porta da queste parti?» le chiese restando fermo al suo posto, senza andarle vicino. Silvia si girò a guardarlo, togliendogli il panorama del suo culo dagli occhi e dandogli in cambio la sua espressione preoccupata. «Ero in giro e volevo vedere come te la passavi», sincera. Max sorrise sbuffando: «Grazie, ma tranquilla, sto bene.» «Vedo», accennò Silvia dandosi una nuova occhiata attorno, sempre ironica. Con la mente, Max diede un’occhiata alla stanza assieme a lei, immaginando cosa stesse vedendo – le bottiglie vuote e il vassoio d’acciaio sul tavolo – e a cosa stesse pensando, mentre dentro gli stava montando un senso di vergogna. Cercò di nasconderlo anche a se stesso sorridendole più energicamente. Gli venne fuori l’ultimo modello di sorriso in polimero siliconico. «Cosa significa tutto questo Max?!» sbottò Silvia allargando le braccia per indicare la stanza e il suo attuale arredamento, andando dritta alla


13 questione. «Come cosa significa? Non significa niente», mentre appoggiava il bicchiere sul tavolino, tanto per non stare fermo, anche perché il primo movimento istintivo era stato quello di svuotarlo, ma non pareva una mossa carina. «Ci sono giorni un po’ grigi che bisogna aiutare a scorrere via», continuò, cercando di liquidare il discorso con sufficienza. Silvia restò a fissarlo seria, tanto che fu costretto a distogliere lo sguardo. «Credo che tu abbia bisogno di aiuto.» Fu come una scintilla che riaccese l’astio. «Senti senti, sei diventata psicologa adesso?», sprezzante. Silvia sul momento restò ferita dal tono, ma lasciò passare guardando le condizioni in cui era. Vederlo così l’aveva scioccata, e dentro stava male. Non riusciva a capire quale forza lo stesse spingendo ad autodistruggersi in quel modo, quale malessere potesse avere dentro che lo logorava. Non lo aveva mai visto così debole: le occhiaie più scure e profonde del normale; la barba incolta, che avendo superato la lunghezza precisa “da qualche giorno”, iniziava a imbruttirlo; ma soprattutto lo sguardo spento e privo di luce. Aveva scoperto da poco che camminava sul bordo, adesso sapeva che era scivolato giù. Dalla parte sbagliata. Ma cosa l’aveva spinto? Beh, ultimamente ne aveva passate, e probabilmente l’assassinio di Monica lo aveva consumato più di quanto lui stesso volesse ammettere. L’aveva amata così tanto? Non era stata la classica “amica” allora? Una nota di gelosia le pulsò nella tempia accompagnando quel pensiero. L’esserne il primo indiziato poi. Infine l’esecuzione del vero assassino. Che lei aveva coperto. Forse per farsi perdonare il suo non averlo creduto. Probabilmente per farsi perdonare. Solo per poter essere perdonata. E per ultimo il suo amico. Nella sua testa piena di alcool e droga tutto questo poteva aver acceso la scintilla. O forse l’aveva spenta… «Mi preoccupo per te.» Lo scoppio di quella che voleva essere una risata ironica, ma che si rivelò più che altro isterica, accompagnò la fine della frase e i passi di


14 Max diretti al tavolo, dove vicino al vassoio sopravviveva ancora un pacchetto di sigarette. Ne prese una e l’accese. Inspirò a fondo. Non c’era più nessuna regola. «Non hai niente per cui preoccuparti Silvia. Ho già passato momenti come questi. Mi butto un po’ via più del solito per qualche giorno, poi ritorno», disse continuando a darle le spalle per non farsi leggere negli occhi le bugie che raccontava. «Hai già fatto abbastanza per me, raccontando un finale diverso della storia e salvandomi dalla galera, quindi tranquillizza la tua coscienza se è questo il problema», diventando acido. Voleva farla andar via. Non sopportava più di averla lì, averla accanto, averla di fronte, guardarla. Amarla. «Non sono io ad avere dei problemi», ribatté lei cercando di restare calma e ferma, trattenendo l’amaro dentro. Forse non lo conosceva bene come credeva, ma una delle poche cose che era sicura di sapere di lui, era che stava cercando di ferirla per proteggerla da qualcosa. «E la mia coscienza è più che tranquilla», mentì. «Mi spiace per quello che è successo e l’aver dubitato di te, ma in quel momento che tu fossi colpevole era la conclusione più logica. E comunque non ti ho aiutato solo perché mi sentivo in debito, come dici tu, ma anche perché, nonostante tra noi non sia andata come magari io… speravo», sincera come poche volte le era costato essere, «ti ho aiutato perché ti… voglio bene Max. Sei stato importante nella mia vita, e se anche abbiamo preso strade diverse, ti vorrò sempre bene.» Max intanto aveva spento la sigaretta sul posacenere e stava chinato in avanti con le mani attaccate ai bordi del tavolo, coi nervi che tiravano. Voleva che smettesse di parlare. Che smettesse di parlare e se ne andasse. «Quindi se c’è qualcosa che posso fare… perché ho l’impressione che tu stia rischiando di deragliare…» «Ho già deragliato!» urlò, girandosi verso di lei e interrompendola. Silvia si bloccò spaventata. Aveva lo sguardo sfigurato e perso. In un attimo tutto il suo recitare era scomparso lasciando il campo allo stato reale. Si rese conto di quanto fosse vicino al baratro, a quanti istanti dal precipitare.


15 «Ho troppi morti che vivono con me», le disse tornandole vicina e allargando le braccia come a mostrarglieli. «Le persone che ho amato di più nella vita o se ne sono andate», e sembrava indicasse il divano, come fossero sedute lì con lui davvero, «o mi hanno lasciato.» Guardò verso di lei questa volta. «Mi dispiace», rispose Silvia con la voce che si strozzava. Fece quel passo che li divideva dall’abbracciarlo. Max la lasciò fare, la strinse forte a sua volta. Tornò a sentirne dopo tanto tempo l’odore della pelle, e quei brividi che gli faceva nascere lungo la schiena lo starle accanto. Dio quanto gli era mancata. Si staccarono. «Per cortesia, adesso lasciami solo», atono e privo di espressione. Silvia fece cenno di sì col capo un paio di volte, si guardarono ancora qualche istante, poi si defilò versò la porta e sparì.


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3

Non si rese nemmeno conto, tornando in sé, di quanto tempo era stato fermo, immobile, privo di ogni pensiero dopo che Silvia era andata via. Come un computer in sospensione. Si riavviò quando il fracasso di quello che sembrava un bidone di vetro che si rovesciava, proveniente da fuori, lo scrollò. Fece un passo e raggiunse di nuovo la porta finestra che dava alla terrazza. Ma non vedeva fuori: il buio della sera che calava; le luci dei lampioni che si accedevano lente; il popolo degli spritz che riempiva la piazza. Guardò il suo riflesso sfocato sul vetro. La faccia sbattuta e lo sguardo spento. No, non era lui. Non era più lui. Cosa cazzo era successo?! Di nuovo raggiunse il mobile bar. Guardò le bottiglie sul top. Col braccio destro le spazzò gettandole a terra con uno scatto di rabbia. Raggiunse il tavolo, fissò per qualche istante il vassoio. Lo afferrò con una mano e lo lanciò a mo’ di frisbee facendolo schiantare contro uno specchio. Il frastuono gli rimbombò nella testa. «‘Fanculo!» si disse muovendosi di nuovo. Raggiunse il bagno dove aprì l’acqua della doccia e cominciò a spogliarsi. Si mise sotto il getto bollente. Cosa cazzo era successo? Un brivido ghiacciato corse lungo la schiena, mentre l’acqua lo risvegliava dallo stordimento, quando tornò col pensiero al momento in cui aveva appoggiato il vivo di volata della pistola sotto il mento. Al momento in cui stava per premere il grilletto. Per uccidersi. Lui… uccidersi… … Ma stiamo scherzando?! “Ma semo drio scherzare!” ripeté dentro di sé incredulo. Cos’era che lo stava facendo franare?


17 Che lo aveva fatto deragliare? La risposta non era poi neanche tanto difficile: già per uno come lui che viaggiava sempre sul bordo, sbandando spesso oltre il limite, non doveva essere stato un problema perdere del tutto la rotta e trovarsi a vagare nei falsi piani della mente. Soprattutto nell’ultimo anno sabbatico, in cui non aveva avuto orari, superiori, leggi, regolamenti e visite mediche che lo limitassero. Poi, c’era stata Monica. Cioè… la morte di Monica. Precisazione: l’omicidio di Monica. L’omicidio di Monica! Monica era stata un vero e proprio solco nella sua vita. Una voragine che si era aperta davanti ai suoi piedi e che aveva diviso nettamente il passato presente, da un futuro divenuto nebbioso e confuso. E non tanto perché si era accorto di averla amata più di quel che credeva e si rendeva conto che ora non c’era più. Anche mentre la frequentava aveva altre storie come ne aveva avute fino a qualche tempo fa, subito dopo la sua morte. Ed era per un’altra lo sguardo perso che ogni tanto si portava dietro. Il solco lo aveva scavato soprattutto la consapevolezza che l’unica volta in cui lei gli aveva chiesto qualcosa in più, un capriccio, di restare a casa sua quella notte, lui si era tirato indietro, freddo egoista. D’altronde così era. Nulla di più. E da subito, il sapere che se fosse rimasto con lei quella notte, senza scivolare via, forse ora sarebbe ancora viva, gli aveva bucato l’anima, a tradimento. Certo, volevano ucciderla e in qualche modo ci sarebbero riusciti, ma avevano scommesso sul fatto che lui a un certo punto l’avrebbe abbandonata. Ed era successo. Immancabilmente. E li aveva fatti vincere. Il solco lo aveva scavato il senso di colpa per non essere riuscito a proteggerla. Stava ancora scavando. E stava inghiottendo tutto, come un buco nero generato nella mente. Poi… Filippo. Quando Silvia lo aveva chiamato con la voce rotta qualche settimana


18 dopo il loro ultimo incontro balbettando al telefono, dentro aveva cominciato a sentire una strana inquietudine. Le parole “Filippo” e “vene” e “vasca” intervallate da articoli determinativi e pause indefinite lo avevano riportato al giorno in cui era salito da lui e, con rabbia e disprezzo figlie del dolore, gli aveva detto che quella doveva essere l’ultima volta che si incontravano, e lui era vivo. Voleva che se ne andasse, che coi suoi soldi di merda sparisse in qualche terzo mondo a fare la bella vita, così da non doverlo più incontrare e pentirsi ogni giorno di non poterlo uccidere. Perché avrebbe voluto ammazzarlo, certo. Ma gli voleva troppo bene e non sarebbe mai riuscito a mettergli le mani addosso. Invece Filippo dopo averlo tradito in quella maniera, venduto quasi, ora lo puniva. Con la sua assenza ingombrante. Aveva ancora impressa nella mente la sua faccia priva di espressione con gli occhi sbarrati, i tagli ai polsi e il sangue che era colato lungo il corpo, impregnando i vestiti e depositandosi nella vasca. Il biglietto accanto “Potevo vivere senza il tuo amore, ma non col tuo disprezzo”, come la segreta consapevolezza di dove aveva condotto il piano al quale aveva partecipato inseguendo la pazzia di poterlo finalmente avere. E sentiva la colpa di esserne la causa del suicidio, lo sentiva come un altro morto del suo indotto. Nell’immediato aveva retto bene all’urto. Con la sua solita faccia da stronzo e il mezzo sorriso. Ma mentre camminava lento, dietro al carro, con la madre di Filippo aggrappata al braccio, disperata per la perdita del figlio, qualcosa di malsano era germogliato nell’anima. Ogni tanto lei lo guardava e, tra le lunghe assenze della sua mente disperata, ogni tanto veniva a galla un’occhiata che lo gelava. Come se sapesse chi fosse il destinatario del biglietto. La persona che aveva portato il suo bambino a quel gesto estremo. E cominciava a incolparlo per farsene una ragione. Certo, non le avrebbe mai detto a cosa Filippo aveva partecipato per discolparsi e che il bagno di sangue che c’era stato in quei giorni si sarebbe potuto evitare. Assieme a Silvia avevano deciso d’iniziativa di stralciare, ininfluente comunque per gli sviluppi del caso, la posizione di Filippo dall’indagine sostituendosi al pubblico ministero.


19 Almeno il ricordo voleva che restasse pulito. Lo sporco lo avrebbe preso lui. La funzione era stata sobria e breve. Un suicida non è ben visto dalla Chiesa e la cerimonia è accettata proporzionalmente all’offerta. C’erano alcuni parenti; molti personaggi della Padova altolocata amici di famiglia, d’altronde la sua casata era molto ricca; Perry e Alex, cupi e in disparte; Edy e Cinzia, insolitamente ma comprensibilmente, e convenientemente, prive di tacchi alti e accollate; e poi una serie di amici che non aveva mai visto prima, inusuali, per non dire diversi. E, prima di sera, lui con gli altri del gruppo si erano ritrovati a brindare alla sua memoria. Anche loro erano all’oscuro della sua implicazione nel caso che aveva travolto la vita di Max. E solo Edy, tra loro, sapeva della vera vita di Filippo e probabilmente del suo amore per Max. La telefonata dell’avvocato Polato pochi giorni dopo fu un’altra spinta verso il fuori pista. Lo informava della lettura del testamento del signor Ghirotto presso lo studio del notaio Santi a cui doveva partecipare come parte in causa. Sul momento la prese con leggerezza. Ma si frantumò quando seduto vicino nuovamente alla madre di Filippo, e al padre, il notaio elencava i beni che gli aveva lasciato: l’appartamento di via Sauro, che si affaccia su piazza dei Signori, privo di gravami; un garage nella stessa via accessoriato di Porsche 911, privi di gravami; il Rolex, fortunatamente non in oro giallo; un paio di conti correnti ben sostanziosi; la società FG Eventi, con cui deteneva da una parte l’80% del The First e dall’altra il 10% del Sexdream, intestatario però della relativa licenza. E se dal primo non venivano spiacevoli sorprese, del secondo il notaio informava che era sotto sequestro per indagini giudiziarie ancora in corso inerenti a recenti fatti di cronaca. Si trovò di colpo catapultato in una realtà diversa da quella che aveva sempre vissuto, proprietario di quei simboli che la maggior parte delle persone cerca di avere: l’attico in centro; il macchinone; la possibilità di non dover lavorare per vivere, e vivere bene. Quest’ultima specialmente era sempre stato il suo sogno, non tanto la ricchezza, quanto la libertà economica. Ma era anche la sua paura più grande. Infatti, era sparito il freno del doversi alzare il giorno dopo per lavorare, cosa che aveva ulteriormente accelerato le sbandate. Solo che, riuscirci in questa maniera non era stato proprio il massimo. Andare a vivere nel posto dove


20 il suo, ex ormai, migliore amico si era ucciso per disperazione, a causa sua e su suo invito, non gli andava a genio. Lo fece come penitenza. E subito si accorse che il fantasma di Filippo viveva con lui e lo incolpava a ogni rintocco dell’orologio. E lentamente aveva cominciato a grattare intonaco dal muro della sua anima. D’altronde aveva sempre saputo che Filippo non era un amante del centro. Gli piaceva stare isolato. Il centro piaceva a Max. Quell’appartamento lo aveva comprato perché sapeva che sarebbe piaciuto a Max, così come il whisky, che comunque aveva imparato ad apprezzare. Tutto quello che Max amava, Filippo lo comprava, assolutamente non per renderlo invidioso, solamente per tenerselo vicino. E, d’altro canto, Max riconosceva che una percentuale, benché minima, di quell’amicizia che lo legava a Filippo era anche composta da convenienza. Quindi si era trasferito nel suo nuovo appartamento, intenzionato a venderlo appena fosse passato il senso di colpa, cosa sulla quale inizialmente aveva una fede profonda; teneva il Porsche, che non aveva ancora visto né tantomeno guidato per lo stesso motivo; aveva lasciato a Perry pieni poteri sulla gestione della discoteca; aveva ottenuto dal giudice la possibilità di sciogliere la società del night, liberandosi così di soci scomodi, e ne aveva aperto un altro a Padova, facendo socie su loro proposta Alina-Ana e le sue amiche, riunitesi in una specie di cooperativa e lasciando loro la gestione con la promessa d’onore di non sconfinare ufficialmente nella prostituzione. Girò il suo appartamento, in accordo con la proprietaria, ad Alina-Ana e Georgi, la ragazza che lo aveva fermato la sera della morte di Monica con la scusa della ruota bucata, con l’obbligo morale di non portarsi per nessun motivo e con nessuna eccezione il lavoro a domicilio. Si ritrovò quindi da sbandato ex poliziotto, in cerca di un futuro a un filo dalla galera, a benestante proprietario immobiliare e imprenditore, a un capello dal suicidio. Bestia oh, canaja! Anche Edy era andata via. Si era trasferita a Milano dove poteva avere molte più possibilità di sfondare come modella, inizialmente, o nello spettacolo come ambiva e aveva ricevuto una proposta per un servizio. Probabilmente lei si aspettava e sperava che cercasse di trattenerla. Ma come poteva? Che futuro poteva garantirle? Era troppo una brava ragazza per farle perdere il treno per poi lasciarla in stazione ad aspettare


21 il prossimo che magari non sarebbe più passato. Quindi l’aveva incoraggiata a fare il salto, e le mentì promettendole che sarebbe andato a trovarla e che sarebbero rimasti in contatto. Uscì dalla doccia. Passò una mano sullo specchio appannato sopra il lavabo. Osservò la sua faccia confusa. Ma come cazzo aveva solo potuto pensare di farlo, si chiese sbalordito da se stesso. Si sorrise come uno stronzo. Poi si vestì, jeans camicia e giacca, e uscì.


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4

Si sedette sul divano, gomiti sulle ginocchia e testa fra le mani. Stanca. Spossata. Neppure la forza e, nemmeno la voglia, di piangere. Di piangere ancora per lui. Lo aveva appena lasciato, perso nei labirinti oscuri della sua mente e aggredito ferocemente dalla sua coscienza. In bilico probabilmente, tra la vita e la non vita. Anche se non arrivava a immaginarne l’azione che aveva involontariamente bloccato. Era fuori servizio e camminando per il centro da sola come aveva preso l’abitudine di fare durante quell’estate, senza meta e perdendosi nei propri pensieri, a volte dietro a un caso complicato, a volte dietro futuri immaginari, si era ritrovata in piazza della Frutta. Nello stesso istante, il pensiero ormai quotidiano su di lui la raggiunse e ricordando lo sguardo triste, anzi non triste ma perso piuttosto, che aveva notato qualche giorno prima, quando era passato in Questura per delle pratiche – a proposito aveva aperto anche un night ‘sto stronzo, con la puttana che conosceva da una vita e l’altra che diceva che le assomigliava da dietro e aveva contribuito a metterlo nei casini – aveva deciso di vedere se era in casa per un saluto. Perché… le mancava. Negli ultimi tempi si erano visti spesso. Finita l’indagine c’era stato tutto l’iter burocratico da portare a termine e il relativo percorso processuale, che era stato tuttavia celere, e che aveva stralciato la sua posizione dai reati più gravi inizialmente ascrittigli, lasciando qualche strascico su elusione dei domiciliari, fughe, danneggiamenti vari e violenze, che sarebbero declinati lentamente e noiosamente verso il sentiero della prescrizione. E quindi avevano dovuto confrontarsi spesso e ripetere a memoria il copione, comunque stare vicini e parlarsi come non era più successo da


23 anni. Avevano respirato i loro profumi e i propri odori dopo ore di stesure di rapporti in uffici afosi. Si erano fissati negli occhi cercando intese sulle mosse di quella notte di vendetta. Sfiorati con i corpi per prendere carte o spostarsi di posizione. E questa convivenza forzata aveva alla fine ammorbidito i rapporti, come muscoli tesi massaggiati da mani esperte, che fino a poco prima, tra l’amore, l’odio e l’indagine, erano stati nervosi. Cazzo come stava! Era crollato. O quando usciva per obblighi d’ufficio metteva su una maschera che riusciva a nascondere in gran parte l’anima, e nel suo privato era sempre in quello stato, o negli ultimi giorni aveva avuto un crollo vertiginoso che non sapeva immaginare dove lo avrebbe condotto. Si buttò all’indietro appoggiandosi sullo schienale del divano e lasciando andare all’indietro la testa. Si levò le sneakers, premendo prima la punta del piede destro sul tallone sinistro, poi con le dita nude dell’altro sull’altra scarpa. Slacciò la cintura, poi i bottoni dei jeans. Li sfilò lenti, alzandosi col culo dal cuscino per abbassarli oltre le cosce, tornò a sedersi e alzò le gambe per toglierli. Si sfilò la maglietta. Infine si stese sul divano. Socchiuse gli occhi. Se da un lato la sua vita professionale stava progredendo in maniera esponenziale, dall’altra la sua vita privata era un buco nero. Inversamente proporzionale. Alla fine aveva rifiutato la proposta di matrimonio del suo ragazzo. Ex ormai, perché, giustamente, si erano lasciati al momento del no. In fondo non lo amava, non lo aveva mai amato. Era un bravo ragazzo, carino e simpatico. Premuroso. Niente di più. Dessavìo. Almeno per lei. All’inizio si era quasi sforzata di amarlo, forse se ne era convinta. Ma incontrare di nuovo Max, il suo vero Max, aveva crepato quel muro di cartongesso che aveva costruito attorno al suo cuore quando si erano lasciati, secoli fa. Sbuffò sorridendo, pensando che doveva ringraziarlo: se non fosse stato per lui, donnaiolo cocainomane coinvolto in un omicidio, se non si fossero rincontrati, magari avrebbe detto sì, e sarebbe divenuta


24 l’ennesima donna sposata, sola e triste. Invece, rivederlo, anche se in situazioni così particolari, aveva fatto rinascere quello che provava dentro, era stato un vento che aveva accarezzato le braci mai spente sotto le ceneri del tempo, ravvivando un fuoco che pareva morto, cancellando ogni possibilità per gli altri. Poi, aveva scoperto tutti i suoi lati negativi che anni prima non aveva scorto, o non aveva voluto vedere, e la parte razionale della sua persona aveva chiuso ogni possibilità di rapporto futuro in ambito extra lavorativo. Ma si era imposta di non cedere alla solitudine. Aveva deciso che non si sarebbe accontentata di una relazione solo per non rimanere sola. Voleva avere accanto solo qualcuno che le infiammasse il cuore. Sorrise. Max… Amara. Questo non voleva dire chiudere la porta agli uomini finché non fosse arrivato quello giusto. Anche perché, come si può capire senza provare? Se avesse incontrato un ragazzo simpatico e carino, che le avrebbe fatto il complimento giusto, al momento giusto… magari ci sarebbe uscita, passato qualche serata… fatto qualcosa. Poi sconosciuti come prima o chissà, da cosa poteva nascere cosa. Si versò il suo whisky e accese la sigaretta della sera. Boccata di fumo. Sorso di whisky. Che brucia nella gola. E nell’animo. Come la solitudine che sentiva. Socchiuse gli occhi. Perché in quel periodo si sentiva veramente sola. Sola da morire. E non era il sesso che mancava. Cioè, anche quello certo, ma non era la ragione primaria. Era la presenza di qualcuno accanto. Qualcuno magari seduto lì vicino finché fumava la sigaretta, che l’avrebbe abbracciata al momento giusto. O sorriso a quello sbagliato, perché lei era arrabbiata. Qualcuno con cui addormentarsi mentre si guarda un film noioso, perché non danno niente di meglio alla tv. Qualcuno che ti sveglia perché magari russa come un treno. Qualcuno tra le cui gambe infilare i piedi freddi per scaldarli. Qualcuno contro cui


25 urlare e sfogarti anche se non ha sbagliato nulla ma hai le tue cose. Qualcuno da stringere tanto forte da spaccarsi le ossa. Spense la sigaretta. Buttò giù l’ultimo sorso. Poi si stese sul letto a guardare il soffitto. Strinse forte gli occhi per vedere, una volta riaperti, tutti quei puntini bianchi che si muovono e, provando a unirli con una linea di fantasia, scoprire cosa mai potessero raffigurare.


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Salutò gli amici. Come ogni mercoledì sera, dopo lo spritz tour universitario in centro, raggiunsero piazza Capitaniato dove avevano pensato di bere l’ultima cosa. La serata ancora calda invitava a restare fuori. Ma il locale dove si fermavano di solito era stranamente già chiuso e quindi, dopo aver fumato un paio di sigarette, chiacchierato del più e del meno e respinto sorridente la classica offerta di ospitalità di un paio di ragazzi del gruppo, si era decisa ad andare a dormire, anche perché l’indomani aveva un paio di lezioni importanti e pesanti da seguire. E comunque tutti, nel breve periodo, sarebbero tornati nei propri alloggi. Si avviò quindi lungo i portici di via Patriarcato, per attraversare il ponte di ferro alla fine e raggiungere il suo appartamento in riviera San Benedetto. Già immaginava le sue coinquiline rompere le scatole come ogni mercoledì sera: Marta, quella dei trenta e lode a ogni esame che aveva il sonno leggerissimo e si sarebbe sicuramente svegliata, che avrebbe rotto l’anima per tutta la giornata mentre Sonia, l’alternativa, avrebbe attaccato con la storia della pace perché il saper accettarsi tra due persone avrebbe portato all’accettarsi del mondo intero. I suoi tacchi rimbombavano secchi nel silenzio della via quando appoggiava il piede sulle lastre di marmo sotto i portici. Come al solito, la strada era poco illuminata e deserta. Il sorriso che aveva quando lasciò il gruppo, dovuto anche alla riserva di alcool che aveva immagazzinato, si stava spegnendo lentamente. Qualche colpo sordo che non combaciava con quello dei suo passi, e alcuni fruscii che non sapeva catalogare le ricordarono la strana sensazione che aveva da qualche tempo: quella di essere seguita quando rientrava. Cominciò a cercare di minimizzare la cosa, di dare la colpa di quella sensazione alle bibite, ma era alticcia, non ubriaca. Cercando di non farlo notare a chicchessia accelerò il passo. Certo non poteva mettersi a correre con i tacchi che indossava e nemmeno poteva urlare aiuto per


27 qualcosa che ancora non c’era. Ma il cuore batteva più forte. Un rumore la fece voltare indietro, ma non vide nulla di strano. E quando tornò a guardare avanti si scontrò con qualcuno. «Mi scusi…» le uscì istintivamente dalle labbra. Alzò lo sguardo per guardare la persona, ma vide solo un passamontagna, che lasciava liberi solo gli occhi e le labbra. Il cuore le saltò in gola bloccandole la voce. Si riprese subito tentando di urlare. Ma l’uomo le tappò la bocca con la mano, poi la spinse contro la colonna del portico alle sue spalle. «Zitta o ti ammazzo», le disse a voce bassa, ma ferma. Annuì freneticamente con la testa, completamente dominata dal terrore. La voltò, schiacciandola poi nuovamente contro la colonna. Le si appoggiò addosso. Scivolò con la mano dalle labbra al collo in una lenta carezza mentre con l’altra mano si insinuò sotto la gonna per andare a toccarla tra le gambe. «Sei stata carina a mettere questa gonna per me, è la mia preferita.» Lei non riusciva a reagire, né a muoversi, né a chiedere aiuto o implorare pietà. Sentiva la mano dell’uomo accarezzarle il sesso come se potesse darle piacere, poteva nitidamente sentire il suo pene duro appoggiato alla schiena. Cominciò a detestare il suo non essere in grado di difendersi, urlare o di reagire in qualche modo; si rimproverò di non aver accettato uno degli inviti rivoltole prima dagli amici, di essersi vestita troppo in tiro forse, di non avere messo i pantaloni al posto della gonna e calzato delle scarpe sportive; di essere uscita quella sera; il giorno in cui aveva deciso di venire a studiare a Padova. Tutto a un tratto sentì la mancanza d’aria, come se stesse per affogare. Solo allora si rese conto della mano al collo che stringeva. Sempre più forte. Sentì la fatica di respirare, il bisogno dei polmoni di incamerare aria, la vista offuscata. “Perché non si prende quello che vuole e se ne va?!” si chiese. Ora il pensiero era quello di sopravvivere, di accontentarlo in tutto purché la lasciasse vivere. Poi lo sentì muoversi in modo strano, una specie di spasmo che sul momento non seppe decifrare, troppo in preda al terrore e come unica speranza quella che la lasciasse viva. La mano mollò la presa. Fece


28 veloci e frenetici respiri per recuperare l’aria come se tornasse a galla dopo un’immersione più lunga del previsto. E quando le parve di tornare a respirare con regolarità si accorse di non averlo più addosso. Sentì l’eco di passi che si allontanavano velocemente. Socchiuse gli occhi e riuscì a scoppiare in lacrime lasciandosi scivolare giù a sedersi sul lastricato.


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Sentirono il campanello suonare, prima una volta, secca, poi una seconda, più prolungata. Infine in maniera continuativa e isterica. A questo punto, tre dei cinque seduti al tavolo della cucina, che sapeva di toscano e whisky, sbottarono quasi all’unisono appoggiando le carte. «Insomma, vai a vedere chi cazzo è!» disse uno di loro rivolto a Perry. «E mandalo a cagare!» aggiunse un secondo. Perry guardò Alex che rispose scuotendo la testa. Poi scostando la sedia all’indietro si alzò e si diresse in soggiorno. «Sali», disse schiacciando un tasto sul citofono che mostrava una figura sbiadita in bianco e nero. Dopo qualche secondo, Max era sulla porta. «Ciao.» «Ciao, entra.» «Ho chiamato più volte, tutti e due», con una punta di rimprovero guardando Alex che li aveva raggiunti. Gli altri ancora seduti in cucina attorno al tavolo si girarono salutando svogliatamente attraverso la porta aperta. Max rispose con un cenno del capo. «Eravamo concentrati sulla partita», si giustificò Perry. «A me ha dato la sensazione che mi stiate evitando», ribatté Max. Ci fu un momento di silenzio imbarazzante fra i tre. «Vieni», Perry appoggiandogli una mano sulla schiena per accompagnarlo verso il divano, fuori dalla vista e soprattutto dalle orecchie degli altri. Si girò verso un mobile bar e sistemò tre bicchieri, prese del Brugal e ne versò due dita per bicchiere. Nel frattempo, Max si guardava attorno, osservando la casa come fosse la prima volta che ci metteva piede. Il gusto classico nell’arredamento di Perry si scontrava con le sue scelte nel campo commerciale sempre rivolte al moderno: lo scrittoio stile Ottocento; il divano con la struttura in legno colore noce; lo specchio con la cornice intarsiata dorata. Appese alla parete, foto di lui in barca a pescare assieme a persone che forse ricordava vagamente; foto con Filippo ai tempi pioneristici dei primi


30 locali, abbracciati e felici; foto di loro due a pesca. Il classico quadro con tutti i nodi da marinaio; foto mentre teneva tra le braccia pesci enormi dei quali non sapeva neppure i nomi; la sua barca in darsena a Chioggia sulla quale diverse volte era stato con lui, Filippo e Alex. A un certo punto gli sembrò di osservare la casa in maniera troppo invadente, da sbirro, come stesse immagazzinando dati, come se l’essere sfatto non avesse intaccato l’istinto investigativo. Distolse lo sguardo dalle pareti nello stesso istante in cui Perry si voltava verso di lui porgendogli il bicchiere. «Forse», ammise. Max lo fissò duro, ma ne apprezzò la sincerità. Una delle sue caratteristiche. «E a cosa devo l’onore?» aggiunse ironico. Ancora silenzio, imbarazzante. I due lo guardarono insieme. Perry sbuffò mentalmente, aveva sperato in una serata rilassante dopo giorni affannosi per la riapertura del locale completamente stravolto: nome nuovo per staccarsi, brutto a dirsi ma indispensabile per gli affari, dal ricordo tetro di un suicida; location rinnovata, perché ogni tot anni è necessario cambiare; intrattenimento cambiato, perché bisogna sempre stare al passo con le tendenze se non si è in grado di anticiparle. E non aveva voglia delle paranoie che ultimamente il nuovo socio coltivava. La morte di Filippo era stata una pugnalata a sangue freddo, non se la sarebbe mai aspettata, anche se nell’ultimo periodo era stato strano e più chiuso in se stesso del solito. All’inizio aveva provato solo il dolore per la perdita dell’amico, un senso di colpa per non aver compreso il periodo buio e non essere stato d’aiuto. Poi, come è naturale e conseguente a ogni avvenimento, purtroppo, il fattore economico era diventato predominante. Filippo era il socio di maggioranza della loro società, i suoi genitori avevano sempre schifato quel tipo di attività, quindi si sarebbero ritirati appena chiuse le formalità e l’investimento era troppo alto per lui per rilevare le quote. Le banche, dopo aver fagocitato euro a ciclo continuo per anni col sorriso dei puri, avevano chiuso i rubinetti per pararsi il culo dalle catastrofi economiche che loro stesse avevano generato facendole ricadere sul tessuto produttivo della popolazione. Figurarsi se per un’attività commerciale talmente volatile avrebbero elargito dei soldi. Il testamento del Ghirotto, però, lo spiazzò totalmente. Dapprima si


31 stupì, rimanendo sbalordito soprattutto dal destinatario: Massimino Garbo! D’accordo che i due erano amici fin dall’infanzia, fratelli quasi, ma che poteva farci uno come Max con una discoteca? Alla fine era buono solo a berci dentro. Anche a rimorchiarci, a onor del vero, doveva ammettere. Queste cose non le pensava con cattiveria, voleva bene a Max, sinceramente, erano amici e ne avevano passate di tutti i colori insieme. E gli riconosceva di essere una persona leale, generosa, sveglia e dritta. Ma non lo vedeva un bravo imprenditore. E trovarselo come socio era stato un bel colpo. Anzi, un brutto colpo. Però, doveva concedere, si era dimostrato più intelligente di quel che avrebbe mai potuto sperare poiché pochi giorni dopo la lettura del testamento lo aveva chiamato per un appuntamento di lavoro per dirgli che: visto che non era in grado di gestire un locale per inesperienza e attitudine lasciava totalmente a lui la gestione; i profitti di quella stagione li lasciava in società come fondo per il rinnovo; ogni trimestre avrebbe chiesto un resoconto dettagliato per avere una quadro della situazione, perché bisogna fidarsi e siamo tutta gente onesta, ma è meglio mettere il lucchetto alla bicicletta quando la si parcheggia sulle rastrelliere. Soprattutto a Padova! Poco dopo quei primi giorni di idillio, però, il ragazzo era andato via via perdendosi e mentre tutti, genitori di Filippo compresi, sembravano indirizzati a superare il fatto, Max, che all’inizio pareva avesse incassato come suo solito, cioè passandoci sopra come si scansa una buca passeggiando, cominciava a cedere in maniera inversamente proporzionale al tempo che passava. «So per cosa mi hai chiamato», disse Alex sorseggiando, «ma secondo il nostro parere stai esagerando.» «Sì, dovresti staccare un po’.» Max sorrise: «Vi mettete a pontificare adesso?» «No, ci preoccupiamo di un amico», ribatté Alex, anche lui sincero. «Guarda che sei stato tu a romperci con la storia di avere delle regole sugli eccessi: andare sempre piano in macchina quando si ha bevuto, non tirare inutilmente se non la scarichi facendo festa, non comprare merda dai marocchini e altre che non sto a ricordarti, da anni e anni», continuò subito Perry. «Vogliamo ricambiare le attenzioni.» «Ok ragazzi, grazie, siete gentili a preoccuparvi», rispose Max. Poi fissò Alex: «Me serve ón toco, stasera sò in festa», scazzato, a dar loro la


32 giustificazione che chiedevano. Alex sbuffò: «Stiamo parlando seriamente.» «Mi sembra che i vizi qua non manchino a nessuno», gli rispose annuendo alla cucina. «Max», continuò Perry lasciandosi sedere su una poltrona, «gli squali e i bari da questo gruppo li abbiamo già eliminati da un bel po’, ho un budget di perdita mensile. Arrivato a quello mi fermo.» «Il mio è ancora più basso del suo», aggiunse Alex sorridendo. Ci furono attimi di silenzio. Max sembrava non volesse sentire. Li aveva sempre aiutati quei due, lo dovevano solo ringraziare. Aveva presentato lui Filippo a Perry, quando il primo era un riccone che voleva fare degli investimenti e il secondo un barman di una disco con idee brillanti e neanche un soldo. Aveva mandato lui Alex dai grossisti italiani conosciuti ai tempi di Siracusa, titolari di filiali in tutta la penisola e con un grosso smistamento in provincia dove si riforniva prima dei numerosi tagli, grazie ai quali era diventato il pusher, sconosciuto alla legge, della Padova che voleva tirare bene senza badare alla spesa. Sempre suo il consiglio, pochi ma buoni e omertosi. E adesso, quando aveva bisogno lui, giravano le spalle. Cercò di restare freddo, indifferente. «Vi ringrazio ragazzi del vostro interesse, veramente, ma so cavarmela e vi dico che sto bene.» Sembrava sincero, come se ci credesse veramente a quello che stava dicendo. D’altronde loro non sapevano di Filippo e del giochetto che gli aveva fatto, di chi ne aveva provocato la morte e dei sensi di colpa. Non capivano di Monica. Non potevano sapere di Siracusa. Non sapevano un cazzo. Alex infilò una mano nella tasca e ne estrasse un piccolo involucro. Glielo lanciò. Fece per prendere i soldi, ma l’altro lo bloccò: «Offro io, sperando sia come dici tu.» «Tranquillo», disse girando il sacchettino tra le dita della mano e finendo il rum. Dalla cucina arrivarono mormorii di rimprovero. «Vi lascio alla vostra partita», alzandosi. «Questo è l’ultimo weekend libero che abbiamo.» Perry lo bloccò sulla porta come se credesse veramente che Max sarebbe stato partecipe dell’attività del locale. Non che avesse altro da fare. Faceva “niente”, ma


33 gli piaceva continuare a farlo, era il suo istinto naturale. «Chiamano bel tempo. Stavo pensando di fare l’ultima uscita in barca della stagione prima di metterla a secco, abbiamo un paio di amiche niente male: fritturina a Ca’Roman; un cartone di Canevel Cartizze ghiacciato; un paio di pezzi… orgettina…», malizioso. Max sorrise. «Ci faccio un pensiero.» «Hai paura di non avere più il fisico?» chiese Alex sorridendo. «Quello, caro mio, non ce l’ho più da un po’», sarcastico, prendendosi in giro e guardandolo storto. Poi uscì.


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Silvia la stava osservando piena di compassione, come se fosse la sorella minore, sorridendole dolce per cercare di rasserenarla e di annebbiare il senso di terrore che aveva ancora addosso. Il ricordo invece no, le serviva fosse nitido. Sentì alle sue spalle la porta aprirsi e poi l’ombra di Spezzati accanto. L’ispettore appoggiò sulla scrivania tre bicchieri di plastica fumanti, due pieni di cattivo caffè e l’altro di thè bollente. «Allora Gloria, quando te la senti, con calma, inizia a raccontarci tutto quello che ricordi. Prenditi tutto il tempo che ti serve», le disse premurosa. La ragazza era ancora molto scossa e ripetutamente tornava a tremare come se avesse ancora alle spalle il suo aggressore. Sulle guance la scia di rimmel che il pianto aveva fatto colare giù, come in una triste maschera di carnevale. «Ero uscita come ogni mercoledì sera con il gruppo di amici dell’università che frequentano la mia stessa facoltà», partì rallentando i singhiozzi. «E volevamo fermarci in piazza Capitaniato per bere un’ultima cosa. È il nostro solito giro finale, così mi avvicino al mio appartamento e ho meno strada da fare da sola. Non mi faccio mai accompagnare, ho sempre avuto paura che potesse essere preso come un invito…» continuò alludendo, tenendo il bicchiere di thè tra le mani più per avere qualcosa da fare che per il bisogno di scaldarle. «Quindi ci siamo salutati tutti e mi sono diretta a casa. Quella via è abbastanza buia e spesso deserta e a metà circa ho cominciato a sentire strani rumori, come dei passi, e ho avuto paura. Ho cominciato a camminare più velocemente, ma sa», rivolgendo lo sguardo principalmente a Silvia, «coi tacchi è difficile… poi me lo sono trovato di fronte…» Interruppe il racconto scoppiando nuovamente a piangere, mentre riviveva quei momenti. Fede allungò l’ennesimo fazzoletto di carta. «Non so… forse mi aveva notata prima in giro», riprese sempre singhiozzando, ma più calma, «magari avevo la gonna troppo corta, non


35 dovevo metterla… forse ero troppo provocante e di questi tempi…» Sembrava stesse cercando di darsi la colpa pur di trovare un motivo per quello che era appena accaduto. «Ha detto che ero stata carina a mettermi questa gonna per lui, che era la sua preferita…» E abbassò lo sguardo assalita da una nuova crisi di pianto. Silvia chiuse gli occhi stringendo forte le palpebre e inspirando. Quella ragazza non sembrava essere stata una scelta casuale per l’aggressore. Guardò Spezzati che doveva aver pensato la stessa cosa. «Sa quante ragazze ho visto in vita mia vestite in modo provocante con cui avrei voluto provarci o quanto meno chiedere il numero di telefono?!» s’intromise l’ispettore. La ragazza alzò lo sguardo verso di lui mentre ancora ragionava sulle sue presunte colpe tirando su col naso. «Migliaia», continuò con naturalezza. «E sa quante ne ho molestate?!» sorridendole dolce. «Zero!» rafforzando il concetto chiudendo indice e pollice in cerchio. «Lei non ha nessuna colpa di quello che è successo stanotte», riprese, «la colpa è solamente di questo scarto di uomo che troveremo e sistemeremo!» finì. Silvia guardò Spezzati che teneva ancora lo sguardo, fiero del discorso come un cavaliere d’epoca, con un sorriso delicato, apprezzandone sempre più la caratura morale. La ragazza trovò un barlume di sorriso tra i sussulti e le lacrime e riuscì a cancellare quell’orribile senso di colpa che sentiva strisciarle dentro e che non aveva nessun motivo di esistere. Riprese a raccontare, trovando la forza di rivivere ogni singolo attimo e di condividerlo con i due che aveva davanti. «Sinceramente, è più di qualche settimana e, pensandoci, proprio di mercoledì, che ho la sensazione di essere seguita», disse rivivendo gli attimi subito precedenti allo scontro con il suo aggressore. Silvia e Federico si scambiarono un altro sguardo di intesa velata di crescente preoccupazione. La ragazza continuò il racconto, fermandosi sui punti per lei principali: la stretta al collo e la paura di morire; il terrore che la invase sperando che facesse i suoi comodi e se ne andasse senza farle ulteriormente del male. Silvia, invece, fece domande su particolari utili all’identificazione dell’uomo che la ragazza potesse ricordare, tipo com’era vestito e il tono della voce, il colore degli occhi se era riuscita a distinguerlo. «Sicura che non c’è altro? Pensaci bene, anche qualcosa di banale o che


36 magari per te è ininfluente… o imbarazzante…» Passarono secondi di silenzio duranti i quali la ragazza ripassò a setaccio tutta la scena, ma senza risultato. «Bene», disse Spezzati alzandosi, anche se il tono sembrava significare il contrario. «Forse una cosa ci sarebbe…» accennò Gloria tentennante. «Cosa?» chiese l’ispettore tornando a sedersi quasi ansioso. «Sinceramente… preferirei dirlo senza la sua presenza», proseguì sempre la ragazza guardandolo. Sul momento Fede ci restò male, guardò Silvia che gli fece cenno di andare. E già uscendo si rasserenò. Anche se dalla parte buona della barricata era un uomo, e al momento per la ragazza tutti gli uomini erano “quell’uomo”. «Dimmi pure», le disse Silvia quando la porta si richiuse. «Mi vergogno a dirlo…» iniziò la ragazza, e Silvia non spinse lasciandole tutto il tempo di cui aveva bisogno, «perché rendersi conto di certe cose… in certi momenti… mio dio neppure io capisco come… sembra fuori luogo… ma ho la sensazione… è stato un attimo, l’attimo prima che sparisse… mi è sembrato… me ne rendo conto adesso ripensandoci perché il terrore mi paralizzava anche i pensieri… mi è sembrato che… non so come dirlo… ha avuto uno scatto come… fosse venuto…» abbassando lo sguardo. Silvia avrebbe voluto bestemmiare se solo ne fosse stata capace. «Non devi assolutamente vergognarti», le disse allungando la mano a stringerle il polso. «Anzi, non puoi nemmeno immaginare quanto importante possa essere questo dettaglio. Andiamo.» Sì alzò per accompagnarla fuori dallo psicologo della Questura che le avrebbe parlato un altro po’, lo aveva già fatto prima, per cercare di capire la gravità dell’infortunio dell’anima.


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Sbatté la porta del condominio uscendo, attraversò la strada per salire sul Porsche parcheggiato sul lato opposto, sul marciapiede, ma con le quattro frecce accese a giustificazione del posteggio. Mise in moto mettendo al massimo il riscaldamento nonostante la temperatura esterna elevata e mise la custodia di un cd sopra la bocchetta da cui usciva aria sul cruscotto. Quando fu ben caldo ci versò sopra un sassolino di quelli che stavano nel sacchetto che gli aveva dato Alex e poi, con la patente messa a scaldare su un’altra bocchetta, cominciò a frantumare meglio che poteva per fare dei tiri decenti. Sperando non lo fermasse la stradale. Arrotolò un deca e tirò, schifato quando si accorse che era un cd di Gigi D’Alessio. Ma che cazzo di musica ascoltavi, parlando al fu Ghirotto, come se non lo avesse mai saputo e sopportato, e come se fosse stato quello il peccato più grave commesso nella sua breve vita. Spense la macchina dentro il parcheggio di uno dei due suoi locali, quello già attivo, il night. Era ancora presto, avevano aperto da poco e stavano sicuramente ancora sistemando. Le ragazze ancora vestendosi. O meglio, svestendosi. «Ciao», disse al buttafuori girato di spalle che, con molta calma, si voltò verso di lui. «Buonasera», rispose Vitadello dopo averlo riconosciuto, con una certa reverenza. Si spostò per lasciarlo entrare. Rimase sorpreso. Era la prima volta che si faceva vedere da quando avevano aperto mentre se lo sarebbe aspettato ogni sera invece. La prima volta che lo rivedeva dopo il loro colloquio. Quando Max decise, dopo aver incontrato Alina-Ana e averci parlato insieme, di tenere aperto il night riuscendo a portarlo nel territorio di Padova, pensò anche di mantenere tutto il personale, incolpevole delle azioni dei titolari e del Daniele. Anche Vitadello. Perché alla fine, dopo


38 averlo conosciuto, comprese che non aveva la minima idea di quello che dovevano fare, aveva solo fatto un piacere extra al capo, oltretutto senza chiedere nulla. Aveva anzi apprezzato quella disponibilità. Quindi gli aveva confermato il posto. Lo sguardo del buttafuori, fino ad allora mesto e comunque già preparato all’idea del licenziamento, si riempì prima di stupore, per diventare subito dopo pieno di ammirazione se non addirittura di venerazione. Non si sarebbe mai aspettato che la persona che aveva rischiato la galera a vita per l’accusa dell’omicidio di una donna a cui lui stesso, anche se con ruolo periferico, aveva partecipato, lo perdonasse e non gliela facesse pagare in qualche modo. Conoscendone oltretutto l’epilogo. E Max aveva notato la riconoscenza nello sguardo di Vitadello, e l’inconscia promessa del saldo di quel debito d’onore, anche se non lo aveva fatto per quel motivo. Lo aveva fatto solamente perché gli pareva giusto non fargli pagare colpe non sue e perché aveva bisogno di gente valida e le ragazze avevano confermato la sua professionalità, capacità d’intervento e forza d’urto. Ma questa sera Max non era né giusto né gli interessavano certi discorsi. Entrò nella sala. Tirato come un violino. E sempre sul bordo, rischiando di precipitare. Il barista lo salutò chiedendo se volesse bere qualcosa. Gli ordinò una bottiglia di Franciacorta da far portare nel suo ufficio, anche se non ricordava neppure da che parte fosse. Si guardò in giro. Alcune ragazze le conosceva, facevano parte del gruppo fisso e gli erano state presentate tutte, altre andavano e venivano su indicazioni di Alina-Ana e le socie. La trovò nel corridoio che portava alle stanze dei privé e agli spogliatoi delle ragazze, non più svestita come le ragazze da trincea, ma in tiro con abito firmato da moderna maitresse. D’altronde il suo nuovo ruolo imponeva una certa eleganza. «Ciao», gli disse andandogli incontro a baciarlo sulla guancia. «Finalmente ti sei degnato di venirci a trovare.» Le sorrise: «Andiamo nel mio ufficio.» «Ci sono problemi?» chiese apprensiva. «No. Ma è ora che andiamo a pari», rispose serio. Alina-Ana lo guardò quasi sospettosa, non se lo aspettava. E sinceramente il modo la offese. Ma sorrise. D’altronde doveva molto a quel ragazzo e non era un gran sacrificio regalarsi a uno così. Aveva


39 passato tempeste ben più gravi per aver paura di un temporale. «Era ora», disse, cingendogli un braccio alla schiena e incamminandosi con lui verso la zona riservata al personale. In quel momento, apparve Georgeana “Georgi” per raggiungere la sala. «Ciao», disse guardando i due stranita. Max si fermò a guardarla. L’immagine di lei che lo fermava per un falso problema alla macchina si mescolava alla notte in cui l’aveva vista al Sexdream, alle scuse che gli aveva posto in seguito. Anche lei era in debito. Anche lei doveva saldare. Anche lei, quando Max aveva accettato di farla restare con le altre, nonostante avesse partecipato al complotto contro di lui, era rimasta sorpresa, e alla sua proposta di ripagare come meglio sapeva, aveva declinato con un sorriso gentile. «Anche tu, nel mio ufficio», le ordinò secco. «C’è qualcosa che non va?» tradendo l’accento più marcato di AlinaAna. Max le si avvicinò con le labbra all’orecchio accomodandole i lunghi capelli. «No, è che ho ripensato alla tua offerta e non riesco a togliermi il tuo culo dalla testa», le rispose. Georgi esibì un sorriso tirato. Certo era stata una sua proposta. Si era sentita in colpa per essersi prestata a quel gioco anche se non aveva la minima idea di quello che volevano fare. Aveva pensato che al massimo sarebbe stato un piano per ricattare qualcuno per tradimento o simile, e con un tipo del genere non le sarebbe neppure dispiaciuto. Ma il tono e lo sguardo le avevano ricordato i suoi vecchi protettori barra sfruttatori. Soprusi, violenze fisiche e mentali. E le avevano fatto salire un brivido freddo lungo la sua schiena nuda e oliata. Guardò l’amica, che le sorrise tranquilla, poi tornò a Max: «Certo.» Raggiunsero l’ufficio. Rovesciò un po’ della coca sulla scrivania e ancora con la patente, dopo aver chiuso la porta, cominciò a dividere qualche riga. Un cameriere bussò e, senza aspettare risposta, entrò ad appoggiare il secchiello con la bottiglia e un paio di bicchieri. Fece finta di nulla uscendo velocemente. Arrotolò di nuovo il deca che aveva già la piega e tirò, porse il soldo a Georgi. «No grazie, preferisco evitare.» Alina-Ana invece accettò. Max stappò il Franciacorta e lo versò nei


40 bicchieri porgendoli alle ragazze. Lui bevve a collo, poi si sedette sulla poltrona e fece fuori un’altra riga. Guardò Alina-Ana. La fissò. La donna comprese, si avvicinò piano, sorrise. S’inginocchiò tra le sue gambe aperte, salì con la mano dal ginocchio verso la patta. Guardò anche Georgi, mentre sentiva l’altra che gli accarezzava il pene gonfio sotto i jeans. La sentì cominciare a sbottonare. Anche Georgi si avvicinò. «Girati.» La ragazza gli diede le spalle, la brasiliana nera che indossava risaltava in maniera esagerata il sedere giottesco. Lo raggiunse con una mano, cominciando a palparlo forte. Seguì il solco tra le natiche infilando la mano tra le gambe. Georgi si piegò leggermente in avanti, appoggiandosi con le mani alla scaffalatura che aveva di fronte, in modo da permettergli di accomodarsi meglio. Cominciò ad accarezzarle la stoffa della brasiliana all’altezza del sesso con il taglio della mano mentre restava col pollice a massaggiarla dietro. Sentì l’altra liberare il suo pene dai boxer stringendolo con la mano. Si girò a guardarla giusto in tempo per vedere, e sentire, che lo prendeva in bocca. Socchiuse gli occhi trasalendo. Poi tornò a guardare il culo di Georgi. Prima avrebbe lasciato Alina-Ana finire il suo lavoretto, poi avrebbe preso da dietro Georgi, come meritava. D’altronde erano puttane. Erano tutte puttane. Stavano facendo solo il loro lavoro. E lui stava solo… Si stava solo… Stava solo… Le stava obbligando! Come una qualunque merda di pappone sfruttatore. Se ne rese conto di botto, quasi ridicolmente, con una mano tra le gambe di una e il cazzo in bocca all’altra. Non lo avevano proposto loro, lui non aveva chiesto. Aveva preteso. Preteso che pagassero quella tassa che per tutta la vita si era sempre promesso e vantato di non riscuotere: la riconoscenza. Il cuore si smorzò.


41 Staccò la mano dal cavallo di Georgi e bloccò l’impeto comunque passionale di Alina-Ana per il suo lavoro fatto a un tipo che le piaceva. Sistemò l’uccello e i pantaloni sotto lo sguardo esterrefatto delle due. Poi si chinò a prendere il viso di Alina-Ana, ancora inginocchiata, tra le mani. Le diede un bacio sulla fronte: «Andate via.» «Ho sbagliato qualcosa…» disse Alina-Ana senza capire. «No, no, è che non va bene», rispose Max prendendosi la testa tra le mani. «Guarda che non è un problema.» Georgi restava in silenzio. «È un problema per me, andate via.» Le ragazze si guardarono confuse, poi Georgi aiutò Alina-Ana ad alzarsi. «Sei sicuro Max?» chiese lei andandogli vicino posandogli una mano sul ginocchio. «Andate via!» disse secco e duro, ma senza urlare. Le ragazze uscirono. Si alzò in piedi cominciando a girovagare per la stanza con le mani alla testa buttata all’indietro. Cosa succede? Cosa cazzo succede?! Si chinò sulla scrivania a fare l’ennesima riga, bottiglia a collo. Si pulì la bocca col dorso della mano, quindi si portò fuori a guadagnare l’uscita per salire in macchina e svignare via. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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