In uscita il 30/11/2016 (15,70 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre e inizio gennaio 2017 ( ,99 euro)
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VINCENZO ROMANO
MEZZOSANGUE
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MEZZOSANGUE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-057-3 Copertina: immagine Shutterstock.com Elaborazione immagine: Publipeas Progetto Grafico: S. Gentile
Prima edizione Novembre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Al mio comandante delle truppe d’assalto che mi insegna il coraggio ogni giorno della nostra vita
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«Vento di tempesta!» sentenziò il vecchio Gebert entrando nella locanda. Generalmente tutti pendevano dalle sue labbra quando l’argomento era il clima, ma da quel mattino nessuno si sarebbe aspettato niente di diverso. Il rigido autunno appena finito stava lasciando spazio a un inverno che solo i più ottimisti potevano credere mite. Tuttavia nessuno commentò la previsione di Gebert. Concordare o dissentire equivaleva comunque a intraprendere un discorso. Il vecchio maniscalco non aspettava altro che un’imbeccata per intavolare una discussione che sarebbe durata fino all’ora del pranzo. Gli avventori quella mattina cercavano di farsi coraggio e affrontare il freddo. L’aiuto di un buon boccale di birra speziata era più che gradito. Quelli che si apprestavano ad affrontare una giornata di lavoro iniziarono a uscire alla spicciolata. Via via nella locanda restarono solo gli anziani e chi poteva permettersi di non lavorare, o che per quel giorno non era stato assunto. Ai giovani non era proibito frequentare quel ritrovo. Lo facevano però molto di rado. Venivano infatti presi frequentemente di mira dai clienti abituali, ai quali non potevano certo mancare di rispetto. Preferivano perciò girare al largo. Narog di tanto in tanto aiutava il locandiere a scaricare i carri delle provviste nel retro e a tenere pulita la locanda, nei rari momenti in cui restava chiusa. Cusan, l’oste, non gradiva che il ragazzo si aggirasse tra i clienti. Ciò per la verità a Narog non dispiaceva affatto. Le persone con cui desiderava stare non erano frequentatori abituali della taverna. Dopo aver finito di sistemare i barili nella stanza dietro al bancone, che sapeva di cereali fermentati e legno antico, il giovane uscì dal retro chiudendo il chiavistello. Avrebbe restituito le chiavi a Cusan più tardi. Era ansioso di fare il giro delle sue trappole nel bosco, prima che il tempo peggiorasse. Le giornate si facevano sempre più corte e gli restavano poche ore di luce. Passò da casa a prendere il pugnale e l’arco, avendo cura di non farsi vedere. Suo padre avrebbe provato a dissuaderlo dall’andare incontro alla nevicata. Se Hogar fosse uscito a prendere altra legna, avrebbe certamente notato le sue tracce nella neve candida. Doveva allontanarsi in fretta. Con un
8 po’ di fortuna sarebbe stato di ritorno prima che suo padre si accorgesse della sua assenza. Muovendosi rapido e silenzioso si allontanò nel folto del bosco. La stagione fredda aveva già reclamato le chiome di molti alberi, il tappeto di foglie ingiallite era ricoperto da uno scricchiolante manto di neve fresca spesso quasi un palmo. Era quello il motivo per cui Narog si affidava alle trappole durante il periodo freddo; con la sua stazza avrebbe allarmato un cervo a tre tiri d’arco. Facendo il giro di controllo dei calappi in cerca di selvaggina si ripeteva spesso quella considerazione. Trovava piuttosto disonorevole catturare un animale con un trabocchetto piuttosto che con una freccia o un giavellotto. Solo la necessità di procurare carne e pelli da vendere lo induceva a cacciare in quel modo durante l’inverno. Con passo sicuro percorse il sentiero che si inoltrava nel bosco ammantato di neve e brina. Oltre ai colori, anche i suoni e gli odori erano come ricoperti da una coltre. Riconoscendo a malapena i suoi stessi segnali, Narog trovò alcune trappole scattate a vuoto, che riposizionò. Molte esche non erano state toccate, si ripromise di spostarle appena il tempo fosse migliorato. Il silenzio ovattato che lo avvolgeva fu interrotto da un suono in lontananza. Era certo di non averlo immaginato, era abituato a prestare attenzione al minimo rumore quando andava per il bosco. Non fece in tempo a voltarsi che ogni dubbio fu fugato. Il suono era divenuto inequivocabile, si trattava del cozzar di spade. Prima ancora di decidere cosa fare si accorse di stare correndo, mosso da un’irrefrenabile curiosità. Volava nella direzione da cui provenivano i rumori di quello che aveva intuito essere uno scontro. Rallentò man mano che si avvicinava, temendo di essere scoperto. Conosceva bene quella parte di bosco. Vi aveva disposto molte trappole la settimana precedente. Decise quindi di raggiungere la radura per vedere cosa stava accadendo. Fece un mezzo giro per sbucare da una macchia di alberi. La sua posizione gli permetteva di osservare restando nascosto fino all’ultimo. Un istante prima che sbucasse dagli alberi i rumori cessarono e Narog udì distintamente un tonfo e un gemito. Con cautela si affacciò sulla radura, il viso coperto dal cappuccio che si confondeva tra la vegetazione. Quello che vide non era troppo diverso da quel che aveva immaginato. Un uomo stava in piedi con la spada sguainata. Nonostante la temperatura rigida indossava abiti leggeri, che lasciavano scoperte le braccia. Non portava scudo, la lama della spada aveva una forma molto diversa dalle poche che Narog aveva veduto nella sua giovane vita. Era ricurva, affilata solo da un lato. Sulle braccia e sulle spalle dell’uomo
9 c’erano numerosi segni di inchiostro, che si intuivano appartenere a un unico disegno più grande, coperto dal corpetto di cuoio nero. L’uomo fissava il suo avversario caduto a terra. Lentamente, con gesto quasi automatico, ripulì la lama della sua sciabola con un pezzo di stoffa che portava legato alla cintura. Non c’era traccia di emozione nella sua espressione. Sembrava quasi aspettasse qualcosa. Lo sguardo di Narog incontrò quello dell’individuo che giaceva al suolo. Una profonda pietà gli strinse il cuore. Agì d’impulso, decise che non poteva lasciar morire quel malcapitato senza alzare un dito e sciolse il legaccio della scure che teneva sulla schiena. Si mosse silenzioso come un’ombra eppure fulmineo, nel momento in cui l’uomo tatuato vibrava il colpo di grazia. L’uomo non si accorse di lui fino a che la lama della sua spada non batté sull’enorme ascia. A quel punto, come riscosso da una muta comunicazione tra lui e la figura che giaceva al suolo, si voltò e arretrò di un passo per analizzare il nuovo avversario. «Non credo che questi siano affari tuoi. Sparisci, e fingerò di non averti visto» disse con voce secca e perentoria. «Non mi pare che tu abbia dato a costui molto tempo per spiegare le sue ragioni, e inoltre sei tu che devi sperare che io non ricordi il tuo aspetto» rispose Narog avanzando lievemente in direzione dell’uomo tatuato. Aveva deciso di mostrarsi sicuro di sé, in modo da provare a evitare uno scontro che non era per niente sicuro di poter vincere. Non conosceva il suo nemico, ma nemmeno l’altro conosceva lui, e quello poteva essere un vantaggio. La figura al suolo giaceva immobile. “Probabilmente è solo svenuto” pensò Narog “ma gli resta poco tempo.” L’uomo tatuato agì all’improvviso, estraendo come dal nulla un coltello da lancio che scagliò con un unico fluido movimento. Subito dopo caricò. Intuendo il diversivo, Narog lasciò perdere il coltello e si concentrò sul corpo a corpo. La piccola e affilata lama lo ferì alla spalla sinistra, lacerando il mantello. Narog non badava più allo sconosciuto che giaceva al suolo, era concentrato esclusivamente sullo scontro, cercava di colpire l’uomo che aveva di fronte. In pochi minuti le braccia furono coperte di leggeri tagli, provocati dall’affilatissima lama del suo avversario. Non era un guerriero, la scure gli serviva soprattutto per intimidire i malintenzionati e i bracconieri, solo una volta aveva affrontato un orso (non l’aveva mai confessato a Hogar, pensò per un attimo con imbarazzo). Lo straniero combatteva con eleganza e senza sprecare energie, ogni movimento era frutto di addestramento e la tecnica era fuori dal comune. Narog vibrava fendenti con entrambe le lame della scure, ma
10 l’avversario li evitava con avvilente facilità. Sembrava che stesse solo aspettando il momento per sferrare il colpo decisivo senza correre alcun rischio. La situazione volgeva al peggio. Narog cominciava a pentirsi di essere intervenuto in un affare che non lo riguardava. Un altro colpo sferrato e un’altra ferita subita, l’avversario schivava, fintava e contrattaccava andando quasi sempre a segno. Narog era sempre meno lucido. Con gli avambracci coperti di tagli superficiali cominciò a indietreggiare, il suo avversario ora attaccava direttamente. Lui mirava soltanto alla lama per cercare di deviarla, con sempre meno successo. L’uomo tatuato era in procinto di aver ragione di lui; con un elegante affondo proiettò l’estremità della lama ricurva verso la gola di Narog. Il suo slancio fu disturbato, il colpo rallentò all’improvviso quando un laccio si strinse intorno alla sua caviglia. Aveva messo il piede su una delle trappole di Narog e una robusta corda gli fece perdere improvvisamente la coordinazione. Istintivamente abbassò lo sguardo al suolo cercando di capire cosa era successo. Mentre con un colpo liberava il piede imprigionato, si rese conto che la pur breve distrazione gli sarebbe costata cara. Con uno sforzo disperato Narog lo incalzò di nuovo, colpendolo in pieno con un fendente. L’uomo vacillò e indietreggiò, lasciando l’iniziativa al ragazzo che immediatamente ricominciò ad attaccarlo furiosamente. Le lame cozzarono con fragore, ma la scure di Narog, più pesante e massiccia, non temeva la sciabola nello scontro frontale. La lama ricurva si oppose a pochi fendenti prima di cedere, una lunga crepa si formò nell’acciaio affilato. Dopo alcune finte l’uomo tatuato iniziò a indietreggiare tra gli alberi. Non appena ebbe messo un tronco tra lui e il giovane, toccò un ciondolo che portava appesa al collo e sparì nel nulla. Improvvisamente dimentico delle ferite e della stanchezza, Narog guardò incredulo le impronte dell’uomo; non proseguivano da nessuna parte. Sulla neve nessuno poteva muoversi senza lasciare la più piccola traccia, tanto meno in combattimento. Mentre recuperava il fiato con profondi respiri, si ricordò del motivo che lo aveva spinto a intervenire. Senza mai voltare le spalle al punto in cui il suo avversario era svanito, indietreggiò fino alla figura che giaceva inerme, avvolta in un mantello che cominciava a ricoprirsi di neve. Sollevò di peso il malcapitato e si incamminò verso un capanno di caccia che conosceva.
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11 L’uomo tatuato si materializzò dal nulla. La sala di pietra intorno a lui era fredda, anche rispetto al gelo della tempesta dalla quale proveniva. Alcuni bracieri illuminavano l’ambiente. Le fiamme guizzavano pigramente creando ombre cangianti sulle figure sedute attorno a un tavolo. L’uomo restò immobile, il capo lievemente chinato in avanti. Provava a ignorare il dolore della ferita che aveva al petto e che aveva preso a pulsare. Il tempo sembrò dilatarsi, cullato dal crepitio del fuoco. «Ci sbagliavamo» disse infine spezzando il silenzio «non ha alcun frammento!» «Come puoi esserne sicuro, Del’mos?» rispose una delle figure sedute al tavolo senza nemmeno rivolgere il viso verso il suo interlocutore. «L’ho quasi ucciso, l’avrebbe usato se ne avesse avuto uno» riprese cercando di infondere in ogni parola una sicurezza che non aveva. «Allora avresti dovuto completare l’opera e verificarlo.» Del’mos masticò amaro. Pur avendo presagito quell’epilogo, non era riuscito ad arrivare preparato. Era semplicemente colpevole di aver sottovalutato un avversario, ma gli pesava ammetterlo, più che mai alle persone in quella stanza. «È stato aiutato da qualcuno che non conosceva, sembrava un semplice abitante della zona. Se non fosse stato per un calappio in cui sono finito, avrei portato a termine il mio compito. In ogni caso escludo che il mezzosangue abbia con sé dei frammenti. Ora scusatemi.» Percorrendo i tortuosi corridoi che conducevano al suo alloggio, l’uomo ripensava con ira repressa alle fasi dello scontro. Il suo avversario era forte, ma non alla sua altezza. Sebbene ferito, avrebbe dovuto averne ragione in maniera più rapida, senza aspettare che fosse esausto. Giunto nelle sue stanze chiese alla sua ancella di preparargli un bagno e aiutarlo a togliere l’armatura. Ripose le armi alla rastrelliera e si spogliò di tutto ciò che aveva addosso, tranne il medaglione che gli aveva salvato la vita. Da quello non si separava mai. Nello sfilarsi la tunica rivelò il suo tatuaggio. La sagoma di un ragno campeggiava sull’intera schiena; le otto zampe, le cui estremità arrivavano fin sul petto e sulle braccia, circondavano il torso e le spalle come in un abbraccio. Il disegno era stato realizzato con molta cura. Gli occhi apparivano animati da una luce maligna. I cheliceri aperti sembravano sul punto di scattare. Dall’aculeo del veleno stillavano gocce mortifere, a ogni movimento del corpo la bestia sembrava animarsi. Seduto nell’acqua, ripulì la ferita che aveva sul petto con un panno bagnato. Era addestrato a sopportare il dolore e l’acqua calda riuscì in parte a calmarlo. In fondo la sua missione era compiuta, nessuno avrebbe potuto negarlo. Di solito per recuperare un frammento era necessario
12 uccidere il possessore; non era parte della missione, solo una piacevole eventualità. Rimpiangeva il tempo che aveva impiegato per recuperare informazioni sulla sua preda. In ultima analisi arrivare a conoscerlo così bene da poterne facilmente aver ragione si era rivelato infruttuoso. L’odore del sangue, che l’acqua calda stava lavando via dal suo corpo, iniziò a diffondersi nella stanza mescolandosi con le essenze dei sali dispersi nella vasca. Al ricordo del recente scontro, il suo corpo s’irrigidì e il respiro si fece più rapido. Di nuovo si costrinse alla calma, provando a concentrarsi sul futuro. Di solito pianificava i suoi recuperi in maniera molto minuziosa. Aveva quindi già cominciato a studiare altri due potenziali portatori. Fece mentalmente il punto della situazione concentrandosi su quanto avrebbe fatto nei prossimi mesi. Mentre ripercorreva con soddisfazione i passi fatti nel recente passato e ne apprezzava i risultati, la sua mente fu invasa dal beffardo sorriso che i suoi compagni gli avevano riservato poco prima. Senza abbandonarsi all’ira, decise che per essere completamente sicuro avrebbe spiato ancora per qualche tempo il mezzosangue che aveva quasi ucciso quella mattina. Appena la decisione fu presa uscì dall’acqua, si asciugò con un candido telo di lino e accantonò finalmente la sua inquietudine. Uno dei servitori applicò un impacco sulla ferita, chiudendola con alcuni punti di sutura. L’uomo appariva insensibile al dolore. Rivestitosi, lasciò i suoi alloggi.
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Il capanno era usato molto raramente durante l’inverno, Narog si aspettava di trovarlo vuoto. Entrato, depose il suo carico su un pagliericcio e lo coprì con il pesante mantello che si trovava appeso a un gancio, a beneficio dei cacciatori di passaggio. Con la legna già disposta nel focolare accese il fuoco, e solo allora si azzardò a scostare il cappuccio della persona che aveva salvato. Quello che vide lo sorprese. Il giovane avvolto nel mantello aveva, come lui, le orecchie appuntite all’estremità. Non piccole come le sue; più lunghe e affusolate. Il viso aveva tratti delicati e affilati, dava la sensazione di una figura fragile e al tempo stesso forte. Anche gli occhi avevano un taglio molto diverso da tutti quelli che aveva visto. Il ragazzo doveva essere stato ferito già prima di cominciare lo scontro con l’inquietante uomo tatuato. Il freddo e una rozza fasciatura avevano impedito che morisse. A giudicare dallo stato delle bende e del mantello, aveva perso molto sangue. Narog non aveva tempo da perdere. Dispose nel focolare la legna che era vicino al camino, prese un calderone di metallo. Dopo averlo riempito di neve lo pose sul fuoco. Senza indugiare uscì in cerca di qualcosa con cui preparare degli impacchi e una ciotola di zuppa. Corse fino a una delle trappole che aveva lasciato nella foresta; la neve continuava a posarsi e il vento aumentava di intensità. Ansimando lievemente raggiunse la trappola, posta sulla pista dei roditori, e fu lieto di trovarvi impigliata una lepre. Tornò al capanno muovendosi agile sui sentieri innevati. La neve nel calderone si era ormai sciolta e l’acqua iniziava a scaldarsi. Appena fu tiepida ne prese una ciotola e, imbevuto un panno, cominciò a sciogliere il ghiaccio che si era formato intorno alle bende e a tergere le ferite, cercando di rimuovere ogni impurità. Hogar gli aveva insegnato tutto quel che sapeva sulla medicina, e Narog valutò con attenzione quali tagli suturare. Ringraziò la tenacia con cui il padre insisteva perché portasse sempre a caccia l’occorrente per ricucire un taglio particolarmente profondo. Alla fine l’aveva avuta vinta. Narog aveva semplicemente fissato un sacchetto di cuoio alla faretra, in modo da non poterlo dimenticare né doversene preoccupare più di tanto. Con estrema attenzione suturò i due tagli più profondi, spalmando l’unguento che aveva nel sacchetto. Usò bende pulite ricavate da un pezzo di tela
14 preso dalla bisaccia per fasciare il braccio. Di tanto in tanto il ragazzo gemeva, sembrava preda di un incubo. Narog non osava svegliarlo. Approfittò di un attimo di pace per lavare e fasciare anche le proprie ferite. Non erano tagli profondi. Qualcuno si era già rimarginato. Mentre la carne cuoceva nell’acqua ormai bollente, il ragazzo lentamente aprì gli occhi. Narog vide che erano azzurri e molto intensi, tuttavia non vi era luce nello sguardo. Avvicinandosi al giaciglio si calò il cappuccio sulla testa e chiese piano: «Va tutto bene?» rimproverandosi immediatamente per la domanda stupida. Ovviamente non andava affatto bene. «Suppongo di doverti dei ringraziamenti» rispose una voce arrochita, ma che si intuiva armoniosa. «Non sforzarti di parlare. Hai perso molto sangue; quando il ghiaccio si è sciolto ho sistemato il braccio, ma devi mangiare qualcosa per riprendere le forze.» Senza aggiungere altro prese una ciotola di legno, la riempì con la zuppa e la porse allo sconosciuto che ne sorbì un po’ poggiandosi sul gomito. Il capanno iniziava a riscaldarsi e il viso del giovane a prendere un po’ di colore, liberandosi dallo spettrale pallore che aveva fino a poco prima. Dopo aver bevuto il contenuto della ciotola si riaddormentò profondamente. Narog ne approfittò per riesaminare la situazione; lo sconosciuto era salvo ma il suo assalitore era fuggito, e in un modo assai strano. Una breve riflessione fu sufficiente a decidere che per il momento era meglio non portare il ferito al villaggio. Il suo avversario era un forestiero, per cui di certo non conosceva i capanni dei cacciatori. Il ragazzo era certamente più al sicuro lì dentro che a Shealgair. Ciò gli avrebbe anche risparmiato un bel po’ di seccature. Immerso in tali riflessioni, si dedicò a sistemare alla meglio il suo mantello, lacerato dal coltello che l’uomo tatuato gli aveva lanciato. Di tanto in tanto gettava uno sguardo allo sconosciuto che dormiva di un sonno profondo, ma non tranquillo. Nel capanno si era diffuso un piacevole tepore che sapeva di resina. Le vecchie travi assorbivano in modo quasi visibile l’aria riscaldata dal fuoco del braciere, e la restituivano profumata e tiepida. Mentre ancora indugiava prima di lasciare il tepore del rifugio, Narog esaminò l’abbigliamento dello straniero. Erano abiti diversi da quelli della gente del nord, ma in qualche modo adatti al clima rigido. Lasciavano intuire un recente passato da viaggiatore. Macchie di vari colori costellavano gli orli del mantello, che presentava anche numerosi rammendi, alcuni riparati altri - evidentemente giudicati di poco conto - lasciati a se stessi.
15 Con cautela, cercando di non svegliare il malcapitato, Narog gli tolse la cintura esaminando i due foderi di spada che vi erano appesi, uno per ciascun lato. Uno era vuoto, leggermente curvo, di cuoio brunito e decorato con delle incisioni appena visibili, eppure molto belle. L’altro era di foggia molto più comune, conteneva una sciabola. Narog stesso ve l’aveva infilata recuperandola dal terreno dello scontro, dove il giovane sconfitto l’aveva lasciata. Estrasse la spada dall’impugnatura elaborata; la lama era sottile, di forma leggermente curva. Lo colpì il pensiero di aver visto in poche ore due spade così diverse da quelle cui era abituato. Mosse lo sguardo lungo la lama, con delicatezza ne saggiò il filo, poi si soffermò sulla guardia. Un elaborato intarsio di acciaio difendeva l’impugnatura, rivestita da un laccio di pelle color avorio. L’elsa terminava con un pomolo proporzionato al resto della spada, in cui era incastonata una pietra rossa. Un’arma di fattura così pregiata doveva essere custodita in una guaina di uguale pregio, di certo aveva sbagliato a inserirla nel semplice fodero da cui l’aveva estratta. Provò piano a inserirla in quello decorato, ma gli fu subito chiaro che la lama non era della forma e della lunghezza giusta. Per un attimo pensò di aver lasciato nella radura un tesoro di inestimabile valore; ormai la neve l’aveva di certo ricoperta. Rimase con il dubbio. Avrebbe chiesto al forestiero se portava una seconda lama prima di essere aggredito. L’uomo che aveva di fronte doveva essere un avventuriero, o un cacciatore di tesori. Tuttavia i lineamenti del viso, in quel momento lievemente più distesi, gli parvero quelli di un ragazzo della sua età. Mal si accordavano con quanto invece suggerivano gli abiti e l’equipaggiamento. Il naso era dritto e ben proporzionato, la bocca sottile. Gli zigomi non molto sporgenti e la mascella definita completavano l’ovale delicato del viso, slanciato dalla forma delle orecchie. Decise che era ormai tempo di far ritorno a casa. Era stato fortunato a uscire senza che Hogar se ne accorgesse. «Tornerò domani» mormorò allo sconosciuto addormentato. Narog si incamminò per completare il giro delle sue trappole sperando che, come era già successo altre volte, la selvaggina riportata lo avrebbe salvato dalla ramanzina di suo padre sui rischi di farsi sorprendere al tramonto ancora fuori dal villaggio durante l’inverno. Si sentì improvvisamente spossato, gli avvenimenti si erano susseguiti troppo rapidamente. Per la prima volta aveva combattuto contro un uomo, aveva avuto paura per la sua vita. Era stato incosciente. Aveva agito credendo di salvare un innocente, ma non poteva averne la
16 certezza. L’adrenalina aveva ormai esaurito il suo effetto. Narog si appoggiò a un albero chiudendo gli occhi. Rivide la velocissima lama del suo avversario saettargli davanti, evitando le sue goffe parate. Solo la fortuna gli aveva evitato una fine prematura. Respirando profondamente, riprese il cammino. Per distrarsi ripensò al forestiero che aveva salvato. Era divorato dalla curiosità di sapere chi era e da dove veniva. Si ripromise però di adottare maggior prudenza. Il sole era quasi tramontato quando Narog avvistò la palizzata di Shealgair. Oltre a essersi risparmiato i rimproveri di Hogar fu felice di non dover condividere i sentieri della foresta con cacciatori ben più pericolosi di lui. Come era solito fare, calò bene il cappuccio sulla testa. Con rinnovato slancio si diresse al portale di ingresso di cui Aered, la guardia di turno quel giorno, aveva già chiuso uno dei battenti. Stava già spalando la neve per agevolare la chiusura del secondo. Aered lo salutò sollevato. Narog era l’ultimo a dover rientrare nel villaggio, e ciò significava poter chiudere un po’ prima del tramonto. La luna era infatti già alta nel cielo terso e gli ululati dei lupi si facevano sempre più frequenti. «Vieni dentro ragazzo» urlò quando Narog fu a portata di voce. Senza farselo ripetere il giovane affrettò il passo e sgattaiolò oltre la palizzata. Diversamente dal solito, non passò alla locanda per controllare se c’erano merci da scaricare, dirigendosi direttamente verso casa. Molto meglio essere rimproverati da Cusan che da Hogar! Ricambiava distrattamente i pochi cenni di saluto che gli venivano rivolti. In paese ormai tutti erano abituati alla sua presenza. In strada portava sempre il cappuccio calato sul viso per sfuggire agli sguardi curiosi dei forestieri. Ogni tanto qualcuno chiedeva al locandiere se il suo garzone fosse ammalato o contagioso, perché lo aveva visto muoversi nel retro con la testa coperta. Il giorno successivo Cusan gli avrebbe raccomandato per l’ennesima volta di non farsi mai vedere dagli avventori. Secondo lui Narog avrebbe dovuto raggiungere la locanda dal sottosuolo. Quando era poco più di un bambino, Narog lo aveva promesso a Hogar considerandolo una specie di gioco. Ormai comprendeva benissimo il motivo. La gente di Shealgair non avrebbe apertamente accettato un mezz’orco come abitante del villaggio, e lui sarebbe stato costretto ad andarsene, per quel motivo accettava di buon grado il compromesso. Come mai quel pensiero gli fosse venuto in mente proprio in quel momento, non riusciva a spiegarselo. Per poco non urtò contro Hogar imboccando il vialetto di casa. L’uomo, anche se non più giovanissimo, era alto e vigoroso. I lunghi capelli, un tempo del colore del grano, erano diventati d’argento. Piccole trecce li
17 tenevano in ordine. Il viso trasmetteva serenità. Lo sguardo fermo e sincero contrastava con l’espressione lievemente accigliata conferita dalle rughe disseminate intorno agli occhi chiarissimi. La bocca e il mento erano incorniciati da una barba folta e curata, sormontata da un paio di baffi ancora ostinatamente biondi. L’uomo era uscito di casa indossando solo la corta tunica di lana, i pantaloni da caccia e gli stivali. «Padre!» esclamò Narog quasi urlando «dove sei diretto?» concluse dopo un attimo di esitazione. Pensò che porre una domanda fosse la cosa migliore da fare per non riceverne a sua volta. «Venivo alla locanda a chiamarti, è da stamattina che sei via.» «Ho fatto un giro più lungo per la caccia, ci sono un paio di piste di cervo su cui potrei piazzare delle trappole» rispose «in ogni caso qualcosa ho trovato» aggiunse, estraendo dalla sacca due coppie di lepri dalla pelliccia candida. Narog e Hogar discussero animatamente di tecniche di caccia mentre scuoiavano le lepri e preparavano la carne per seccarla e le pelli per essere vendute. Tutte le volte che suo padre gli chiedeva dove intendesse spostare le trappole, Narog rispondeva in modo vago, descrivendo sentieri e polle d’acqua in cui aveva visto abbeverarsi dei cervi. Dopo cena Hogar accese la sua lunga pipa di tasso e si mise seduto di fronte al camino, come era solito fare. Dopo alcune boccate si rivolse al figlio. «Se domani battendo le nuove piste troverai delle erbe mediche, prendine un po’. Le scorte che ho di sopra stanno per finire.» Appena ebbe ripulito le stoviglie, Narog gli disse che era stanco e si diresse verso la sua stanza. Salito al piano superiore, andò prima verso lo scaffale dove Hogar conservava gelosamente alcuni libri. Il cacciatore era uno dei pochi abitanti di Shealgair a saper leggere e scrivere, e nessuno sembrava sapere dove e quando avesse imparato. Di tanto in tanto qualcuno dei mercanti del sud riusciva a procurargli un libro, che egli custodiva come una reliquia. Narog prese un volume che aveva sfogliato molte volte con Hogar e sgattaiolò a letto.
~ Balzò in piedi di scatto, come era solito fare tutti i giorni poco prima dell’alba, si alzò dal suo giaciglio e si preparò per affrontare la giornata. Era ormai abituato ad alzarsi molto presto, si stava allenando da mesi in quella radura. L’addestramento per diventare Custodi della spada dell’anima era duro, e solo lui era riuscito a resistere fino a quel punto. Mancavano ormai poche settimane, più che saperlo lo sentiva. Da un giorno all’altro il suo maestro gli avrebbe rivelato il segreto della
18 cerimonia dell’Infusione. Prima di uscire praticò gli esercizi di meditazione. Aveva faticato molto prima di comprendere l’utilità di quella pratica. L’aveva giudicata un modo vano di impiegare il tempo. Con l’addestramento aveva imparato a sfruttare la contemplazione come strumento per comprendere le sue potenzialità e i suoi limiti, e sfruttare questa conoscenza per migliorarsi in combattimento. Si chiese per un attimo come mai quel pensiero gli attraversasse la mente in quel momento. Scese agilmente la scala che separava il suo rifugio dal terreno. Dopo pochi pioli si lasciò cadere al suolo. Si fermò un istante, aspettando il rimprovero che puntuale arrivava quando Kai sollecitava il suo corpo prima degli esercizi mattutini. Non sentendo alcuna voce si voltò con un movimento fluido, esplorando la radura con lo sguardo. Si diresse quindi verso il ceppo posto al centro dello spiazzo. Il legno riportava migliaia di scalfitture, erano segni di fendenti e affondi. Era lì dal primo giorno del suo addestramento, e in molte sessioni gli aveva fatto da bersaglio. Nel corso delle settimane era profondamente cambiato, così come era cambiato lui. Si rimproverò per la sua leggerezza; avvicinandosi al ceppo aveva guardato in tutte le direzioni fuorché in alto. Era sicuro che il maestro gli sarebbe piombato addosso dal groviglio di rami che faceva da tetto al suo campo di allenamento. Alzò lo sguardo pensando a una possibilità di schivare l’assalto ma non vide che alcuni scoiattoli che lo osservavano placidamente da un alto ramo. Se erano lì tranquilli, sui rami non poteva esserci nessun altro. Non era mai successo che il maestro tardasse all’appuntamento mattutino e Kai non sapeva cosa pensare. Esplorò tutto il territorio intorno a sé, si concentrò sul più piccolo suono o odore che veniva dai dintorni. Via via che li riconosceva, li escludeva mentalmente dalla sua percezione. Dopo alcuni minuti di intensa concentrazione aveva classificato tutte le sensazioni senza trovare quel che cercava. Si sorprese di non provare timore per il suo maestro, lo considerava a tal punto difficile da sconfiggere che nulla avrebbe rappresentato un reale pericolo per lui. Sentiva invece una crescente angoscia montargli dentro. Provò a non perdere il controllo; in fondo poteva anche trattarsi di una lezione imprevista, un allenamento non fisico ma mentale. Esplorò il suo rifugio alla ricerca di un indizio o un messaggio. Quindi entrò nel rifugio del maestro, trovandolo vuoto. La visione lo precipitò nello sconforto. Le cose appartenute al suo mentore erano sparite, sul pavimento e sulla essenziale mobilia
19 restavano solo le impronte non impolverate dei pochi oggetti che vi erano posati fino al giorno precedente. Kai si chiese se ciò facesse parte dell’addestramento; negli ultimi tempi era stato messo spesso in situazioni critiche per verificare le sue capacità. Era talmente sconvolto che di primo acchito non si accorse della grande scritta sul pavimento. Era così manifesta che gli era stata invisibile fino a quel punto. Diceva solo: “Da questo momento inizia il tuo percorso.”
~ Kai si svegliò di soprassalto, ancora immerso nell’inquietudine. Cercò di capire dove si trovava usando le prime immagini che aveva a disposizione. La ciotola vuota che aveva davanti e il profumo della zuppa che aleggiava nella stanza lo riportarono pian piano alla consapevolezza degli ultimi avvenimenti. L’assalto subito aveva a che fare con la sua ricerca o era stato casuale? Era stato incauto, ma anche molto fortunato. Con ogni probabilità sarebbe morto assiderato, anche se il suo avversario l’avesse abbandonato dove si trovava. Qualcuno però era intervenuto e lui era ancora vivo, seppure un po’ malconcio. Chi lo aveva salvato doveva essere un ottimo combattente o uno stregone, per aver avuto ragione del Cacciatore. Provò a muoversi, ma il suo corpo rispondeva con fitte dolorose. Dopo poco si riabbandonò a un sonno agitato.
~ Il sole era sorto in un cielo insolitamente limpido quel mattino, contrariamente a quanto profetizzato dal vecchio Gebert. Narog sbrigò rapidamente le sue faccende a casa e alla locanda prima di correre nuovamente al capanno nel bosco. Portava con sé il libro di Hogar nascosto sotto il mantello. Corse, quasi senza toccare terra, per sentieri che conosceva benissimo e in un lampo fu al capanno. Per strada raccolse alcune delle erbe che Hogar gli aveva chiesto. La curiosità gli aveva messo le ali ai piedi. Giunto a destinazione rammentò a se stesso i propositi di cautela, prima di aprire lentamente la pesante porta di legno. Il forestiero dormiva profondamente. Narog decise di non svegliarlo, anche se moriva dalla curiosità. Riattizzò il fuoco nel focolare aggiungendo altra legna, estrasse dalla bisaccia il libro di botanica e la borsa delle erbe curative che aveva portato con sé e si accinse a cambiare la fasciatura al forestiero. Scelse con cura le foglie e le radici, aiutandosi
20 con le illustrazioni sulle pagine ingiallite. Abituato a medicarsi da solo, seppur raramente, non ci mise molto a preparare e applicare l’impacco. Le ferite più gravi del forestiero non erano infette, tuttavia non vide i miglioramenti che si aspettava, mentre le sue ferite erano quasi del tutto rimarginate, a eccezione dei tagli più profondi. Fasciò di nuovo il braccio con bende pulite, gettando nel fuoco quelle che aveva cambiato. Il forestiero giaceva inerte, scosso ogni tanto da qualche sussulto. Sembrava immerso in un sonno tormentato. Per evitare di tardare come il giorno precedente, si diresse verso Shealgair portando con sé le erbe mediche che gli aveva chiesto Hogar. Rifletté sul fatto che il padre gli aveva fornito un’ottima scusa per allontanarsi dal villaggio. Sulle prime Narog aveva pensato che Hogar sospettasse qualcosa, si era tranquillizzato solo quando la lista delle erbe da recuperare si era allungata al punto da scongiurare ogni sospetto. Nei giorni seguenti Narog sbrigava i suoi compiti con maggiore efficienza e velocità del solito. Ogni giorno usciva a caccia e quasi sempre tornava con delle prede, tanto che lui e Hogar scambiarono molta carne per formaggio, frutta e pane in gran quantità. Non parlò con nessuno di quel che era successo nel folto del bosco. Considerava lo straniero che aveva salvato come una sua responsabilità e avrebbe fatto tutto il necessario per curarlo fino alla completa guarigione. Appena possibile si recava al capanno, anche solo per pochi minuti. Controllava che vicino al giaciglio ci fosse acqua e nel focolare legna a sufficienza, poi usciva. Se non aveva da fare preferiva non sostare nel capanno. Non voleva attirare l’attenzione su quel luogo. Soprattutto lo divorava la curiosità per le cose che avrebbe voluto domandare al forestiero. Più di una volta fu sul punto di chiedere a suo padre informazioni sulla gente dalle orecchie a punta; ma si trattenne, timoroso di suscitare a sua volta troppe domande. Alla locanda aveva udito di tanto in tanto storie sugli elfi. Popolo misterioso dai grandi poteri. Nei racconti gli elfi erano nobili e alteri. Forse il forestiero misterioso era un avventuriero appartenente al popolo dei boschi. La mattina del settimo giorno dopo lo scontro, Hogar decise di recarsi al mercato. Era solito affidare a qualcuno dei mercanti diretti in città le pelli e le pellicce che aveva deciso di vendere. Come al solito, non chiese a Narog di accompagnarlo. Preferiva non esporlo a rischi se non era strettamente necessario. Nel villaggio l’insolito aspetto del ragazzo era tollerato. Al di fuori della palizzata il segreto non era al sicuro. Narog per una volta non si oppose, e Hogar lo interpretò come segno di una maturità ormai raggiunta da parte del ragazzo, che generalmente accettava con malcelato disappunto quel tipo di decisioni.
21 I due sistemarono su un carretto le pelli e le pellicce che avevano intenzione di vendere, lasciando quelle che avrebbero usato per sé o che avevano tenuto da parte per qualche abitante del villaggio. Hogar attaccò il cavallo e si incamminò verso l’accampamento dei mercanti. Appena il padre fu fuori vista, Narog volò nel bosco. Aveva scaricato i carri e sistemato le vivande nella locanda la sera prima per poter lasciare subito il villaggio. Non voleva perdere l’occasione di passare l’intera mattinata al capanno.
~ Kai aprì gli occhi lentamente, altrettanto lentamente li richiuse e si mise ad ascoltare il suo corpo. Le membra erano indolenzite, ma le ferite gli dolevano sempre meno. Non aveva febbre e quello era buon segno. Con cautela esplorò la fasciatura intorno al braccio sinistro, trovandola ben fatta. Il braccio gli faceva molto male, ma a giudicare dall’aspetto non correva il rischio di perderlo; qualcuno doveva aver lavato la ferita prima di bendarlo e forse anche applicato un impacco. Attraverso le bende avvertiva chiaramente l’odore delle erbe con le quali era stato medicato, misto a quello del sangue. Per quanto si sforzasse, non ricordava nulla del suo soccorritore. Si era appena reso conto di essere stato portato in quel capanno. Qualcuno aveva acceso il fuoco, preparato la zuppa e pensato alla sua ferita, ma non riusciva a ricordare chi fosse. Di certo aveva continuato a prendersi cura di lui, dato che il fuoco era stato acceso più volte e aveva trovato acqua e cibo vicino al giaciglio a ogni risveglio. Ricordava di essersi diretto a nord dopo l’ennesimo fallimento; secondo le indicazioni doveva trovarsi nei pressi di Shealgair, ma in qualche modo doveva aver sbagliato strada. Si sorprese ad accorgersi del silenzio che regnava nel capanno; dopo giorni nel vento ululante era una sensazione quasi dolorosa. Cercando di focalizzare la sua consapevolezza, percorse mentalmente i centri di equilibrio del suo corpo. Si accorse quasi immediatamente di non avere la spada al fianco. Senza perdere la concentrazione aprì appena gli occhi vedendo i due foderi appoggiati sul tavolo che si trovava accanto al suo giaciglio. Con movimento aggraziato, cercando di non riaprire le ferite, sollevò i due foderi e li appoggiò al suo fianco, in modo da avere la lama a portata di mano in caso di necessità. Udì dei passi avvicinarsi alla casa, istintivamente si stese nella posizione che aveva quando si era svegliato, rendendosi tuttavia conto che era inutile. Probabilmente chi si avvicinava era il suo soccorritore. Attese pochi istanti per conoscere la risposta. La porta si aprì lentamente e una
22 massiccia figura si stagliò sulla soglia del capanno, scrollando via la neve dagli stivali e dall’orlo del mantello. Narog notò subito che qualcosa era cambiato. La spada del forestiero non era dove l’aveva lasciata ma accanto al letto. “Bene” pensò “vuol dire che sta meglio.” Il suo sguardo si volse intorno, alla ricerca di altri eventuali cambiamenti. Mentre accennava togliersi il mantello si accorse che il forestiero era sdraiato su un fianco e lo guardava. Si fermò interdetto, fissandolo. «Non credevo che ti saresti ripreso così in fretta» disse non appena si fu riavuto dalla sorpresa. Kai lo osservò, cercando di intuire l’aspetto dello straniero tra le pieghe del cappuccio. La lucerna era spenta, e la poca luce che filtrava dalle piccole finestre non era sufficiente per vedere i tratti del viso del suo salvatore. «Le tue cure sono state molto efficaci, e le zuppe non erano da meno» rispose dopo qualche istante. Narog restò senza parole; erano giorni che stilava nella testa la lista delle domande che avrebbe rivolto al forestiero, classificandole per importanza e urgenza nel caso in cui non avesse potuto formularle tutte. Il dialogo era partito dal punto sbagliato, cogliendolo impreparato. Kai si chiese se colui che era appena entrato era davvero la persona cui doveva la vita; nonostante la figura imponente non aveva l’aria di un combattente in grado di sconfiggere uno dei Cacciatori. Intuendo che avrebbe atteso a lungo prima che gli fosse rivolta di nuovo la parola, prese l’iniziativa. «Da quanto tempo mi trovo qui?» chiese, anche se in quel momento erano altre le cose che avrebbe voluto sapere. «Da una settimana» rispose l’altro senza togliersi il mantello. Poi, come se avesse ritrovato il filo dei suoi pensieri, gli chiese tutto ciò che durante quei giorni aveva agognato sapere. Sommerso dalle domande, Kai decise che era meglio provare a prevenirle. «Il mio nome è Kai, e non sono di queste terre. Sono in viaggio da molto tempo per una ricerca. Suppongo di dovere a te la mia salvezza e le cure che ho ricevuto, pertanto sappi che hai la mia gratitudine, secondo l’usanza della mia gente.» Narog si accorse di essere rimasto completamente immobile, affascinato dalla voce dello straniero, dal tono e dall’accento molto esotici. Spostò il peso da un piede all’altro e con un certo imbarazzo si presentò a sua volta:
23 «Il mio nome è Narog, figlio di Hogar, di Shealgair. Non devi ringraziarmi per le cure.» Mentre finiva la frase distolse lo sguardo; non era a suo agio in quella situazione, anche se il forestiero si era dimostrato molto amichevole. Decise che non gli piaceva restarsene lì impalato. «Ho portato del sidro e un po’ di carne per uno stufato. Ti sarai stancato di acqua e zuppa immagino.» Senza aspettare la risposta versò dell’acqua nel paiolo che sospese al gancio sul focolare ed estrasse dalla bisaccia carne ed erbe che aveva portato con sé. Presi due boccali di legno, li riempì con il sidro e ne porse uno a Kai, che nel frattempo si era seduto sul bordo del giaciglio e continuava a osservarlo chiedendosi come mai il suo misterioso salvatore non si fosse ancora tolto il cappuccio che gli copriva la testa. Non parlarono molto nei minuti successivi, ciascuno dei due aspettando che la realtà dell’altro sostituisse in maniera convincente quel che aveva immaginato. Stringendo appena la presa sul boccale pieno, Narog si rassegnò al fatto che alcune delle sue domande avrebbero dovuto aspettare. Decise che era il momento di cercare di scoprire di più sullo scontro nel quale era intervenuto, e raccontò del rocambolesco incontro nel folto del bosco. Gli occhi obliqui tradirono l’interesse di Kai per i particolari che, privo di sensi, non aveva potuto cogliere. Narog gli parlò della sua caccia, dei rumori uditi in lontananza, dello scontro con l’uomo tatuato e di come era riuscito ad avere la meglio nonostante la forza del suo avversario. Non accennò al modo in cui l’uomo era fuggito, temendo di essere preso in giro per la sua credulità. Si giustificò per non aver portato Kai al villaggio, e finalmente gli disse che c’erano molte cose che intendeva chiedergli. Levando il bicchiere dal tavolo Kai gli rivolse uno sguardo colmo di gratitudine e gli disse piano: «Non lo dimenticherò» e aggiunse «a Narog figlio di Hogar, detentore di un coraggio pari solo alla sua generosità.» Mentre il profumo della carne iniziava a diffondersi nel capanno, mescolandosi con gli odori della resina e delle pelli, Kai e Narog continuarono a scambiarsi informazioni sui recenti avvenimenti, sui quali entrambi avevano numerosi particolari da chiarire.
24
3
Erano trascorsi alcuni giorni dallo scontro nei pressi di Shealgair. Del’mos aveva pensato sempre meno alla sua fuga dal bosco, concentrandosi sulla sua nuova caccia. Il bersaglio era una giovane mezz’elfa di nome Amber. Lavorava in un mercato di stoffe a sud della capitale. I segni della sua ascendenza elfica erano a malapena visibili sul suo viso. Piccole differenze che la rendevano più attraente delle sue amiche agli occhi dei ragazzi del villaggio. Erano stati sufficienti pochi contatti per concludere che la ragazza non possedeva frammenti. In passato ciò era stato sufficiente per spingerlo a seguire un’altra pista. Del’mos però continuava a insistere. Seguire una preda poco appetibile gli permetteva di tener fede al suo proposito di spiare di tanto in tanto il mezzosangue che gli era sfuggito, per fugare ogni dubbio sul suo conto. Dopo il consueto, intenso allenamento mattutino, si recò nei suoi alloggi per preparare una divinazione. Tra i Cacciatori era uno dei pochi a potersi servire della chiaroveggenza, e non tutti ne erano al corrente. Del’mos era geloso del suo potere e non collaborava alle ricerche altrui più di quanto fosse strettamente necessario. Congedati con un cenno i suoi servitori, chiuse a chiave la porta e iniziò a preparare il rito. Aprì un armadio sui cui scaffali erano allineate numerosissime boccette, ciascuna recante una etichetta. Su ogni etichetta c’era un nome. Molti nomi erano segnati con una X. Con tocco leggero delle dita esperte Del’mos esplorò gli scaffali. Lo fece più per compiacersi delle numerose X che aveva tracciato sui nomi delle sue vittime che per reale necessità. Quelle ampolle non erano ormai utili a nessuno scopo. Le conservava unicamente per tenere memoria delle sue imprese. Ricordava bene dove aveva riposto una delle sue più recenti acquisizioni. Con una pinzetta metallica estrasse un capello da un’ampolla, su cui era indicato in rossi caratteri Liten: “Kai-elfblood”. Depose delicatamente il capello su un panno di velluto scuro che aveva preparato su un tavolino. Dalla stessa ampolla trasse un pezzo di stoffa e un frammento di cuoio, che dispose con movimenti rapidi e precisi ai lati del capello. Muovendosi lentamente, per non spostare ciò che aveva posizionato, si allontanò dal tavolo. Da un sacchetto di cuoio chiuso in un cassetto estrasse un frammento di pietra dal colore difficile da definire. Il grigio
25 perlaceo aveva riflessi lattescenti, di tanto in tanto una sfumatura colorata sembrava comparire sulla superficie, che immediatamente ritornava del suo colore senza nome. Del’mos prese il frammento con la mano guantata. Con estrema cura lo pose sul panno, vicino agli altri oggetti. Trasse un profondo respiro cercando di fare il vuoto nella sua mente. Tolse i guanti e toccò lievemente il frammento con la punta di un dito. Udì se stesso pronunciare le parole: «Dammi occhi per questo vivente.» Appena iniziò a parlare il frammento cambiò colore. Continuando a salmodiare la stessa frase toccò uno dopo l’altro i tre oggetti che erano disposti intorno al frammento. Pur essendo preparato a quanto stava per accadere ne fu travolto. Un’onda di energia lo percorse partendo dalle dita e diffondendosi in tutto il corpo. Come una inarrestabile marea, il flusso cercava nel corpo di Del’mos un modo per entrare in contatto con la realtà. Purtroppo la ricerca non era particolarmente delicata. Dopo pochi interminabili attimi l’aura magica entrò in contatto con gli occhi. Il dolore cessò di colpo. Il suo corpo si accasciò sulla poltrona come svuotato, il respiro muoveva il petto in modo quasi impercettibile, il resto del corpo era immobile. Le palpebre si chiusero di scatto sui profondi occhi azzurri dal taglio lievemente obliquo e per un attimo non accadde nulla. Il frammento pulsava e vibrava sul velluto nero come se dovesse sollevarsi in aria da un momento all’altro. Gli occhi di Del’mos si spalancarono rivelando due pozzi di luce bianca, striata delle stesse cangianti tonalità del frammento di roccia. E Del’mos vide ciò che vedevano gli occhi di Kai, e in quello stesso istante seppe con certezza che era ancora vivo. Se avesse tentato di divinare qualcuno che non apparteneva più al mondo, l’incantesimo non avrebbe prodotto alcun effetto. Era rimasto molto deluso da quel particolare del sortilegio. In effetti uno dei motivi per cui aveva appreso la chiaroveggenza era stato scoprire ciò che le sue vittime vedevano dopo la morte. Intorno a sé vedeva un piccolo ambiente, quasi interamente in legno. Si trovava probabilmente seduto su un giaciglio e davanti a sé c’era una tazza piena di cibo. Quello dei pasti era un pessimo momento; lo sguardo di coloro che spiava era sempre concentrato su ciò che stavano mangiando ed era difficile cogliere quanto altro ci fosse attorno. Attese pazientemente la fine del pasto, nel frattempo si dedicò a studiare le braccia del mezzosangue. I segni del duello erano ben evidenti, le ferite in via di rimarginazione sarebbero diventate vistose cicatrici sulle affusolate braccia della sua preda. Questo significava che per curarlo non era stata usata nessuna forma di magia.
26 Mentre era immerso in quelle considerazioni, vide con la coda dell’occhio un movimento. L’incantesimo che aveva evocato non consentiva di percepire i suoni. Non poteva sapere quante persone ci fossero nella stanza fino a che il mezzosangue non avesse rivolto loro lo sguardo, o non fossero entrati nel suo campo visivo. Non ne fu certo finché non lo rivide alcuni secondi dopo, ma intuì immediatamente chi era colui che aveva intravisto. Il suo istinto gli suggeriva di dominare l’ira e di osservare. Gli diede ascolto con fiducia. Sapeva che lasciarsi accecare dall’ira quando l’unico senso a propria disposizione è la vista non gli avrebbe portato alcun beneficio. Continuò a studiare ciò che vedeva, maledicendo in silenzio l’orlo del cappuccio e ogni singolo capello che gli limitava la visuale. Gli apparivano come il soffitto e le sbarre di una angusta cella. Quando finalmente il mezzosangue alzò lo sguardo, Del’mos grugnì di soddisfazione, e un istante dopo di sorpresa. Il giovane che lo aveva costretto alla fuga, pur approfittando di una buona dose di fortuna, non portava quasi alcun segno dello scontro. Le braccia, che lui si era divertito a colpire più volte, gustando la disperazione del suo avversario, erano prive di ferite. Sciolse l’incantesimo mentre un ghigno pian piano gli si dipingeva sul volto, non era utile sprecare altre energie in quella divinazione. Avrebbe fatto una gradita sorpresa agli altri Cacciatori recuperando un frammento di cui tutti ignoravano l’esistenza. Vibrò di soddisfazione al pensiero di avere un’altra preda da spiare, da mettere in trappola e uccidere. Dato l’esito del loro ultimo scontro avrebbe pianificato la caccia con estrema cura. L’avrebbe costretto a rivelargli chi possedeva il frammento; se fosse stato lui il possessore l’avrebbe certo adoperato durante lo scontro. Immerso in quei pensieri, suonò il campanello per convocare i suoi servi e si fece portare il pasto. Per la prima volta da giorni avrebbe pranzato con soddisfazione.
~ Il sole era ormai alto quando Kai e Narog fecero la prima vera pausa del loro discorso. Gli occasionali silenzi avevano riguardato brevi esitazioni nello scambio di informazioni. Entrambi, consapevoli di aver chiesto troppo, avevano considerato il silenzio dell’altro come una risposta sufficiente o un tacito invito a porre una diversa domanda. Nulla seppe Narog riguardo alla seconda spada, se non che Kai non la portava con sé al momento del duello. Nulla seppe Kai sull’identità di Narog, dato che il giovane mezz’orco non si privò mai del cappuccio che gli copriva il capo.
27 Entrambi si accontentarono di quel che avevano ricevuto. Le ciotole, vuotate dello stufato, giacevano sul tavolo insieme ai boccali di legno e briciole di pane. Un tiepido sole faceva capolino dalle piccole finestre del capanno. Per essere una giornata di inizio inverno era anche troppo calda, pensò Narog, rallegrandosi per Hogar che doveva trovarsi nel pieno delle contrattazioni. A malincuore decise di affrontare l’argomento: «Cosa farai ora? Riprenderai la tua ricerca?» chiese cercando di non tradire la sua speranza e contemporaneamente non apparire scortese. «Di certo la riprenderò» rispose Kai «ma non prima di aver visitato il tuo villaggio. Se gli abitanti sono tutti come te deve essere un luogo pieno di sorprese.» L’espressione preoccupata di Narog richiese a Kai uno sforzo di interpretazione. «Se non ritieni opportuno che lo faccia andrò per la mia strada» si affrettò a soggiungere. «Il fatto è» riprese Narog «che nessuno a Shealgair sa che ho combattuto nel bosco. Nemmeno si immaginano che tu sia qui, per cui…» «Allora basterà non dirglielo. In fondo sono in debito con te, per cui racconterò semplicemente di essere arrivato da sud, con i mercanti di pelli.» Più che sollevato per quel che aveva sentito, Narog propose di incamminarsi approfittando del bel tempo. In quella stagione era facile imbattersi in qualche nevicata improvvisa. Detto questo lasciò Kai a prepararsi mentre lui si occupava di ripristinare le scorte di legna e di acqua nel capanno. Averle trovate intatte gli aveva fatto risparmiare molto tempo quando aveva soccorso il forestiero ferito. Narog aveva in parte accantonato la sua diffidenza nei confronti dello sconosciuto. Il ragazzo gli era sembrato sincero, piuttosto che mentirgli aveva taciuto. Quando furono entrambi pronti si incamminarono sul sentiero che puntava a Nord, verso il villaggio. L’aria, riscaldata da un tiepido sole per tutta la mattina, aveva convinto molti animali a uscire dalle tane per cercare cibo, e nel cielo terso volavano diverse specie di uccelli. Kai respirò a pieni polmoni; i suoni e gli odori della natura gli invasero i sensi e lui li lasciò fare. Dopo una settimana trascorsa nell’ovattato ambiente del capanno di caccia non avrebbe potuto desiderare di meglio. I muscoli, indolenziti dalla forzata inattività, formicolavano come svegliandosi da un lungo sonno. Si ripromise di riprendere i suoi esercizi dalla mattina successiva. Nonostante i recenti scontri da cui era uscito piuttosto malconcio, era da tempo che non si sentiva così in forma. La vecchia ferita al braccio, che gli aveva impedito di combattere contro il
28 Cacciatore, era in via di guarigione grazie alle cure che Narog gli aveva prestato. Guardava il suo soccorritore camminare qualche passo davanti a lui. Dopo essere usciti dal capanno di caccia non avevano scambiato che poche parole. Entrambi avevano bisogno di un po’ di tempo per riflettere su quell’incontro. Il vento trasportava il lieve odore del fumo proveniente dal villaggio. Kai avanzava con andatura leggera e regolare, il mantello allacciato e la familiare sensazione della spada al suo fianco. Narog percorreva il sentiero con passo sicuro; sarebbero arrivati a casa in tempo per il pranzo. Dopo tanti giorni trascorsi con la mente rivolta alle ferite di Kai, quel pensiero gli sembrò piuttosto buffo. Si sforzava di concentrarsi sulla strada, anche se avrebbe potuto percorrerla al buio tanto gli era familiare. Sentiva il passo di Kai tenere il ritmo del suo. Senza accorgersene rallentò lievemente man mano che si avvicinavano al villaggio. Sapeva che, varcata la soglia, lo straniero non sarebbe più stato una sua esclusiva e temeva che ciò avrebbe significato lasciare alcuni quesiti per sempre irrisolti. Teneva perciò gli occhi fissi a terra, in cerca di tracce o di altri segni del passaggio di animali. Era l’unico modo che gli fosse venuto in mente per non guardarsi continuamente alle spalle. Ogni tanto sbirciava con la coda dell’occhio il suo compagno di strada, indeciso se riprendere o meno il discorso che avevano interrotto quando si erano messi in cammino. Rompendo gli indugi si volse improvvisamente ritornando sull’argomento che maggiormente lo incuriosiva. «Se non avevi con te un’altra spada perché porti due foderi?» chiese d’un fiato, fermandosi appena al lato del sentiero. Kai rallentò senza fermarsi; il fumo che saliva dai comignoli indicava ormai chiaramente la posizione del villaggio. Superò il punto dove Narog era fermo a lato del sentiero, con gli stivali da caccia sprofondati nella neve fresca, e proseguì in direzione di Shealgair. Narog avvampò per la vergogna; non era riuscito a resistere ed era tornato su un argomento sul quale in precedenza Kai era stato volutamente evasivo. Dopo qualche secondo si rimise in cammino, gli occhi fissi sulle orme che segnavano appena il sentiero che lo separava dal villaggio. Dopo pochi minuti furono in vista della palizzata. Kai rallentò leggermente. Narog interpretò il gesto come la volontà di farsi precedere alla porta per essere presentato alla guardia. Con il capo chino e il viso ancora livido per l’imbarazzo lo affiancò.
29 «Il fodero che porto è destinato a una lama che non possiedo. Mi è tuttavia difficile separarmene, per questo lo porto alla cintura anche se è vuoto» gli disse Kai calmo, come se la domanda gli fosse appena stata rivolta. Non sapendo cosa rispondere, Narog si limitò ad annuire e affrettò il passo verso il villaggio. Appena fuori dalla palizzata, da una sedia che probabilmente era vecchia quanto l’insediamento stesso, la guardia Darmian rivolse un cenno a Narog per poi tornare a intagliare un pezzo di legno appena sbozzato. La spada appoggiata alla recinzione e lo scudo usato come sostegno per la piccola figura in legno, che aveva appena iniziato a riprodurre, non erano forse mai state usate come armi. Il giovane aveva gli occhi scuri fissi sul suo lavoro, non era un colore molto comune nelle regioni settentrionali. La sua famiglia si era spostata anni prima dal sud, e il nonno era entrato nel piccolo corpo di guardia del villaggio. Dopo di lui anche il padre e infine lui stesso avevano continuato la tradizione. Narog sapeva che Darmian avrebbe voluto fare l’artigiano a tempo pieno, ma non osava abbandonare il servizio per non scontentare il padre. Aveva convinto il ragazzo a mostrare le sue statuette ai mercanti della carovana qualche anno prima. Avendole vendute tutte, il giovane era diventato un frequentatore abituale del mercato invernale. Darmian non chiese nulla a Kai, vederlo entrare insieme a Narog era una garanzia più che sufficiente per non rivolgergli alcuna domanda. Shealgair ferveva di attività. Per il villaggio l’arrivo delle carovane dei mercanti da sud era l’ultimo sussulto di vitalità prima del grande freddo. L’inverno lo avrebbe intorpidito del tutto fino alla festa dell’anno nuovo. Per i ritardatari e gli sbadati era anche l’ultima occasione di procurarsi provviste da conservare in casa nel periodo in cui era difficile andare a caccia con successo. In realtà la presenza dei mercanti era solo un buon pretesto. Numerosi scambi di piccola entità avvenivano tra abitanti del villaggio o dei paesi vicini e non richiedevano certo la mediazione dei carovanieri. I mercanti si fermavano solitamente a qualche miglio da Shealgair. Nel corso degli anni si era creata, poco distante dalla strada, una radura sempre più ampia, che consentiva l’accesso di carri, animali e merci. In breve tempo i mercanti vi allestivano delle vere e proprie botteghe. Per alcuni giorni un viavai ininterrotto dai villaggi animava le strade e i sentieri. Molti dei mercanti restavano con la carovana, altri mandavano i loro aiutanti nelle comunità per elencare le merci disponibili e quelle richieste. Cacciatori, artigiani, contadini e gente comune, tutti portavano al mercato i loro risparmi o quel che avevano da barattare restando difficilmente a mani vuote.
30 Narog aveva sempre vissuto quell’evento con un misto di invidia e desiderio. Hogar non si lasciava convincere facilmente a portarlo al mercato, dato che temeva per la sua incolumità. In cambio gli aveva sempre portato qualcosa di prelibato al ritorno dalle trattative. Per le strade del villaggio si vedevano più persone, le guardie alle porte aprivano sempre entrambi i battenti per consentire il passaggio a uomini e piccoli carri. Le donne approfittavano per ripulire le case prima che il freddo fosse troppo intenso per spegnere i focolari, vuotare le legnaie e spostare i barili delle dispense per poi risistemare tutto, in modo da non avere sorprese durante l’inverno. Gli attrezzi per la caccia e per lavorare la terra venivano ripuliti, affilati e riposti. Perfino la piccola guarnigione della milizia lucidava armi e armature, ripuliva la camerata e l’armeria, nonostante fossero giorni piuttosto movimentati rispetto al solito. Sembrava che tutti fossero molto indaffarati. Quelli che non lo erano, o che non volevano collaborare, andavano al mercato o alla locanda per evitare che la loro pigrizia fosse evidente. Anche alla locanda c’era molta più agitazione del solito. Cusan era solito fare ottimi affari in quel periodo, al punto da assumere un altro paio di garzoni per aiutare Narog nelle sue faccende. Fu proprio Rilat, uno dei due, a chiamare Narog rivolgendogli ampi gesti. «Ehi Narog, dov’eri finito? C’è una cosa che devi assolutamente vedere!» Lievemente sorpreso, Narog lo seguì alla locanda, scoprendo di poter percepire la presenza di Kai anche in mezzo alla folla. Contrariamente al solito entrò dalla porta principale. L’ambiente era pieno e i familiari odori di fumo, luppolo e sidro sembravano più intensi, così come il caldo, quasi sorprendente considerata la temperatura esterna. C’era molta gente stipata nella stanza. Quasi tutti stavano assiepati al centro, evidentemente assistendo a qualcosa di molto interessante. Bren, l’altro garzone, approfittava della situazione per liberare alcuni tavoli e asciugare il pavimento per evitare a qualcuno una brutta caduta. Di tanto in tanto volgeva lo sguardo verso lo spazio al centro della stanza, sgombro dai tavoli. Non era possibile vedere nulla a causa del fitto cerchio di avventori. Ogni tanto qualche oggetto volava al di sopra delle teste, attirando la sua attenzione. Narog si diresse verso il bancone di Cusan, seguito da Kai, mentre Rilat spostava un tavolo insieme a Bren, discutendo animatamente di quel che stava accadendo. Cusan rivolse un cenno a Narog e scrutò a lungo il suo accompagnatore. Da dove si trovavano era possibile vedere il motivo di tutta l’attenzione
31 rivolta al centro della taverna. Un abile giocoliere faceva volteggiare con maestria gli oggetti più svariati. Aveva appena depositato in una scatola poco distante degli anelli di legno, e si accingeva a una nuova prova usando dei curiosi bastoni dalla punta annerita. Con gesti ampi e movimenti volutamente esagerati immerse le estremità dei bastoni in un liquido denso e scuro, rigirandoli con cura in modo che un abbondante strato di liquido impregnasse il legno. Li avvicinò, tenendoli tutti e tre nella stessa mano, a una grossa candela consunta che aveva evidentemente acceso all’inizio del suo numero, suscitando di certo un moto di curiosità. Le punte dei tre oggetti presero fuoco immediatamente e arsero con fiamma vivace. La mano libera del giocoliere disegnò un ampio arco nell’aria, come a sottolineare l’eccezionalità di quel che stava accedendo. La mossa ebbe l’effetto di suscitare un applauso tra gli astanti. Quando i battiti di mani cominciarono a scemare la prima torcia volteggiò nell’aria, seguita dalle altre due. Tra gli sguardi sbalorditi da tanta abilità, il giovane faceva roteare le torce eseguendo figure via via più complicate. Narog vide Kai osservare con molta attenzione il percorso delle torce nell’aria, analizzando lo schema e la tecnica usata per realizzarlo. Lui si limitò ad ammirare la precisione dei lanci e delle prese, eseguiti ora con le mani, ora con l’interno dei gomiti. Di tanto in tanto, per tenere l’attenzione sempre alta, il giocoliere riprendeva una delle torce un attimo prima che questa toccasse terra, dimostrandosi così particolarmente abile. Quando il fuoco delle torce cominciò a estinguersi, le raccolse in una mano e, con un’estremità della striscia di stoffa che portava alla cintura, le spense con movimenti rapidi e precisi. Altri applausi e fischi scrosciarono dal pubblico. La voce di Cusan riscosse Narog. «Portami due barili dal retro ragazzo, dal momento che sei qui almeno renditi utile!» Con grande sollievo di Rilat e Bren, assai più gracili di lui, Narog si avviò verso la dispensa della locanda.
~ Hogar condusse il cavallo tenendo le redini per l’intero tragitto; non aveva fretta e aveva voglia di camminare. L’aria tersa dell’alba aveva lasciato il posto a una tiepida mattinata invernale. La strada che collegava Shealgair alla radura del mercato era piuttosto trafficata. Merci
32 portate su carri, su basti di asini, a spalla o trascinate su lettighe di fortuna, andavano e venivano in entrambe le direzioni. Percorse la distanza che lo separava dal mercato osservando divertito il variegato fiume di persone che affollava la strada. Ingannò il tempo stimando mentalmente il valore delle pelli e pellicce che trasportava. Soffermandosi sui singoli pezzi, riconobbe che la maggior parte dei migliori erano stati procurati da Narog. Ormai non aveva molto da insegnargli sulla caccia, e la disparità di energie fisiche faceva la differenza tra loro. Stimò che avrebbe ricavato più del solito quell’anno, a patto di trovare il compratore giusto. Immerso in quelle riflessioni, si ritrovò quasi troppo presto circondato dal vociare del mercato. Le botteghe mobili erano affollate di compratori, mentre le vendite si tenevano nella tranquillità del retro. Le cose più svariate cambiavano proprietario, barattate o cedute in cambio di danaro. Prima di dedicarsi alla sua mercanzia, come era sua abitudine, Hogar fece un giro delle botteghe. Qualche anno prima aveva concluso una vendita troppo affrettata, ricavando molto meno di quel che avrebbe potuto. Da quell’anno verificava sempre il prezzo di alcune merci ancor prima di cominciare a trattare. All’inizio il giro era stato molto esteso, riguardando molte diverse mercanzie e diversi venditori. Con il tempo aveva imparato che alcuni prezzi determinavano il livello generale di tutti gli altri. Il prezzo della lana, dei lingotti di ferro e di alcuni alimenti erano quelli da tenere in considerazione. L’aria era satura di odori forti, nonostante il mercato fosse all’aperto. Il profumo di varie pietanze, offerte da improvvisati venditori, si mescolava a quello acre del bestiame e delle persone. Grossi pezzi di carne erano stati messi ad arrostire su lunghi spiedi. Focacce calde venivano offerte con fette di formaggio e ciotole di zuppa. Hogar notò che quell’anno il mercato era molto ricco, molte monete passavano di mano in mano nonostante i prezzi fossero più alti dell’anno precedente. Si diresse verso le tende dei mercanti di pelli, chiedendo a un servitore di introdurlo ai suoi padroni per una contrattazione. Udendo la sua voce, il mercante gli venne incontro personalmente mentre il servitore gli chiedeva chi avrebbe dovuto annunciare. «Hogar, amico mio! Che piacere rivedere il miglior cacciatore del nord» esclamò senza cerimonie un uomo corpulento dal viso rubizzo. Il mercante era stato un uomo molto più dinamico in passato. La sua figura appesantita non nascondeva una struttura massiccia. Folti capelli lunghi e ricci, ancora in maggioranza scuri, incorniciavano un viso gioviale. Gli occhi, leggermente inclinati verso il basso, avevano una espressione furba e divertita. Barba e baffi ben curati circondavano la bocca nascondendo a malapena alcune piccole cicatrici sul volto.
33 Indossava un magnifico mantello di volpe, una tunica riccamente ricamata e gioielli su entrambe le mani. Hogar non si faceva mettere in soggezione da quell’ostentazione di ricchezza. Era un uomo semplice e concreto, abituato a fare i conti con la dura vita delle regioni settentrionali. Rispose al saluto rivolgendosi al mercante con la consueta cordialità. «Anier! È bello rivederti sempre in splendida forma. Si vede che gli affari ti vanno benone.» Discorrendo amabilmente, si avviarono verso la tenda per intavolare la trattativa. Dopo aver bevuto un boccale di sidro insieme tornarono al carro di Hogar per vedere la merce. La trattativa fu breve e onesta. Entrambi conoscevano l’interlocutore e sapevano fino a che punto potevano spingersi. Hogar ottenne la somma che aveva previsto di guadagnare per l’intero carico, e Anier si ritrovò con numerose pelli e pellicce pregiate da rivendere a conciatori e sarti. Si intrattennero anche dopo aver concluso l’affare, per parlare della situazione delle zone del sud. Hogar si fidava di Anier, e apprezzava il suo acume e senso critico. La discussione si interruppe dopo un paio d’ore, quando il servitore annunciò a Anier l’arrivo di un altro cacciatore. «Hogar, amico mio, parlerei con te per ore, ma gli affari chiamano. A malincuore devo lasciarti. Ti auguro un anno di serenità.» «Addio Anier» rispose Hogar lasciando la tenda «è sempre un piacere rivederti.» Dopo aver fatto alcuni acquisti con una parte del denaro ricevuto dal mercante, l’uomo riprese la via di casa a cavallo del docile corsiero, addentando soddisfatto una focaccia calda.
~ Del’mos preparò il rito con particolare cura poiché il veicolo a sua disposizione era molto debole. Aveva raschiato con estrema cura il sangue rappreso sulla lama della sua spada. Ringraziò la sua mania di ripulire la sciabola su un lembo di stoffa. Quel sangue apparteneva quindi in gran parte al suo ultimo avversario. Lo scontro con il mezz’elfo poteva averlo inquinato, e ciò gli sarebbe costato molto. Il sangue puro era un veicolo doloroso, quello contaminato era quanto di peggio avesse mai provato, ma la sete di vendetta verso colui che l’aveva costretto alla fuga e il senso di rivalsa verso gli altri Cacciatori gli fornivano una determinazione spietata. Stese il panno di velluto scuro sul tavolo di fronte a sé. Estratta la pietra dal colore indefinibile dal sacchetto, la pose sul panno, vicino alle
34 scaglie di sangue rappreso. Cercò di non pensare al dolore che stava per provare facendo il vuoto nella mente. Tolse i guanti e toccò lievemente il frammento con la punta di un dito. Pronunciò la frase. «Dammi occhi per questo vivente.» Il frammento cambiò colore; appena l’emanazione luminosa sfiorò il sangue, il dolore lo pervase con incredibile velocità. Tutto il suo essere vibrò, quasi fosse sul punto di spezzarsi. Un vortice bianco lasciò il posto a colori turbinanti, mentre i suoi occhi diventavano quelli di Narog. L’effetto del veicolo contaminato si manifestò. In genere, una volta raggiunti gli occhi, il dolore cessava all’improvviso. Quella volta invece durò molto più a lungo. Le immagini si mettevano a fuoco con insopportabile lentezza, Del’mos fece appello a tutta la sua disciplina per mantenere la concentrazione. La visione si stabilizzò, Del’mos rimase senza fiato cercando di recuperare la presenza di spirito necessaria. Vide un ambiente in penombra, colmo di barili e scaffali in parte pieni di viveri. Lo sguardo si concentrò su una fila di barili, due furono presi dagli scaffali e messi sulle spalle. Poteva vederli con la coda dell’occhio. Alla fine di un breve corridoio, una porticina si aprì in una grande sala che doveva essere una taverna. C’era grande concitazione intorno a qualcosa che accadeva al centro della sala. Lo sguardo si posò quindi sull’oste, che stava impartendo altri ordini gesticolando ampiamente. Mentre lo sguardo andava dall’oste ad altri oggetti presenti dietro al bancone, la visione fu disturbata. Lo sguardo roteò all’indietro mentre il corpo di Narog si accasciava sul pavimento. Il contatto, bruscamente interrotto, riportò Del’mos alla sua stanza con violenza. Gli fu necessario respirare profondamente molte volte prima di poter riaprire gli occhi.
~ Narog si riprese dallo stordimento solo dopo alcuni minuti. La prima cosa che vide furono gli occhi di Hogar, e la sua espressione che da preoccupata si distendeva in un lieve sorriso. Quando si accorse di non avere il cappuccio calato sul viso fu preso dal panico. Non se ne privava quasi mai, se non quando era solo in casa con Hogar o fuori dal villaggio. Cercando istintivamente di celarsi il capo scoprì di non avere nemmeno il suo mantello. Intuendo i suoi pensieri Hogar lo rassicurò. «Sei a casa, Narog. Ti ho tolto io il mantello» «Cosa mi è accaduto, dov’è Kai?» rispose mettendosi a sedere. Il senso di nausea che lo aveva assalito poco prima tornò a farsi sentire. Narog si sforzò di non perdere nuovamente i sensi. Le pareti della stanza
35 assunsero contorni indistinti. Lentamente, aggrappandosi ad Hogar, riuscì a superare il momento peggiore. Appena si sentì in grado di parlare chiese ancora del suo compagno. «Appena sei svenuto ti ha caricato sul carro di Cusan e ti ha portato qui, ora ti aspetta nell’altra stanza.» «Cosa, cosa mi è successo?» chiese Narog ancora mezzo stordito «mi sento come se avessi bevuto un barile di idromele.» «Mi hanno detto sei svenuto mentre davi una mano a Cusan nella locanda. Io ero appena tornato dal mercato e ho sentito Bren che mi chiamava a gran voce.» Con cautela, senza compiere movimenti bruschi, Narog si alzò in piedi e si diresse verso l’altra stanza. Vicino al focolare c’era Kai che fissava il fuoco visibilmente in apprensione. Udendo i passi provenire dall’altra parte della piccola abitazione si voltò e restò meravigliato oltre le sue aspettative. Narog si era ripreso molto in fretta. Per la prima volta Kai lo vide senza il cappuccio calato sul viso. Guardando il suo salvatore rimase senza parole. Aveva riflettuto a lungo a come metterlo al corrente delle sue ipotesi sulla causa di quel malessere. La conferma di quel che sospettava era davanti ai suoi occhi. La gratitudine e la meraviglia lasciarono per un attimo il posto a un’altra emozione che Kai non riuscì bene a definire, anche se gli fu chiaro che non gli piaceva.
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Appena si accorse che lo sguardo di Kai era caduto sulle sue orecchie, Narog represse a stento l’istinto di coprirsi. Kai lo guardava intensamente. Il crepitio del fuoco diventò improvvisamente l’unico suono udibile. «So perché sei svenuto» esordì senza giri di parole. Narog si aspettava un inizio diretto, gli occhi di Kai tradivano preoccupazione per quel che credeva di aver scoperto. «Non ne ero certo, continuavo a chiedermi perché qualcuno avrebbe dovuto farlo. Ora è tutto chiaro. Anche tu sei un mezzosangue.» Per la prima volta nella sua vita, Narog udì quella parola pronunciata senza nessuna sfumatura di disprezzo. Kai sembrava invece entusiasta e preoccupato allo stesso tempo. «Qualcuno ha usato la magia attraverso di te. Non so perché, ma il contatto ti ha fatto perdere i sensi. Negli ultimi tempi ho sofferto di malori improvvisi, a un tratto sono cessati all’improvviso così come erano comparsi. È stato quando il Cacciatore ha iniziato a perseguitarmi.» «Il Cacciatore» mormorò Narog confuso «è quel guerriero che ho affrontato nel bosco?» «Sì, mi ha seguito per settimane. Riusciva sempre a trovarmi nonostante le mie cautele. Tutti i trucchi per fargli perdere le mie tracce sono stati vani, poiché usa la magia per localizzare le sue vittime.» Kai accennò alla spietata caccia cui si era sottratto, viaggiando fino a giungere alle regioni del nord. Mentre lo faceva, cercò una spiegazione da dare a Narog. Il ragazzo si era imbattuto nel Cacciatore a causa sua. «Che cosa sai della magia, Narog?» chiese all’improvviso. Narog lo guardò interdetto. Il suo sguardo fu catturato dagli occhi del mezz’elfo che gli stava di fronte e lo fissava con intensità. Lo distolse per fissare le sue mani, la stanza, il focolare. «Poco o nulla» balbettò quindi incerto. La domanda l’aveva colpito. Nessuno parlava mai della magia a Shealgair. I bambini troppo curiosi ricevevano solo rimproveri o risposte evasive. «Ne parleremo più avanti. Intanto devo metterti in guardia. Il guerriero da cui mi hai salvato è un implacabile segugio, non mi ha dato tregua per
37 settimane. Mi avrebbe di certo ucciso se tu non ti fossi intromesso» si affrettò ad aggiungere Kai intuendo il disagio dell’altro. «Come mai ti dà la caccia?» chiese semplicemente Narog, che appariva preoccupato. «Te lo dirò tra un attimo» rispose l’altro, che non intendeva rivelare tutto a degli sconosciuti «nel frattempo, se non vuoi mettere in pericolo le persone che ami, devi lasciare subito il villaggio. Il Cacciatore non si farà scrupoli a colpire le persone a te vicine per fiaccare il tuo spirito. Prepara le tue cose, è meglio partire con il favore delle tenebre. Conosci molto bene questa zona quindi viaggerai veloce. È una fortuna che tu non mi abbia portato subito qui. Speriamo di non aver già dato troppi indizi sul luogo in cui ci troviamo.» «Aspetta un attimo, questa è casa mia, non voglio lasciarla nel cuore della notte come un ladro!» esclamò Narog quasi gridando. Il viandante cui aveva salvato la vita gli stava ordinando di lasciare il suo villaggio per difendere i suoi cari. Il mezz’orco guardò il volto familiare di Hogar, quindi quello sconosciuto di Kai. Aveva salvato un mezzosangue come lui, ma come poteva partire sulla base della sua sola parola? Kai parlava con calma, dominando la tensione che si era impadronita del suo spirito. Il nemico che lo aveva braccato e ridotto in fin di vita, che era scomparso dal giorno in cui aveva incontrato Narog, era infine ritornato a essere un’ombra reale e minacciosa in agguato. «Se non andiamo via sfruttando questo momento gli daremo la possibilità di tentare un nuovo contatto e potrebbe capire dove siamo.» I due si guardarono negli occhi; entrambi avevano ripensato al momento in cui avevano affrontato l’uomo tatuato. Narog digrignò i denti mostrando un minaccioso sorriso che evidenziava i lunghi canini candidi. «Almeno dimmi da chi stiamo scappando!» esclamò il mezz’orco «chiunque sia, pare che ora ce l’abbia anche con me.» La frase, pur pronunciata senza malizia, colpì Kai come un pugno. Dopo alcuni istanti rispose. «Non ne so molto, ho raccolto qualche informazione mentre cercavo un modo di sfuggirgli. Appartiene a un gruppo di potenti guerrieri, accomunati dalla ricerca del potere. Credono a un oracolo che riguarda la magia. Per questo danno la caccia ai mezz’elfi. Ne hanno già eliminati moltissimi.» «Cosa c’entrano i mezz’elfi?» chiese Narog stordito. Una pausa, un respiro profondo. Kai cercò di parlare piano e in maniera comprensibile. Stava chiedendo al suo salvatore di abbandonare tutte le sue certezze all’improvviso e se ne sentiva responsabile.
38 «Al mondo esistono molte forme di potere» ricominciò Kai riaprendo gli occhi «la più antica e meno conosciuta è rappresentata dalle pietre magiche. Pare che anticamente i grandi maghi dominassero tutto il potere arcano attraverso delle pietre, che contenevano la vera forma di ogni cosa in questo mondo. Per qualche ragione l’equilibrio si infranse e il potere andò letteralmente in frantumi. Pochi conoscono la vera magia delle pietre, io ne ho viste alcune nel regno degli elfi. Mi è stato insegnato che in ciascun frammento risiede un’essenza. Chi possiede il frammento può dominare quell’essenza. Tra la mia gente c’è un’antica profezia, annuncia che un mezz’elfo riunirà un giorno il potere nelle sue mani ripristinando l’equilibrio.» Kai tacque. Mentre parlava, la sua voce aveva assunto un tono diverso, come se la sapienza di migliaia di anni fosse contenuta nelle parole che stava pronunciando. «Per questo la mia gente, nel corso dei secoli, è stata quasi sterminata. Sono ormai pochissimi i mezz’elfi rimasti. E tutti vivono nel terrore. Probabilmente il Cacciatore ha smesso di perseguitarmi perché ha concluso che io non possiedo alcun frammento di pietra magica, ma mi avrebbe comunque ucciso se tu non fossi intervenuto in tempo. Mi hai salvato la vita, Narog. Ora lascia che io salvi la tua!» Narog si guardò intorno. Nella stanza c’era solo Hogar oltre a loro due. Cercò lo sguardo del padre in cerca di conforto. Hogar lo guardò. Sembrava aver presagito a lungo quel momento. Dai suoi occhi emanava una profonda tristezza, ma non disperazione. Senza parlare rassicurò Narog, che dopo un lungo silenzio si rivolse nuovamente a Kai. «Se questa è veramente l’unica soluzione per salvare gli altri, allora andrò.» Kai annuì quasi impercettibilmente. Non aggiunse altro, uscì dalla stanza per radunare le sue cose. Narog guardò a lungo il suo patrigno senza riuscire ad aprir bocca. Aveva rivelato tutti gli avvenimenti taciuti nei giorni precedenti, ma non vide segni di rimprovero. Un ceppo scoppiettò nel focolare, la fiamma guizzava allegra e le ombre sembravano danzare sulle pareti. Il silenzio fu rotto da Hogar. «Sapevo che prima o poi questo sarebbe accaduto. Speravo che saresti rimasto con me per qualche anno ancora, ma il destino non è avvezzo a rispettare i desideri degli uomini più di quanto lo siano le nuvole o il sole. Ho avuto il dono di vederti fare i primi passi, dire le prime parole e tirare la tua prima freccia. Ti ho trasmesso tutto quel che sapevo sulla sopravvivenza e sulla natura. Sugli uomini non ho potuto insegnarti molto, sarà il mondo a farlo al posto mio.» Tacque. Non aveva mai parlato più di quanto fosse necessario. Guardava Narog intensamente, quasi per imprimere bene quell’immagine nella
39 memoria. D’un tratto si volse e uscì dalla stanza, lasciando Narog, stordito dal silenzio, a fissare il fuoco. Hogar lo riscosse poggiandogli una mano sulla spalla. Nell’altra mano stringeva un involto polveroso, che si intuiva pesante. Narog guardò suo padre aprire la stoffa per svelarne il contenuto. «Questa» disse Hogar porgendogli una poderosa ascia «mi fu consegnata il giorno in cui fosti affidato a me. Ti appartiene per diritto di nascita, ed è giusto che la porti con te.» Il mezz’orco guardò l’uomo che aveva sempre considerato un padre. Stava per ricevere una misteriosa eredità. Gli occhi scuri brillarono di curiosità. «Ho sperato di non dovertela mai consegnare» riprese l’uomo «invece il momento è giunto fin troppo presto.» Narog guardò Hogar, poi l’arma che aveva ricevuto. Era un’ascia magnifica. Pur inutilizzata, era stata conservata alla perfezione. Il manico, di legno intarsiato e cuoio, era sormontato da una doppia lama ricurva sulla quale erano incisi simboli simili a lettere, anche se Narog non ne riconobbe alcuna. L’arma emanava un’aura minacciosa. Il mezz’orco la fissava quasi ipnotizzato. Fu la voce di Kai a riportare la sua attenzione alla stanza. «Perdonami se insisto, ma restando qui mettiamo a rischio anche gli altri abitanti del villaggio.» Con il cuore grave e senza dire una parola, Narog raccolse le sue cose nella sacca, prese arco e faretra, indossò il mantello invernale e mise nella bisaccia l’involto con l’ascia. Il mezz’orco inspirò profondamente, l’odore di quella che fino a quel giorno era stata la sua casa pervase le sue narici. Trattenne le lacrime. Risoluto guardò suo padre, che lo anticipò nel parlare. «La pietra che porti al collo non è un semplice talismano, e anche il frammento che porti sulla faretra è speciale.» Narog e Kai si volsero contemporaneamente l’uno verso l’altro. «Non ho mai saputo esattamente cosa sono e come funzionano, mi fu detto che ti avrebbero protetto e quindi ho fatto in modo che tu non te ne separassi mai.» Kai parlò senza indugio, i suoi occhi tradivano sorpresa e timore. «Questo cambia le cose, e spiega perché il Cacciatore ti sta spiando. Tu possiedi due frammenti dell’antico potere, due pietre magiche.»
~ Del’mos restò a lungo con lo sguardo fisso sulla pietra. Si sentiva sfinito e svuotato. Mosse leggermente la mano per allontanarla dal frammento;
40 quel semplice gesto gli costò molta fatica. Non era abituato a confrontarsi con l’incapacità di muoversi e cercò di concentrarsi su quel che aveva visto. La vergogna crebbe lentamente in lui man mano che il quadro si delineava. Era stato sconfitto da un garzone di taverna. Reprimendo l’istinto a distruggere tutto quel che aveva a portata di mano, cercò di dedurre altre informazioni dalla scena cui aveva assistito. La locanda era costruita in pietra, e piuttosto grande, per cui doveva trovarsi in un villaggio. Il garzone abitava certamente nei paraggi del luogo del suo ultimo scontro con il mezz’elfo, e non doveva essersi spostato se dopo pochi giorni si trovava in una locanda a lavorare. A meno che non fosse scappato subito. Escluse quest’ultima possibilità e si concentrò sulla sua prima intuizione. Lentamente stava riprendendo il controllo del suo corpo. L’olio nella lampada era esaurito e la stanza era illuminata solo da alcune candele ormai prossime a spegnersi. Nonostante le proteste dei suoi muscoli indolenziti decise di effettuare comunque alcuni esercizi. Ripose la pietra, con cura inserì il sangue in un’ampolla vuota con un’etichetta, su cui per il momento non scrisse nulla. Chiuse l’armadio delle ampolle, comunicò ai suoi servi che dovevano ripristinare l’olio della lampada e portare candele nuove. Quindi si allontanò verso i sotterranei per l’allenamento. Scoprire in quale villaggio si trovava la sua vittima, braccarla e ucciderla dopo lunghe sofferenze erano i suoi prossimi passi. Come sempre avrebbe pianificato tutto con cura.
~ Il giorno volgeva al tramonto, la luna già alta diventò visibile nel cielo terso mentre Narog seguiva Kai fuori dal villaggio. Aveva abbracciato Hogar che gli aveva raccomandato di fare attenzione. Non gli aveva detto nulla con le parole, ma molto con lo sguardo. Negli occhi del padre adottivo aveva visto una luce diversa. Quel ragazzo era rimasto al villaggio per lunghi anni, legato unicamente a lui. Shealgair non era il suo posto, entrambi lo sapevano o almeno lo sentivano. Narog lasciando il villaggio provava tristezza per la separazione, ma una sensazione di libertà aveva preso il sopravvento sulla paura e sulla tristezza. Il mezz’orco passò tra case e botteghe con un piglio diverso. Il continuo viavai di persone aveva ripulito le strade del villaggio dalla neve, il sole aveva sciolto parte di quella che era ammassata ai lati delle vie di passaggio. Sembrava quasi di mettersi in viaggio in un giorno primaverile, dopo una neve tardiva. I due giovani si incamminarono in silenzio, rivolgendo nulla più di un cenno a coloro che incontravano. Narog esitò un attimo prima di varcare
41 la porta del villaggio. L’aveva attraversata innumerevoli volte, ma uscire da Shealgair senza la certezza di tornarvi gli dava una sensazione diversa. Kai non si era fermato, Narog lo vide allontanarsi e riprese a camminare. Poco prima del punto oltre il quale non avrebbe più visto la familiare palizzata, si volse per un ultimo sguardo al villaggio. Promise a se stesso che sarebbe tornato, ma doveva assicurarsi di non costituire un pericolo per il luogo in cui era cresciuto prima di poter pensare di tornare. Per un attimo si chiese che direzione prendere, poi si limitò a seguire Kai, affrettando il passo fino ad affiancarlo. Con il calare del sole l’inverno tornò a reclamare il suo tributo. Kai chiuse sul davanti il suo mantello da viaggio, non molto adatto al freddo di quelle regioni. Narog era più a suo agio nonostante non indossasse abiti molto pesanti. Capì che stavano tornando al capanno dove si era preso cura di Kai. Si stupì della sicurezza con cui il suo compagno marciava su quel sentiero percorso una sola volta. Giunsero alla meta mentre gli ultimi chiarori ambrati del giorno lasciavano il posto ai toni cupi della notte. Trovarono tutto come l’avevano lasciato; entrambi ebbero quasi la sensazione di rincasare dopo una lunga giornata. Decisero di rimandare all’indomani tutte le decisioni, inclusa la direzione da prendere. Accesero quindi il focolare e consumarono una delle loro razioni da viaggio. Narog tolse il ciondolo che portava al collo ed esaminò la pietra. L’aveva sempre considerata un talismano propiziatorio, mai avrebbe immaginato che celasse un potere arcano. «E così» disse rigirandola tra le dita «questa è una pietra magica. Chissà come funziona…» «Le pietre contengono l’essenza di qualcosa» rispose Kai in maniera automatica; le parole erano state pronunciate quasi istintivamente «ogni pietra è diversa dalle altre, se vuoi usarla devi concentrarti sul significato dell’essenza che contiene. Da quel momento il potere si sprigionerà come tu desideri.» Il tono del mezz’elfo era remoto, come se volesse restare emotivamente distante da un oggetto che aveva causato tanta sofferenza ai suoi simili. Narog soppesò ogni singola parola, cercando di comprendere. «Quindi se non conosco l’essenza di queste pietre non posso usarle in nessun modo.» «Una parte del potere delle pietre è sempre attiva, anche quando non lo controlli direttamente» Kai esitò, meno convinto di quel che stava dicendo «in ogni caso le pietre sono una grande fortuna e una grande sfortuna insieme. Ti consiglio di riporle, soprattutto se avverti la stessa vertigine che hai provato nella taverna.»
42 Detto questo si alzò dalla sedia, con grazia andò a sedersi a gambe incrociate nell’angolo più lontano del capanno, chiuse gli occhi e tacque, immerso in profonda meditazione. Narog dominò la curiosità e non chiese nulla. Cercando di non far rumore si sdraiò sulla grande pelle d’orso stesa in prossimità del focolare. La pelliccia, bruciacchiata in alcuni punti, era calda e accogliente. Dopo l’iniziale gratitudine, l’atteggiamento di Kai era cambiato. Il mezz’elfo era diventato più freddo. Narog cercò di non pensare a nulla, concentrandosi sui dettagli del capanno che li ospitava. Una trave crepata, una ragnatela in un angolo, la candela ormai quasi esaurita. Nella luce che andava ormai scomparendo intravedeva la sagoma di Kai, che sedeva perfettamente immobile. La stanchezza ebbe il sopravvento dopo non molto tempo.
~ L’alba trovò i due mezzosangue già perfettamente svegli; il momento delle decisioni rimandato con sollievo il giorno prima era di nuovo arrivato. Il tempo delle parole giunse dopo la colazione. L’aria era tersa; nonostante fosse molto presto, la giornata sarebbe stata buona. Narog pensò a quell’inverno atipico e al modo strano in cui era cominciato. La consapevolezza che aveva lasciato il suo villaggio, forse per sempre, da un lato gli pesava, dall’altro lo stimolava. Aveva temuto che la sua vita si sarebbe esaurita nel varcare una delle porte di Shealgair al mattino per poi rientrare poco prima del tramonto. Nei suoi sogni il suo viaggio cominciava in modo diverso. Un giorno, riuniti tutti gli abitanti, li avrebbe ringraziati per averlo accolto tra loro prima di salutare tutti e partire. Riconobbe con onestà che forse quel momento non sarebbe mai arrivato. Per quanto desiderasse partire, non avrebbe lasciato Hogar. Kai si riscosse dai suoi pensieri, come ridestandosi da un sogno dopo il sogno. «Il guerriero che abbiamo affrontato può trovarti ovunque tu ti nasconda, non abbiamo speranza di sfuggirgli. L’unica via possibile è quella di affrontarlo e batterlo.» Narog lo guardò, mentre la sua mente rievocava le sensazioni provate nei terribili minuti dello scontro. «Come possiamo sconfiggere un combattente così abile? Quando vi ho incontrati nel bosco sono sopravvissuto per pura fortuna!» «Ci ho pensato a lungo» rispose Kai «attacca solo quando è in posizione di vantaggio; se lo illudessimo che sei solo e allo stremo delle forze
43 potrebbe scoprirsi. In quel caso saremmo noi a prenderlo alla sprovvista.» «Viaggerai fingendoti solo, stanco e senza meta. Non sono sicuro di come funzioni il potere che usa per localizzarci, ma credo che abbia a che fare con la vista. Per questo farò in modo che tu non mi veda, e parleremo il meno possibile» riprese dopo una pausa. Narog fu colpito dalla calma con cui Kai aveva esposto la sua strategia. Gli occhi del mezz’elfo tradivano i suoi sentimenti verso il Cacciatore che lo aveva quasi ucciso. La sua voce, al contrario, era totalmente priva di inflessione, esponeva in maniera quasi meccanica il suo piano. Gli venne da pensare che se fosse partito da solo sarebbe probabilmente andato incontro a morte certa. Kai continuò a esporre la strategia che aveva elaborato. «Ci muoveremo cercando di non dare punti di riferimento. Prima di scontrarmi con il Cacciatore mi stavo dirigendo verso nord, a Zaleb. Se non hai nulla in contrario vorrei proseguire in quella direzione.» Mentre discutevano su quale fosse la strada migliore da prendere mangiarono del pane e del formaggio, accompagnando il pasto con della birra leggera. Decisero quindi di partire per non sprecare altre ore di luce. Per la seconda volta lasciarono insieme il capanno di caccia, imboccando la via che conduceva a nord. Narog aveva percorso molte volte quello stesso sentiero, ma in quell’occasione non sarebbe tornato sui suoi passi. Gli sembrava di vedere tutto per la prima volta. Dopo circa un’ora deviò dal percorso per seguire una traccia di cervo; Kai lo seguiva senza fare il minimo rumore. Avvistarono una giovane femmina dopo poche decine di passi. Narog sapeva di essere sottovento e si curò solo di non far rumore. Approfittando di alcune folate d’aria si portò a distanza di tiro, estrasse l’arco e mirò al cuore. La freccia disegnò una traiettoria attraverso i rami, sui quali restava solo qualche traccia di ghiaccio, prima di colpire la cerva con precisione. Narog corse verso la preda per finirla, ma la trovò già spacciata. Con movimenti rapidi e precisi preparò la preda per il trasporto e se la caricò in spalla. Kai osservava la scena da lontano. Aveva chiesto al suo salvatore di fare da esca; non era un comportamento molto nobile, ma la paura del Cacciatore era un perfetto alibi per il mezz’elfo.
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44 Del’mos aveva appena terminato i suoi esercizi quotidiani. Come sempre si era allenato da solo. Percorreva i tetri corridoi che conducevano ai suoi alloggi con la mente assorta. Doveva decidere se dare seguito alla pista appena scoperta continuando anche l’altra caccia o concentrarsi su una delle due. Non era semplice scegliere. Si concentrò sugli elementi a sua disposizione. Mentre passava nei corridoi, le torce alle pareti proiettavano ombre su ombre, sfumate in diversi gradi di grigio. Doveva trovare un veicolo migliore del sangue per rintracciare il guerriero che l’aveva battuto. Trasalì al pensiero della sua fuga. Contraendo la mascella si impose il controllo ed elencò mentalmente le prossime mosse. Prima di imboccare l’ultimo corridoio incrociò alcuni cacciatori che procedevano in senso opposto. Li salutò appena con un cenno del capo. Quando varcò l’ingresso dei suoi alloggi aveva deciso cosa fare. Consumò il pasto mentre dava disposizioni ai servitori sulle cose da preparare. Indossò il corpetto e il mantello da viaggio e si congedò. Incamminatosi verso l’uscita del dedalo attese di essere in un corridoio deserto, si concentrò sulla prima immagine dell’ultima visione e attivò la pietra che teneva al collo. Il potere della pietra lo trasportò nella dispensa della locanda. Verificò che non ci fosse nessuno nella tenue luce emessa da due lampade a olio che pendevano dalle travi e si nascose dietro a un mucchio di barili. Gli occhi, abituati alla penombra del suo rifugio, si adattarono subito alla scarsa luminosità di quel magazzino. In un attimo analizzò l’ambiente, trovò l’uscita e si mise in ascolto per decidere come muoversi. Silenzioso come un’ombra si mosse verso l’uscita. Vide due finestre sbarrate, aprirne una avrebbe richiesto tempo e fatica. Confidava di riuscire a passare dalla porta approfittando della confusione. Chiuse gli occhi e si concentrò per ricordare la posizione del banco di mescita. Attese. Immobile, si concentrò sulla voce dell’oste e sui rumori che provenivano dalla sala. Dopo quasi un’ora uno dei garzoni fu inviato sul retro. Del’mos approfittò della penombra; non appena il garzone si inoltrò tra gli scaffali strisciò attraverso la soglia e si accomodò sulla sedia più vicina. Nessuno sembrò fare caso a quel movimento. Ordinata della zuppa si mise a sorbirla e ad ascoltare i discorsi degli avventori. L’oste impartiva gli ordini a due garzoni, che andavano e venivano tra i tavoli. Le rumorose chiacchiere degli altri tavoli non rivelavano niente di interessante. Decise di non esporsi e non fece domande. Terminata la zuppa, si alzò per andare a fissare una stanza. L’oste fu cortese e riservato, prese le monete e si incamminò per la scala. Varie porte si
45 affacciavano su uno stretto corridoio illuminato da una coppia di lanterne sospese. Il legno del pavimento scricchiolava a ogni passo del corpulento locandiere. L’uomo si fermò davanti a una massiccia porta di legno scurito dal tempo e la aprì con una pesante chiave di bronzo. Del’mos fissò la stanza con espressione disgustata. Amava lo stile ricercato negli arredi, di certo il semplice mobilio di quella locanda non incontrava il suo gusto. «Per chiudere dall’interno c’è un chiavistello, le chiavi restano con me» disse l’oste in modo perentorio. «Sembra un buon periodo per gli affari» rispose Del’mos indicando la scala che scendeva di sotto. Dalla sala proveniva un notevole brusio. «Con la fiera e tutto il resto non ho un attimo di pausa» rispose Cusan. «Ho visto che hai due aiutanti nella locanda» riprese Del’mos. «Non bastavano i tre che avevo prima, figuriamoci cosa succederà con due.» Del’mos ricacciò indietro il sorriso di trionfo che gli stava comparendo sul viso. «Se ne avevi tanto bisogno, come mai ne hai licenziato uno?» incalzò. «Non l’avrei mai licenziato, era il migliore dei tre. Quel ragazzo lavorava come un mulo, senza stancarsi né lamentarsi mai. Ha lasciato Shealgair proprio ieri; non so dove sia diretto, né perché sia partito così all’improvviso. Mi ha inviato le sue scuse per avermi lasciato in un periodo di lavoro così intenso. Non voglio annoiarti con le mie chiacchiere, ti auguro buon riposo.» Del’mos decise di non indugiare oltre in quella situazione. Ripercorse le scale verso il piano terreno. Mentre attraversava la taverna, fece in modo di incrociare uno dei due garzoni. Lo salutò giovialmente con una pacca sulla spalla. «Come ti chiami ragazzo?» «Il mio nome è Bren signore, come posso aiutarla?» «Ho un messaggio della guardia all’ingresso per uno degli aiutanti del locandiere; non ricordo il suo nome, ma non mi pare fosse Bren.» «Beh, qui lavoriamo solo Rilat e io. Fino a ieri c’era anche Narog con noi, ma non credo che il messaggio sia per lui.» Senza tradire la minima emozione, Del’mos lo interruppe. «Rilat… dovresti dire a Rilat che il suo amico di guardia alla porta del villaggio ha qualcosa da mostrargli quando avrà finito di lavorare. Ora scusami ma ho delle commissioni da sbrigare.» Il Cacciatore uscì in strada con il nome della sua vittima scolpito nella mente. Doveva trovare la sua abitazione e appropriarsi di qualcosa che gli apparteneva, fatto ciò la caccia sarebbe iniziata.
46 Si fece indicare da un macellaio la casa di Narog, in breve la raggiunse, trovandola vuota. Strisciò sul retro in cerca di una apertura. Le case che non contenevano oggetti preziosi raramente avevano porte e finestre sbarrate. Tese l’orecchio, attento a percepire il minimo suono proveniente dall’interno. In silenzio scavalcò il davanzale e fu dentro. I resti di pane sul tavolo e la cenere calda nel focolare gli confermarono che il luogo era abitato. Doveva muoversi rapidamente e scegliere gli oggetti giusti. La casa era spoglia, dagli strumenti che vide concluse che gli abitanti erano cacciatori. Percorse metodicamente i tre ambienti della costruzione. Con cura aprì una cassapanca trovandola piena di indumenti. Doveva rischiare, per non perdere l’effetto sorpresa non poteva che prelevare pochi oggetti. Scelse tra quelli di taglia più piccola sperando che non ci fossero altri giovani abitanti. Con movimento fluido e fulmineo del coltello tagliò un pezzo da un mantello di stoffa pesante, adatto a un ragazzino ma già dotato di cappuccio. In breve tutto ritornò nella posizione originaria, anche un occhio molto allenato avrebbe faticato a concludere che c’era stata un’intrusione.
~ Narog ritornò sul sentiero pensando che avrebbe sprecato gran parte della carne. Non aveva il tempo di farla essiccare e non poteva consumarla. Scelse quindi le parti migliori e lasciò il resto appeso al ramo di un albero. Ben presto fu di nuovo in marcia, diretto a nord est. Percepiva la presenza invisibile di Kai, che camminava ad alcune decine di passi di distanza. Percorse circa una lega in linea d’aria, seguiva il sentiero che puntava a nord. Sapeva che a pochi giorni di marcia c’era una grande strada lastricata. L’aria tersa, pervasa da tenui essenze, gli permetteva di vedere lontano. Dalla cima di un piccolo colle scorse la valle in cui erano accampati i mercanti. Pensò con un sorriso che anche quell’inverno suo padre era riuscito a non portarlo con sé per le contrattazioni. Riprese a marciare con passo più svelto per ricacciare indietro i dubbi. Pur camminando in discesa, si accorse di avere le gambe pesanti. La strategia di Kai, che gli era apparsa eccezionalmente efficace e semplice da attuare quello stesso mattino, gli parve meno vincente alla prova della realtà. Dopo alcune ore di cammino raggiunse il punto più lontano in cui si era mai spinto andando verso nord. La sua conoscenza del terreno, che era
47 stata un vantaggio fino a quel punto, diventava ora un fattore neutrale, se non di svantaggio. Avrebbe vagato facendo da esca per chissà quanto tempo; non gli piaceva l’idea di viaggiare sotto la costante minaccia di un attacco. Hogar gli aveva insegnato a tenere occhi e orecchie ben aperti per cogliere indizi utili per la caccia. Aveva sempre usato i suoi sensi nel ruolo di cacciatore, non da preda. Si accorse che il giorno si avviava al termine dalla stanchezza mentale più che dalla spossatezza. Trovata una piccola radura poco distante dal sentiero, si preparò per passarvi la notte. Trasalì, accorgendosi che Kai si trovava alle sue spalle. Il mezz’elfo gli rivolse solo poche parole, ringraziandolo per la fiducia e scusandosi per il piano che lo costringeva ad assumersi la maggior parte del rischio. Narog si voltò, ma non c’era più nessuno dietro di lui. Preparato il bivacco, arrostì la carne di cervo e ne lasciò una parte per il suo compagno. Sperava che Kai avrebbe vegliato sul suo sonno, e faticò addormentarsi. Una sottile inquietudine lo tormentava. Qualcosa dentro di lui continuava a dirgli che era solo e che era in pericolo. Forse il mezz’elfo lo stava usando per far uscire il suo nemico allo scoperto, restando nascosto e al sicuro. Si assopì stringendo la pietra che portava al collo. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD