Mia

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ELISA RAMUNNO

Mia

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MIA Copyright Š 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-446-8 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


Ignoravo il piacere che può dare la parola scritta, il piacere di penetrare nei segreti dell'anima, di abbandonarsi all'immaginazione, alla bellezza e al mistero dell'invenzione letteraria. C.R.Z.



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LE OTTO E UN QUARTO

Sabato sera, le otto e un quarto. E come ogni sabato sera alle otto e un quarto, Mia si trovava nel magazzino, intenta a caricare il vassoio di quante più lattine di Coca-Cola, Fanta e Moretti le sue esili braccia sarebbero riuscite a sostenere. Pensava a cosa avrebbe indossato tra poche ore, forse il tubino nero monospalla, però no, probabilmente sarebbero andati solo a mangiare una pizza, o forse aveva prenotato in qualche posto più carino come sabato scorso, e allora magari un paio di jeans e scarpe col tacco Cèline, perché Cèline è adatta a ogni occasione, eppure non era convinta. Pensava a come sistemare i capelli, avrebbe voluto lavarli e lasciarli sciolti perché sapeva che gli piacciono così, liberi e profumati di camomilla, che le risalta i riflessi biondi, ma avrebbe ritardato e forse si sarebbe arrabbiato un po’, ma no, gli avrebbe dato un bacino, gli avrebbe fatto le sue scuse e lui le avrebbe sorriso, come sempre. Sentì la porta sbattere dietro di sé, e la chiave girare tre volte nella serratura. Non si voltò. «Lore! Sono ancora qui, apri!» Sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. Ebbe un sussulto. «Lorenzo! Che fai? Mi hai fatto prendere un colpo! Aiutami, devo finire di rifornire i frigo, ho visto che manca anche qualche bottiglia di Nastro Azzurro…» Ma Lorenzo non rispose. Le prese il volto tra le mani, nello sguardo una vena di follia. «Cosa stai facendo? Smettila, mi fai paura, lasciami andare…» Ma Lorenzo non la lasciò. Mia aveva iniziato a dimenarsi nel tentativo di divincolarsi, ma la presa era troppo stretta, adesso le teneva le braccia. Mi sta spezzando i polsi, pensò. Allora gridò forte in cerca di aiuto. «Il bar è chiuso, Mia, stai tranquilla. Ora sei mia, Mia.» «Mi stai spaventando, basta, apri la porta!» pianse.


6 «Sai che sei bellissima? Ti guardo spesso, ti guardavo stasera, ti guardavo e desideravo toccarti, ti guardavo le gambe abbronzate e volevo infilarmici nel mezzo con la faccia.» Piangeva, piangeva forte ora, mugolava un disperato “lasciami per favore…” e cercava di colpirlo, il corpo immobilizzato da quella morsa di pazzia. L’aveva fatta sdraiare a terra, le aveva bloccato le braccia con una mano, le teneva le gambe divaricate con le sue nel mezzo, con l’altra mano le tagliava la maglietta bianca, macchiettata qua e là di caffè, e poi i pantaloncini di jeans, quelli che aveva comprato con i saldi da Zara, ventiquattro euro e novantacinque, un affarone, stavano bene con tutto. Mia continuava a urlare, sperando che qualcuno potesse sentire il suo grido disperato, anche da quel magazzino che non aveva nemmeno una finestra, nemmeno una fessura. Un bunker. Poi sentì le sue dita sprofondare dentro di lei, un dolore atroce, che mai aveva provato, e di colpo si zittì. Non riusciva più a emettere alcun suono, il terrore si era impossessato di lei, più di quanto non fosse stato a quel momento. Pianse silenziosamente tutto il tempo. Sentì il suo sesso farsi spazio prepotentemente tra le sue cosce. Bruciava, le sembrava che un ferro rovente si stesse intrufolando dentro di lei, riusciva a sentirlo fino al ventre, fino alla gola, le toglieva il respiro. Muoio, pensò, muoio di paura. Aveva letto in qualche libro di persone morte di terrore, e pensò che sarebbe capitato anche a lei. Lorenzo spingeva, un animale, una bestia, lei non lo guardava, aveva piegato il volto da un lato, sentiva le lacrime calde che le rigavano la guancia, il tempo sembrava non passare mai, poi Lorenzo spinse ancora più forte, più forte e più forte e lei pensò, ora muoio davvero. Le fitte erano lancinanti, si immaginava che ci fosse sangue dappertutto e che le lattine di Coca-Cola, Fanta e Moretti stessero galleggiando nel suo lago di dolore, poi Lorenzo si fermò. Le si accasciò addosso, tolse il suo sesso da Mia con la stessa violenza con cui era riuscito a insinuarlo dentro di lei. Si alzò in piedi, tirò su i pantaloni, la guardò distrattamente, raccolse una Moretti, ne bevve qualche sorso poi se ne andò sbattendo la porta dietro di sé. Mia si appoggiò lentamente alla parete, raccolse verso di sé i brandelli dei suoi vestiti, se li posizionò addosso come un mosaico a coprire le sue parti intime, il respiro si fece sempre più affannoso. Pianse forte. Pianse fortissimo. Pianse lacrime che i suoi occhi non avevano mai sentito scorrere. Pianse forte. Pianse fortissimo.


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IL TELO ESTATHÉ

Sentiva i Guns N’roses squillare al cellulare e, mentre piangeva, le venne da canticchiare qualche parola in testa. Aveva già squillato trenta volte, forse, ma lei non era riuscita ad alzarsi, era rimasta lì appoggiata alla parete, con il suo mosaico di stoffa addosso e con le lacrime che le rigavano il volto. Pensò che avrebbe perso tutte le ciglia a forza di piangere. Sua mamma le raccontava sempre di questa sua amica di gioventù, alla quale era morto il fidanzato per un incidente in motorino, e che lei aveva pianto talmente tanto che alla fine non le era rimasta nemmeno più una ciglia attaccata alle palpebre. Mia si domandava quanto tempo fosse passato, quanto tempo ancora avrebbe dovuto aspettare prima che il suo corpo rispondesse ai comandi del cervello. Poi si alzò. Cercò di rivestirsi in qualche modo, ma i suoi abiti erano ridotti in brandelli. Si guardò intorno. Vomitò. Non ripulì. Scorse su uno scaffale un telo da mare incartato nel cellofan, lo aprì, c’era stampato un estathé gigante al limone. Se lo mise addosso come se fosse appena uscita dalla doccia, rientrò nel bar, prese la borsa Braccialini, regalo di Gabriele, annaspò dentro con una mano, raccolse le chiavi della sua Smart e uscì. Non chiuse la porta, non chiuse la serranda. Se ne andò e basta. Salì in macchina. Si mise la cintura. Accese il motore. Fece il gesto meccanico di aprire la capote, ma poi la lasciò chiusa; si sentiva più protetta, anche se era luglio e faceva un caldo soffocante. Pensò che quel caldo soffocante la faceva sentire al sicuro. Guidò come se fosse stata in pilota automatico verso il Pronto Soccorso di Firenze, parcheggiò, scese dalla macchina avvolta nel suo telo estathé e si rivolse all’accettazione. «Sono stata violentata» disse. Gli occhi azzurri venati di rosso, gonfi dal pianto, la bocca distorta in una smorfia di dolore e di terrore, le mani e le gambe tremanti. L’infermiere al quale si era rivolta aveva non più di vent’anni. La guar-


8 dava negli occhi, più impaurito di lei. Uscì dal gabbiotto di plexiglass, la sostenne con le braccia e la fece sedere. Chiamò subito il dottore. «Stia tranquilla, adesso pensiamo noi a lei» le disse «può dirmi come si chiama?» Silenzio. «Signorina, riesce a dirmi il suo nome?» ancora silenzio. I Guns N’Roses ricominciarono a cantare. Lo studio del reparto Ginecologia e Maternità dell’ospedale Careggi di Firenze era piccolissimo; immagini di cavità femminili, cicogne e bebè popolavano le pareti. Il dottore la fece stendere sul lettino, le gambe divaricate di fronte a lui, la visitò. Mia sentì un po’ male, ma si sforzò di non piangere ancora. Le disse che erano avvenute alcune lacerazioni della parete vaginale, le prescrisse un anti-infiammatorio da applicare due volte al giorno, una lavanda da fare ogni sera per una settimana, un ovulo da inserire prima di coricarsi, per sette giorni, e la pillola del giorno dopo da assumere quanto prima. Poi, da ginecologo, volle trasformarsi in psicologo. Iniziò a ricoprirla di domande, a inondarla di consigli non voluti, a innaffiarla di sentenze e di frasi fatte. Mia lo lasciò parlare, non rispose mai niente. Allora il medico le chiese a quale nome avrebbe dovuto intestare la ricetta, e lei glielo confessò. Mia Puccini. Codice fiscale PCCMIA86D63D612G. Nata a Firenze il 23 Aprile 1986. Residente a Firenze, via delle Peonie 14. La informò che avrebbe dovuto richiedere l’analisi dello sperma per cercare di scoprire chi fosse il suo aggressore, in modo da denunciarlo, perché l’ospedale non era autorizzato a fare niente senza il suo consenso. Lei rispose che sapeva chi era il suo aggressore. Il dottore le disse che, secondo procedura, l’ospedale aveva contattato e messo al corrente le forze dell’ordine di ciò che era avvenuto, ma che, per legge, avevano dovuto mantenere l’anonimato. Tra poco un carabiniere sarebbe stato lì per ascoltarla. Infine, le disse che tra due giorni, lunedì, alle tre del pomeriggio, uno psicologo sarebbe stato disponibile per parlare con lei dell’esperienza. Le dette il promemoria dell’appuntamento. Mia si congedò dal medico, sempre col suo telo estathé indosso, lui le offrì una camicia da notte di carta, di quelle che si danno ai pazienti in ospedale, ma lei disse di no, stava bene così, avvolta nel suo estathé gigante al limone. Se ne andò senza attendere l’arrivo dei Carabinieri.


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HONEY, DOVE SEI?

Via delle Peonie 14. Mia girò la chiave nella serratura, pianissimo, come aveva imparato a fare a diciassette anni quando rincasava più tardi del coprifuoco. Scivolò nell’appartamento silenziosamente, fino al bagno. Rovesciò tutto sul pavimento, aprì la manopola della doccia. Mentre l’acqua si riscaldava, prese il cellulare. Erano le due e cinque. Sessantadue chiamate senza risposta. Gabriele. Michela. Babbo. Altrettanti sms: Gabriele, “Honey, u’r l8. As always.” Si scrivevano quasi sempre in inglese, era una sorta di codice segreto, una cosa stupida, pensava a volte Mia, perché tanto segreto non era, dato che era parlato da milioni di persone. Si erano conosciuti a Londra, Mia si era trasferita là per qualche mese dopo la maturità, prima di iniziare l’università di Lingue, e aveva trovato un posto da Harrods come commessa nel reparto Gucci, perché parlava bene sia l’inglese che l’italiano. Gabriele era un manager di venticinque anni all’epoca, lavorava per un’importante società bancaria che operava anche all’estero, e si trovava a Londra per affari. Era andato a comprarsi una camicia per il party che si sarebbe tenuto quella sera vicino a Westminster Abbey, si era rivolto alla commessa in inglese, e i due avevano continuato a conversare in quella lingua per un’ora buona prima che Gabriele notasse che l’accento di Mia aveva un nonsoché di fiorentino, e allora si erano accorti di essere entrambi italiani, anzi, concittadini. Lui l’aveva invitata al party di quella sera e lei, dopo vari tentennamenti, aveva accettato. Ora, dopo sei anni di alti e bassi, erano innamorati pazzi. Ancora Gabriele, “Dove sei?” Poi, “Perché non rispondi? Mi stai facendo preoccupare.” “E incazzare. Ho chiamato Lorenzo, mi ha detto che sei uscita all’ora di sempre, dove cazzo sei?”


10 Michela, “Ciccia, mi ha chiamato Gabri, è preoccupato, Lore mi ha detto che te ne sei andata alle otto e mezzo, dove sei?” Gabriele, di nuovo, “Non volevo arrabbiarmi, scusa. Ma dove sei? Sono quasi le dieci, honey, i’m worried.” Babbo, “Chicca, mi ha chiamato Gabriele, dice che non ti sei presentata all’appuntamento. Che stai combinando? Rispondimi appena puoi, io sono fuori con Paolo, tornerò tardi, la mamma è già a letto. Usa la testa, bacione, babbo.” Gabriele, “Adesso sono davvero preoccupato, la Smart non è a casa, dove sei? Rispondimi, stai bene? Ti sto cercando per tutta Firenze.” Mia digitò sulla tastiera: “Sto bene. Scusa. Ci sentiamo domani, buonanotte.” Poi, “Babbo sono a casa. Notte.” Infine “Miche tutto ok.” Spense il cellulare. Si infilò nel box doccia, a lavarsi quello schifo dal corpo. Si sentiva sporca. La sua mente non pensava niente. Scivolò verso il letto. Si coprì anche la testa con il lenzuolo, eppure era un caldo atroce, ma si sentiva al sicuro. Fece un’altra doccia. Rientrò nel letto. Fece un’altra doccia. Si addormentò.


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IL DESTINO HA LA SUA PUNTUALITÀ

Mia lavorava come guida turistica, in inglese e in spagnolo, presso un’agenzia di Firenze. Aveva accettato il lavoro serale come barista per arrotondare un po’il suo stipendio per lo più a carattere stagionale, voleva risparmiare qualcosa prima di trasferirsi con Gabriele in quella bellissima villetta che lui stava facendo costruire come loro nido d’amore, appena fuori le porte della città. Gabriele stava bene economicamente, aveva lottato tanto per arrivare dov’era, e ci era riuscito, a soli trentuno anni possedeva una filiale di Credito Cooperativo. Mia stava ancora lottando, anche se non sapeva bene per cosa. Lei si dava da fare, la mattina e il pomeriggio sotto il sole di Firenze, Pisa, Lucca, accompagnando talvolta inglesi di mezza età un po’ sovrappeso e sudaticci, non abituati al caldo dell’Italia, talaltra spagnoli più dinamici che le scappavano di qua e di là. Poi la sera, alle sei e mezzo, si trasformava nella barista del bar Da Lorenzo, dove serviva aperitivi, preparava un caffè dopo l’altro e si guadagnava qualche mancia conversando con i turisti delle bellezze della Toscana. Gabriele le ripeteva spesso che non c’era bisogno che lavorasse anche da Lorenzo, ma lei voleva contribuire in qualche modo alla vita che stavano per iniziare insieme, anche se lui le rispondeva sempre, un po’ alla Tre Metri Sopra il Cielo, pensava Mia, che il più grande contributo era che lei avesse deciso di passare il resto della sua vita con lui, e a lei questa frase smielata, sotto sotto, faceva piacere. Si sarebbero sposati a Settembre, ma Mia ancora non aveva scelto il vestito, la mamma e Michela l’avevano accompagnata a un sacco di negozi per spose, ma lei niente, non era convinta, aveva in mente qualcosa di preciso nella sua testa, qualcosa di semplicissimo ma ricercato, come lei. E allora aveva pensato di rivolgersi a una sarta per farselo confezionare, aveva appuntamento con lei la settimana seguente. La sua vita era perfetta, pensava, nella sua semplicità, le sembrava di vivere in un’atmosfera di festa perenne, accompagnata da quella sensazione di


12 felicitĂ e di eccitazione che provava sempre la mattina del suo compleanno, ma ultimamente aveva avuto tante volte il presagio che qualcosa di brutto sarebbe accaduto a rovinare un tale idillio. E il mostro era arrivato, puntuale, per guastare la festa.


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HYPNOSE

«Mia, c’è Gabriele, svegliati» le disse la mamma. «Che ore sono?» «Le undici.» Le sembrò di aver dormito una vita. «Arrivo.» Il cervello comandò al corpo di alzarsi dal letto, ma i muscoli non risposero. Dopo chissà quanto tempo, Gabriele entrò nella cameretta di Mia. Le pareti erano lilla, su quella di fondo si intravedevano figure sbiadite di personaggi Disney, che il babbo aveva disegnato quell’estate del ‘96 in cui Mia prese la mononucleosi, perché le facessero compagnia. Nell’angolo, una piccola cabina armadio che straripava di vestiti, poi, a fianco, un mobiletto in stile principesco che Mia aveva adattato a scarpiera. Qua e là, cornici di foto che ritraevano lei e Gabriele a Londra, in Sardegna, in Spagna, in Grecia, poi lei e Michela davanti al cartellone con i risultati di quel maledetto esame di “Glottologia”, fuori dall’università, esultanti, il giorno della Laurea e così via, frammenti di vita immortalati in qualche scatto. Mia continuava a dormire nel lettino di quando era piccola, tanto non era mai cresciuta un granché di statura purtroppo, un metro e sessantatré per quarantotto chili. Piccolina, una bella ragazza anche se lei si considerava solo carina, anzi, spesso tendente al bruttino, colpa della sua poca autostima. In realtà aveva un volto che si avvicinava alla perfezione, lineamenti dolci, bocca carnosa al punto giusto, nasino piccolo e all’insù, enormi occhi azzurri, il tutto incorniciato da lunghissimi, lisci capelli color miele. Chiunque, trovandosi davanti a un angioletto del genere, non faceva proprio caso al fatto che non fosse una stangona, ma lei sì, e questo bastava a far sì che non si accorgesse di nemmeno un briciolo della sua eclatante bellezza. Pietro, suo fratello gemello, invece era altissimo, un metro e ottantacinque, e Mia spesso si chiedeva come mai l’avesse presa tutta lui l’altezza.


14 Aveva iniziato a rubarle le cose già nell’embrione e così aveva continuato fuori nel mondo, con le matite a scuola da piccoli e gli spiccioli dal borsellino da grandi. Nonostante questo gli voleva un bene dell’anima, quel tipo di bene che solo chi ha un fratello gemello può capire. Ora Pietro non c’era, era negli USA per lavoro, dopo la Laurea in Informatica aveva ottenuto un impiego presso una società molto prestigiosa. Anche a migliaia di chilometri di distanza, Mia era sicura che l’avrebbe chiamata presto, avvertendo quella sensazione che già altre volte era capitato di sentire a entrambi quando qualcosa non andava. «Mia, what’s goin’on?» Nascose la testa sotto il lenzuolo. Gabriele si guardava intorno. Si avvicinò alla toilettes, giocherellò per qualche istante a far saltellare il mascara Million de Cils di L’òreal da una mano all’altra, poi annusò la boccetta di Hypnòse di Lancome, il profumo da sempre di Mia, e si avvicinò al letto. Iniziò ad accarezzarla, lei si irrigidì. Lui se ne accorse. «Mia, tell me, what’s happened last night, tell me.» Mia si fece forza e rispose con un filo di voce: «Niente. Non è successo niente. Ho bucato. Avevo lasciato il cellulare in macchina mentre cercavo di cambiare la gomma.» «E non hai pensato di avvertirmi?! Sarei venuto ad aiutarti. E comunque non ti sei fatta sentire fino alle due. Dimmi la verità.» «Te l’ho detta.» «Non prendermi per il culo. Stai bene? Che hai fatto tutta la sera?» Silenzio. «Hai visto qualcuno?» «Domanda scema.» «Lo so. Ma capiscimi… come fai a pensare che me la beva?» «Senti, non lo so. È così che è andata, poi boh, a un certo punto ero solo stanca e sono tornata a casa.» « È successo qualcosa a lavoro?» «No.» «Riguarda il matrimonio?» «No. Dai, basta. Ho un po’ sonno.» «Non vuoi andare in piscina?» «Sono stanca.» «I miei ci aspettano al club per pranzo.» «Tu vai, dì che io non mi sento bene. Dopo chiamo per scusarmi.»


15 «Non vado senza te. Dai, adesso ci alziamo, facciamo una bella doccia e andiamo, eh honey?» «Gabri, non ti voglio rispondere male, non mi sento bene, lasciami un po’ in pace, ti chiamo dopo.» «Dai, amore, che c’è?!» Silenzio. «Okay.» Chiuse la porta delicatamente dietro di sé, al contrario di come aveva fatto la bestia la sera prima.


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“TAKE CARE” “I WILL”

Gabriele uscì dall’appartamento di Via delle Peonie 14 molto preoccupato. In sei anni che conosceva Mia, non l’aveva mai vista comportarsi in quel modo. C’erano state anche delle cadute nel loro rapporto, come era normale che fosse, ma mai in quel modo, no, non era da lei. C’erano state anche litigate bestiali durante quei sei anni, così bestiali che Dio solo sapeva come avevano fatto a uscirne in piedi. C’era stata quella volta che Mia si era arrabbiata un sacco perché l’aveva beccato a flirtare con una ragazza di Londra su Twitter, e non gli aveva più parlato per tre settimane. Oppure, la volta che l’aveva sorpreso a una festa, in bagno, a tirare una striscia con Tommaso, e il silenzio quella volta era durato un mese e una settimana. Ma non era mai accaduto che Mia non si presentasse a un appuntamento senza avvertire; certe volte era successo che gli tirasse il bidone dieci minuti prima dell’orario stabilito, giusto per fargliela pagare per qualche torto, perché Mia era una che chiudeva i conti, sì, ma prima dalla cassa ci dovevi passare. Pensava a cosa potesse essere successo nella mente e nel cuore della sua ragazza quella maledetta sera prima, mentre guidava la sua Audi Q5 verso il club, dove lo aspettavano i genitori. L’aveva presa da poco quella macchina, l’aveva scelta più grande di quella di prima perché dentro di sé aveva un gran desiderio di riempirla presto con un seggiolino. Arrivò al Club un po’ in ritardo, i suoi erano già seduti a tavola. Suo padre era americano, si chiamava William e aveva conosciuto sua madre, fiorentina, a Londra, durante un viaggio di lavoro, proprio come lui e Mia. Assomigliava molto a suo padre. Avevano più o meno la stessa altezza, un metro e ottanta circa, i medesimi lineamenti del volto un po’ squadrato, capelli e occhi scuri su un incarnato olivastro. Dalla mamma aveva ereditato uno sguardo particolare, acceso, brillante e acuto, a dimostrazione di quella particolare intelligenza che aveva avuto fin da piccolo. Willy e Carla si stupirono di non vederlo con Mia.


17 Spiegò che non si sentiva tanto bene, perché lei gli aveva chiesto di dire così, ma poi, avendo un rapporto molto confidenziale con mamma e babbo, non ce la fece a convivere nemmeno un attimo con quella mezza verità, e confessò loro tutti i suoi dubbi. «Gabri, non devi preoccuparti. Anche a me, qualche mese prima di sposare tuo padre, venne qualche dubbio. Qualche enorme dubbio, se devo essere sincera… comunque tuo padre mi lasciò respirare e io capii che sposarlo era davvero quello che volevo. Non assillarla e vedrai che andrà tutto bene» disse Carla. Durante tutto il pranzo Gabriele fissò nervosamente prima il piatto, poi lo schermo del suo i-phone, alternativamente e senza sosta. Non si accorgeva nemmeno di quello che stava mangiando e dei commenti che faceva sua mamma su com’era vestito Tal dei Tali, e in che stato era la moglie, e bla bla bla, giusto per mantenere viva la conversazione a tavola. Suo padre, da sempre anche il suo migliore amico, lo scrutava di sbieco cercando di immaginare le preoccupazioni del figlio. Quando l’interminabile pranzo fu finito, Gabriele salutò i genitori, disse che non sarebbe rimasto il pomeriggio in piscina, che avrebbe preferito tornare a casa a ultimare un lavoro al computer. Si scusò e se ne andò. «Take care» gli disse suo padre, come faceva ogni volta che lo salutava prima di partire per un lungo viaggio. «I will» rispose il figlio.


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YUPPIDU

Mia non si era voluta alzare dal letto per pranzo. Cinzia e Gianpaolo, i suoi, avevano fatto una piccola processione verso la cameretta dalle pareti lilla, uno alla volta, per chiedere alla loro bambina cosa fosse successo, se avesse litigato con Gabriele, con Michela, come mai non voleva mangiare. La risposta di Mia fu sempre il silenzio, fino a che, spazientita, ruggì loro di lasciarla in pace. Si chiuse nell’intimità della sua stanza abbracciando Yuppidu, lo yorkshire nano che viveva con loro da quando Mia e Pietro avevano compiuto diciotto anni. Era stato il regalo del babbo per la maggiore età dei figli. La mamma non era stata tanto d’accordo all’inizio, perché faceva la pipì dappertutto, ma alla fine si era affezionata anche lei, e ora la sera se lo coccolava sul divano mentre guardava la tv. Avevano scelto quel nome buffo perché quando Gianpaolo era entrato in casa con quel batuffolino, Mia aveva gridato “Yuppi!”, Pietro “Grandeee!” e Cinzia aveva emesso un suono che era stato simile a “Nooouuu”, per cui dall’unione di quelle esultanze era scaturito l’insolito, originale nome di Yuppidu. Yuppidu si era accoccolato vicino a Mia, le leccava le mani e il volto, aveva capito che qualcosa di terribile si era avventato sulla sua padroncina. Mia pensava. Pensava se avesse potuto in qualche modo essere colpa sua, ma in cuor suo era certa che non lo fosse, pensava a quando mai avrebbe potuto cancellare quello schifo dalla sua mente. Molte volte aveva riflettuto su cose del genere, spesso si era chiesta cosa avrebbe fatto se si fosse ritrovata in una situazione di quel tipo, e si era sempre risposta prontamente che avrebbe innanzitutto cercato di colpire l’aggressore, mirando soprattutto ai testicoli e al pomo d’Adamo, che sono i punti più sensibili in un uomo, poi avrebbe provato a infilargli qualcosa in un occhio, anche un dito, e sarebbe riuscita sicuramente a scappare. Invece no. Ci si era trovata davvero in quella situazione, e non era riuscita a mettere in atto nessun piano di difesa, seppur bene ar-


19 chitettato. Poteva sentire ancora la morsa del suo aguzzino, ma soprattutto il dolore lancinante del suo schifoso sesso, che con prepotenza si faceva largo tra la sua delicata fessura, quella fessura che aveva sempre accolto con dolcezza Gabriele, e che ora chissà per quanto tempo sarebbe rimasta chiusa ermeticamente anche davanti al suo amore. Le venne un conato. Corse verso il cestino della carta sotto la scrivania, e ci vomitò dentro. Si sedette. Come farò d’ora in poi, pensava. Come farò a confessarlo a Gabriele, sarà distrutto. Come farò a confessarlo a Michela. Come farò a dirle che il suo fidanzato mi ha fatto questo.


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CON UN TIR SOTTO AL CULO

Le cinque del pomeriggio. Mia si trascinò fuori dal letto, fece un’altra doccia, indossò un paio di pantaloni leggeri da tuta, grigio chiaro. Faceva caldo, ma aveva preferito coprire quelle gambe abbronzate che la sera prima avevano eccitato la bestia. Poi una polo azzurro chiaro, quasi ghiaccio, Ralph Lauren, le Hawaianas blu ai piedi. Raccolse i lunghissimi capelli in una coda di cavallo, prese la borsa, le chiavi della Smart, nascose il suo volto dietro ai Ray Ban e uscì di casa. Destinazione, farmacia. Era domenica, ci mise un po’ a trovare la farmacia aperta di turno. Pensò che se avesse seguito il consiglio di Gabriele di prendersi un i-phone, avrebbe potuto controllare lì sopra quale delle mille farmacie di Firenze fosse stata aperta, e si sarebbe risparmiata tutti quei giri a vuoto. Secondo lei erano troppi soldi per un cellulare, e allora Gabriele ribatteva sempre che era più di un semplice cellulare. Ma lei non l’aveva voluto comprare ugualmente. Parcheggiò la Smart con le quattro frecce; ormai tutti i vigili del capoluogo toscano riconoscevano la sua macchina, la parcheggiava sempre nei posti più impensabili, tanto c’entrava. Qualche volta chiedeva scusa, un sorriso timido le si stampava in faccia e il vigile la mandava via con un monito. Altre volte, invece, aveva beccato multe salate che pagava di nascosto dai genitori, che altrimenti le avrebbero recitato la solita ramanzina. Prese tutto ciò che era prescritto sulla ricetta, entrò in macchina, ingoiò la pillola del giorno dopo e pianse di nuovo. Poi prese il cellulare dalla borsa, lo accese. Michela l’aveva cercata durante la mattinata e Gabriele le aveva mandato un timido sms. “Come stai?” aveva scritto. Mia si sentì un po’ in colpa per come l’aveva trattato. “Meglio, grazie… sei al Club?” rispose. Una manciata di secondi dopo: “No, sono a casa. Ci vediamo?” “Passo io.”


21 “Ok.” Le tornò un groppo in gola, pianse di nuovo. I Guns N’Roses la riportarono sulla terra. Era Michela. Chiamata rifiutata. Si asciugò le lacrime con un kleenex, annaspò alla ricerca del mascara Kiko che teneva sempre di scorta in borsa, se lo passò accuratamente sulle ciglia, accese il motore e si diresse verso casa di Gabriele. Guidava piano, pensava a come avrebbe potuto nascondere agli occhi del suo ragazzo il terrore che si era insinuato dentro di lei dalle otto e un quarto della sera precedente, ma celare qualcosa a Gabriele era impossibile, lui capiva sempre cosa c’era sotto. E per un attimo sperò che lo capisse da solo, che la alleggerisse di quel peso che lei non riusciva a sopportare, ma che ancora non era pronta a scaricare su di lui. Guidava, la testa da un’altra parte e poi Boom! Aveva tamponato. Porca puttana Mia, pensò. Scese. La signora della macchina di fronte a lei le sbraitava contro, “dove cazzo hai la testa”, “ma chi ti ha dato la patente”, “neanche tu avessi un tir sotto al culo”, e Mia pianse. Di nuovo.


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IL CAVALLO NERO METALLIZZATO

Gabriele si precipitò sul luogo dell’incidente. Mia gli aveva detto di fare con calma, non era successo niente di che, era stato solo un tamponamento, ma lui era saltato immediatamente sulla sua Q5 ed era corso verso Viale Matteotti a tutta velocità, come i principi galoppavano in sella al cavallo bianco per salvare la principessa adorata. Scese dall’auto, si accertò che Mia stesse bene, le asciugò qualche lacrima con un bacio e poi si mise a compilare il CID al posto suo. La Smart era in buone condizioni, al contrario di Mia, così Gabriele decise di chiamare Gianpaolo per informarlo di ciò che era accaduto, dirgli di non allarmarsi, e appena possibile passare a prendere la Smart sul Viale Matteotti; l’aveva parcheggiata all’altezza della Banca, e aveva messo così tanti spiccioli nel parchimetro che sarebbero bastati fino al mattino seguente. Di Mia se ne occupava lui. Accompagnò i movimenti della sua ragazza mentre si accomodava in macchina, le chiuse lo sportello, poi salì a bordo del suo cavallo nero metallizzato. «Non andrai mica a lavorare al bar, vero?» «No, no…» «Come mai hai un sacchetto della farmacia?» «Mi sentivo troppo debole così, prima di venire da te, ho pensato di passare a prendere qualcosa per tirarmi su.» «Capito… Honey, ti va se prendiamo una pizza e ci guardiamo un film?» «Non ho molta fame.» «Ma se ti senti debole… e poi è meglio che tu metta qualcosa sullo stomaco prima di prendere medicine.» «Ma non ho fame.» Silenzio.


23 «Ho visto che c’è un film che ci potrebbe piacere su SKY… il titolo non me lo ricordo, comunque parla di un ragazzo che vive una doppia vit…» Mia non lo stava ascoltando più. Pensava a quella stretta infernale, e le venne di nuovo un groppo in gola. Adesso ti metti a contare le macchine rosse parcheggiate che vedi, e non ci pensi, si disse. Spinse indietro le lacrime. Il principe parcheggiò la sua Q5 in garage. La casa dei Gardner era immensa. Il garage sembrava un parco macchine di un’auto concessionaria degli anni cinquanta, aveva pensato una volta Mia. William era un grande magnate della finanza e aveva una mania per le auto d’epoca, che collezionava come fossero state figurine. Entrarono dalla porta di servizio, Gabriele sorreggeva Mia sostenendola per le spalle, come se si fosse convinto che in quel momento il malessere della sua ragazza fosse stato davvero un’infinita debolezza. Salirono al primo piano, i Gardner stavano guardando la tv, Willy assaporava un bicchiere di Zacapa, mentre Carla sorseggiava un tè freddo con una fettina di limone galleggiante. Telo estathé, pensò Mia. Groppo in gola. Di nuovo. «How are you, Mia? We missed you today» disse William, vedendola. «Fine, thanks. Just a little bit of weakness. Nothing to worry about. By the way, sorry for not coming.» «Non preoccuparti cara, ci rifaremo una di queste sere, sei invitata per cena. Ah, Gabri, tuo padre e io abbiamo già mangiato, non immaginavamo che sareste tornati per cena. Comunque nel freezer ci sono i Quattro Salti in Padella, se li volete.» «Grazie mamma, ma non abbiamo molta fame. Andiamo su a rilassarci un po’.» «Okay, ragazzi, buona serata.» E salirono le scale, verso la mansarda.


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DUE CUORI E UNA MANSARDA

Due cuori e una mansarda. Sì, la mansarda era stata la loro capanna, e a Mia e a Gabriele piaceva chiamarla così. Ora, in realtà, la mansarda era ben diversa da una capanna. Forse lo era stata all’inizio, quando l’unico arredamento che la costituiva era un vecchio letto dal materasso straduro e una montagna di cianfrusaglie sparse sul pavimento, che la famiglia Gardner aveva accumulato negli anni. Gabriele ci portava Mia a far l’amore, il primo anno che stavano insieme, di nascosto dai suoi. Era lì che avevano avuto la loro prima volta. L’aveva portata a cena fuori, in un ristorantino romantico in Borgo San Lorenzo, avevano bevuto champagne e riso un sacco. Quella sera Mia era bellissima, più del solito. Aveva i capelli sciolti, già lunghissimi all’epoca, truccata solo con mascara, un filo di fard e le labbra più polpose grazie al gloss, la pelle ambrata di fine estate risaltava dal vestitino color cipria che indossava. Ai piedi, sandali gioiello dai quali spuntavano piedi curatissimi, con la French. Gabriele li adorava, li osservava, così piccoli, e desiderava solo baciarli e lasciarsi accarezzare da quei piedini delicati e sensuali al tempo stesso. Portava pochi accessori, un braccialetto, orecchini e un punto luce al collo, ma ciò che la rendeva speciale, quella sera, era un sorriso nuovo, carico di felicità, quel sorriso che solo le ragazze innamorate hanno. Poi l’aveva baciata a lungo, davanti all’Arno. I baci si erano fatti sempre più appassionati, e allora erano saliti in macchina, lui le aveva chiesto se voleva passare la notte da lui, e lei, timidamente, aveva fatto sì con la testa. Arrivati a casa Gardner, lei si era tolta le scarpe per fare meno rumore, ma entrambi ridacchiavano così forte che li avrebbero sicuramente sentiti, Mia scivolò in bagno per darsi una sistemata e digitò sulla tastiera: “Mamma, non torno a dormire, rimango da Michela. Notte, bacio.” poi, “Miche sono da Gabri!:) dormo qui, reggimi il gioco, sono da te! Bacio.”


25 Era poi tornata dal suo amore. Lui le aveva detto: «Honey, andiamo su in mansarda, c’è un po’ di casino, ma almeno non ci disturba nessuno.» Lei lo seguì. Si abbracciavano forte, si baciavano teneramente, poi appassionatamente, lui ogni tanto si staccava, la guardava, le accarezzava il volto, i capelli e le diceva “Quanto sei bella”. La condusse verso quel letto fatto solo di una rete e di un materasso, ce la adagiò sopra dolcemente, iniziò a baciarla, a partire da quei piedi che aveva tanto bramato qualche ora prima. Lei rideva come una bambina. Si accarezzarono per ore, poi si addormentarono. Lui la svegliò durante la notte, si accarezzarono di nuovo a lungo, e si riaddormentarono. Poi, alle sette, con il torpore del mattino, lui si insinuò piano piano dentro di lei, facendosi spazio delicatamente tra le sue cosce, lei lo accolse senza dolore ed entrambi rimasero estasiati da quel momento di perfetta compenetrazione. Era ancora dentro Mia, e disse: «Sono felice.» «Anch’io» rispose lei, e lui affondò la faccia tra i suoi capelli profumati di camomilla.


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LO SPAZZOLINO DI CARRIE

«Chiama a casa e avverti che rimani qui, honey, ti metti sotto il lenzuolo e ti riposi.» «Ho tanto sonno» rispose. «Appunto, ti prendo una maglietta e fai la nanna, okay?» Lei annuì. Prese il cellulare, inviò un sms al babbo. «Vado un attimo in bagno» disse. Girò la chiave nella serratura e attuò meccanicamente tutte le procedure che le aveva ordinato il medico. Poi si lavò il volto, i denti, già da qualche anno aveva uno spazzolino suo a casa di Gabriele, una grande conquista, le aveva detto Michela all’epoca, e poi lo diceva anche Carrie in Sex and the City, allora doveva essere proprio così. Tornò in mansarda, si infilò sotto il lenzuolo. Gabriele stava parlando al telefono in inglese di azioni e di borsa. Sentì il cellulare squillare, pensò che fosse la risposta del babbo, invece no, era Pietro. “Tutto bene Cip?” Ciop si era fatto vivo immediatamente, come aveva previsto. Decise di non rispondere per ora, lo avrebbe fatto domani. Squillò di nuovo il cellulare, Michela. “Ma sei viva? Anche Lore è preoccupato, non sei venuta a lavoro stasera!” Vide quel nome impresso sullo schermo, le girò la testa, cacciò via il pensiero e digitò velocemente. “Sto poco bene, scusa, ti chiamo domani!” Spense il cellulare. Anche Gabriele si infilò nel divano-letto, aveva abbassato le luci e il volume della tv. Accese una sigaretta. Fumava sempre a letto, e la maggior parte delle volte a Mia non dava fastidio, era una sorta di tacita concessione, lei poteva mangiarci i biscotti, e lui poteva fumarci. Mia fece finta di dormire già, perché sapeva che lui avrebbe voluto parlare, e si girò su un fianco. Lui l’abbracciò da dietro,


27 iniziò ad accarezzarle le gambe, fino ai piedi, lei sentì il suo sesso premere contro le sue natiche, sapeva che voleva far l’amore e disse: «Sono davvero tanto stanca… scusa.» «Okay, honey, scusa tu, buonanotte amore.» Spense la tv. Qualche minuto dopo, la voce di Gabriele risuonò nel buio della mansarda: «Amore, io non voglio insistere, voglio solo capire, magari aiutarti. Cosa c’è che non va?» Lei fece di nuovo finta di dormire. Lo aveva sentito, forte e chiaro, ma non sapeva cosa rispondere. Era sempre stato naturale per lei parlare con lui di qualsiasi cosa, ma stavolta le sembrava che un macigno enorme le si fosse depositato in gola, e le impediva di emettere alcun suono. Lui sapeva che faceva finta di dormire. Ormai conosceva il suono del suo respiro quando dormiva, e non era quello. Ma non disse niente. Le accarezzò la testa e chiuse gli occhi.


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MULINO BIANCO ED ESTATHÉ

Lunedì mattina. Gabriele se ne era già andato dall’alba, il lunedì era un giorno importante, riapriva la Borsa, e gli avvoltoi dovevano esser lì pronti a vendere le azioni in calo e ad accaparrarsi le migliori. Mia era rimasta lì, accoccolata nel divano-letto, alle otto e trenta la sveglia aveva suonato ma lei non si era alzata. Gabriele le aveva lasciato una merendina Mulino Bianco e un Estathé al limone sul comodino. Mia ebbe l’impressione che il brick Estathé la stesse osservando, le tornò in mente quel maledetto telo, e decise che non avrebbe mai più bevuto in vita sua un Estathé. Eppure le piaceva da morire. Accese il cellulare. Cristina, la responsabile dell’agenzia per cui lavorava, l’aveva cercata. “Mia, tutto bene? Il gruppo di Manchester ti sta aspettando per andare a Collodi, tra quanto arrivi?” E di nuovo, “Li ho mandati agli Uffizi con Claudia, a Collodi li accompagni domani. Fatti sentire, sono un po’ preoccupata… e incazzata, tra l’altro.” “Mi sento poco bene da ieri, e stamani non ho sentito la sveglia. Mi dispiace. Preparo qualcosa di carino per domani. Scusa ancora” rispose. Scivolò fuori dal lenzuolo, fece una doccia veloce, indossò gli abiti del giorno prima e uscì da casa Gardner, lasciando la colazione intatta sul comodino. Stava percorrendo il vialetto fiorito che portava al garage, quando realizzò che non aveva la Smart con sé. Pensò di chiamare un taxi, prese il cellulare e iniziò a rovistare nella Rubrica, poi un affannato “Cocca! …Cocca! …aspetta un attimo!” la sorprese. «Buongiorno Carla. Sto cercando il numero per chiamare il Taxi ma non lo trovo, tu ce l’hai?» «Ma quale taxi, Cocca, Gabri ti ha lasciato il Q5, lui ha preso una delle bambine di Willy.» Sì, chiamava così le sue auto d’epoca. «Okay… perfetto, allora.»


29 «Cocca, sei sicura di stare bene? Se hai voglia di parlare io sono qui, lo sai. So cosa stai provando, anch’io prima di sposare Willy ebbi un momento di titubanza, ma…» Ecco, con Gabriele era sempre così, appena qualcosa andava storto, lui svuotava il sacco con mamma e babbo, e poi Carla non la lasciava in pace, pensò Mia. La interruppe: «No, no, non è affatto questo, Carla. È solo un po’ di debolezza, forse sono solo un po’ stanca, non preoccuparti. Ma grazie lo stesso.» «Okay, l’offerta rimane comunque valida… ah, le chiavi sono attaccate al quadro.» «Va bene, grazie. Ciao Carla.» La futura suocera le dette un bacetto sulla guancia, ma Mia rimase immobile. Salì a bordo del cavallo nero metallizzato, e si sentì immensamente piccola alla guida di quell’ enorme macchina. Accese il motore, abbassò il volume dell’autoradio e uscì dal garage, non sapendo ancora dove sarebbe andata. Il cellulare squillò. Era Michela. Lasciò che i Guns N’Roses continuassero a cantare la loro “Sweet Child o’ Mine”. Fine anteprima. CONTINUA...


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